ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  promosso  con  ricorso  della Procura della Repubblica
 presso il Tribunale  di  Milano,  iscritto  al  n.  23  del  registro
 conflitti   1993,   notificato  il  15  giugno  1993,  depositato  in
 cancelleria il successivo 3 luglio, per conflitto di attribuzione nei
 confronti del  Senato  della  Repubblica,  sorto  in  relazione  alle
 deliberazioni  dell'Assemblea  nella seduta del 18 marzo 1993, con le
 quali l'autorizzazionea procedere nei  confronti  del  Sen.  Severino
 Citaristi  e'  stata  negata per i capi di imputazione concernenti le
 ipotesi di  corruzione  per  atto  contrario  ai  doveri  di  ufficio
 (lettere  a,  c,  e  e g della domanda formulata il 6 novembre 1992 e
 trasmessa  dal  Ministro  di  grazia  e  giustizia  al  Senato  della
 Repubblica  il  18  novembre  1992; lettere a, c, e e f della domanda
 formulata il 16 dicembre 1992 e trasmessa dal Ministro  di  grazia  e
 giustizia  al  Senato della Repubblica il 5 gennaio 1993) ed e' stata
 concessa  per  i  capi  di  imputazione  concernenti  le  ipotesi  di
 violazione   delle  norme  sul  finanziamento  pubblico  dei  partiti
 (lettere b, d, f e h della  richiesta  in  data  6  novembre  1992  e
 lettere b, d e g della richiesta in data 16 dicembre 1992);
    Visto l'atto di costituzione del Senato della Repubblica;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  14  dicembre  1993  il Giudice
 relatore Antonio Baldassarre;
    Uditi l'Avv. Valerio Onida per la Procura della Repubblica  presso
 il  Tribunale  di  Milano e l'Avv. Stefano Grassi per il Senato della
 Repubblica;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Con ricorso depositato il 19 maggio 1993 il Procuratore della
 Repubblica presso il Tribunale di Milano ha  sollevato  conflitto  di
 attribuzione  nei  confronti del Senato della Repubblica, chiedendo a
 questa Corte di dichiarare, sulla base degli artt. 68, 101, 102,  104
 e  112  della  Costituzione,  che spetta all'autorita' giudiziaria e,
 nella specie, al pubblico ministero, in sede di indagini  preliminari
 e  di  esercizio dell'azione penale, ricostruire il fatto e deciderne
 la qualificazione giuridica, mentre spetta all'Assemblea  legislativa
 di  appartenenza  concedere o negare l'autorizzazione a procedere, di
 cui all'art. 68, secondo comma, della Costituzione, in relazione alle
 predette ricostruzione e qualificazione giuridica, senza possibilita'
 di modificarle ovvero di apporre condizioni o termini  alla  concessa
 autorizzazione.  Conseguentemente,  lo  stesso  ricorrente chiede che
 siano   annullate,   per   violazione    dei    predetti    parametri
 costituzionali,  le deliberazioni del Senato della Repubblica in data
 18 marzo 1993  -  con  le  quali  l'autorizzazione  a  procedere  nei
 confronti del Sen. Severino Citaristi e' stata negata in relazione ai
 capi  di  imputazione  concernenti  le ipotesi di corruzione per atti
 contrari ai doveri d'ufficio ed e' stata, viceversa, concessa  per  i
 capi di imputazione concernenti i reati di violazione delle norme sul
 finanziamento   pubblico   dei  partiti  -  e  che  la  richiesta  di
 autorizzazione sia pertanto rinviata al medesimo Senato per una nuova
 deliberazione.
    2. -  Sotto  il  profilo  dell'ammissibilita'  del  conflitto,  il
 ricorrente  osserva,  riguardo  alla  propria legittimazione, che, ai
 sensi dell'art. 112 della Costituzione, titolare del potere-dovere di
 esercitare l'azione penale e'  il  pubblico  ministero,  con  l'unica
 eccezione,  posta  con  legge costituzionale, del collegio inquirente
 per  i  reati  ministeriali.  Sicche'  deve  ritenersi  che  l'organo
 competente  a  dichiarare  definitivamente la volonta' dello Stato in
 ordine all'esercizio dell'azione penale sia  l'ufficio  del  pubblico
 ministero  procedente  e,  quindi, nella specie, il Procuratore della
 Repubblica presso il Tribunale di Milano.
    Per quanto riguarda i requisiti oggettivi  di  ammissibilita'  del
 conflitto,   il  ricorrente  osserva  che,  avendo  il  Senato  della
 Repubblica svolto una attribuzione espressamente  prevista  nell'art.
 68,  secondo  comma,  della Costituzione, l'esercizio di quest'ultima
 puo' esser sindacato dalla Corte  costituzionale  nell'ambito  di  un
 conflitto  tra  poteri  allorquando  quell'esercizio abbia comportato
 lesioni di attribuzioni costituzionali di altri poteri dello Stato  a
 causa del suo svolgimento non conforme ai principi della Costituzione
 (sent. n. 1150 del 1988).
    3. - Nel merito il ricorrente osserva che le indagini preliminari,
 le  quali  seguono  all'atto  genetico del procedimento penale, cioe'
 alla notizia di reato, si svolgono in relazione a un fatto che appare
 essere penalmente rilevante. A tale fatto,  prosegue  il  ricorrente,
 sara'  data  una  compiuta  qualificazione  giuridica  nel momento di
 esercizio   dell'azione   penale,    attraverso    la    formulazione
 dell'imputazione,  atto  proprio del pubblico ministero. In relazione
 allo  stesso  fatto,  che  appare  penalmente  rilevante,  la  Camera
 delibera  di  concedere  o  di  negare  l'autorizzazione, senza poter
 ingerirsi nei profili della ricostruzione del medesimo fatto o  della
 sua  qualificazione  giuridica, i quali in questa fase sono riservati
 dalla Costituzione al pubblico ministero.
    Nel caso di specie, benche' ogni singolo  episodio  di  versamento
 del  denaro  fosse  idoneo a legittimare indagini sia in relazione al
 reato di corruzione sia in relazione alla violazione delle norme  sul
 finanziamento  pubblico  dei partiti, si e' in presenza, tuttavia, di
 un unico fatto riconducibile a diverse figure delittuose.  Di  fronte
 ad esso il Senato della Repubblica, nel concedere l'autorizzazioneper
 una qualificazione e non per l'altra, attraverso una votazione avente
 ad  oggetto,  non  gia'  i  singoli capi d'imputazione, ma blocchi di
 contestazioni individuati in relazione alla qualificazione  giuridica
 ad  essi  attribuita nella richiesta di autorizzazione, ha esorbitato
 dalle proprie attribuzioni,  poiche'  non  ha  potuto  apprezzare  la
 corrispondenza  fra  i  singoli  fatti  e  la relativa qualificazione
 giuridica, ma ha potuto  solo  esprimere  interpretazioni  di  ordine
 generale  in  tema  di diritto penale sulla applicazione della legge.
 4. - Il ricorso per conflitto di  attribuzioni  e'  stato  dichiarato
 ammissibile  in  via  di prima e sommaria delibazione da questa Corte
 con ordinanza n. 264, depositata in data 1 giugno 1993. Nel termine a
 tal  fine  fissato,  la  ricorrente  Procura  della   Repubblica   ha
 provveduto  alla notificazione del ricorso e dell'indicata ordinanza.
 5. - Si  e'  ritualmente  costituito  in  giudizio  il  Senato  della
 Repubblica,  chiedendo  a  questa  Corte,  con  riserva  di ulteriori
 memorie, di accertare che le deliberazioni contestate sono immuni  da
 vizi   di   procedimento  e  non  svolgono  erronee  valutazioni  sui
 presupposti richiesti per il valido esercizio  del  relativo  potere.
 6.  - In prossimita' dell'udienza del 5 ottobre 1993 hanno depositato
 memorie sia il ricorrente, sia  il  resistente.    Oltre  a  ribadire
 argomenti  gia' svolti nel ricorso, la difesa della Procura di Milano
 sottolinea che, poiche' il Senato della Repubblica non ha  deliberato
 distintamente su ciascun episodio contestato al Sen. Citaristi, ma ha
 votato  in  blocco la richiesta articolandola artificiosamente in due
 parti, come se questa fosse duplice, deve ritenersi che il  contenuto
 delle  deliberazioni di diniego impugnate sia, non gia' quello di una
 semplice risposta  negativa  alla  richiesta  di  autorizzazione,  ma
 quello   di   una  decisione  mirante  (e  oggettivamente  idonea)  a
 condizionare indebitamente l'esercizio dell'azione  penale  da  parte
 del  pubblico ministero richiedente.  Quanto ai profili di merito, la
 ricorrente Procura afferma che  il  potere  attribuito  alle  singole
 Camere  e'  un  potere  circoscritto  e funzionalizzato, esercitabile
 legittimamente nei limiti, con i criteri e le modalita', che, sebbene
 non descritti esplicitamente  dalla  Costituzione,  discendono  dalla
 natura   e  dalla  ratio  proprie  di  tale  istituto,  vale  a  dire
 dall'esigenza di garantire, non le persone dei  parlamentari,  ma  le
 Camere  cui essi appartengono, dal rischio che iniziative improprie e
 persecutorie dell'autorita' giudiziaria si traducano in una  minaccia
 alla liberta' e all'indipendenza della rappresentanza politica.
    Spetta,  quindi, alla Corte, in sede di conflitto di attribuzione,
 verificare se la decisione parlamentare sia  collegata  all'esistenza
 del    presupposto    costituzionale    necessario   per   addivenire
 all'eventuale  diniego,  vale  a  dire  il  carattere   improprio   e
 persecutorio  dell'azione  giudiziaria,  poiche'  solo  in  tal  caso
 quest'ultima appare lesiva dell'indipendenza del Parlamento.
    Nel caso di specie, ad avviso del ricorrente,  il  Senato  avrebbe
 ecceduto  dalle  proprie  attribuzioni,  dal  momento  che, senza mai
 esprimere dubbi sulla fondatezza della richiesta,  ha  fatto  propria
 una   delle   tesi   avanzate   in   giurisprudenza   circa   la  non
 configurabilita' del reato di corruzione per atto contrario ai doveri
 d'ufficio, in conseguenza della mancata individuazione  del  pubblico
 ufficiale  o  dell'incaricato  di  pubblico servizio colpevole ovvero
 dell'ufficio o dell'ambito funzionale  dove  sarebbe  intervenuto  un
 qualche   atto   rispetto  al  quale  operare  la  valutazione  della
 conformita' o della contrarieta'  ai  doveri  d'ufficio.  Il  Senato,
 peraltro,  non  ha  tenuto  conto  del  fatto  che  la  richiesta  di
 autorizzazione a procedere deve intervenire  in  un  momento  in  cui
 l'attivita'  di indagine e' appena iniziata ed in cui, quindi, non e'
 possibile formulare altro che ipotesi di reato meramente indicative e
 suscettibili di ulteriori approfondimenti.
    7. - Nella sua memoria di udienza il Senato della Repubblica,  con
 riferimento  ai  requisiti soggettivi di ammissibilita', osserva che,
 pur  ammettendo  che  sulla  base   della   precorsa   giurisprudenza
 costituzionale  e'  difficile  negare  in  questo  caso  al  pubblico
 ministero la natura di organo  dotato  di  competenze  costituzionali
 esercitabili   in   maniera  autonoma  e  indipendente,  e'  tuttavia
 possibile dubitare che  la  Procura  della  Repubblica  sia  l'organo
 dell'ufficio   del   pubblico   ministero   abilitato   a   esprimere
 definitivamente la volonta' del potere attribuito dall'art. 112 della
 Costituzione. Infatti, oltre ai vincoli gerarchici che caratterizzano
 i  rapporti  tra  i  diversi  uffici  del  pubblico  ministero   (con
 particolare  riferimento  ai poteri di "sorveglianza" e di avocazione
 del  procuratore  generale  presso  la  Corte   d'appello),   occorre
 considerare  che  il  giudice per le indagini preliminari, in sede di
 esame della richiesta di archiviazione, puo' ben lamentare la lesione
 del proprio potere giurisdizionale in relazione all'impossibilita' di
 ordinare ex art. 409, quinto comma,  la  redazione  coatta  del  capo
 d'imputazione.    Per  quel  che  concerne  i  profili  oggettivi  di
 ammissibilita', il resistente osserva che, pur essendo  indiscutibile
 la  prospettazione  di  un conflitto per interferenza nel caso che il
 diniego  di  autorizzazione  sia  frutto  di  valutazioni  erronee  o
 comunque  viziate  nel  procedimento  (v. sent. n. 1150 del 1988), la
 sussistenza in concreto della materia del  conflitto  deve  dipendere
 dall'esistenza  di  vizi  di  legittimita'  tali  da  incidere  sulla
 titolarita' e sul rispetto dei limiti  esterni  al  potere.  E  cio',
 secondo  la stessa parte, non si verifica nel caso dell'esercizio del
 potere di cui all'art. 68,  secondo  comma,  della  Costituzione,  in
 quanto  ciascuna  Camera, con valutazione del tutto discrezionale, si
 limita a porre in  essere  una  "condizione  di  procedibilita'"  del
 giudizio  penale,  che  ben  difficilmente e' in grado di menomare il
 potere  del  pubblico  ministero  previsto  dall'art.     112   della
 Costituzione.  Oltreche'  per  la sua natura di atto politico che non
 necessita di alcuna motivazione, la decisione delle Camere  concorre,
 infatti,  a  definire  la  portata del principio dell'obbligatorieta'
 dell'azione penale, sicche' non puo' ipotizzarsi un conflitto quando,
 come nel caso, sorgano soltanto divergenze sulle valutazioni tecnico-
 giuridiche sottese all'esercizio di ciascuno dei poteri concorrenti e
 non si lamenta un impedimento all'esercizio del proprio potere.
    Nel  merito, il Senato rileva che la richiesta di autorizzazione a
 procedere formulata dal pubblico ministero non solo deve  "enunciare"
 il fatto (inteso in senso naturalistico), ma deve anche "indicare" le
 norme  di  legge  che  si  assumono violate e, quel che piu' conta in
 questa sede, gli "elementi" sui quali si fonda la richiesta (art. 111
 disp. att. c.p.p.). La previsione dell'obbligo di indicare, oltre  al
 fatto e alle norme di legge violate, gli "elementi", cioe' le prove o
 gli  indizi  di  reita' che consentano una valutazione adeguata della
 richiesta, non avrebbe alcun senso se non fosse necessario  precisare
 con  esattezza  il  contenuto  dell'ipotesi  di reato per la quale si
 intende giungere a un'imputazione. In sostanza, osserva il Senato, se
 le  indagini  oggetto  dell'autorizzazione  si  riferiscono,  non  al
 "fatto" cui poi sara' data compiuta qualificazione, ma, come sostiene
 la  stessa  Procura,  al "fatto penalmente rilevante", cio' significa
 che  il   fatto   dev'essere   necessariamente   connesso   con   una
 qualificazione  giuridica  al  fine di consentire che su quest'ultima
 possa esprimersi consapevolmente la Camera di appartenenza.  Nel caso
 di  specie,  l'autorizzazione  e'  stata   richiesta   per   distinte
 "regiudicande" e, quindi, dev'esser concessa o negata per ciascuna di
 esse  senza  che  possa  in  alcun  modo  considerarsi  arbitrario  o
 irragionevole che il Senato abbia votato  le  richieste  (del  resto,
 secondo  una  consolidata  prassi) per blocchi separati riferiti alle
 distinte contestazioni. Affermare che il Senato,  nell'agire  in  tal
 modo,  ha evitato di apprezzare la corrispondenza tra i singoli fatti
 e le relative qualificazioni giuridiche  attribuite  dal  richiedente
 significa  operare  una  inammissibile censura sulle modalita' con le
 quali il Senato si  e'  determinato  a  votare  in  base  al  proprio
 regolamento  (art.  102, quinto comma). Allo stesso modo, continua il
 resistente, censurare la valutazione effettuata dal  Senato  come  un
 tentativo  di  riqualificazione giuridica del fatto e di affermazione
 di un  potere  di  interpretazione  autentica,  come  fa  la  Procura
 ricorrente,  significa  dimenticare  che l'attribuzione del potere di
 concedere o di negare l'autorizzazione a  procedere  e,  quindi,  del
 potere  di verificare la qualificazione giuridica dei fatti formulata
 nella richiesta implica necessariamente  l'esercizio  del  potere  di
 interpretazione  spettante a ogni operatore giuridico. In realta', in
 conformita' con la natura  di  atto  politico  dell'autorizzazione  a
 procedere,  il  Senato  ha fatto corretta applicazione dei criteri di
 valutazione ormai consolidati nella sua  prassi  e,  in  particolare,
 quello relativo al c.d. fumus persecutionis, ravvisabile quando, come
 nel caso, non vi sia corrispondenza tra i fatti per i quali si chiede
 di  procedere  e  il reato ipotizzato.  In conclusione, il resistente
 chiede a questa Corte di dichiarare che, ai sensi dell'art. 68  della
 Costituzione, spetta al Senato deliberare la concessione o il diniego
 dell'autorizzazione  a  procedere  riguardo  a  ciascuno  dei capi di
 imputazione individuati dal  pubblico  ministero  richiedente  e,  in
 quest'ambito,  valutare  i  fatti  e  le  correlative  qualificazioni
 giuridiche,  nonche'  gli  elementi  addotti  dallo  stesso  pubblico
 ministero al fine di formulare le ipotesi di imputazione.  8. - Nelle
 more   del   giudizio  e'  stata  approvata  e  pubblicata  la  legge
 costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3  (Modifica  dell'art.  68  della
 Costituzione),  la  quale, per quel che rileva in questo giudizio, ha
 operato la revisione dell'art. 68, secondo comma, della Costituzione,
 nel  senso che non e' piu' richiesta l'autorizzazione a procedere per
 sottoporre un parlamentare a procedimento  penale.    La  Corte,  con
 ordinanza  n. 386 del 9 novembre 1993, ha quindi disposto il rinvio a
 nuovo  ruolo  del  presente   conflitto.   Con   successivo   decreto
 presidenziale  ne e' stata disposta la trattazione all'udienza del 14
 dicembre 1993.  9. - In prossimita' dell'udienza,  la  Procura  della
 Repubblica  presso  il  Tribunale  di  Milano ha depositato, ma fuori
 termine, una memoria difensiva, nella quale afferma di ritenere  che,
 a  seguito dell'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del
 1993, non sussiste piu' spazio per una decisione di  merito,  essendo
 cessata  la  materia  del contendere o, comunque, essendo venuto meno
 l'interesse delle parti alla decisione del ricorso.  10. - Il  Senato
 della  Repubblica, nella memoria ritualmente depositata, rileva a sua
 volta che l'ambito del  conflitto  di  attribuzione  sollevato  dalla
 Procura  della  Repubblica  di Milano e' limitato esclusivamente alla
 competenza che la legge costituzionale n. 3 del 1993  ha  abrogato  e
 che,  quindi,  l'interesse  della  Procura della Repubblica di Milano
 alla decisione del presente conflitto, una  volta  abolito,  per  gli
 aspetti  rilevanti  in  questa sede, l'istituto dell'autorizzazione a
 procedere, e' venuto meno.   Del  resto,  poiche'  il  ricorso  della
 Procura  di  Milano  si  concludeva  con la richiesta di annullamento
 delle deliberazioni parlamentari e  di  trasmissione  degli  atti  al
 Senato  stesso  per  una nuova decisione sulla domanda proposta, deve
 escludersi, ad avviso del Senato, che, a  seguito  di  una  eventuale
 sentenza  di  annullamento del diniego di autorizzazione a procedere,
 il Senato possa essere chiamato ora ad una decisione sulla originaria
 domanda di autorizzazione a procedere.  11. - Nel corso  dell'udienza
 la   Procura   della   Repubblica  di  Milano  ha  precisato  che  la
 soppressione  dell'istituto  dell'autorizzazione   a   procedere   ha
 comportato  il  venir  meno  di  ogni  impedimento  alla  ripresa del
 procedimento  penale  in  ordine   ai   fatti-reato   oggetto   della
 deliberazione  del  Senato che ha dato luogo al presente conflitto di
 attribuzione. Pertanto, a seguito dello  ius  superveniens,  dovrebbe
 ritenersi  cessata la materia del contendere o, comunque, venuto meno
 ogni interesse a una decisione di merito.  Una  volta,  infatti,  che
 l'unico  interesse  su  cui  si basava il ricorso, cioe' la rimozione
 dell'impedimento (illegittimamente) frapposto allo svolgimento  delle
 indagini,  non  sia  piu'  sussistente,  non residua alcun concreto e
 attuale interesse alla decisione stessa.   Nel corso  della  medesima
 udienza,  il  Senato  della Repubblica, pur ribadendo di pervenire in
 sostanza  alla  stessa  conclusione  della  controparte,  afferma  di
 ritenere   piu'   corretta  una  pronunzia  di  inammissibilita'  per
 sopravvenuto difetto di interesse rispetto a una di cessazione  della
 materia  del contendere, essendo quest'ultima una decisione di merito
 che puo' comportare un significato satisfattivo nei  confronti  della
 domanda del ricorrente (v. sent. n. 383 del 1993).
                        Considerato in diritto
    1.  -  Il  Procuratore  della  Repubblica  presso  il Tribunale di
 Milano, con il ricorso indicato in epigrafe, ha  sollevato  conflitto
 di  attribuzione nei confronti del Senato della Repubblica, chiedendo
 a questa Corte di dichiarare, sulla base degli artt.  68,  101,  102,
 104  e  112  della  Costituzione, che non spetta al Senato, allorche'
 delibera  sulla  concessione  o  sul  diniego  dell'autorizzazione  a
 procedere  prevista  dall'art. 68, secondo comma, della Costituzione,
 di modificare, anche mediante apposizione di termini o di condizioni,
 la ricostruzione del fatto penalmente rilevante e  la  qualificazione
 giuridica dello stesso fatto, come determinate dal pubblico ministero
 nella  richiesta  di autorizzazione per lo svolgimento delle indagini
 finalizzate all'esercizio dell'azione penale, ai sensi dell'art.  112
 della Costituzione. Conseguentemente, lo stesso ricorrente chiede che
 siano  annullati,  per  illegittimita' derivante dalla violazione dei
 predetti parametri costituzionali, i  dinieghi  di  autorizzazione  a
 procedere  deliberati  dal  Senato  della Repubblica in data 18 marzo
 1993 in relazione ai reati di corruzione per atto contrario ai doveri
 d'ufficio ipotizzati nei confronti  del  Sen.  Severino  Citaristi  e
 chiede,  inoltre,  che  le relative richieste di autorizzazione siano
 rinviate al medesimo Senato per una nuova deliberazione sulle stesse.
    2. - Anche se nelle more del presente giudizio e'  intervenuta  la
 legge  costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3, che ha modificato l'art.
 68,  secondo   comma,   della   Costituzione,   abolendo   l'istituto
 dell'autorizzazione   a  procedere  per  i  procedimenti  penali  nei
 confronti  dei  parlamentari,   nondimeno   occorre   preliminarmente
 verificare  in  via  definitiva  l'ammissibilita'  del  conflitto  di
 attribuzione  sotto  il  profilo  della  regolare  instaurazione  del
 processo di fronte a questa Corte, gia' delibata in un primo sommario
 giudizio  concluso con l'ordinanza n. 264 del 1993.  Sotto il profilo
 oggettivo ricorrono indubbiamente i requisiti previsti  dall'art.  37
 della  legge  11  marzo  1953,  n. 87 (Norme sulla costituzione e sul
 funzionamento della Corte), in base al quale sono risolti dalla Corte
 costituzionale i conflitti tra i poteri dello Stato insorti  "per  la
 delimitazione  della  sfera  di  attribuzioni  determinata per i vari
 poteri da norme costituzionali". Infatti, stando ai  termini  esposti
 nel  ricorso,  il  conflitto  in  esame  deriverebbe dal fatto che il
 Senato, nel deliberare  il  diniego  parziale  dell'autorizzazione  a
 procedere  richiesta  dalla  Procura  della  Repubblica  di Milano in
 ordine  a  comportamenti  storicamente  unitari  attribuiti  al  Sen.
 Citaristi   e  qualificati  giuridicamente  come  corruzione  e  come
 violazione  delle  norme  sul  finanziamento  dei  partiti  politici,
 avrebbe  indebitamente  interferito  nei  confronti  del  potere  del
 pubblico ministero concernente la definizione e la qualificazione del
 fatto-reato ai fini  dell'orientamento  delle  indagini  ulteriori  e
 dell'esercizio  dell'azione  penale. In altri termini, non v'e' alcun
 dubbio che il conflitto riguardi attribuzioni - come quella  relativa
 all'autorizzazione  a  procedere  spettante  a  ciascuna  Camera  nei
 confronti  dei  propri  membri  e  quella   attinente   all'esercizio
 obbligatorio  dell'azione penale da parte del pubblico ministero - le
 quali  sono  direttamente  determinate   da   norme   costituzionali,
 rispettivamente  dall'art.  68,  secondo  comma (nella sua originaria
 formulazione), e dall'art.  112  della  Costituzione.    Contro  tale
 conclusione  non  valgono  le argomentazioni addotte dalla difesa del
 Senato della Repubblica vo'lte  a  sostenere  l'inammissibilita'  del
 sollevato   conflitto.   Innanzitutto,   non  puo'  essere  condivisa
 l'opinione che l'attribuzione  concernente  l'esercizio  obbligatorio
 dell'azione  penale  non potrebbe in alcun modo essere menomato dallo
 svolgimento di un potere, come quello relativo  all'autorizzazione  a
 procedere,    che,    essendo    configurato   come   condizione   di
 procedibilita', concorrerebbe esso stesso  a  definire  il  principio
 costituzionale  dell'obbligatorieta' dell'azione penale. Infatti, pur
 assumendo  per  mera  ipotesi  che   l'autorizzazione   a   procedere
 costituisca  un  potere  concorrente allo svolgimento di una funzione
 unitaria (esercizio obbligatorio dell'azione  penale),  da  cio'  non
 puo'  trarsi  alcun argomento a favore dell'inammissibilita', poiche'
 oggetto del conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato e'  la
 definizione  delle  sfere  di competenza costituzionalmente rilevanti
 spettanti a ciascuno dei poteri confliggenti sia con riferimento alle
 ipotesi in cui tali poteri svolgano distinte funzioni costituzionali,
 sia con riferimento alle ipotesi in cui  quei  poteri  compartecipino
 all'esercizio  di  una medesima funzione costituzionale. Quest'ultima
 e', anzi,  un'evenienza  ricorrente  nei  conflitti  da  menomazione,
 qual'e' quello in esame, in cui si lamenta che un potere dello Stato,
 nel  concorrere con altro potere al perseguimento di un medesimo fine
 pubblico, abbia illegittimamente  superato  i  limiti  della  propria
 competenza   o   abbia   omesso  di  compiere  un  atto  obbligatorio
 condizionante l'esercizio della competenza spettante ad altro potere,
 cosi' da produrre rispetto a quest'ultimo un'indebita interferenza  o
 un  illegittimo  impedimento.    Ne'  puo'  condividersi  l'ulteriore
 eccezione  d'inammissibilita'  formulata  dalla  difesa  del  Senato,
 secondo la quale il potere di autorizzazione a procedere previsto dal
 testo  originario  dell'art.   68, secondo comma, della Costituzione,
 non essendo sottoposto ad alcun parametro di  validita'  o  ad  alcun
 limite  costituzionale, sarebbe assolutamente insindacabile da questa
 Corte e, comunque, sarebbe di per se' inidoneo a produrre lesioni  di
 altrui  attribuzioni.  In realta', come ha correttamente osservato la
 parte  ricorrente,  nell'ordinamento  democratico   stabilito   dalla
 Costituzione i poteri dello Stato sono organizzati secondo un modello
 di  pluralismo  istituzionale, nel quale il principio della reciproca
 separazione  e'  corretto  con  quello  del  reciproco  "controllo  e
 bilanciamento".  Di  modo  che,  anche  nelle ipotesi in cui le norme
 costituzionali  non   fissano   esplicitamente   vincoli   o   limiti
 particolari,  l'esercizio di un potere basato sulla Costituzione deve
 avvenire in conformita' con la ratio inerente al relativo istituto ed
 entro i limiti derivanti dalla convivenza con gli altri poteri  dello
 Stato.  Da  cio'  discende che anche per l'autorizzazione a procedere
 prevista dall'art. 68, secondo comma, della Costituzione  (nella  sua
 originaria  formulazione),  vale  quanto  questa Corte ha affermato a
 proposito  della  prerogativa  parlamentare  disciplinata  nel  comma
 precedente  dello stesso articolo costituzionale, vale a dire che "il
 potere valutativo delle Camere non e' arbitrario o soggetto  soltanto
 a  una  regola  interna  di  self-restraint" (sent. n. 1150 del 1988,
 nonche' sent. n. 443 del 1993). E questo e' sufficiente per escludere
 l'inammissibilita'  del   presente   conflitto   sotto   il   profilo
 considerato,     poiche'    il    principio    ricordato,    riferito
 all'autorizzazione a procedere, porta  necessariamente  ad  escludere
 che  quest'ultimo  potere possa essere considerato come assolutamente
 insindacabile o di per se' inidoneo a  produrre  interferenze  lesive
 nei confronti di altri poteri dello Stato.
    3.  -  Parimenti  ammissibile  e'  il conflitto di attribuzione in
 esame sotto il profilo dei requisiti soggettivi.  Nessun dubbio  puo'
 sussistere   sul  fatto  che,  in  riferimento  all'autorizzazione  a
 procedere prevista dall'art. 68, secondo comma,  della  Costituzione,
 l'organo direttamente investito della titolarita' del relativo potere
 sia  ciascuna  Camera  di  appartenenza.  Di  modo  che,  riguardo al
 proseguimento delle  indagini  nei  confronti  del  Sen.    Citaristi
 oggetto  dell'autorizzazione  a  procedere  di cui si controverte, il
 solo organo competente a esercitare quel potere in via definitiva, in
 posizione d'indipendenza e di totale autonomia da altri poteri  dello
 Stato  -  ai  sensi  dell'art. 37, primo comma, della legge n. 87 del
 1953 - e' certamente il Senato della Repubblica.   Allo  stesso  modo
 non  puo'  dubitarsi  che  il  pubblico ministero, secondo l'art. 112
 della Costituzione,  sia  il  titolare  diretto  ed  esclusivo  delle
 attivita'   d'indagine   finalizzate   all'esercizio   (obbligatorio)
 dell'azione   penale.   Ne'   quest'affermazione    puo'    ritenersi
 contraddetta dall'ordinanza n. 16 del 1979, con la quale questa Corte
 ha  negato  che  il pubblico ministero potesse sollevare conflitto di
 attribuzione tra  i  poteri  dello  Stato,  motivando  tuttavia  tale
 esclusione  con  il  fatto  che  in  quel  caso  il  predetto ufficio
 rivendicava per se' una funzione giurisdizionale in senso  proprio  e
 non  agiva, come ora, a difesa dell'integrita' di competenze inerenti
 all'esercizio  dell'azione  penale.  Al   contrario,   al   fine   di
 corroborare  la  conclusione  raggiunta,  non  e'  senza  significato
 ricordare che questa Corte, se pure  sotto  l'impero  del  precedente
 codice  di  procedura  penale, ha piu' volte riconosciuto al pretore,
 con riferimento a ipotesi  di  esercizio  di  poteri  inquirenti,  la
 qualita' di soggetto passivo in giudizi per conflitto di attribuzione
 tra i poteri dello Stato (v. sent. n. 150 del 1981, nonche' ordd. nn.
 132  e  98  del  1981,  123  del  1979).  Ed anzi, la stessa Corte, a
 proposito del pubblico ministero, ha  affermato  che  esso,  in  base
 all'art.   107  della  Costituzione,  e'  "fornito  di  istituzionale
 indipendenza rispetto a ogni altro potere"  (v.  sentt.  nn.  88  del
 1991,  96  del 1975 e 190 del 1970) e ha precisato che la garanzia di
 tale posizione costituzionale e' accentuata  nel  vigente  codice  di
 procedura  penale  a causa della eliminazione "di ogni contaminazione
 funzionale tra giudice e organo dell'accusa" e  della  concentrazione
 in  capo  a  quest'ultimo  della potesta' investigativa, radicalmente
 sottratta al primo (v. sent. n. 88 del 1991).
    Posto che l'ufficio del pubblico  ministero  e'  il  potere  dello
 Stato  che  agisce  nel  presente  conflitto di attribuzione, si deve
 ritenere che la legittimazione  processuale  nel  giudizio  in  esame
 spetti  all'organo  di quell'ufficio le cui competenze costituzionali
 si suppongono lese dal diniego di autorizzazione a procedere  oggetto
 di  contestazione, vale a dire la Procura della Repubblica di Milano.
 Infatti, in relazione alle attribuzioni la cui lesione e' dedotta nel
 presente  conflitto,  la  Procura  ricorrente  si  caratterizza  come
 l'organo  dell'ufficio  del  pubblico ministero, che, nell'ambito del
 principio di soggezione soltanto alla legge, e' abilitato a  decidere
 con  pienezza  di  poteri  e  senza interferenze di sorta da parte di
 altre istanze della pubblica accusa in ordine allo svolgimento  delle
 indagini finalizzate all'esercizio dell'azione penale per i fatti per
 i  quali  e' stata negata dal Senato l'autorizzazione a procedere nei
 confronti del Sen.  Citaristi. Pertanto, riguardo  alle  attribuzioni
 contestate  nel  conflitto  in  esame, la Procura della Repubblica di
 Milano  e'  l'organo  competente  a  dichiarare  definitivamente   la
 volonta' del potere cui appartiene, ai sensi dell'art. 37 della legge
 n.  87  del  1953,  dal momento che nel caso concreto solo essa e' in
 grado di impegnare l'intero potere del pubblico ministero.
    Ne',  in  proposito,  possono  essere  condivise  le  eccezioni di
 inammissibilita' sollevate dalla difesa del Senato.  In  particolare,
 contrariamente  a  quanto  sostenuto dalla parte resistente, non puo'
 correttamente parlarsi di vincoli gerarchici tra i diversi uffici del
 pubblico  ministero,  che  sarebbero  evidenziati   dai   poteri   di
 sorveglianza  e di avocazione affidati al Procuratore generale presso
 la Corte d'appello. In via generale, questa Corte ha  gia'  affermato
 che  poteri  del  genere  non  possono  essere  ricondotti a forme di
 "controllo gerarchico interno  agli  uffici  del  pubblico  ministero
 affidato  al  procuratore  generale", prevedendo piuttosto il sistema
 una serie di limiti e di interventi di carattere  esterno,  vo'lti  a
 garantire  l'effettivita' e la completezza degli adempimenti connessi
 all'esercizio  delle  funzioni  devolute  all'organo  inquirente  (v.
 ancora  sent.  n.  88  del  1991).    Piu' precisamente, il potere di
 sorveglianza del Procuratore generale -  previsto  dall'art.  16  del
 Regio  decreto  legislativo  31  marzo  1946  n. 511, come modificato
 dall'art. 30 del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre
 1988, n. 449, che lo ha  ulteriormente  attenuato  -  non  ha  alcuna
 incidenza   diretta  sull'esercizio  delle  attivita'  inerenti  alla
 funzione  attribuita  al  pubblico  ministero  dall'art.  112   della
 Costituzione.   Si   tratta,   invece,  di  un  potere  che,  essendo
 strumentale all'attivazione della  responsabilita'  disciplinare  dei
 magistrati  operanti  come  pubblico  ministero, e' del tutto esterno
 all'attribuzione che si suppone lesa nel  presente  conflitto,  cosi'
 come  lo  e'  l'ancor  piu'  indiretta forma di vigilanza affidata al
 Procuratore generale dall'art. 83 del Regio  decreto  legislativo  30
 gennaio  1941,  n.  12  (come modificato dall'art.   23 del ricordato
 d.P.R. n. 449 del 1988), sull'osservanza delle  norme  relative  alla
 diretta   disponibilita'   della   polizia   giudiziaria   da   parte
 dell'autorita' giudiziaria.   Parimenti ininfluente,  ai  fini  della
 pretesa   esclusione   della   configurazione   della  Procura  della
 Repubblica di Milano come organo che in questo caso e'  competente  a
 dichiarare  definitivamente la volonta' del potere cui appartiene, e'
 la previsione del potere di avocazione delle indagini preliminari  da
 parte del Procuratore generale, ai sensi degli artt. 412 e 413, primo
 comma,  del  codice  di  procedura  penale.  Tale  potere, che e' ben
 diverso dalla "sostituzione di un organo del  pubblico  ministero  ad
 altro   organo  dello  stesso  pubblico  ministero"  configurata  nel
 previgente codice di procedura penale (sulla quale v. sentt.  nn.  32
 del  1964  e  148  del  1963), e' infatti rigidamente condizionato al
 presupposto che il pubblico ministero non eserciti l'azione penale  o
 non  richieda  l'archiviazione  nel  termine  stabilito dalla legge o
 prorogato dal giudice. In altre parole, l'avocazione  delle  indagini
 preliminari  da parte del Procuratore generale e' un potere, previsto
 come "strumento di garanzia contro l'inerzia del pubblico  ministero"
 (v.  sent.  n.  88  del  1991),  che  proprio  percio' non puo' avere
 un'incidenza attuale sulla legittimazione  processuale  in  relazione
 alle  attribuzioni oggetto del presente conflitto, cioe' in relazione
 alla corretta prosecuzione da  parte  del  pubblico  ministero  delle
 indagini  ai  fini dell'esercizio dell'azione penale, dal momento che
 quel potere potra' essere attivato dal Procuratore generale  soltanto
 dopo  che  il  pubblico  ministero  avra' consumato - sia per mancato
 esercizio  dell'azione  penale,   sia   per   omessa   richiesta   di
 archiviazione  nei  termini  prescritti  - lo svolgimento del proprio
 potere   d'indagine,   vale  a  dire  dell'attribuzione  dedotta  nel
 conflitto in esame.
    A  maggior  ragione,  infine,  non  puo'  essere   contestata   la
 legittimazione  processuale  della  Procura ricorrente sulla base dei
 poteri che il codice di procedura penale affida  al  giudice  per  le
 indagini  preliminari  in  ordine  alla  richiesta  di  archiviazione
 formulata dal  pubblico  ministero.  Quando,  infatti,  quel  giudice
 dissente  da  quest'ultima  richiesta,  egli  -  tanto  se indichi le
 ulteriori indagini che ritenga necessarie (art.  409,  quarto  comma,
 c.p.p.),   quanto  se  ordini  al  pubblico  ministero  di  formulare
 l'imputazione (artt. 409, quinto comma, e 554, secondo comma)  -  non
 si  sostituisce, certo, al pubblico ministero nell'esercizio dei suoi
 poteri d'indagine  o  nelle  sue  determinazioni  in  relazione  alle
 stesse,  ne'  in ogni caso agisce per conto dell'organo di accusa, ma
 svolge un potere di controllo giurisdizionale  esterno  all'esercizio
 dell'azione  penale, previsto a garanzia del principio costituzionale
 di obbligatorieta' della medesima azione penale.  4. -  Il  conflitto
 di   attribuzione   tra  i  poteri  dello  Stato  in  esame,  sebbene
 ammissibile  sotto  il  profilo  della  sussistenza   dei   requisiti
 soggettivi  e  oggettivi  per la legittima instaurazione del giudizio
 presso  questa   Corte,   va   tuttavia   dichiarato   improcedibile.
 Successivamente  all'entrata  in vigore della legge costituzionale 29
 ottobre 1993, n. 3 - la quale, nel  revisionare  l'art.  68,  secondo
 comma, della Costituzione, ha eliminato l'autorizzazione della Camera
 di  appartenenza  perche'  un  membro  del  Parlamento potesse essere
 sottoposto a procedimento penale, conservando  l'autorizzazione  solo
 in  ordine  all'arresto,  alla perquisizione personale o domiciliare,
 alle intercettazioni telefoniche, alla detenzione o a qualsiasi altra
 privazione della liberta' personale - nel corso dell'udienza  del  14
 dicembre  1993  ambedue  le  parti  del  giudizio hanno modificato le
 conclusioni enunciate  negli  atti  di  costituzione  e  nelle  prime
 memorie  difensive.  Infatti,  tanto  la  Procura della Repubblica di
 Milano  quanto  il  Senato  della  Repubblica   hanno   concordemente
 affermato   che,   a   seguito   della   modificazione   della  norma
 costituzionale, si  e'  venuta  a  creare  una  situazione  di  piena
 procedibilita' riguardo ai fatti-reato oggetto delle deliberazioni di
 diniego  di  autorizzazione  a  procedere,  adottate nella seduta del
 Senato della Repubblica del 18 marzo 1993, in relazione alle quali e'
 insorto il presente conflitto  di  attribuzione.  In  conseguenza  di
 cio',  le  stesse  parti  ritengono  che  sia  cessata la materia del
 contendere o, in ogni caso, che esse non abbiano piu' alcun interesse
 a ottenere una decisione sul merito del conflitto medesimo.
    Constatato che, successivamente all'inizio del presente  giudizio,
 e'  intervenuta  una  revisione  dell'art.  68,  secondo comma, della
 Costituzione  che  ha  abolito   l'istituto   dell'autorizzazione   a
 procedere  a  decorrere  dalla  data di entrata in vigore della legge
 costituzionale n. 3 del 1993  e  ritenuto  che,  di  conseguenza,  e'
 venuto meno l'interesse delle parti, pur originariamente sussistente,
 ad  avere  una  pronunzia  di  merito, come riconoscono negli atti di
 causa le stesse parti del giudizio, va dichiarata  l'improcedibilita'
 del  conflitto  di  attribuzione in esame per sopravvenuta carenza di
 interesse.