ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  660,  terzo
 comma,  del  codice  di procedura penale, promossi con n. 3 ordinanze
 emesse il 1› dicembre ed il 6  ottobre  1993  (n.  2  ordinanze)  dal
 Magistrato  di  sorveglianza  presso  il  Tribunale  di  Macerata nei
 procedimenti di conversione della pena pecuniaria  nei  confronti  di
 Braconi  Maurizio,  Ercoli  Giuseppe e Gregori Luigi, iscritte ai nn.
 104, 105 e  106  del  registro  ordinanze  1994  e  pubblicate  nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  12, prima serie speciale,
 dell'anno 1994;
    Visti gli atti di intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del  6 luglio 1994 il Giudice
 relatore Ugo Spagnoli.
                           Ritenuto in fatto
    1. - Nell'ambito di tre distinti  procedimenti  di  conversione  o
 rateizzazione  di  pena  pecuniaria  promossi a norma degli artt. 102
 della legge 24 novembre 1981, n. 689 e 660 del  codice  di  procedura
 penale,   il  Magistrato  di  sorveglianza  presso  il  Tribunale  di
 Macerata, rilevato che la situazione di insolvenza era determinata in
 tutti e tre i casi dalla giuridica impossibilita' per i condannati di
 effettuare il pagamento, derivante dalla loro condizione di  falliti,
 e  che  le procedure fallimentari erano tuttora in corso, pur dopo il
 duplice  differimento  della  conversione  precedentemente   disposto
 proprio   in   relazione   alla  suddetta  situazione  di  temporanea
 insolvenza dei condannati, ha sollevato con simili ordinanze - una in
 data 1› dicembre 1993 (r.o. n. 104/1994) e due in data 6 ottobre 1993
 (r.o.  nn.  105  e  106  del  1994)  -  questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  660,  terzo comma, del codice di procedura
 penale, per violazione dell'art. 3 della Costituzione.
    Deduce il remittente che nel caso di condannato dichiarato fallito
 e' pacifica la sussistenza, piu' che della insolvibilita',  ossia  di
 una  situazione  oggettiva, di una situazione di semplice insolvenza,
 vale  a  dire  di  transitoria  e  non  insuperabile  difficolta'  di
 adempiere.  La  condizione di privazione dell'amministrazione e della
 disponibilita' dei beni che la legge ricollega alla dichiarazione  di
 fallimento  se  giustifica,  a  norma del secondo comma dell'art. 660
 cod. proc. pen., la richiesta di conversione  della  pena  pecuniaria
 (di  cui  non  e'  possibile  l'esazione)  in  liberta'  controllata,
 tuttavia rientra, per la sua natura  contingente  e  temporanea,  nei
 casi  per  i  quali  e'  possibile  disporre  il  differimento  della
 conversione.
    Tale differimento, osserva ancora  il  giudice  a  quo,  e'  pero'
 consentito per non piu' di due volte, ciascuna volta per un tempo non
 superiore  ai  sei mesi, come si ricava dalla lettera del terzo comma
 dell'art. 660, che prevede solo  "un  nuovo  differimento"  oltre  al
 primo;  sicche',  se,  come  nel  caso  di  specie,  la situazione di
 temporanea insolvenza perdura, il  magistrato  di  sorveglianza  deve
 necessariamente disporre la conversione della pena non eseguita.
    Detta  disciplina, a parere del remittente, si pone in inevitabile
 contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto fa dipendere  la
 conversione  della pena pecuniaria in liberta' controllata, incidente
 sulla liberta' personale, da una situazione incolpevole di insolvenza
 del  condannato  sottoposto  a  procedura  fallimentare,  che   viene
 discriminato  rispetto  a  chi sia ritornato nella disponibilita' dei
 propri beni a seguito della chiusura del fallimento e abbia cosi'  la
 possibilita'  di  pagare  la  pena pecuniaria, eventualmente anche in
 forma rateizzata.
    2. - E' intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio
 dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato,  che,  con  identici  atti,  ha  chiesto  che la questione sia
 dichiarata non fondata.
    Rileva  l'Avvocatura  che  il  remittente  si  basa  su  una   non
 condivisibile interpretazione della norma impugnata, secondo la quale
 i  differimenti  della conversione non possono essere piu' di due. Al
 contrario, sia il tenore della disposizione, sia la sua ratio,  quale
 desumibile  anche dalla Relazione al progetto preliminare del codice,
 condurrebbero a ritenere, in conformita' all'orientamento  dottrinale
 sul   punto,   che  non  vi  siano  limiti  alla  reiterabilita'  dei
 differimenti.
                        Considerato in diritto
    1. - Il Magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Macerata
 dubita che l'art. 660, terzo comma, del codice di  procedura  penale,
 nella   parte  in  cui  non  prevede  la  possibilita'  di  differire
 ripetutamente la conversione della pena pecuniaria nei confronti  dei
 condannati  dichiarati  falliti fintanto che non sia stata dichiarata
 chiusa la  procedura  fallimentare,  contrasti  con  l'art.  3  della
 Costituzione,  in  quanto  fa  dipendere  la  conversione  della pena
 pecuniaria  in  liberta'  controllata,   incidente   sulla   liberta'
 personale, da una situazione incolpevole di insolvenza del condannato
 sottoposto  a procedura fallimentare, che viene discriminato rispetto
 a chi sia ritornato nella disponibilita' dei propri  beni  a  seguito
 della chiusura del fallimento e abbia cosi' la possibilita' di pagare
 la pena pecuniaria.
   2.  -  Il  giudice  a  quo  muove  dal presupposto che il potere di
 differimento  della  conversione  della  pena   pecuniaria   previsto
 dall'art.   660,   terzo  comma,  cod.  proc.  pen.  per  i  casi  di
 (temporanea)  insolvenza   sia   esercitabile   dal   Magistrato   di
 sorveglianza per non piu' di due volte.
    Tale interpretazione deve ritenersi erronea.
    Gia' la lettera della disposizione impugnata convince della libera
 reiterabilita'  del  differimento,  nei  casi  ivi  previsti, tra cui
 rientra certamente proprio quello della  insolvenza  derivante  dallo
 stato di fallito. Ed infatti, dopo un primo differimento per un tempo
 non  superiore  a sei mesi, la legge pone al magistrato l'alternativa
 tra disporne uno "nuovo" (non, quindi, un "secondo"  differimento)  e
 ordinare la conversione. Ma questa ultima via e' possibile solo se lo
 stato di insolvenza non perdura, come e' reso manifesto dall'avverbio
 "altrimenti"    ivi   impiegato.   In   altri   termini,   rivolgendo
 l'espressione normativa, non puo' essere ordinata la  conversione,  e
 va quindi disposto, ogni volta, un nuovo differimento, se lo stato di
 insolvenza perdura.
    Questa  interpretazione,  avvalorata anche dalla dottrina che piu'
 specificamente ha affrontato il tema, trova piena conferma nei lavori
 preparatori del codice. Nella relazione al Progetto preliminare, ove,
 a titolo esemplificativo, si cita proprio il  caso  della  temporanea
 insolvenza  derivante  dalla  dichiarazione di fallimento, si pone in
 risalto  il  potere  del  magistrato  di  sorveglianza  di  differire
 l'esecuzione  "fino  a  che  lo stato di insolvenza ( ..) non venga a
 cessare"; e  si  aggiunge  che  si  e'  preferito  un  meccanismo  di
 (innumeri)  differimenti per periodi concatenati di sei mesi anziche'
 quello di un differimento sine die, "ad  evitare  che  la  esecuzione
 resti sospesa a tempo indefinito". Dunque, per bocca del legislatore,
 si   trova  conferma  della  tesi  interpretativa  per  la  quale  il
 differimento e' si' a tempo definito (non superiore a sei  mesi),  ma
 reiterabile  sin  che lo stato di insolvenza non venga a risolversi o
 nella solvibilita' ""nel qual caso si procedera' alla esazione  della
 somma dovuta") o nella insolvibilita' ("nel qual caso si procedera' a
 conversione").
    Infine,  anche la genesi della norma conduce a simile conclusione.
 Con la sentenza n.  149  del  1971,  questa  Corte  aveva  dichiarato
 l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  136,  primo  comma,  del
 codice penale, nella parte in cui ammetteva, per i reati commessi dal
 fallito in epoca  anteriore  alla  dichiarazione  di  fallimento,  la
 conversione  della pena pecuniaria in pena detentiva. Con la sentenza
 n. 131  del  1979,  nel  dichiarare  l'illegittimita'  costituzionale
 dell'art. 136 del codice penale, la Corte sottolineava tra l'altro la
 non  conformita'  al  principio  di  uguaglianza  di  un  sistema che
 collegava alla insolvibilita' del condannato "indifferibilmente ed in
 modo  automatico"  la  conversione  della  pena  pecuniaria  in  pena
 detentiva.  Ancora,  con  la sentenza n. 108 del 1987, con cui veniva
 sottoposto al vaglio di costituzionalita' il nuovo regime  introdotto
 con  la  legge  n.  689  del  1981,  veniva  tra l'altro affermato il
 principio che  la  conversione  dovesse  poter  essere  differita  in
 presenza di situazioni di mera insolvenza.
    Ora,  il  codice  del  1988  ha  inteso  per l'appunto risolvere i
 problemi  di  costituzionalita'  affrontati  nelle  citate  pronunce,
 attraverso  un  meccanismo  di  differibilita' della conversione che,
 come  ricorda  ancora  la  citata  Relazione,   si   incentra   sulla
 distinzione  tra  insolvibilita'  e  insolvenza, e sulla operativita'
 dell'istituto della conversione solo nel primo caso.
    3.  -  Una  volta   riconosciuta   l'erroneita'   della   premessa
 interpretativa  da  cui  parte  il  giudice  a  quo, la questione dal
 medesimo sollevata deve essere dichiarata infondata.