ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 314 del codice
 di procedura penale, promosso con ordinanza  emessa  il  15  febbraio
 1993  dalla  Corte  d'appello di Roma nel procedimento di riparazione
 per ingiusta detenzione promosso da Iorio Gaetana nei  confronti  del
 Ministero  del Tesoro, iscritta al n. 242 del registro ordinanze 1993
 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.  22,  prima
 serie speciale, dell'anno 1993;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 20  ottobre  1993  il  Giudice
 relatore Mauro Ferri.
                           Ritenuto in fatto
    1.1. - La Corte di appello di Roma, nel corso del procedimento per
 la  riparazione  di ingiusta detenzione promosso da Iorio Gaetana, ha
 sollevato, in sede di giudizio di rinvio, questione  di  legittimita'
 costituzionale  "dell'art.  314  c.p.p.,  con riferimento all'art. 3,
 nonche'  2,  in  relazione   all'art.   24,   ultimo   comma,   della
 Costituzione":
        a) "nella parte in cui non dispone (ovvero se interpretato nel
 senso  in  cui  non  dispone)  che  la  condotta  menzognera  volta a
 "depistare"  le  indagini  e  ad   aiutare   altri   a   eludere   le
 investigazioni dell'autorita' o ad evitare che altri sia indagato per
 delitto  escluda,  in  via  generale  ovvero quando l'imputazione per
 reato di favoreggiamento e' ormai prescritta, il  diritto  a  un'equa
 riparazione   per   la   custodia   cautelare   subita   per  diversa
 imputazione";
       b) "nella parte in cui non dispone (ovvero se interpretato  nel
 senso  in  cui  non  dispone)  che  la  colpa grave dell'agente - che
 esclude il diritto alla  riparazione  -  possa  consistere  anche  in
 condotte  antecedenti alla assunzione della qualita' di imputato o di
 indiziato, ovvero, piu' in genere, in condotte diverse dall'attivita'
 difensiva propria".
    Il  remittente  -  premesso che l'art. 314 del codice di procedura
 penale riconosce al prosciolto il "diritto ad un'equa riparazione per
 la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso  a
 darvi  causa  per  dolo  o  colpa  grave"  - osserva che dalla chiara
 disposizione di legge deriva l'inammissibilita' sul piano  logico  di
 tesi  riduttive  che  richiedano, per l'esclusione della riparazione,
 che la colpa sia  solo  quella  che  puo'  rinvenirsi  nell'attivita'
 difensiva  dell'accusato  e non anche in attivita' antecedente. Dalla
 norma in esame, se interpretata secondo i corretti canoni, si  ricava
 invece  che  tutto  il  comportamento  del  soggetto  che  precede la
 detenzione ed e'  ad  essa  "ricollegabile"  non  puo'  essere  senza
 rilievo:  da  un  lato, infatti, gia' nell'ordine normale cronologico
 dei fatti storici, l'atteggiamento  difensivo  segue  e  non  precede
 l'inizio della custodia cautelare, sicche', per definizione, non puo'
 averla  cagionata;  dall'altro,  l'inesattezza  della  tesi riduttiva
 emerge dal  rilievo  che  con  essa  si  realizza  una  inammissibile
 disparita'  di  trattamento  tra ipotesi dolosa e ipotesi colposa, in
 quanto per la realizzazione della prima (consistente nell'operare con
 l'intento di provocare la detenzione) verrebbe in considerazione ogni
 comportamento antecedente alla custodia e non solo quello  tenuto  in
 sede di difesa.
   Inoltre,    prosegue    il    remittente,    l'anzidetta   corretta
 interpretazione della norma de qua  e'  anche  conforme  ai  principi
 generali  del  nostro  ordinamento giuridico. Non vi e' dubbio che la
 riparazione pecuniaria prevista dagli artt. 314 e seguenti del codice
 di procedura penale sia un istituto appartenente all'ampia  categoria
 costituita   dal  genus  degli  istituti  risarcitori-riparatori  del
 diritto civile che regolano  la  materia  delle  restituzioni  e  dei
 pagamenti  di  denaro  conseguenti  a  danni  subiti  dal singolo per
 qualsiasi tipo di  condotta  altrui.  In  particolare,  il  principio
 generalissimo attinente alla riparazione pecuniaria di qualsiasi tipo
 di  danno  si  rinviene  negli artt. 1227 e 2056 del codice civile, i
 quali prevedono che il concorso del fatto colposo del  creditore  nel
 cagionare  il  danno determina la riduzione o l'esclusione, a seconda
 dei casi, del risarcimento.
    1.2. - Tutto cio' premesso in  ordine  al  corretto  inquadramento
 sistematico   dell'istituto   in   esame,   il   remittente  riassume
 sinteticamente le circostanze  di  fatto  rilevanti  in  merito  alla
 fattispecie  sottoposta  al suo giudizio. In particolare, osserva che
 la Corte d'appello di Roma, con ordinanza del 18 aprile  (20  maggio)
 1991,   aveva   respinto  la  domanda  di  riparazione  per  ingiusta
 detenzione  proposta  dalla  Iorio,  ritenendo   verificatasi   nella
 condotta  dell'istante l'ipotesi di colpa grave prevista dalla norma,
 consistita sia nell'aver posto in atto un vero e proprio tentativo di
 depistaggio delle indagini, sia nell'essere fuggita all'estero, cosi'
 dando causa alla emissione a suo carico del provvedimento restrittivo
 della liberta' personale.
    Senonche' la Corte di cassazione, con sentenza del 20 gennaio  (20
 febbraio)   1992,   aveva   annullato  con  rinvio  detta  pronuncia,
 enunciando il seguente principio di diritto:  "Il  dolo  o  la  colpa
 grave  previsti dall'art. 314 c.p.p. in tanto sussistono in quanto il
 soggetto  inquisito o abbia scientemente operato al fine di creare la
 fallace apparenza di condizioni nelle quali potesse o dovesse  essere
 adottata o mantenuta una misura cautelare nei suoi confronti (ipotesi
 dolosa),  ovvero  abbia  mostrato una ingiustificabile e macroscopica
 trascuratezza nella rappresentazione, all'autorita'  procedente,  una
 volta  reso  edotto  degli  addebiti mossigli, di fatti e circostanze
 atti a scagionarlo o comunque  a  consentire  il  mantenimento  o  il
 recupero dello stato di liberta' (ipotesi colposa)".
    1.3. - Il giudice a quo solleva, quindi, due distinte questioni di
 legittimita' costituzionale.
       a)  La  prima  scaturisce da quella parte della pronuncia della
 Corte di cassazione in cui si afferma  che  la  condotta  di  coprire
 responsabilita'  penali  altrui  non  rientra  nell'ipotesi di dolo o
 colpa grave prevista dall'art. 314 del codice di procedura penale per
 l'esclusione del diritto alla riparazione. Ad avviso del  remittente,
 la  tesi  secondo  cui  l'ipotesi  della condotta menzognera (volta a
 depistare le indagini o a evitare che siano indagati o coinvolti  nel
 procedimento penale altri soggetti) non possa ricevere, nell'art. 314
 e  nel  contemperamento  degli  interessi  e  nei  fini  che  esso si
 prefigge, il medesimo trattamento dell'ipotesi di colui che con colpa
 grave (ovvero con dolo) concorre a dar causa alla sua detenzione, non
 si  sottrae  manifestamente  a  censure  di  incostituzionalita'  per
 irragionevolezza  e/o irrazionalita' e, in definitiva, per violazione
 dell'art. 3 della Costituzione. La norma che esclude il diritto  alla
 riparazione,  infatti,  non  sembra solo l'espressione di un onere di
 diligenza che sia pure nella misura minima incombe all'individuo,  ma
 costituisce anche applicazione della regola generale sopra richiamata
 secondo  cui, in via di principio, il danno risarcibile (in astratto)
 deve essere sopportato  dal  suo  autore,  ovvero  viene  limitato  o
 escluso  il  risarcimento del danno causato dallo stesso danneggiato.
 L'espressione di detto onere di diligenza puo', inoltre, trovare  una
 sua  collocazione  anche  nella  norma  generale  dell'art.  2  della
 Costituzione, che richiede ai consociati l'adempimento dei doveri  di
 solidarieta' politica e sociale, oltre che economica.
    Infine,  ad  avviso  del  remittente,  applicando al caso in esame
 l'argomento a fortiori, l'ipotesi di condotta  menzognera  diretta  a
 depistare le indagini o ad evitare che siano indagati altri soggetti,
 ovvero   diretta  ad  aiutare  altri  ad  eludere  le  investigazioni
 dell'autorita'   penale,   dovrebbe,   secondo   i   principi   della
 ragionevolezza,  essere  considerata  fattispecie  "maggiore",  in un
 certo senso, e non minore di quelle altre imputabili  a  colpa  grave
 dell'istante  e  tali  da  comportare  l'esclusione  del diritto alla
 riparazione.
       b) La seconda  questione  di  costituzionalita'  sollevata  dal
 remittente attiene alla tesi della Cassazione secondo cui l'attivita'
 antecedente  alla  vera  e  propria  difesa  avrebbe  rilievo solo se
 dolosa, in quanto la colpa grave che avrebbe rilevanza  sarebbe  solo
 quella riscontrabile nelle dichiarazioni o rappresentazioni difensive
 all'autorita'  procedente,  una  volta  che l'indagato sia stato reso
 edotto degli addebiti mossigli.
    Anche in questo caso la norma, cosi' interpretata, sarebbe viziata
 da irragionevolezza: infatti, non solo si verrebbe ad  affermare  una
 incongrua  disparita'  di trattamento nelle ipotesi, pure logicamente
 congruenti, di verificazione del principio di causalita'; non solo si
 creerebbe  una irragionevole disparita' con le altre ipotesi di colpa
 del danneggiato; ma  si  verrebbero  anche  a  legittimare,  ad  ogni
 effetto  di  diritto  civile, le ipotesi o i casi anche piu' gravi di
 condotta colposa dell'agente,  che  abbia  creato  la  piu'  evidente
 apparenza   di  responsabilita'  penale,  divenendo  cosi'  la  norma
 banditore di un principio di irresponsabilita' giuridica  e  sociale,
 che  potrebbe  ritenersi  in  contrasto  non  solo con l'art. 3 della
 Costituzione ma anche con l'art. 2 della Carta.
    Infine, il remittente rileva che l'art. 24,  ultimo  comma,  della
 Costituzione  prevede  che  il  diritto alla riparazione degli errori
 giudiziari sia tutt'altro che incondizionato.
   2. - E' intervenuto in giudizio il  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, il quale osserva che la questione e' venuta meno in quanto  la
 piu' recente giurisprudenza della Corte di cassazione ha ribaltato il
 proprio  precedente  orientamento,  accedendo  (quanto meno in ordine
 alla questione sollevata sub b) alla  interpretazione  auspicata  dal
 giudice remittente.
                        Considerato in diritto
    1.  - La Corte di appello di Roma, nel corso di un procedimento di
 riparazione  per  ingiusta  detenzione,  ha  sollevato,  in  sede  di
 giudizio  di  rinvio,  due  questioni  di legittimita' costituzionale
 dell'art. 314 del codice di procedura  penale,  in  riferimento  agli
 artt.  2  e  3  della  Costituzione  (anche in relazione all'art. 24,
 ultimo comma, della Costituzione medesima).
    In particolare, le questioni devono intendersi riferite  al  primo
 comma  del  menzionato  articolo  314  e, piu' precisamente, a quella
 parte in cui e' stabilito che il diritto ad un'equa  riparazione  per
 la custodia cautelare subita spetta (in presenza di determinati altri
 presupposti)  purche'  il  soggetto  "non  vi abbia dato o concorso a
 darvi causa per dolo o colpa grave".
    2. - Il giudice a quo opera, come s'e' detto, in sede di  giudizio
 di rinvio a seguito di sentenza della Corte di cassazione, la quale -
 nell'annullare  l'ordinanza della Corte d'appello di Roma con cui era
 stata  respinta  la  domanda  di   riparazione   sulla   base   della
 considerazione  che  l'istante  aveva dato causa per colpa grave alla
 detenzione, in quanto aveva depistato le indagini e poi si  era  data
 alla  fuga  all'estero - ha fissato il seguente principio di diritto:
 "Il dolo o la colpa  grave  previsti  dall'art.  314  del  codice  di
 procedura  penale in tanto sussistono in quanto il soggetto inquisito
 o abbia scientemente operato al fine di creare la  fallace  apparenza
 di  condizioni  nelle  quali  potesse  o  dovesse  essere  adottata o
 mantenuta una misura cautelare nei suoi confronti  (ipotesi  dolosa),
 ovvero   abbia   mostrato   una   ingiustificabile   e   macroscopica
 trascuratezza nella rappresentazione, all'autorita'  procedente,  una
 volta  reso  edotto  degli  addebiti mossigli, di fatti e circostanze
 atti a scagionarlo o comunque  a  consentire  il  mantenimento  o  il
 recupero  dello  stato  di liberta' (ipotesi colposa)". Ad avviso del
 remittente,  la  norma,  cosi'  come  interpretata  dalla  Cassazione
 nell'enunciato   principio   di   diritto  (cui  egli  e'  tenuto  ad
 uniformarsi), viola i sopra indicati parametri costituzionali:
       a)  "nella  parte  in  cui  non  dispone  ..  che  la  condotta
 menzognera volta a "depistare" le  indagini  e  ad  aiutare  altri  a
 eludere  le  investigazioni dell'autorita' o ad evitare che altri sia
 indagato  per  delitto  escluda,  in  via  generale   ovvero   quando
 l'imputazione  per  reato  di favoreggiamento e' ormai prescritta, il
 diritto a un'equa riparazione per la custodia  cautelare  subita  per
 diversa imputazione";
       b)  "nella  parte  in  cui  non  dispone  .. che la colpa grave
 dell'agente -  che  esclude  il  diritto  alla  riparazione  -  possa
 consistere  anche  in  condotte  antecedenti  alla  assunzione  della
 qualita' di imputato o di  indiziato,  ovvero,  piu'  in  genere,  in
 condotte  diverse  dall'attivita'  difensiva  propria". In entrambi i
 casi   risulterebbe   violato   essenzialmente   il   principio    di
 ragionevolezza,   in   quanto   non  sussisterebbe  alcuna  razionale
 giustificazione  (anche  con   riferimento   ai   principi   generali
 dell'ordinamento  in  materia  di  risarcimento  del  danno)  per non
 comprendere,  tra  le  ipotesi  di  esclusione   del   diritto   alla
 riparazione,  da  un lato la condotta menzognera volta a depistare le
 indagini  o  ad  evitare  che  altri  soggetti  siano  coinvolti   in
 procedimenti  penali,  e,  dall'altro, la condotta gravemente colposa
 tenuta prima o, comunque, al di  fuori  dell'attivita'  difensiva  in
 senso  proprio,  laddove  una  tale  limitazione  non sussiste per la
 condotta  dolosa;   sarebbe   altresi'   violato   l'art.   2   della
 Costituzione,  in  quanto le censurate interpretazioni della norma in
 esame si porrebbero in contrasto con  il  principio  dell'adempimento
 dei doveri inderogabili di solidarieta' politica e sociale, principio
 che  pone a carico dei consociati un generale onere di diligenza e di
 responsabilita'. L'auspicata introduzione  delle  suddette  cause  di
 esclusione del diritto alla riparazione sarebbe, d'altronde, conclude
 il  remittente,  pienamente  aderente al dettato dell'art. 24, ultimo
 comma, della Costituzione, il quale prevede che il  diritto  medesimo
 sia tutt'altro che incondizionato.
    3.  -  In  ordine di antecedenza logica, va esaminata per prima la
 censura sopra indicata sub b).
    La questione non e' fondata.
    Il problema della definizione dell'esatto ambito applicativo della
 norma  censurata,  con  particolare  riferimento  -  per  quanto  qui
 interessa  -  alla  determinazione  dei  criteri identificativi delle
 condotte gravemente colpose  idonee  ad  escludere  il  diritto  alla
 riparazione, e' stato oggetto di due diversi orientamenti della Corte
 di cassazione, ciascuno dei quali espresso in piu' di una pronuncia.
    La  tesi  interpretativa  censurata  dal  giudice  a  quo si fonda
 essenzialmente  sulla  considerazione   che   nell'attuale   contesto
 ordinamentale in cui la regola e' quella della piu' assoluta liberta'
 di   autodeterminazione   per   ciascun  individuo,  salvi  i  limiti
 espressamente fissati dalla legge a tutela di  interessi  collettivi,
 non  e'  configurabile  a carico dei consociati un onere di diligenza
 nell'evitare comportamenti che, in se' e per se'  leciti,  potrebbero
 tuttavia  dar  adito a sospetti ed essere assunti dall'autorita' come
 indicativi dell'avvenuta commissione di reati.
    Secondo un altro (e piu' recente)  orientamento,  non  vi  sarebbe
 invece ragione logica che possa giustificare (ed anzi cio' sarebbe in
 contrasto   con   la  lettera  della  norma)  un  diverso  ambito  di
 valutazione tra  l'ipotesi  della  condotta  dolosa  e  quella  della
 condotta  gravemente  colposa,  ben  potendo pure quest'ultima essere
 ravvisata (in applicazione anche dei principi civilistici in materia)
 in  comportamenti tenuti in qualunque momento antecedente l'emissione
 del provvedimento restrittivo della liberta' e  quindi  anche  al  di
 fuori dell'attivita' difensiva in senso proprio.
    Cio' posto, va osservato, in ordine alla prima delle due tesi (che
 e'  l'unica  a  dover  essere  presa in considerazione in questa sede
 perche' e' quella cui, come detto, il  remittente  deve  uniformarsi,
 sia  pur  in presenza di successivi diversi orientamenti della stessa
 Corte di cassazione: cfr. sent. n. 130 del 1993), che la medesima non
 puo' essere ritenuta in contrasto con l'art. 3 della Costituzione per
 irragionevolezza:  essa,  invero,  risulta   ispirata   -   sia   pur
 implicitamente  -  da  un  particolare  favor  per  chi ha subito una
 detenzione poi comunque rivelatasi "non  dovuta"  e,  in  ogni  caso,
 certamente  non conduce a conseguenze tali da integrare il denunciato
 vizio di costituzionalita', tenuto anche conto  del  rilievo  che  le
 ipotesi  richiamate a raffronto (condotta dolosa, regime generale del
 concorso di colpa del danneggiato ai sensi  del  codice  civile)  non
 necessariamente debbono trovare identica disciplina nella particolare
 fattispecie in esame.
    Le anzidette considerazioni valgono, poi, a far ritenere del tutto
 infondato  il  riferimento  all'art.  2  della  Costituzione, essendo
 costante la giurisprudenza di questa Corte (cfr. sentt.  nn.  12  del
 1972,  29  del  1977,  252 del 1983) secondo cui solo al legislatore,
 nell'esercizio  della  sua   sfera   di   discrezionalita',   compete
 l'individuazione  dei  doveri  inderogabili  di  solidarieta'  cui  i
 cittadini  sono  tenuti,  nonche'  dei   modi   e   limiti   relativi
 all'adempimento di tali doveri.
    4.  - Una volta accertata la non fondatezza della questione dianzi
 esaminata (che e' l'unica, d'altronde,  che  scaturisce  direttamente
 dal  principio  di  diritto  enunciato  dalla  Cassazione),  anche la
 rimanente censura, sopra indicata al punto 2 sub  a),  non  puo'  non
 subire la stessa sorte.
    Dall'esame  della complessa ordinanza di rimessione deve, infatti,
 ritenersi che il giudice a quo , nel sollevare tale questione,  tenda
 essenzialmente  a far ricadere il comportamento menzognero mirante al
 "depistaggio" delle  indagini  al  fine  di  coprire  responsabilita'
 altrui  nel novero delle condotte gravemente colpose che escludono il
 diritto alla riparazione (come, del resto, era stato  ritenuto  dalla
 medesima   Corte   d'appello   nell'ordinanza   annullata);  cio'  e'
 confermato dal rilievo che il remittente non  solo  non  contesta  il
 principio  di  diritto  fissato  dalla  Cassazione  in relazione alla
 definizione della condotta dolosa rilevante ai fini di cui  trattasi,
 ma  anzi  mostra  chiaramente,  nella  motivazione dell'ordinanza, di
 condividere tale interpretazione. Ne consegue che la questione, cosi'
 intesa, va considerata compresa nell'altra gia' esaminata  e  risolta
 al  punto  precedente. D'altronde, ove l'intenzione del giudice a quo
 fosse invece quella di chiedere alla  Corte  una  pronuncia  additiva
 diretta   ad   introdurre  nella  norma  in  esame  una  complessa  e
 dettagliata disciplina di situazioni  in  essa  non  contemplate,  la
 questione  sarebbe  chiaramente inammissibile, in quanto l'intervento
 della  Corte  costituirebbe  frutto  di  valutazioni  riservate  alla
 discrezionalita' del legislatore (cfr. sent. n. 25 del 1991).
    E'  appena  il  caso di rilevare, infine, che, secondo la costante
 giurisprudenza in materia, il giudice di  rinvio  e'  si'  tenuto  ad
 uniformarsi  al  principio  di diritto enunciato dalla Cassazione, ma
 conserva integri i poteri di accertamento e di valutazione dei fatti,
 ai fini della formazione del proprio libero convincimento.