ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 4, settimo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 26 gennaio 1993 dal Pretore di Novara - sezione distaccata di Borgomanero nel procedimento civile vertente tra Boriolo Piero ed altri e la U.S.L. n. 54 di Borgomanero, iscritta al n. 163 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell'anno 1993; 2) n. 4 ordinanze emesse il 18 febbraio 1993 dal Tribunale amministrativo regionale della Calabria sul ricorso proposto da Misasi Raffaele contro la U.S.L. n. 5 di Crotone e sui ricorsi proposti da Vero Sergio ed altri contro la U.S.L. n. 7 di Catanzaro, iscritte ai nn. 258, 440, 441 e 442 del registro ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 24 e 36, prima serie speciale, dell'anno 1993; Visti gli atti di costituzione di Boriolo Piero, Misasi Raffaele, Vero Sergio, Arcuri Vincenzo e della U.S.L. n. 7 di Catanzaro, nonche' gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nell'udienza pubblica del 16 novembre 1993 il Giudice relatore Mauro Ferri; Uditi gli avvocati Lorenzo Bertaggia e Armando Montarsolo per Boriolo Piero, Paolo Vaiano e Antonio Funari per Misasi Raffaele, Antonio Funari per Vero Sergio e Arcuri Vincenzo, Raffaele Mirigliani per la U.S.L. n. 7 di Catanzaro e l'Avvocato dello Stato Giuseppe O. Russo per il Presidente del Consiglio dei ministri; Ritenuto in fatto 1.1. - Il Tribunale amministrativo regionale della Calabria, con ordinanza del 18 febbraio 1993 (r.o. n. 258/93), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 32, e 35 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, settimo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 "nella parte in cui stabilisce l'incompatibilita', per il personale addetto al Servizio sanitario nazionale, allo svolgimento di attivita' lavorativa presso strutture private convenzionate con lo stesso Servizio sanitario nazionale". Nel corso della fase cautelare di un giudizio promosso avverso un provvedimento della U.S.L. competente, che aveva dichiarato l'esistenza di una situazione di incompatibilita' del ricorrente ai sensi della norma sopra indicata, il giudice remittente - dopo aver accolto l'istanza di sospensione del provvedimento "fino alla comunicazione della pronunzia della Corte costituzionale" - osserva che la legittimita' della norma impugnata deve essere valutata sotto un profilo di logicita' giustificativa, poiche' non puo' ritenersi configurabile una preclusione della libera espressione della personalita' dell'individuo (in particolare sotto l'aspetto del diritto al lavoro: artt. 4 e 35 della Costituzione) che non trovi una idonea motivazione nell'intento di tutela di altro interesse o valore di almeno equivalente rango costituzionale. La disciplina del rapporto di pubblico impiego puo' certamente prevedere, prosegue il giudice a quo, limitazioni all'esercizio di attivita' che il legislatore ha ritenuto contrastare con la posizione rivestita dal pubblico dipendente, e cio' in ossequio all'art. 98, primo comma, della Costituzione, che fornisce quindi la ratio giustificativa delle preclusioni legittimamente apponibili allo svolgimento di rapporti suscettibili di inficiare il principio dell'"esclusivo servizio della Nazione" che caratterizza il rapporto di pubblico impiego. Cio' posto, mentre quanto all'unicita' del rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale il remittente rileva come non possano nutrirsi riserve di carattere logico-giuridico, consistente e' invece il dubbio che la rigidita' di tale assunto possa trovare legittima specificazione in relazione ad "altri rapporti anche di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale". Un primo rilievo di carattere sistematico riguarda la direzione soggettiva di un siffatto divieto. Infatti, laddove i rapporti convenzionali vengano intrattenuti con strutture private, la preclusione viene a colpire indirettamente - con un inammissibile ampliamento delle ipotesi di incompatibilita' - i singoli prestatori di lavoro, i quali non sono necessariamente essi stessi titolari di tali rapporti, bensi' parti di un rapporto di lavoro dipendente con altro soggetto privato, il quale solo e' il reale titolare del rapporto convenzionale con il Servizio sanitario nazionale. Tali considerazioni trovano, prosegue il remittente, un immediato punto di riferimento nell'ulteriore principio, individuato dalla norma in esame, del possibile "conflitto di interessi" che le attivita' ritenute incompatibili appaiono idonee a suscitare con le attribuzioni del servizio pubblico, conflitto di interessi che - secondo l'interpretazione fornita da una circolare del Ministro della sanita' del 24 novembre 1992 - puo' anche essere meramente potenziale. Non puo' poi non osservarsi che il suddetto principio del conflitto di interessi appare abbandonato dalla sopravvenuta norma di cui all'art. 4, comma decimo, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, secondo cui all'interno dei presidi ospedalieri devono essere riservati spazi adeguati per l'esercizio della libera professione intramuraria. Un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale si pone in riferimento all'art. 3 della Costituzione, in quanto per effetto della norma impugnata vengono ad essere penalizzati i soli sanitari le cui prestazioni di lavoro si svolgano presso private istituzioni aventi regime di convenzionamento, mentre le altre esplicazioni professionali, ancorche' erogate in favore di soggetto parimenti privato, trovano elementi limitativi nella sola coincidenza temporale con l'attivita' svolta nell'ambito delle strutture pubbliche. Infine, il giudice a quo denuncia anche la violazione dell'art. 32 della Costituzione, sia sotto il profilo della tutela della salute del singolo cittadino (che ha diritto al trattamento sanitario presso strutture sia pubbliche che private, senza che siano apposti limiti all'attivita' dei sanitari), sia sotto quello dell'interesse della collettivita' al bene salute, che la valorizzazione della professionalita' e delle esperienze appare in grado di concorrere a conseguire al di fuori di modelli di prioritaria preminenza dell'assistenza pubblica. 1.2. - Si e' costituito nel presente giudizio il ricorrente nel giudizio a quo Misasi Raffaele, il quale svolge argomentazioni adesive all'ordinanza di rimessione, in particolare sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza. 1.3. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, il quale ha concluso per l'infondatezza delle questioni. Premesso che l'incompatibilita' tra il rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale e lo svolgimento di attivita' professionale per conto di presidi privati convenzionati non scaturisce da un'interpretazione estensiva del secondo e del terzo periodo del comma settimo dell'impugnato art. 4, ma e' esplicitamente dichiarata dal legislatore nell'ottavo periodo del medesimo comma, il Presidente del Consiglio osserva, quanto alla denunciata violazione dell'art. 3 della Costituzione, che il divieto di cui trattasi trova ampia e logica giustificazione nella valutazione del legislatore di salvaguardare il perseguimento del superiore interesse dall'indubbio conflitto che deriverebbe dallo svolgimento contemporaneo di altra attivita' per conto di struttura privata: questa, infatti, in quanto convenzionata con il Servizio sanitario nazionale, deve svolgere verso il medesimo una funzione integrativa in caso di insufficienza della struttura pubblica e non porsi in posizione di contrapposizione o conflitto con essa, conflitto che fatalmente insorgerebbe laddove il professionista operasse contemporaneamente per le due strutture, per l'evidente interesse economico (sia della struttura sia dell'operatore) a dirottare verso il privato il massimo della domanda di prestazioni. Per quanto riguarda l'asserita violazione degli artt. 4 e 35 della Costituzione, l'Avvocatura dello Stato osserva che lo stesso remittente giustifica l'esistenza nell'ordinamento di norme che vietano ai pubblici dipendenti lo svolgimento di determinate attivita' a cagione della esclusivita' del servizio che essi devono rendere alla Nazione. Circa, infine, il riferimento all'art. 32 della Costituzione, si rileva che non risulta chiaro come la norma impugnata possa incidere negativamente sul sistema organizzativo delineato nella legge n. 833 del 1978. 2.1. - Con altre tre ordinanze fra loro identiche emesse il 18 febbraio 1993 (r.o. nn. 440, 441 e 442 del 1993), il TAR della Calabria ha nuovamente sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, settimo comma, della legge n. 412 del 1991, in riferimento agli artt. 3, 32 e 35 della Costituzione. Il remittente svolge argomentazioni analoghe a quelle di cui all'ordinanza sopra esaminata sub 1.1., aggiungendo, quanto al riferimento all'art. 32 della Costituzione, che questa Corte deve valutare se il legislatore, nel dettare la norma impugnata, abbia operato un razionale bilanciamento degli interessi in gioco, nonche' una ragionevole gradualita' di attuazione del diritto alla salute, dipendente dalla obiettiva considerazione delle risorse organizzative e finanziarie a disposizione (sent. n. 455 del 1990). 2.2. - Si sono costituiti Vero Sergio e Arcuri Vincenzo, ricorrenti nei giudizi di cui alle ordinanze nn. 440 e 442 del 1993, insistendo per l'accoglimento della questione e richiamando l'art. 6 del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187, ai sensi del quale le incompatibilita'di cui alla norma impugnata non si applicano ai medici che svolgono attivita' nell'ambito degli istituti penitenziari. 2.3. - Si e' altresi' costituita in tutti i giudizi la Unita' sanitaria locale n. 7 della Regione Calabria, parte resistente nei giudizi a quibus, concludendo per l'infondatezza delle questioni. Con atti di identico contenuto, la difesa della parte privata osserva in sintesi che non esiste alcuna violazione dell'art. 3 della Costituzione, in quanto le strutture private convenzionate presentano una serie di rilevanti attribuzioni di carattere pubblicistico (com'e' dimostrato anche dagli artt. 25, 26, 33 e 36 della legge n. 833/78) che giustificano una diversa disciplina rispetto alle strutture private semplici; ne' degli artt. 4 e 35 della Costituzione, in quanto la limitazione di cui alla norma impugnata risponde all'esigenza di assicurare un'efficiente organizzazione sanitaria evitando il sorgere di conflitti; ne', infine, dell'art. 32 della Costituzione, poiche', come gia' detto, la norma tende proprio ad una migliore organizzazione del sistema sanitario. 2.4. - E' intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha concluso per l'infondatezza delle questioni, svolgendo argomentazioni identiche a quelle contenute nell'atto di intervento relativo al giudizio introdotto con l'ordinanza n. 258/93 (v. sopra, al punto 1.3.). 3.1. - Il Pretore di Novara - sezione distaccata di Borgomanero - con ordinanza del 26 gennaio 1993 (r.o. 163/93) ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma settimo, della legge 30 dicembre 1991, n. 412: a) in riferimento all'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui la norma, "mentre accorda la garanzia del passaggio anche in soprannumero al rapporto di lavoro a tempo pieno al personale medico a tempo definito in servizio alla data di entrata in vigore della legge che intenda far cessare in questo modo la situazione di incompatibilita' del doppio rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale, non appresta alcuna corrispondente garanzia al personale medico che, provenendo dalla identica situazione di fatto, intenda optare invece per la conservazione del solo rapporto convenzionale"; b) in riferimento agli artt. 4 e 35 della Costituzione, nella parte in cui la norma medesima, "prevedendo la garanzia del passaggio anche in soprannumero al rapporto di lavoro a tempo pieno e quindi garantendo una sostanziale intangibilita' dello status giuridico-economico gia' maturato dal medico che opti per questa modalita' di cessazione dell'incompatibilita' stabilita dalla legge, e - per converso - trascurando ogni analoga garanzia per il medico che intenda optare per la conservazione del solo rapporto convenzionale con il Servizio sanitario nazionale, provocando in tal modo una marcata e repentina regressione nel trattamento retributivo complessivo, condiziona gravemente, fino ad annullarla nei fatti, la libera scelta formalmente accordata ai medici che abbiano con il Servizio sia un rapporto di lavoro a tempo definito che un rapporto basato su convenzione". Il giudice a quo premette che i ricorrenti - medici titolari nei confronti del Servizio sanitario nazionale di un rapporto di lavoro a tempo definito e, contemporaneamente, di un rapporto in regime convenzionale - hanno proposto ricorso ex art. 414 del codice di procedura civile al Pretore in funzione di giudice del lavoro, chiedendo la condanna della u.s.l. competente al pagamento di somme di danaro ritenute di loro spettanza e l'accertamento della illegittimita' costituzionale dell'art. 4, settimo comma, della legge n. 412 del 1991; contestualmente, hanno introdotto procedura d'urgenza ex art. 700 del codice medesimo, chiedendo la sospensione del termine del 31 dicembre 1992 stabilito dalla norma citata. Successivamente, i ricorrenti hanno chiesto al Pretore la disapplicazione della sopravvenuta deliberazione della U.S.L. con la quale si disponeva che, in caso di mancata opzione entro il 31 dicembre 1992 per uno dei due rapporti di lavoro, si sarebbe provveduto a confermare il rapporto di dipendenza e a risolvere quello convenzionale. Cio' posto, il giudice remittente, in punto di non manifesta infondatezza, osserva quanto segue. Nel disporre che "con il Servizio sanitario nazionale puo' intercorrere un unico rapporto di lavoro", la norma in esame impone ai medici che abbiano piu' di un rapporto, anche di natura convenzionale, con il Servizio sanitario di far cessare tale situazione (definita di "incompatibilita'") entro il 31 dicembre 1992. In particolare i medici che abbiano con il Servizio sia un rapporto di dipendenza a tempo definito ex art. 47 della legge 833/1978 che, contestualmente, un rapporto convenzionale ex art. 48 della stessa legge, entro il 31 dicembre 1992 devono optare o per il primo oppure per il secondo di essi. Senonche', lo status giuridico-economico del medico che esprima l'opzione in favore del rapporto di dipendenza appare molto diverso, e migliore, rispetto a quello del professionista che invece intenda optare per il rapporto convenzionale. Infatti, il medico che esprime l'opzione in favore del rapporto di dipendenza gode della garanzia accordata dallo stesso art. 4, comma settimo, della legge 412/91, secondo cui: "A decorrere dal primo gennaio 1993, al personale medico con rapporto di lavoro a tempo definito, in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge, e' garantito il passaggio, a domanda, anche in soprannumero, al rapporto di lavoro a tempo pieno". Questa garanzia comporta inevitabilmente dei riflessi sul piano del trattamento economico. Comparando, sotto quest'ultimo aspetto, la situazione del medico titolare del rapporto di dipendenza a tempo definito, nonche' del rapporto convenzionale con un massimo di cinquecento assistiti, con la situazione del medico titolare soltanto del rapporto di dipendenza a tempo pieno, non si riscontrano delle differenze retributive di spessore tanto marcato da poter essere ritenuto rilevante ai fini qui in esame. Se questo e' lo status di cui godrebbe il medico che scelga il rapporto di dipendenza a tempo pieno, molto diversa, e ben deteriore, e' la condizione del professionista che intenda, invece, esprimere l'opzione in favore del solo rapporto di medico convenzionato. Questi subirebbe un'immediata decurtazione di piu' del cinquanta per cento del trattamento retributivo complessivo fino ad oggi ricevuto, di talche' l'invito fatto dal legislatore alla scelta tra due opportunita' appare in realta' una sorta di "costrizione" di fatto a transitare dai rapporti a tempo definito e convenzionale al rapporto a tempo pieno. Tutto questo e' conseguenza del fatto che, mentre si assicura al medico il "passaggio anche in soprannumero al rapporto di lavoro a tempo pieno", la legge non esprime alcuna garanzia di mantenimento del rapporto convenzionale, e ancor meno assicura - a chi opti per il mantenimento del solo rapporto convenzionale - l'attribuzione di un numero di assistiti tale da compensare quel notevole minor introito retributivo, che sarebbe sicura conseguenza della cessazione del rapporto dipendente a tempo definito. A parte ogni altra considerazione sotto i profili previdenziali, ritiene pertanto il remittente che l'aspetto strettamente economico della nuova situazione nella quale repentinamente i ricorrenti si troverebbero conduce da solo a rimettere la questione alla Corte costituzionale, posto che l'unico accenno a possibili variazioni del quadro retributivo appena evidenziato si rinviene in termini generici nell'ultima parte dell'art. 4, comma settimo, della legge 412/91, laddove il testo reca: "In sede di definizione degli accordi convenzionali di cui all'art. 48 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, e' definito il campo di applicazione del principio di unicita' del rapporto di lavoro a valere tra i diversi accordi convenzionali". In sostanza, viene rinviata alla contrattazione collettiva la definizione del nuovo rapporto convenzionale, ma la legge non impone che tale definizione avvenga entro il 31 dicembre 1992, ne' stabilisce un collegamento temporale tra l'avvenuta contrattazione collettiva e la scadenza del termine per effettuare la scelta: la legge, quindi, non rende possibile alcuna valutazione sugli effetti concreti che conseguirebbero all'opzione espressa in favore del rapporto convenzionale. Dopo aver risolto in senso positivo il problema della possibilita' di adottare, nella fattispecie, il richiesto provvedimento di urgenza, ed aver osservato che la rilevanza della questione di costituzionalita' appare evidente sia con riferimento alla procedura d'urgenza, sia al gia' pendente giudizio di merito, la cui competenza funzionale appartiene allo stesso giudice, il remittente solleva la anzidetta questione di costituzionalita' contestualmente adottando il provvedimento cautelare, e previa sospensione del giudizio di merito. 3.2. - Si e' costituito dinanzi a questa Corte Boriolo Piero, ricorrente nel giudizio a quo. La parte privata sottolinea, in particolare, che la norma in esame viola la parita' di trattamento complessivo giuridico ed economico che era sempre esistita tra medici a tempo pieno da un lato e medici a tempo definito con rapporto convenzionato dall'altro; se si opta per il solo rapporto convenzionato, infatti, si verifica un marcato peggioramento del trattamento retributivo e previdenziale con perdita anche del punteggio acquisito per i pubblici concorsi. Risulta, pertanto, evidente che la scelta in favore del passaggio al rapporto a tempo pieno diventi in realta' coattiva, in violazione, oltre che dell'art. 3, anche degli artt. 4 e 35 della Costituzione. 3.3. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale conclude per l'infondatezza della questione, osservando che la situazione del medico che diventa dipendente a tempo pieno della U.S.L. e' del tutto diversa da quella del medico che abbandona il rapporto di pubblico impiego per assumere la veste di medico convenzionato e quindi autonomo. 4. - Hanno depositato identiche memorie Misasi Raffaele, Vero Sergio e Arcuri Vincenzo (r.o. nn. 258, 440, e 442/93), i quali, oltre a ribadire le argomentazioni svolte negli atti di costituzione, richiamano in particolare la sentenza di questa Corte n. 355 del 1993, la quale ha riconosciuto la legittimita' costituzionale dell'art. 4, decimo comma, del decreto legislativo n. 502/92, che ha fatto obbligo alle strutture pubbliche di garantire l'esercizio della libera professione intramuraria. 5. - Ha altresi' depositato memoria il Presidente del Consiglio dei Ministri in ordine al giudizio introdotto con l'ordinanza del Pretore di Novara (r.o. 163/93). L'Avvocatura dello Stato eccepisce innanzitutto l'inammissibilita' della questione: in primo luogo in quanto il giudizio a quo avrebbe come esclusivo oggetto la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, settimo comma, della legge n. 412/91, anche perche' la successiva richiesta di disapplicazione della deliberazione della U.S.L. costituirebbe domanda nuova, come tale inammissibile ex art. 420 c.p.c.; in secondo luogo, in quanto il remittente ha ormai pronunciato il provvedimento ex art. 700 c.p.c. e quindi non e' piu' legittimato a sollevare questioni di costituzionalita' attinenti al merito della causa. Nel merito, l'Avvocatura insiste per l'infondatezza della questione. Si osserva che la norma impugnata persegue il fine evidente di evitare, da un lato, che uno stesso soggetto possa instaurare, con lo stesso datore di lavoro e sotto forme diverse, una pluralita' di rapporti di lavoro, con dispendio di risorse economiche e diminuzione di posti di lavoro, e, dall'altro, che tra l'una e l'altra parte del rapporto pubblico insorga un conflitto di interessi. Inoltre, le situazioni cui l'opzione potra' dar luogo sono totalmente diverse tra loro, non solo per le forme riguardanti il sorgere, l'esplicarsi e l'estinguersi dei rapporti, ma anche per il contenuto degli stessi, per cui solo ex post potra' affermarsi se la scelta operata e' stata, sotto i vari profili, la piu' opportuna. Considerato in diritto 1.1. - Il Tribunale amministrativo regionale della Calabria, con quattro ordinanze di contenuto sostanzialmente identico, solleva questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, settimo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, nella parte in cui stabilisce, per i medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale, l'incompatibilita' col rapporto d'impiego dell'esercizio dell'attivita' libero-professionale presso strutture private convenzionate con il Servizio medesimo. Ad avviso dei remittenti, la norma viola in primo luogo gli artt. 4 e 35 della Costituzione, in quanto pone una preclusione alla libera espressione della personalita' dell'individuo - sotto il profilo dell'attivita' lavorativa -, preclusione che non trova adeguata ratio giustificativa nell'intento di tutela di altro interesse o valore di pari rango costituzionale. Premesso che non possono nutrirsi riserve di carattere logico-giuridico in ordine al principio di unicita' del rapporto di lavoro con il Servizio sanitario (anche in relazione all'art. 98, primo comma, della Costituzione), si osserva che appare invece di dubbia legittimita' l'estensione di tale principio alle situazioni dianzi indicate, tenuto conto del rilievo che il divieto in esame viene a colpire indirettamente i singoli prestatori di lavoro, i quali non sono essi stessi titolari del rapporto convenzionale, rispetto al quale si trovano in posizione di terzieta'. Sarebbe altresi' violato l'art. 3 della Costituzione, poiche' la norma impugnata discrimina irrazionalmente i soli sanitari che svolgono prestazioni presso istituzioni private aventi regime di convenzionamento, mentre le altre esplicazioni professionali, ancorche' erogate in favore di soggetto parimenti privato, non subiscono limitazioni, salvo quella generale della coincidenza temporale con l'attivita' svolta nell'ambito delle strutture pubbliche. Infine, risulterebbe violato l'art. 32 della Costituzione, in quanto la norma in esame lede sia il diritto alla salute del singolo cittadino (il quale deve potersi rivolgere indifferentemente a strutture pubbliche o private, senza che siano posti limiti all'attivita' dei medici), sia l'interesse della collettivita' al bene della salute, poiche' si limita la valorizzazione e la crescita della professionalita' e delle esperienze lavorative degli operatori sanitari. 1.2. - Con ordinanza del 26 gennaio 1993, il Pretore di Novara - sezione distaccata di Borgomanero - solleva anch'esso questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, settimo comma, della legge n. 412 del 1991, in riferimento agli artt. 3, 4 e 35 della Costituzione. Il giudice a quo non censura di per se' il regime di incompatibilita' stabilito dalla norma anzidetta, bensi' la disciplina relativa alle modalita' di cessazione delle posizioni di incompatibilita', in base alla quale i medici titolari di un rapporto di lavoro dipendente a tempo definito e contemporaneamente di un rapporto di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale dovevano far cessare tale situazione - optando per l'uno o per l'altro rapporto - entro il 31 dicembre 1992. Premesso che il medico che opta in favore del rapporto di dipendenza gode della garanzia del passaggio, a domanda, anche in soprannumero al rapporto di lavoro a tempo pieno con sostanziale intangibilita' dello status giuridico ed economico gia' maturato, la disciplina impugnata viola, ad avviso del remittente, i menzionati parametri costituzionali, in quanto non appresta in favore del medico che (provenendo dalla identica situazione di fatto) opti per il solo rapporto convenzionale alcuna corrispondente garanzia, ne' in ordine al mantenimento del rapporto convenzionale, ne' soprattutto all'attribuzione di un numero di assistiti tale da compensare la marcata e repentina regressione nel trattamento retributivo conseguente a tale scelta: la definizione del nuovo rapporto convenzionale viene, infatti, rinviata alla contrattazione collettiva, ma la legge non stabilisce alcun collegamento temporale tra tale contrattazione e la scadenza del termine per effettuare l'opzione. Ne consegue, in definitiva - con- clude il remittente - che la norma de qua condiziona gravemente, fino ad annullarla, la libera scelta formalmente accordata ai medici, che si vedono di fatto costretti a transitare al rapporto a tempo pieno. 1.3. - I giudizi, concernendo questioni identiche o strettamente connesse, vanno riuniti e decisi con unica sentenza. 2.1. - La questione sollevata dal TAR della Calabria non e' fondata. L'art. 4, settimo comma, della legge n. 412 del 1991 stabilisce, all'inizio, che "con il Servizio sanitario nazionale puo' intercorrere un unico rapporto di lavoro. Tale rapporto e' incompatibile con ogni altro rapporto di lavoro dipendente, pubblico o privato, e con altri rapporti anche di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale"; prevede poi (all'ottavo periodo) che "l'esercizio dell'attivita' libero-professionale dei medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale e' compatibile col rapporto unico d'impiego, purche' espletato fuori dall'orario di lavoro all'interno delle strutture sanitarie o all'esterno delle stesse, con esclusione di strutture private convenzionate con il Servizio sanitario nazionale". La norma sancisce, innanzitutto, il principio generale della unicita' del rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale: tale principio era gia' contenuto in un disegno di legge di riforma del Servizio medesimo all'esame del Parlamento in quello stesso periodo e si ritenne di anticiparlo - inserendolo nella legge n. 412 (legge finanziaria per il 1992) - in quanto considerato, come emerge dai lavori preparatori, particolarmente qualificante e significativo. Dal principio di unicita' (che i remittenti, come s'e' detto, non contestano minimamente) deriva l'incompatibilita' non solo con altri rapporti di lavoro dipendente (pubblico o privato), ma anche con ogni altro rapporto con il Servizio sanitario, anche di natura convenzionale. Per quanto concerne, poi, piu' specificamente, il personale medico dipendente, la norma in esame conferma, in linea di principio, la facolta' dell'esercizio dell'attivita' libero-professionale - pur subordinandola ad una serie di condizioni di tempo e di luogo -, ma la esclude in linea assoluta con riferimento a strutture private convenzionate con il Servizio sanitario. Al riguardo appare evidente come il legislatore abbia inteso attribuire al suddetto principio di unicita' del rapporto di lavoro la piu' ampia accezione, estendendolo fino a ricomprendervi anche i casi in cui il rapporto stesso potesse, a suo giudizio, ugualmente configurarsi, sia pure in maniera indiretta. 2.2. - Cio' posto, tale scelta del legislatore non puo' ritenersi viziata da irragionevolezza, ove si considerino la particolare natura e le funzioni svolte dalle istituzioni sanitarie private convenzionate. Queste ultime, invero, a seguito della stipula delle convenzioni vengono ad assumere indubbiamente una funzione integrativa e sussidiaria della rete sanitaria pubblica (cfr., in tal senso, sent. n. 173 del 1987), come emerge da numerose disposizioni della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (cfr. artt. 25, 33, 36), e, soprattutto, dall'art. 43 della legge medesima, ai sensi del quale le istituzioni in esame possono ottenere dalle regioni che i loro ospedali siano considerati, ai fini dell'erogazione dell'assistenza sanitaria, presidi delle unita' sanitarie locali. Le indicate peculiari caratteristiche delle istituzioni convenzionate, che valgono certamente a differenziarle da quelle non convenzionate, appaiono sufficienti a far ritenere che la norma impugnata costituisca frutto di una non irragionevole valutazione discrezionale di politica sanitaria. Con essa si e' inteso garantire la massima efficienza e funzionalita' operativa al servizio sanitario pubblico, sulle quali il legislatore ha ritenuto (anche, evidentemente, in base a dati di esperienza) che potesse spiegare effetti negativi il contemporaneo esercizio da parte del medico dipendente di attivita' professionale presso strutture convenzionate, con conseguente pericolo di incrinamento della funzione ausiliaria che esse sono chiamate a svolgere; e cio' si e' voluto evitare in via generale ed astratta, con apprezzamento anch'esso insindacabile in questa sede. 2.3. - Sulla base delle considerazioni svolte, tutte le censure prospettate dai remittenti vengono a cadere. Una volta accertato, infatti, che la scelta operata dal legislatore non puo' ritenersi irrazionale ed anzi appare ispirata dall'intento di assicurare la maggior possibile efficienza dell'organizzazione sanitaria pubblica in attuazione del principio sancito dall'art. 32 della Costituzione, e' evidente come non sussista la violazione di alcuno dei parametri invocati: non degli artt. 4 e 35 della Costituzione, in quanto la denunciata limitazione all'esercizio della libera professione - che, del resto, concerne solo uno dei possibili modi dell'esercizio medesimo - e' posta a tutela di altri interessi ed esigenze fatti oggetto di tutela costituzionale (cfr. sentt. nn. 103 del 1977, 175 del 1982, 109 del 1983); non dell'art. 3 della Costituzione, data la evidente accertata diversita' delle situazioni poste a raffronto; non, infine, dell'art. 32 della Costituzione, essendo la disciplina censurata volta proprio, come s'e' visto, a dare attuazione al principio contenuto in detto precetto. 3.1. - Passando alla questione sollevata dal Pretore di Novara, vanno in primo luogo esaminate le eccezioni di inammissibilita' proposte dall'Avvocatura dello Stato nella memoria illustrativa. La questione sarebbe inammissibile in primo luogo perche' la rilevanza della medesima si fonderebbe su una domanda da qualificarsi "nuova", come tale inammissibile ai sensi delle norme che disciplinano il processo del lavoro. L'eccezione deve essere respinta, in quanto essa attiene strettamente al giudizio a quo e soltanto in quella sede e' pertanto opponibile (cfr. sent. n. 97 del 1991). Ulteriore motivo di inammissibilita' della questione deriverebbe, ad avviso dell'Avvocatura, dal fatto che il remittente ha sollevato la questione in sede cautelare, dopo aver pronunciato il provvedimento ex art. 700 c.p.c., e quando non era ancora legittimato a sollevare questioni attinenti al merito della causa. Anche tale eccezione non puo' essere accolta, considerata la particolarita' del caso di spe- cie. E' ben vero, infatti, che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (che va qui ribadita: cfr. ad es. ord. n. 286 del 1983, sentt. nn. 186 del 1976, 579 del 1989, 444 e 498 del 1990), l'emanazione del provvedimento d'urgenza, determinando - di regola - la conclusione della fase cautelare, da un lato esaurisce ogni potesta' del giudice in quella sede, e, dall'altro, comporta che ogni ulteriore potere decisionale competa al giudice della successiva fase di merito. Ma va osservato che nella fattispecie in esame il giudizio di merito era gia' pendente ed assegnato al medesimo giudice: tanto basta per escludere che sussistano gli estremi per una dichiarazione di inammissibilita' della questione. 3.2. - Nel merito la questione non e' fondata. Si e' gia' avuto modo di osservare come il legislatore, nel dettare la normativa in esame, abbia sancito con rigore il principio di unicita' del rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale, avendolo ritenuto particolarmente valido al fine di soddisfare l'esigenza, costituzionalmente protetta, di restituire massima efficienza ed operativita' alla rete sanitaria pubblica. Va ora aggiunto che appare altresi' conforme alla detta finalita' l'aver voluto incentivare la scelta per il rapporto di lavoro dipendente, assicurando in tal caso, a semplice domanda, il passaggio dal "tempo definito" al "tempo pieno" anche in soprannumero. Cio' posto, il fatto che la norma impugnata non preveda, invece, per il medico che opti per la conservazione del rapporto di natura convenzionale, specifiche garanzie, in particolare in ordine al mantenimento di un trattamento retributivo sostanzialmente corrispondente a quello percepito in costanza del doppio rapporto (rinviando alla disciplina prevista nei futuri accordi convenzionali), non determina la violazione di alcuno dei parametri costituzionali invocati: basta considerare al riguardo, in aggiunta a quanto gia' sopra rilevato, che la situazione in cui il medico si verra' a trovare e' comunque frutto di una sua libera scelta, che tale resta, ovviamente, pur in presenza di elementi di diversita' tra le due alternative, naturalmente collegati alle differenti caratteristiche sostanziali dei due tipi di rapporto con il Servizio sanitario nazionale. Ne' a diversa conclusione puo' condurre il fatto che alla scadenza del termine per esercitare l'opzione non fossero ancora intervenuti i nuovi accordi convenzionali ex art. 48 della legge n. 833 del 1978: anche se sarebbe stato auspicabile che cio' fosse avvenuto al fine di fornire ai soggetti interessati il quadro normativo dettagliato della materia, non puo' tuttavia certamente ritenersi che detta circostanza abbia comportato una coartazione della scelta e tanto meno, di per se', una violazione degli artt. 4 e 35 della Costituzione.