ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  promosso  con ricorso del procuratore della Repubblica
 presso il Tribunale di Napoli notificato il 6 giugno 1995, depositato
 in cancelleria il 12 giugno successivo, per conflitto di attribuzione
 sorto a seguito del decreto del  Ministro  dell'interno,  emanato  di
 concerto  con  il  Ministro  di  grazia  e  giustizia,  n. 687 del 24
 novembre 1994 (Regolamento recante norme  dirette  ad  individuare  i
 criteri  di  formulazione  del  programma di protezione di coloro che
 collaborano con la giustizia e le relative modalita' di  attuazione),
 ed iscritto al n. 19 del registro conflitti 1995.
    Visto  l'atto  di  costituzione  del  Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  dell'11  luglio  1995  il   Giudice
 relatore Mauro Ferri;
    Uditi   l'avvocato   Massimo  Luciani  per  il  procuratore  della
 Repubblica presso il Tribunale di  Napli  e  l'avvocato  dello  Stato
 Carlo Sica per il Presidente del Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1.1.  -  Con  ricorso  depositato il 20 aprile 1995, il procuratore
 della Repubblica presso il Tribunale di Napoli ha sollevato conflitto
 di  attribuzione  nei  confronti  del  Ministro  dell'interno  e  del
 Ministro di grazia e giustizia, in relazione al decreto n. 687 del 24
 novembre  1994  (Regolamento  recante  norme dirette ad individuare i
 criteri di formulazione del programma di  protezione  di  coloro  che
 collaborano  con la giustizia e le relative modalita' di attuazione),
 emanato dal Ministro dell'interno di  concerto  con  il  Ministro  di
 grazia  e  giustizia  e  pubblicato  nella  Gazzetta  Ufficiale della
 Repubblica n. 294 del 17 dicembre 1994.
    In particolare, il ricorrente chiede che  questa  Corte,  ritenuto
 ammissibile  il  conflitto,  annulli  gli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 8 del
 citato decreto, per violazione degli artt. 13, 101, 104,  108  e  112
 della Costituzione.
    1.2.  -  Il ricorrente, premesso che il decreto impugnato, emanato
 di concerto e a firma congiunta dei Ministri sopra indicati, e' stato
 adottato in attuazione dell'art. 10, comma 3,  del  decreto-legge  15
 gennaio 1991, n. 8 (Nuove misure in materia di sequestri di persona a
 scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con
 la  giustizia),  convertito,  con modificazioni, dalla legge 15 marzo
 1991, n. 82, osserva che le norme contenute nei  menzionati  articoli
 del  provvedimento  "incidono  nella  sfera  delle  attribuzioni  del
 pubblico   ministero,   quali   a   lui   riconosciute   dalla  Carta
 costituzionale, e violano gli articoli 13, 101, secondo  comma,  104,
 108  e  112  di  tale  Carta,  sia  sotto l'aspetto di interferenze e
 condizionamenti  frapposti  all'indipendenza   ed   autonomia   della
 magistratura  e  all'esercizio  dell'attivita' giudiziaria, sia sotto
 quello  della  violazione  di  norme  primarie,  come  quelle   delle
 preleggi,   dell'Ordinamento  giudiziario,  per  le  quali  e'  fatta
 espressa riserva di legge dall'articolo 108 della Costituzione, e del
 codice processuale penale,  alcuni  articoli  del  quale  sono  stati
 modificati o derogati da tale regolamento".
    Per  tali  ragioni,  il  ricorrente  sostiene  che,  nella specie,
 legittimato  a  denunciare  il  conflitto  sia  proprio  il  pubblico
 ministero,   organo   competente,   nell'esercizio   delle   funzioni
 giurisdizionali, a dichiarare la volonta' del potere cui appartiene.
    In   ordine   alle   considerazioni   svolte   da   questa   Corte
 nell'ordinanza  n.  16  del  1979,  si osserva che proprio successive
 pronunzie  della  Corte  stessa  e  gli   approfonditi   rilievi   di
 qualificata dottrina autorizzano a ritenere fondatamente che ormai la
 legittimazione   a   sollevare  conflitto,  in  una  riconsiderazione
 dell'indirizzo assunto, possa e debba essere  riconosciuta  anche  al
 rappresentante   del   pubblico  ministero,  quantomeno  ove  vengano
 denunciate violazioni degli artt. 112 o 108 della Costituzione.
    D'altronde, l'attivita' del pubblico ministero si presenta,  sotto
 molteplici  aspetti,  con  caratteri squisitamente propri, autonomi e
 decisori, ne' puo' essere tralasciato che, proprio secondo  la  Corte
 costituzionale,   anche  il  pubblico  ministero  e'  una  "autorita'
 giudiziaria" e che  la  funzione  requirente  e'  ricompresa  tra  le
 attribuzioni riferibili al potere giudiziario.
    1.3.  -  Cio'  posto,  il  ricorrente  rileva  che le disposizioni
 dell'art.  2  (nonche'  dell'art.  4)  del  regolamento  prevedono  e
 prescrivono:
      1)  l'indicazione  dei  principali  fatti criminosi sui quali il
 soggetto proposto sta rendendo le dichiarazioni  e  i  motivi  per  i
 quali  esse  sono ritenute attendibili e importanti per le indagini o
 per il giudizio;
      2)  la  precisazione  circa  la  risultanza  di  "elementi   che
 confermano l'attendibilita' delle dichiarazioni acquisite";
      3)  l'allegazione  alla proposta del verbale delle dichiarazioni
 preliminari  alla  collaborazione,  con  l'indicazione  tra  l'altro,
 quantomeno  sommaria,  dei dati utili alla ricostruzione dei fatti di
 maggiore gravita' ed allarme  sociale  di  cui  e'  a  conoscenza  il
 collaboratore,  oltre che alla individuazione e alla cattura dei loro
 autori;
      4) per le ipotesi di dichiarante non  indagato,  il  verbale  di
 informazioni ai fini delle indagini.
    Tali  disposizioni  -  ad avviso del ricorrente - appaiono violare
 l'art. 112 della Costituzione,  in  relazione  agli  artt.  73  e  74
 dell'Ordinamento  giudiziario  (ove  si  riconosce  che  il  pubblico
 ministero "promuove la repressione dei reati") ed agli  artt.  358  e
 326 del codice processuale penale.
    Se  il  pubblico  ministero puo' raccogliere le dichiarazioni rese
 dalla  persona  sottoposta   ad   indagini,   dall'imputato   o   dal
 collaborante  non imputato o indagato solo con le formalita' previste
 dal codice di procedura penale, la sua attivita' e' finalizzata  alle
 determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale; e' di tutta
 evidenza,  allora,  che  imporre al pubblico ministero di raccogliere
 dichiarazioni a fini diversi e di portarle a conoscenza di un  organo
 amministrativo  appare  lesivo  delle  sue  attribuzioni ed in aperta
 violazione dell'art. 112 della Costituzione.
    Peraltro, quanto alla indicazione dei  "motivi  per  i  quali"  le
 dichiarazioni "sono ritenuto attendibili e importanti per le indagini
 o  per  il  giudizio",  e'  una  valutazione  esclusiva  del pubblico
 ministero ed attinente esclusivamente all'attivita' giudiziaria,  per
 cui  non  e'  suscettibile  di spiegazioni all'organo amministrativo,
 che, dal canto suo, deve solo stabilire le misure di protezione e  di
 assistenza,  i  criteri  di  formulazione  del  programma  e  le  sue
 modalita' di attuazione, e non  giudicare  se  il  collaboratore  sia
 attendibile  e  quale  importanza  abbia  per  le  indagini  o per il
 giudizio.
    Inoltre, prosegue il ricorrente,  la  prescritta  trasmissione  di
 copia  del  verbale  di dichiarazioni preliminari alla commissione si
 traduce in una indebita  compressione  della  potesta'  del  pubblico
 ministero di disporre la segretazione di atti di indagine. Ne' appare
 possibile  superare  tale  profilo  di  contrasto,  ritenendo  che il
 presupposto dell'esercizio del potere di cui al comma 3, lettera  a),
 dell'art.  329 del codice di procedura penale (la ritenuta necessita'
 per la prosecuzione delle indagini) coincida con quello della riserva
 di  trasmissione  (le   specifiche   ed   eccezionali   esigenze   di
 inopportunita')  di  cui  alla prima parte del comma 2 dell'art. 2 in
 esame: e cio' sia in ragione  della  obiettiva  diversita'  semantica
 delle  formule  normative,  sia in considerazione della diversita' di
 efficacia temporale dell'esercizio dell'uno e dell'altro  potere  del
 pubblico  ministero,  sia, infine, perche' la norma di cui al comma 4
 dell'art. 2 esige che in ogni caso la proposta menzioni il  contenuto
 del verbale di dichiarazioni preliminari.
    Altri  motivi  di  conflitto sorgono dal comma 3 dell'art. 1 circa
 l'utilizzazione  da  parte  della  commissione  degli  atti  e  delle
 informazioni  trasmessi  ex  art. 118 del codice di procedura penale:
 utilizzazione  ottenuta  violando  tale   norma,   che   prevede   la
 trasmissione   da   parte   dell'autorita'  giudiziaria  al  Ministro
 dell'interno, e non alla commissione, che ottiene cosi' gli atti e le
 informazioni per via trasversa.
    In definitiva, conclude  sul  punto  il  ricorrente,  nel  sistema
 stabilito  dal regolamento avviene non solo che la commissione (ed il
 Capo della polizia nel caso di cui all'art. 4) puo' utilizzare atti e
 informazioni trasmessi dall'autorita' giudiziaria  ex  art.  118  del
 codice  di procedura penale, ma che essa ha il diritto di ricevere il
 "verbale delle dichiarazioni preliminari alla  collaborazione"  o  il
 "verbale  di  informazioni ai fini delle indagini": questa disciplina
 (e la conseguente utilizzazione che dei  verbali  potra'  fare  detta
 commissione) convince ancor piu' che l'obbligo imposto in questo modo
 al  pubblico  ministero  e  non finalizzato all'esercizio dell'azione
 penale viola l'art. 112 della Costituzione.
    1.4. - Relativamente agli artt. 1, 3 e 4 del decreto ministeriale,
 l'invasione  della  sfera  di  attribuzione   appare   questa   volta
 correlarsi  -  prosegue  il ricorrente - al potere e alle prerogative
 previste dall'art. 108 della Costituzione, in  relazione  agli  artt.
 70,  70-bis  e  76-bis  dell'Ordinamento giudiziario, con riferimento
 all'art. 371-bis del codice di procedura penale.
    Attribuendo la formulazione di un parere al procuratore  nazionale
 antimafia nell'iter per l'approvazione del programma di protezione si
 incide    sulle   leggi   di   Ordinamento   giudiziario   richiamate
 espressamente nella norma costituzionale, atteso che il predetto art.
 371-bis , tra le funzioni ed i poteri del procuratore nazionale,  non
 prevede assolutamente tal genere di pareri.
   Deve,  anzi,  ritenersi,  ad  avviso  del ricorrente, che il parere
 introdotto dal regolamento non era proprio voluto dalla  legge,  come
 e'  dimostrato,  a  contrario  ,  dal  fatto  che  in  altri  casi il
 legislatore e' intervenuto (cfr. art. 13-bis  della  legge  15  marzo
 1991, n. 82).
    1.5.  -  Anche  l'art.  5  del regolamento incorrerebbe in censure
 dello stesso tipo di  quelle  precedenti,  questa  volta  riflettenti
 attribuzioni  riservate  al  pubblico ministero dagli artt. 101 e 104
 della Costituzione.
    Nel prevedere le ipotesi che possono  giustificare  o  imporre  la
 revoca  del  programma  e l'iter procedimentale da seguire, specifica
 l'art. 5, comma 4, che, nella  valutazione  sull'attualita'  e  sulla
 gravita' del pericolo, la commissione tiene conto del tempo trascorso
 dall'inizio  della collaborazione oltre che della fase e del grado in
 cui si trovano i procedimenti penali nei quali le dichiarazioni  sono
 state  rese,  e  che  la  valutazione delle dichiarazioni deve essere
 svolta con  riferimento  alla  loro  utilizzabilita'  nei  giudizi  e
 tenendo  conto  delle indicazioni offerte dalle autorita' giudiziarie
 competenti in ordine alle  verifiche  compiute  sulla  attendibilita'
 delle dichiarazioni medesime.  Ad avviso del ricorrente, quest'ultima
 disciplina  sovrappone  valutazioni  attinenti al pericolo incombente
 sul  collaboratore  di  giustizia  e   valutazioni   attinenti   alla
 utilizzazione  processuale  delle  sue  dichiarazioni,  le prime sole
 rientranti nella competenza della commissione,  come  definita  dalla
 legge, e in violazione delle norme costituzionali ricordate.
    1.6. - Infine - conclude il ricorrente -, in ordine all'art. 8 del
 regolamento,  nell'ambito  del  procedimento per l'applicazione della
 custodia extracarceraria, da  un  lato  attraverso  l'intervento  del
 Dipartimento  dell'Amministrazione  penitenziaria con il suo parere e
 dall'altro  attraverso  l'obbligo  di  costante  rivalutazione  delle
 condizioni  eccezionali  di sicurezza che determinarono la detenzione
 extracarceraria, appaiono interferenze con  i  poteri  dell'autorita'
 giudiziaria  in  tema  di  liberta' personale, garantiti dall'art. 13
 della Costituzione.
    2. - Con ordinanza  n.  216  del  1995,  questa  Corte,  ai  sensi
 dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953, ha dichiarato ammissibile il
 ricorso  nei  confronti  del  Governo  della  Repubblica. Il ricorso,
 unitamente all'indicata ordinanza, e' stato poi notificato a cura del
 ricorrente, nel termine assegnato, al Governo  della  Repubblica,  in
 persona del Presidente del Consiglio dei ministri.
    3.  - Si e' costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, in
 subordine,  infondato.    Il  ricorso  e'  inammissibile,  ad  avviso
 dell'Avvocatura  generale dello Stato, in quanto questa Corte avrebbe
 correttamente riconosciuto la legittimazione a proporre conflitti  di
 attribuzione  soltanto  agli organi giurisdizionali e mai agli organi
 del  pubblico  ministero,  che  non  sono   chiamati   a   dichiarare
 definitivamente  la  volonta'  del potere cui appartengono (e' citata
 l'ordinanza n. 17 recte, 16 del 1979).  Nel merito il ricorso sarebbe
 infondato,  poiche'  il  decreto  impugnato  e'  stato   emanato   in
 attuazione  di  una legge che il ricorrente non contesta e alla quale
 e' anch'egli sottoposto;  ne'  si  comprende,  conclude  l'Avvocatura
 dello  Stato,  come  il  potere  esecutivo  avrebbe potuto altrimenti
 attuare la collaborazione che la legge impone al pubblico  ministero,
 se non ponendo a carico di quest'ultimo l'obbligo di mettere in grado
 l'autorita'   preposta   al  programma  di  protezione  di  accertare
 l'entita'  del  rischio,  comunicando  ad  essa  tutte   le   notizie
 necessarie.
    4.1.  -  Ha  depositato  memoria  il  procuratore della Repubblica
 presso il Tribunale di Napoli.  La difesa del ricorrente  rileva,  in
 primo luogo, che, come gia' questa Corte ha riconosciuto nell'ord. n.
 216  del  1995,  sussistono  senza  dubbio  i requisiti soggettivi ed
 oggettivi del conflitto.  Quanto ai primi, si osserva,  da  un  lato,
 che  la legittimazione a sollevare conflitti e' stata riconosciuta al
 pubblico ministero con le sentenze nn. 462, 463 e 464 del 1993 e che,
 nella fattispecie, tale legittimazione spetta  al  procuratore  della
 Repubblica   presso   il   tribunale,   ai  sensi  dell'art.  11  del
 decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito  in  legge  15  marzo
 1991,  n.  82;  dall'altro,  che  il  legittimato  passivo  e'  stato
 giustamente individuato - con la predetta ordinanza n. 216/1995 - nel
 Governo della Repubblica, sia perche' il ricorrente ha effettivamente
 inteso  dolersi   delle   illegittime   interferenze   nell'attivita'
 giudiziaria  da parte del potere esecutivo nel suo complesso, per cui
 la Corte si e' limitata ad interpretare in tal senso il ricorso,  sia
 in  quanto,  secondo  la  piu'  autorevole  dottrina,  il  compito di
 stabilire l'organo cui il ricorso va notificato  spetta  allo  stesso
 giudice  costituzionale,  in  conformita',  del resto, ai principi di
 economia  processuale  e  di  salvaguardia  degli  atti  processuali,
 nonche'  alla  lettera  e allo spirito delle norme in materia dettate
 dalla legge n. 87 del 1953.  In ordine, poi, ai  requisiti  oggettivi
 del  conflitto,  non  vi  e' dubbio - prosegue il ricorrente - che le
 attribuzioni di cui si lamenta la lesione sono conferite al  pubblico
 ministero  direttamente  dalla  Costituzione;  inoltre,  quanto  alla
 idoneita' dell'atto impugnato ad  essere  oggetto  di  conflitto,  la
 natura normativa dello stesso non puo' essere di alcun ostacolo, dato
 che  nei  conflitti tra poteri un atto puo' addirittura mancare.  Per
 quanto riguarda, infine,  l'interesse  a  ricorrere,  e'  indubbio  -
 prosegue la difesa del ricorrente - ch'esso sia concreto e immediato.
 Il  conflitto in epigrafe non rientra certamente fra quelli meramente
 astratti ed ipotetici, che la giurisprudenza  costituzionale  ritiene
 inammissibili:  la  stessa  presenza  di un atto che si assume lesivo
 delle  attribuzioni  del  ricorrente  esclude  la  natura   meramente
 preventiva  del  conflitto,  che  certo  non  mira a fare della Corte
 costituzionale un "organo di  consulenza",  quale  indubbiamente  non
 puo'  essere.    Il  presente conflitto non e' preventivo neppure nel
 diverso e piu' debole senso di  conflitto  in  cui  una  delle  parti
 ricorre  alla  Corte  in  seguito  a  un  atto dell'altra che non sia
 immediatamente lesivo delle sue attribuzioni, ma solo affermativo  di
 competenza,  dal  cui  esercizio  tali attribuzioni potrebbero essere
 lese.  Infatti il conflitto in esame origina da un atto che determina
 un  immediato  pregiudizio  per  le  attribuzioni  costituzionalmente
 garantite   al  pubblico  ministero;  ne'  potrebbe  argomentarsi  in
 contrario dalla  natura  normativa  dell'atto  impugnato.    Neanche,
 infine,   avrebbe   senso  affermare  che  nei  confronti  d'un  atto
 amministrativo  illegittimo  il  ricorrente  potrebbe   limitarsi   a
 disapplicarlo,  salvaguardando per cio' solo le proprie attribuzioni,
 in   quanto   la   disapplicazione   dell'atto   impugnato   (qualora
 ammissibile)  non  potrebbe  assolutamente  equivalere  alla salvezza
 della sfera costituzionalmente riservata al pubblico  ministero,  che
 solo  dalla  (pur  parziale)  rimozione in radice dell'atto impugnato
 potrebbe essere ripristinata nella sua originaria integrita'.
    4.2. - Passando al merito della controversia, e muovendo anzitutto
 dagli artt. 2 e 4 del decreto impugnato, il  ricorrente  premette  un
 necessario  raffronto  tra  il  disegno  legislativo  in  ordine alla
 "protezione di coloro che collaborano con  la  giustizia"  e  la  sua
 distorta   ed  illegittima  "attuazione"  amministrativa,  dal  quale
 emergerebbe   la   clamorosa   collisione   dell'impugnato    decreto
 ministeriale   con  l'atto  normativo  primario  dal  quale  pretende
 legittimazione: da un lato, infatti, nessuna delle  indicazioni  rese
 necessarie  dall'art.  2,  comma  primo,  del decreto e' prevista dal
 decreto-legge n. 8 del 1991, ne' in alcuna  misura  e'  desumibile  -
 ancorche'   implicitamente   o   indirettamente   -  da  una  qualche
 disposizione ivi contenuta; dall'altro, le disposizioni dell'art.  2,
 commi  secondo  e terzo, contengono previsioni evidentemente ultra ma
 anche contra legem , atteso che il contenuto  della  proposta  e  del
 parere e' dalla legge stessa identificato con precisione, e senza che
 alcuno  spazio di discrezionalita' sia conferito all'amministrazione.
 Cio' premesso, le ricordate previsioni regolamentari confliggono,  ad
 avviso   del  ricorrente,  con  le  disposizioni  costituzionali  che
 determinano posizione e attribuzioni  del  pubblico  ministero.    In
 proposito   si  osserva  che  obbligatorieta'  dell'azione  penale  e
 indipendenza del pubblico  ministero  sono  due  facce  della  stessa
 medaglia,  tanto  che  - pur a negare l'applicabilita' dell'art. 101,
 comma 2, della Costituzione ai magistrati del  pubblico  ministero  -
 puo'  ben  dirsi  che  l'art.  112  sia  quantomeno un vero e proprio
 "corollario" di quel che e' l'art. 101, comma secondo, per i giudici,
 il quale esprime comunque il  valore  fondamentale  dell'indipendenza
 della  magistratura  nel  suo complesso.   La stretta connessione fra
 principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale e indipendenza  del
 pubblico ministero impone, da un lato, di considerare come violazioni
 del  primo  tutti  gli  ostacoli  che  all'effettiva  possibilita' di
 esercitare  l'azione  penale  vengono  opposti,   e   dall'altro   di
 considerare  come  attentati  alla  seconda  tutte  le violazioni del
 principio.  Il pubblico ministero - prosegue il ricorrente - esercita
 l'azione penale nelle forme indicate dal codice di  procedura  penale
 (e  dalle leggi speciali). Nell'ambito della menzionata normativa, la
 raccolta delle prove da utilizzare in giudizio e' finalizzata al solo
 scopo definito dall'art. 112 della Costituzione, e  non  puo'  essere
 distorta  al  perseguimento  di altra finalita'.  Inoltre, imporre al
 pubblico ministero la comunicazione alla commissione dei  motivi  che
 l'hanno indotto a valutare attendibili ed importanti le dichiarazioni
 del  proposto  comporta  un'illegittima  interferenza  nell'esercizio
 delle sue attribuzioni,  anche  qui  "torcendo"  atti  giudiziari  ad
 un'impropria   utilizzazione,   e   conferendo  alla  commissione  un
 implicito sindacato su valutazioni  riservate  alla  discrezionalita'
 del  magistrato  procedente,  essenziali  per l'esercizio dell'azione
 penale confidatagli dalla Costituzione.    Analoga  deviazione  dalle
 finalita' istituzionali e', poi, subita in seguito al principio della
 utilizzabilita'  da  parte  della commissione - prevista dall'art. 1,
 comma 3, del  decreto  -  delle  comunicazioni  degli  atti  e  delle
 informazioni  processuali,  effettuate  dall'autorita' giudiziaria al
 Ministro  dell'interno  ai  sensi  degli  artt.  118  del  codice  di
 procedura  penale; 1-quinquies del decreto-legge 6 settembre 1982, n.
 629; 102  del  d.P.R.  9  ottobre  1990,  n.  309.    Da  ultimo,  e'
 radicalmente  illegittimo  che  al  pubblico  ministero si imponga la
 rivelazione  ad  un  organo  amministrativo,   se   non   addirittura
 politico-amministrativo,  di  atti e notizie raccolte nell'ambito del
 suo potere - costituzionalmente garantito -  di  esercitare  l'azione
 penale,  con  violazione  del  segreto che ai sensi dell'art. 329 del
 codice di procedura penale grava  sugli  atti  delle  investigazioni,
 oltretutto  nella  misura  che  e'  ritenuta  necessaria dallo stesso
 pubblico ministero. E' del tutto evidente, infatti,  che  il  segreto
 investigativo   e'  strumentale  all'efficace  esercizio  dell'azione
 penale, costituzionalmente riservata al pubblico ministero.  Cio' che
 si lamenta e' pertanto la diretta violazione  dell'art.    112  della
 Costituzione,  che,  imponendo  al  pubblico  ministero di esercitare
 l'azione penale, non puo' non comportare il segreto investigativo  (e
 anche  lo  stesso potere di ampliare la segretazione) le quante volte
 questo sia strumentale all'adempimento dei doveri costituzionali  del
 pubblico  ministero  medesimo.   Sarebbe irragionevole opporre a cio'
 che gli atti della Commissione centrale e quelli  ad  essa  trasmessi
 sono coperti dal segreto d'ufficio (art. 1, comma quinto, del decreto
 impugnato).  E'  chiaro, infatti, che un pregiudizio per il principio
 del segreto investigativo e per il potere del pubblico  ministero  di
 modularne gli effetti si produce pel solo fatto della trasmissione ad
 un  organo amministrativo della documentazione prevista dagli artt. 2
 e 4 del decreto impugnato. Inoltre,  la  trasformazione  del  segreto
 investigativo  in  segreto  d'ufficio e' tutt'altro che irrilevante o
 "indolore", perche' la disciplina del segreto investigativo e  quella
 del  segreto  d'ufficio  sono ben diverse, essendo l'opponibilita' di
 quest'ultimo notevolmente attenuata.
    Con il colpo di bacchetta magica  di  un  decreto  ministeriale  -
 prosegue il ricorrente - si sono modificati natura e regime giuridico
 di  atti  delicatissimi,  essenziali  per il concreto esercizio delle
 attribuzioni conferite al  pubblico  ministero  dall'art.  112  della
 Costituzione.
    Va   aggiunto  che  il  rimedio  della  disapplicazione  dell'atto
 impugnato non verrebbe affatto a reintegrare il ricorrente nel  pieno
 dominio delle sue attribuzioni costituzionali. Disapplicare, infatti,
 significherebbe  precludersi qualsiasi possibilita' di ottenere dalla
 commissione l'ammissione del collaboratore al programma  speciale  di
 protezione,   eppercio'   in   definitiva  compromettere  l'esercizio
 dell'azione penale.  Piu' in generale, infine - conclude sul punto il
 ricorrente -, gli artt.  2  e  4  del  decreto  impugnato  ledono  le
 attribuzioni  costituzionali  del pubblico ministero pel fatto stesso
 d'essere affetti dal vizio di violazione di legge. Invero, in  virtu'
 degli  artt.  107, comma quarto, e 108, comma uno, della Costituzione
 (in una con gli artt. 104, comma 1, e 112), la disciplina relativa ai
 magistrati  del  pubblico  ministero  deve  essere dettata con legge,
 mentre, nelle parti  contestate,  il  regolamento  impugnato  risulta
 privo di qualunque base legislativa.
    4.3.  -  Venendo,  ora,  alle previsioni regolamentari concernenti
 l'affidamento  al  procuratore  nazionale  antimafia  del  potere  di
 rilasciare  un  parere  sulla  proposta  di  ammissione allo speciale
 programma di protezione (art. 3, cui si collegano gli artt. 1,  comma
 primo,  lett.  b),  e  4,  comma  secondo),  e'  agevole constatare -
 prosegue la difesa del ricorrente - come anche qui  ci  si  trovi  di
 fronte ad una chiara violazione di legge, in quanto nel decreto-legge
 n. 8 del 1991 ogni riferimento a tal genere di parere e' assente.  Di
 qui,  pertanto,  la  violazione  degli artt. 107, comma quarto, e 108
 della Costituzione, che solo alla legge  consentono  di  disciplinare
 gli  atti  e  i  poteri  che  possono  incidere sull'indipendenza del
 pubblico ministero. Nella specie, tale incidenza si produce anzitutto
 perche' il parere  del  procuratore  nazionale  antimafia  presuppone
 l'utilizzazione  di dati ottenuti per finalita' ben diverse da quelle
 previste dal decreto; dati che invece - anche qui -  finirebbero  per
 essere    (direttamente   o   indirettamente)   "girati"   all'organo
 amministrativo   commissione.   La   lesione    delle    attribuzioni
 costituzionali  del  pubblico  ministero,  pero',  si  produce  anche
 perche' il contenuto del parere del procuratore  nazionale  antimafia
 non  concerne  soltanto  gli  elementi  utili per la formulazione del
 programma  di  protezione,  ma  riguarda  anche  la  valutazione  dei
 pericoli  per  l'incolumita'  del  collaboratore,  e  addirittura  la
 valutazione dell'importanza del contributo da questi offerto.
    4.4. - Quanto all'art. 5 del decreto ministeriale n. 687 del 1994,
 attinente ai presupposti ed alla procedura della revoca del programma
 di protezione, l'impugnata disposizione risulta illegittima in  parte
 qua   per   l'interferenza   ch'essa   determina   con  la  posizione
 costituzionale del pubblico ministero, cui si impone di compiere atti
 non funzionali all'attribuzione che  costituzionalmente  gli  spetta,
 anche  -  eventualmente - in violazione del segreto che copre la fase
 delle investigazioni.
    4.5. - In ordine, infine, conclude il ricorrente, all'art.  8  del
 decreto ministeriale n. 687 del 1994, sussistono i medesimi vizi gia'
 precedentemente  evidenziati, cui si aggiunge la violazione dell'art.
 13  della  Costituzione,  nella   parte   in   cui   si   sottraggono
 all'autorita'  giudiziaria  provvedimenti  comunque  incidenti  sulla
 liberta' personale.
    5. - Ha depositato memoria  aggiuntiva  anche  il  Presidente  del
 Consiglio  dei ministri, insistendo nelle conclusioni gia' formulate.
 In particolare, l'Avvocatura dello Stato eccepisce  innanzitutto  tre
 profili di inammissibilita' del conflitto:
       a)  inesistenza  di un conflitto di attribuzioni, in quanto non
 sarebbe  sufficiente,  affinche'  sia  configurabile   un   contrasto
 concreto  ed  attuale,  la  posizione  della  norma,  essendo  invece
 necessario che essa sia in concreto applicata da uno  dei  poteri  in
 conflitto  e  che  a tale applicazione resista e si opponga il potere
 che si ritiene leso: nel caso di specie, sarebbe stato necessario che
 il ricorrente  avesse  chiesto  l'applicazione  di  un  programma  di
 protezione  e  tale  programma fosse stato negato per mancanza di uno
 degli  atti  che,  secondo  le  norme  regolamentari,  devono  essere
 allegati alla proposta;
       b) difetto di legittimazione dell'organo, in quanto il pubblico
 ministero, pur appartenendo al potere giudiziario, non ne dichiara la
 volonta'  e, comunque, il procuratore della Repubblica fa parte di un
 ufficio gerarchicamente strutturato ed organizzato il cui  organo  di
 vertice e' rappresentato dal procuratore generale della Repubblica;
       c)   difetto   di   interesse,  poiche'  il  procuratore  della
 Repubblica ben  potrebbe  ricorrere  alla  disapplicazione  dell'atto
 impugnato.     Nel  merito,  l'Avvocatura  dello  Stato  insiste  nel
 sostenere che il ricorrente non prende in  alcuna  considerazione  la
 fondamentale  circostanza  che  e'  la  normativa  primaria  e non il
 regolamento ad attribuire all'autorita' giudiziaria un mero potere di
 proposta  o  di  parere  ed  a  prevedere,  all'inverso,  che  spetti
 all'autorita'  amministrativa  il  ben piu' ampio potere di adottare,
 modificare e revocare il programma di  protezione,  modellandolo  con
 riferimento  a  tipo,  qualita'  e  rilevanza del contributo offerto.
 Proprio con riguardo alle disposizioni della normativa primaria si e'
 fin dall'inizio sostenuto che, nel  procedimento  di  protezione,  il
 ruolo  del  procuratore  della  Repubblica  e'  limitato  a quello di
 sponsor proprio  per  evitare  che  il  suo  diretto  interesse  alla
 "collaborazione"   possa   portarlo   ad  enfatizzarne  l'importanza,
 impedendo di conseguenza una  sua  corretta  analisi  e  comparazione
 rispetto agli altri casi: analisi e comparazione che spettano, invece
 ed   esclusivamente,   alla   commissione   proprio   per  conseguire
 un'omogeneita'  nei  criteri  di  valutazione  e  di   deliberazione.
 D'altronde,  se  fosse  vero  che  la  commissione  ha  solo funzioni
 "notarili" e che, debordando da esse, finisce inevitabilmente -  come
 sembra  ritenere il ricorrente - per "comprimere in modo illegittimo"
 i poteri della autorita' giudiziaria, non si  comprenderebbe  neppure
 il motivo per il quale l'art. 11, comma 3, della legge n. 82 del 1991
 impone  al  procuratore  della  Repubblica di riferire specificamente
 alla commissione il contributo offerto  o  che  puo'  essere  offerto
 dall'interessato  o  dal suo prossimo congiunto per lo sviluppo delle
 indagini o per il giudizio penale.  Le disposizioni della legge n. 82
 del  1991  -  prosegue  l'Avvocatura  dello  Stato  -  affidano  alla
 commissione  centrale  di  protezione  istituita  presso il Ministero
 dell'interno  il  compito  di  definire  ed  applicare   ai   singoli
 collaboratori  uno  speciale e individualizzato programma di tutela e
 assistenza che tenga luogo delle misure ordinarie di tutela in  tutti
 i  casi  in  cui  risulta  che queste sono inadeguate. Rientra dunque
 nella logica delle cose il conseguente potere  della  commissione  di
 pervenire alla delibera e alla individuazione dei suoi contenuti solo
 dopo  aver  avuto la possibilita' di acquisire ogni dato e ogni utile
 notizia, svolgendo di fatto un'attivita' istruttoria che la legge non
 disciplina, ma che prevede come indispensabile laddove (v.  art.  10,
 comma  secondo)  stabilisce che, per lo svolgimento dei suoi "compiti
 istruttori",  la  commissione   si   avvale   dell'Ufficio   per   il
 coordinamento e la pianificazione delle forze di polizia.
    Se  lette  nell'ottica  fin  qui  delineata,  le  disposizioni del
 regolamento non intaccano allora  la  sfera  delle  attribuzioni  del
 pubblico ministero ne' interferiscono sulla attivita' procedimentale:
 servono  solo  a "dimensionare" il collaboratore ai fini della scelta
 relativa all'opportunita' di sottoporlo a programma di  protezione  e
 di "individualizzare" quest'ultimo tenendo conto dello spessore della
 collaborazione, del pericolo che a questo consegue, della provenienza
 del  pericolo  stesso.    Da cio' deriva l'infondatezza delle singole
 censure mosse dal ricorrente.  Per quanto riguarda,  in  particolare,
 il  "verbale delle dichiarazioni preliminari alla collaborazione" (o,
 se si tratta di meri testimoni del  fatto  mafioso,  il  "verbale  di
 informazioni  ai  fini  delle  indagini")  che  il  procuratore della
 Repubblica e' tenuto a trasmettere alla commissione  in  una  con  la
 proposta,   deve   contestarsi  -  ad  avviso  dell'Avvocatura  -  la
 correttezza del rilievo, contenuto nel ricorso, secondo il  quale  la
 previsione  della "dichiarazione di intenti" determina una violazione
 del segreto investigativo.   Se la commissione e'  dotata  di  poteri
 istruttori  e se questi vanno attivati nell'immediatezza per evidenti
 fini tutori e di assistenza, e' fin troppo scontata la deduzione  che
 esiste  nella  specie una deroga generalizzata alle norme sul segreto
 previste dal codice di rito e che tale deroga risponde a finalita' di
 cooperazione istituzionale.  Sta di fatto, comunque, che gli atti dei
 quali  e'  prevista  la  trasmissione  alla  commissione   non   sono
 generalmente   coperti  dal  segreto  investigativo  perche'  gia'  a
 conoscenza  dell'imputato-collaboratore  e  percio'  suscettibili  di
 esser  rilasciati  in copia a chi vi abbia interesse (artt. 329 e 116
 del codice di procedura penale).  Con riferimento specifico poi  alla
 cosiddetta  dichiarazione  di  intenti,  i rilievi in tema di segreto
 sono  ancor  meno  condivisibili.     I   verbali   contenenti   tale
 dichiarazione  non possono infatti considerarsi atti del procedimento
 penale. Sono invece  atti  a  questo  estranei  essendo  finalizzati,
 viceversa ed esclusivamente, a regolamentare le modalita' applicative
 della  previsione  dell'art. 11, comma 3, della legge n. 82 del 1991.
 Di conseguenza, essi non fanno parte del fascicolo di  indagine,  pur
 essendo  redatti  con  le forme (verbale) e le modalita' (con o senza
 l'assistenza del difensore) previste per tutti gli atti del  pubblico
 ministero  per  l'ovvio,  ma  ben  diverso  fine, di garantire sia il
 dichiarante sia l'autore dell'atto.
    Cio' vuol dire, nella sostanza, che il regolamento non  impone  al
 procuratore  della  Repubblica  di  compiere  un atto di indagine non
 previsto  dalla  legge,  ma  di   compiere   un   atto   a   "valenza
 amministrativa",propedeutico  e complementare rispetto al complessivo
 quadro valutativo che la commissione ha diritto di acquisire.
                        Considerato in diritto
    1. - Il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli
 ha sollevato conflitto di attribuzione  nei  confronti  del  Ministro
 dell'interno  e  del  Ministro  di grazia e giustizia in relazione al
 decreto 24 novembre 1994, n. 687 (Regolamento recante  norme  dirette
 ad  individuare i criteri di formulazione del programma di protezione
 di coloro che collaborano con la giustizia e le relative modalita' di
 attuazione) - emanato dal Ministro dell'interno di  concerto  con  il
 Ministro di grazia e giustizia -, chiedendo, in particolare, a questa
 Corte  di  annullare gli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 8 del decreto medesimo
 per  violazione  degli  artt.  13,  101,  104,  108   e   112   della
 Costituzione.
    Le  censure proposte dal ricorrente, come chiaramente emerge dalla
 lettura del  ricorso,  si  articolano  nei  seguenti  quattro  gruppi
 distinti,  per  ciascuno  dei  quali  -  avente ad oggetto una o piu'
 disposizioni dell'atto impugnato - viene prospettata  la  lesione  di
 differenti parametri costituzionali.
     A)  Il  primo  gruppo  di censure investe i seguenti articoli del
 decreto:
      art. 1, comma 3, il quale prevede che, quando e'  necessario  al
 fine   di   prevenire   gravi  delitti  che  attentano  alla  vita  o
 all'incolumita' di  coloro  che  collaborano  con  la  giustizia,  la
 commissione  centrale  di cui all'art. 10, comma 2, del decreto-legge
 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni  dalla  legge  15
 marzo  1991,  n. 82, puo' utilizzare anche gli atti e le informazioni
 trasmessi dall'autorita' giudiziaria a norma dell'art. 118 del codice
 di  procedura  penale,  ovvero  a  norma  dell'art.  1-quinquies  del
 decreto-legge   6   settembre   1982,   n.   629,   convertito,   con
 modificazioni, dalla legge 12 ottobre 1982, n. 726, o  dell'art.  102
 del   testo   unico  delle  leggi  in  materia  di  disciplina  degli
 stupefacenti   e   sostanze   psicotrope,   prevenzione,    cura    e
 riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con
 d.P.R.  9 ottobre 1990, n. 39; art. 2, nella parte in cui prevede che
 la proposta del  procuratore  della  Repubblica  di  ammissione  allo
 speciale  programma  di  protezione  (ovvero  il  parere dello stesso
 procuratore, quando la proposta e'  effettuata  da  altra  autorita')
 deve contenere l'indicazione dei principali fatti criminosi sui quali
 il soggetto proposto sta rendendo le dichiarazioni e dei motivi per i
 quali  esse  sono ritenute attendibili e importanti per le indagini o
 per il giudizio, ed altresi' la precisazione circa la sussistenza  di
 elementi   che   confermano   l'attendibilita'   delle  dichiarazioni
 acquisite (comma 1); nonche' nella parte  in  cui  dispone  che  alla
 proposta  (o  al  parere)  deve essere allegato, salvo che sussistano
 specifiche ed eccezionali esigenze  che  ne  rendano  inopportuna  la
 immediata  trasmissione (nel qual caso occorre comunque fare menzione
 del suo contenuto nella proposta), il  "verbale  delle  dichiarazioni
 preliminari    alla   collaborazione"   (contenente,   fra   l'altro,
 l'esposizione dei dati utili alla ricostruzione dei fatti di maggiore
 gravita' e allarme sociale di cui il soggetto e' a conoscenza,  oltre
 che  alla  individuazione  e  alla  cattura dei loro autori), ovvero,
 quando si tratti di  soggetto  estraneo  a  gruppi  criminali  e  che
 assume,  rispetto  al  fatto  ovvero  rispetto  a  fatti  connessi  o
 collegati, esclusivamente la qualita' di persona offesa, testimone  o
 persona  informata  sui  fatti,  il  "verbale di informazioni ai fini
 delle indagini" ( commi 2, 3 e 4); art. 4, comma 2,  nella  parte  in
 cui  prevede  che  il  capo  della  Polizia-direttore  generale della
 pubblica sicurezza adotta, in casi di  particolare  urgenza  che  non
 consentono  di attendere le deliberazioni della commissione centrale,
 le misure necessarie sulla base della proposta del procuratore  della
 Repubblica   o,  quantomeno,  di  una  dettagliata  segnalazione  (di
 contenuto semplificato, ma pure alla quale va allegato il verbale  di
 cui  all'art.  2,  di cui altrimenti occorre riportare il contenuto o
 comunque attestare l'acquisizione).   In ordine alle  norme  indicate
 viene  denunciata  la violazione dell'art. 112 della Costituzione, il
 quale sancisce il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale e
 costituisce, nel contempo, ad avviso  del  ricorrente,  il  parametro
 costituzionale  da  cui  discende  la  garanzia dell'indipendenza del
 pubblico ministero. La violazione e' prospettata sotto vari  profili:
 perche'   si   impone   al   pubblico   ministero   una  raccolta  di
 dichiarazioni, finalizzata al  perseguimento  di  uno  scopo  diverso
 dall'esercizio (obbligatorio) dell'azione penale, l'unico previsto in
 Costituzione, con deviazione, quindi, dell'attivita' d'indagine dalla
 sua  funzione  istituzionale;  perche' l'esercizio dell'azione penale
 subisce un'illegittima interferenza a seguito del  conferimento  alla
 commissione  di  un  implicito  sindacato su valutazioni riservate al
 magistrato  e  funzionali  a  tale  esercizio;  perche',  infine,  la
 normativa  in  esame comporta la violazione del segreto investigativo
 (nonche' del potere di  ampliare  l'ambito  della  segretazione),  il
 quale  e' strettamente strumentale all'efficace esercizio dell'azione
 penale, non assumendo d'altra parte alcun rilievo il  fatto  che  gli
 atti  pervenuti  alla  commissione centrale siano coperti dal segreto
 d'ufficio.
     B) Il secondo gruppo di  censure  concerne  gli  artt.  1,  comma
 primo,  lettera b), 3 e 4 del decreto impugnato, in quanto prevedono,
 in  determinati  casi,  l'acquisizione  del  parere  del  procuratore
 nazionale antimafia prima della formulazione dello speciale programma
 di protezione, o dell'adozione delle misure urgenti da parte del Capo
 della polizia.
    E'  in  questo  caso  denunciata la violazione dell'art. 108 della
 Costituzione   -   il   quale   riserva   alla   legge   la   materia
 dell'ordinamento  giudiziario  -,  in quanto la formulazione di detto
 parere non e' prevista da nessuna norma di legge, in particolare  ne'
 dall'art.   371-bis   del   codice   di  procedura  penale,  ne'  dal
 decreto-legge n. 8 del 1991, convertito dalla legge n. 82  del  1991,
 da cui trae origine il regolamento in esame.
     C)  La  terza  censura  riguarda  l'art. 5, comma 4, del decreto,
 nella  parte  in  cui  prevede  che  la  commissione,  nel   valutare
 l'attualita'  e gravita' del pericolo ai fini dell'eventuale modifica
 o revoca del programma di protezione, deve, fra l'altro, valutare  le
 dichiarazioni  anche  con  riferimento  alla loro utilizzabilita' nei
 giudizi e tenendo conto delle  indicazioni  offerte  dalle  autorita'
 giudiziarie  competenti  in  ordine  alle  verifiche  compiute  sulla
 attendibilita'  delle  dichiarazioni  medesime.     Ad   avviso   del
 ricorrente,  detta disciplina, attribuendo alla commissione il potere
 di esprimere valutazioni  attinenti  alla  utilizzazione  processuale
 delle  dichiarazioni  del collaboratore, viola attribuzioni riservate
 al pubblico ministero dagli artt. 101 e 104 della Costituzione.
     D) E', infine, oggetto di censura l'art. 8 del decreto - relativo
 alla custodia in luoghi diversi dagli istituti penitenziari -,  nella
 parte  in  cui  prevede,  da  un  lato,  il  parere  del Dipartimento
 dell'Amministrazione penitenziaria in  ordine  all'attuale  idoneita'
 della    custodia   in   istituto   penitenziario   a   salvaguardare
 efficacemente ogni esigenza  di  sicurezza  relativa  al  detenuto  o
 all'internato, e, dall'altro, l'obbligo dell'autorita' giudiziaria di
 rivalutare, almeno ogni tre mesi, la sussistenza dei gravi ed urgenti
 motivi di sicurezza che avevano imposto la custodia extracarceraria.
    Vengono  denunciate,  in  questo  caso,  interferenze con i poteri
 dell'autorita' giudiziaria in tema di liberta'  personale,  garantiti
 dall'art. 13 della Costituzione.
    2.1.  -  Occorre preliminarmente verificare, in via definitiva, la
 sussistenza dei requisiti, indicati nell'art. 37 della  legge  n.  87
 del  1953,  per  l'ammissibilita'  del  conflitto, gia' oggetto di un
 primo e sommario giudizio delibativo conclusosi  con  l'ordinanza  n.
 216 del 1995.
    2.2. - Come questa Corte ha gia' avuto modo di affermare (sentenze
 nn.  462, 463 e 464 del 1993), il pubblico ministero e' indubbiamente
 legittimato a sollevare conflitti di attribuzione  fra  poteri  dello
 Stato,  in quanto - ai sensi dell'art. 112 della Costituzione - e' il
 titolare diretto ed esclusivo dell'attivita'  d'indagine  finalizzata
 all'esercizio (obbligatorio) dell'azione penale: con riferimento allo
 svolgimento  di  detta  funzione  e'  stata,  cioe',  riconosciuta al
 pubblico ministero,  organo  non  giurisdizionale,  la  competenza  a
 dichiarare  definitivamente  la  volonta'  del potere giudiziario cui
 appartiene, cosi' come richiesto dal citato art. 37 della legge n. 87
 del 1953.
    Ne deriva che deve attribuirsi a detto organo la legittimazione  a
 proporre    conflitto   esclusivamente   quando   agisce   a   difesa
 dell'integrita' della competenza inerente  all'esercizio  dell'azione
 penale, competenza della quale e' direttamente investito dalla citata
 norma   costituzionale   e   in  ordine  alla  quale  e'  fornito  di
 istituzionale  indipendenza  rispetto  ad  ogni  altro  potere.    Va
 osservato,  poi,  in particolare, relativamente all'invocato art.  13
 della Costituzione (v., sopra, punto 1, lettera D)), che e' pur  vero
 che  questa  Corte ha riconosciuto al pubblico ministero la qualifica
 di autorita' giudiziaria ai sensi di detta norma  (cfr.,  da  ultimo,
 sentenza n. 419 del 1994), ma con la importante precisazione che tale
 organo puo' si' disporre misure restrittive della liberta' personale,
 soltanto   pero'   con   carattere   di   provvisorieta',   e   cioe'
 esclusivamente  nell'ambito  di  un  procedimento  che,  entro  brevi
 termini,  conduca  necessariamente  all'intervento  di un giudice per
 l'adozione definitiva del provvedimento: tanto basta per ritenere  la
 carenza   di   legittimazione  del  pubblico  ministero  a  sollevare
 conflitti con riferimento alle attribuzioni di cui all'art. 13  della
 Costituzione.    Per  quanto  concerne,  inoltre,  le  censure  sopra
 indicate alle lettere B) e C) - premesso  che  occorre  ribadire  che
 esse,  cosi' come quella di cui alla lettera D), sono prospettate nel
 ricorso in modo del tutto distinto dalla prima e tra di  loro  -,  va
 rilevato,  da  un  lato,  che,  poiche'  la  garanzia  costituzionale
 dell'indipendenza del pubblico  ministero  ha  la  sua  sede  propria
 nell'art.  112, non e' invocabile, quale base idonea ad instaurare un
 conflitto  di  attribuzione,  l'art.  101,   secondo   comma,   della
 Costituzione; dall'altro, relativamente ai richiamati artt. 104 e 108
 della  Costituzione,  che  non e' neppure dedotto nel ricorso come la
 loro asserita violazione ridondi in lesione delle competenze  di  cui
 al citato art. 112 della Carta.  Ne consegue, in definitiva, che deve
 riconoscersi  la sussistenza, nel caso in esame, della legittimazione
 attiva  del  ricorrente  esclusivamente  in  relazione  alle  censure
 concernenti  gli artt. 1, comma terzo, 2, commi primo, secondo, terzo
 e quarto, e 4, comma secondo, del decreto impugnato, come specificate
 nella lettera A) del punto 1, soltanto in  ordine  alle  quali  viene
 denunciata  la  lesione  delle attribuzioni di cui all'art. 112 della
 Costituzione.  Ne' ha fondamento, al riguardo, l'eccezione  sollevata
 dall'Avvocatura   dello   Stato,   secondo   cui   la  legittimazione
 processuale spetterebbe, in ogni caso, al procuratore generale presso
 la Corte d'appello, organo di vertice dell'ufficio, dotato del potere
 di avocazione ai sensi degli artt. 412 e 413 del codice di  procedura
 penale:   da  un  lato,  infatti,  la  normativa  censurata  ha  come
 destinatari i procuratori della  Repubblica;  dall'altro,  come  gia'
 ritenuto  da  questa  Corte  in  precedenti occasioni (cfr. le citate
 sentenze  nn. 462 e 463 del 1993), il potere di avocazione attribuito
 al  procuratore  generale  presso  la  Corte  d'appello,  costituendo
 soltanto  uno  strumento  di  garanzia  contro l'inerzia del pubblico
 ministero, non  ha  alcuna  incidenza  attuale  sulla  legittimazione
 processuale  in  relazione  alle  attribuzioni  oggetto  del presente
 conflitto.   Deve, invece,  per  i  motivi  su  esposti,  dichiararsi
 inammissibile il conflitto sollevato dal procuratore della Repubblica
 presso  il  Tribunale  di Napoli in ordine agli artt. 1, comma primo,
 lettera b), 3, 4, 5, comma quarto, e 8 del  decreto  n.  687  del  24
 novembre  1994  per  violazione  degli artt. 13, 101, 104 e 108 della
 Costituzione.
    2.3. - Per quanto  concerne  la  legittimazione  a  resistere  nel
 presente giudizio, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte
 le  attribuzioni  dei singoli ministri non assumono - di regola - uno
 specifico rilievo costituzionale nei rapporti con la magistratura (se
 non  nel  caso  delle  competenze  direttamente   ed   esclusivamente
 conferite  al Ministro di grazia e giustizia dagli artt. 107, secondo
 comma, e 110 della Costituzione), in quanto il potere  esecutivo  non
 costituisce  un potere "diffuso", bensi' si risolve, sotto il profilo
 che qui interessa, nell'intero Governo, abilitato a prendere parte ai
 conflitti tra i  poteri  dello  Stato  in  base  alla  configurazione
 dell'organo stabilita nel primo comma dell'art. 95 della Costituzione
 (cfr.  sentenze  nn.  383  del  1993,  379  del  1992,  150 del 1981;
 ordinanze nn. 38 del 1986, 123 del 1979).
    Tuttavia, la circostanza che il ricorrente abbia indicato in primo
 luogo nel Ministro dell'interno il  soggetto  nei  cui  confronti  il
 conflitto    veniva    proposto    non   puo'   costituire   ostacolo
 all'ammissibilita'   del   conflitto   medesimo   per   carenza    di
 legittimazione   passiva   dell'organo   anzidetto.   Deve,  infatti,
 ritenersi che, ai sensi dell'art. 37, quarto comma, della legge n. 87
 del 1953 (secondo cui "Se la Corte ritiene che esiste la  materia  di
 un  conflitto  la cui risoluzione spetti alla sua competenza dichiara
 ammissibile  il  ricorso  e  ne  dispone  la  notifica  agli   organi
 interessati"),  spetta  a  questa  Corte,  al  di  la'  della formale
 indicazione   del    ricorrente,    l'identificazione    dell'"organo
 interessato"  cui  l'atto  asseritamente  invasivo  va imputato ed al
 quale, quindi, il ricorso deve essere notificato, non esistendo,  nei
 giudizi  in  esame,  alcuna forma di vocatio in ius.  Pertanto, nella
 fattispecie, come gia' affermato nell'ordinanza n.    216  del  1995,
 l'organo  legittimato  a  resistere  va individuato nel Governo della
 Repubblica, al quale l'atto  impugnato  e'  da  ritenersi  imputabile
 (cfr.  art. 5, comma secondo, lettera c), della legge 23 agosto 1988,
 n.  400).     Deve,   poi,   essere   ribadita   l'esclusione   della
 legittimazione  passiva  del  Ministro  di  grazia e giustizia: nella
 fattispecie,  infatti,  poiche'  il  decreto  e'  stato  emanato  dal
 Ministro  dell'interno,  di  concerto  con  il  Ministro  di grazia e
 giustizia, l'intervento di quest'ultimo si  e'  inserito  nella  fase
 preparatoria   del  provvedimento  (alla  quale  tipicamente  attiene
 l'attivita' di concerto),  con  la  conseguenza  che  la  titolarita'
 dell'atto  va  attribuita, almeno sotto il profilo che qui interessa,
 al Ministro dell'interno.
    2.4. - Sotto il profilo oggettivo non c'e' dubbio che ricorrono  i
 requisiti  previsti  dall'art. 37 della legge n. 87 del 1953, secondo
 cui sono risolti da questa Corte i conflitti tra poteri  dello  Stato
 insorti "per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata
 per  i  vari poteri da norme costituzionali": nei limiti, infatti, in
 cui il conflitto ha superato lo scrutinio di ammissibilita' sotto  il
 profilo  dei  requisiti soggettivi, e' lamentata nella fattispecie la
 lesione delle attribuzioni conferite al pubblico ministero  dall'art.
 112  della  Costituzione  ad  opera  di un atto imputabile al Governo
 della Repubblica (art. 95 della Costituzione).    Il  Presidente  del
 Consiglio    dei    ministri    ha   sollevato   due   eccezioni   di
 inammissibilita', entrambe attinenti al profilo della sussistenza  di
 una  oggettiva  situazione  di  conflitto.   Questo sarebbe, in primo
 luogo, inesistente per carenza dei requisiti dell'attualita' e  della
 concretezza,  in  quanto  non sarebbe sufficiente la semplice vigenza
 della norma  regolamentare  asseritamente  invasiva,  essendo  invece
 necessario  che la stessa sia in concreto applicata da uno dei poteri
 in conflitto e che a tale applicazione si opponga il  potere  che  si
 ritiene   leso:   nella  specie,  sarebbe  stato  necessario  che  il
 ricorrente  avesse  chiesto  l'applicazione  di   un   programma   di
 protezione  in relazione ad uno specifico soggetto e che il programma
 fosse stato negato per mancanza  di  uno  degli  elementi  prescritti
 dalle  norme  impugnate.   L'eccezione non puo' essere condivisa.  Ai
 fini dell'ammissibilita' dei conflitti di attribuzione  quel  che  e'
 richiesto e' l'interesse ad agire, la cui sussistenza e' necessaria e
 sufficiente  a  conferire  al  conflitto gli indispensabili caratteri
 della concretezza e dell'attualita',  non  potendo  la  Corte  essere
 adita  a  scopo  meramente  consultivo,  per  pronunciarsi, cioe', su
 astratte formulazioni di ipotesi (cfr. sentenza n. 164 del 1963,  sia
 pur relativa ad un conflitto tra enti). Cio' premesso, deve ritenersi
 che  tale  requisito  nella fattispecie sia gia' pienamente presente:
 non puo', infatti, negarsi che  l'emanazione  di  un  atto  normativo
 quale  quello  in  esame  - per sua natura generale ed astratto -, in
 quanto prevede obblighi immediati e diretti a carico dei  procuratori
 della  Repubblica,  integri di per se' indubbiamente un comportamento
 idoneo a far insorgere nel ricorrente l'interesse  alla  eliminazione
 del   pregiudizio   che,   a  suo  avviso,  ne  deriva  alle  proprie
 attribuzioni costituzionali; e cio' senza che  occorra  attendere  il
 concreto  esercizio  delle medesime in relazione ad un caso specifico
 (quasi a voler applicare anche nei giudizi sui conflitti il requisito
 della "rilevanza" tipico dei  giudizi  incidentali),  condizione  non
 richiesta   dall'ordinamento  per  l'insorgere  di  un  conflitto  di
 attribuzione.
    In secondo luogo, l'Avvocatura dello Stato eccepisce il difetto di
 interesse  del  ricorrente,  ben  potendo,  a  suo   avviso,   questi
 esercitare  il potere di disapplicazione dell'atto impugnato ritenuto
 illegittimo.  Anche questa eccezione deve  essere  rigettata.    Come
 esattamente osserva la difesa del ricorrente, infatti, pur ammettendo
 in ipotesi che al pubblico ministero spetti detto potere, e' decisivo
 rilevare che il suo eventuale esercizio non sarebbe comunque idoneo a
 far  venir meno l'interesse del ricorrente all'annullamento dell'atto
 impugnato, da  cui  soltanto  conseguirebbe  la  piena  ed  effettiva
 reintegrazione  della  propria  sfera  di  attribuzioni asseritamente
 lesa: e questo a prescindere  dall'ulteriore  considerazione  che  la
 disapplicazione,  nella fattispecie, si rivelerebbe del tutto inutile
 - ed anzi a sua volta pregiudizievole -, in quanto  precluderebbe  in
 radice l'ammissione ai programmi di protezione.
    3.  - Ai fini dell'esame, nel merito, delle censure in ordine alle
 quali il conflitto e' stato ritenuto ammissibile, occorre  premettere
 alcune  brevi considerazioni sulla disciplina legislativa da cui trae
 origine il regolamento impugnato.
    Nel  quadro  di  un'ampia  serie   di   interventi   operati   dal
 legislatore, soprattutto a partire dal 1991, in favore dei cosiddetti
 collaboratori   di   giustizia,  con  gli  artt.  9  e  seguenti  del
 decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito,  con  modificazioni,
 dalla  legge  15  marzo 1991, n. 82, e' stato introdotto per la prima
 volta nel nostro ordinamento un complesso organico di norme  in  tema
 di  protezione dei collaboratori medesimi, ritenuta ormai un'esigenza
 urgente ed indilazionabile.  In sintesi, e per  quanto  interessa  ai
 fini  della  decisione, dopo aver individuato, all'art. 9, i soggetti
 da proteggere nelle "persone esposte a grave e attuale  pericolo  per
 effetto  della  loro  collaborazione  o  delle dichiarazioni rese nel
 corso delle indagini preliminari o del  giudizio",  relativamente  ai
 delitti  per i quali e' obbligatorio l'arresto in flagranza (art. 380
 del  codice  di  procedura  penale),  -  nonche'  nei  loro  prossimi
 congiunti,  nei  conviventi  e  in  quanti  altri sono esposti a tale
 pericolo a causa delle relazioni intrattenute con le persone suddette
 -, il  legislatore  ha  stabilito,  all'art.  10,  che,  in  caso  di
 inadeguatezza  delle  ordinarie  misure  di  tutela  adottabili dalle
 autorita' competenti e qualora  il  pericolo  derivi  dagli  elementi
 forniti  o  che  i  soggetti  possono  fornire  per lo sviluppo delle
 indagini o per  il  giudizio,  "puo'  essere  definito  uno  speciale
 programma di protezione, comprendente, se necessario, anche misure di
 assistenza".  La  definizione e l'applicazione di tale programma sono
 affidati ad una commissione centrale presieduta da un Sottosegretario
 di Stato e composta da  due  magistrati  con  particolare  esperienza
 nella trattazione di processi per fatti di criminalita' organizzata e
 da   cinque  funzionari  e  ufficiali  esperti  nel  settore;  mentre
 l'individuazione delle misure di protezione e di assistenza,  nonche'
 dei  criteri  di  formulazione  del  programma  e  delle modalita' di
 attuazione, e' demandata ad un decreto del Ministro dell'interno,  di
 concerto  con  il Ministro di grazia e giustizia, sentiti il Comitato
 nazionale dell'ordine e della sicurezza  pubblica  e  la  commissione
 centrale  anzidetta.    Ai sensi del successivo art. 11, l'ammissione
 allo speciale programma di protezione, i contenuti e la durata  dello
 stesso,  vanno "valutati in rapporto al rischio per l'incolumita' del
 soggetto a causa delle dichiarazioni rese o che egli puo' rendere"  e
 sono  "deliberati di volta in volta dalla commissione di cui all'art.
 10, su proposta motivata del procuratore della  Repubblica"  (ovvero,
 previo parere favorevole di questi, di altre autorita'); "la proposta
 deve  contenere  le  notizie e gli elementi concernenti la gravita' e
 l'attualita' del pericolo  cui  le  persone  sono  o  possono  essere
 esposte   per  effetto  della  loro  scelta  di  collaborare  con  la
 giustizia"; il parere (o la proposta, di cui non si fa menzione nella
 norma per un mero errore di coordinamento in sede di conversione  del
 decreto)   "deve   fare   riferimento  specifico  all'importanza  del
 contributo offerto o che puo' essere offerto dall'interessato  o  dal
 suo  prossimo  congiunto  per  lo  sviluppo  delle  indagini o per il
 giudizio penale". E' anche  previsto  che  "in  casi  di  particolare
 urgenza,  le misure necessarie sono adottate dal Capo della polizia -
 direttore generale della pubblica sicurezza, il quale ne  informa  il
 Ministro".
    Dall'esame delle citate disposizioni risulta che il legislatore ha
 inteso  affidare  -  anche  sulla  base  di modelli stranieri - ad un
 organismo  collegiale  centralizzato  il  processo   decisionale   di
 ammissione  ai  programmi  di protezione, sia allo scopo di sottrarre
 agli organi giudiziari compiti estranei alle loro funzioni, dei quali
 di fatto si erano assunti l'onere, sia evidentemente - e  soprattutto
 -  al  fine  di  assicurare  omogeneita' di criteri ed uniformita' di
 trattamento su tutto il territorio nazionale in ordine all'ammissione
 e alla determinazione dei contenuti dei programmi  medesimi,  tenendo
 anche  conto  delle risorse disponibili in rapporto all'elevato onere
 di mezzi e di spese  che  solitamente  tali  misure  comportano.  Per
 l'esercizio  del  proprio potere decisionale, spetta alla commissione
 centrale la  funzione  essenziale  di  stabilire,  con  discrezionale
 valutazione,  l'entita'  del  pericolo  cui  il soggetto e' esposto -
 commisurata ai vari  elementi  previsti  dalla  legge  e  soprattutto
 all'importanza,  allo  "spessore"  della  collaborazione  -,  il  cui
 apprezzamento e' determinante ai fini dell'ammissione al programma  e
 della  sua  individualizzazione, chiaramente prescritta dalla legge e
 funzionale alla migliore efficacia della protezione.  Cio' posto, non
 c'e' dubbio che  la  creazione  di  detto  organismo  sia  diretta  a
 soddisfare  esigenze  di  razionalizzazione  largamente  avvertite  e
 rispondenti, sotto alcuni aspetti, anche  ad  interessi  generali  di
 rilievo  costituzionale.  Ne deriva che i rapporti tra la commissione
 centrale e le autorita' giudiziarie devono essere inseriti, e  devono
 quindi  svolgersi,  in  linea  generale, in un quadro di cooperazione
 istituzionale, allo scopo comune di una piu' razionale protezione dei
 collaboratori di giustizia e, quindi,  in  definitiva,  di  una  piu'
 efficace azione contro le organizzazioni criminali.
    4.  -  Passando  all'esame  delle  singole  censure  formulate dal
 ricorrente, si rivela in primo luogo non fondata  quella  concernente
 l'art.  1, comma terzo, del regolamento n. 687, ai sensi del quale la
 commissione centrale, quando  e'  necessario  al  fine  di  prevenire
 attentati alla vita o all'incolumita' dei collaboratori di giustizia,
 puo'   utilizzare   atti   e  informazioni  trasmessi  dall'autorita'
 giudiziaria al Ministro dell'interno in base alla normativa  vigente.
 Premesso  che,  ove  l'autorita'  giudiziaria  ritenga  di  non poter
 derogare al segreto investigativo, la richiesta  di  trasmissione  di
 detti  atti o informazioni puo' essere rigettata (art. 118 del codice
 di  procedura   penale),   ovvero   la   trasmissione   puo'   essere
 procrastinata per il tempo strettamente necessario (artt. 1-quinquies
 del  decreto-legge n. 629 del 1982, convertito dalla legge n. 726 del
 1982, e 102 del d.P.R. n. 309 del 1990), non si vede come la semplice
 attribuzione della facolta' di utilizzare tali atti o informazioni  -
 gia' trasmessi al Ministro dell'interno e in ordine ai quali, quindi,
 si  e'  ritenuto che non sussistessero particolari esigenze di tutela
 del segreto investigativo - ad un organo quale quello in esame e  per
 le  finalita'  di  prevenzione suddette possa, di per se', costituire
 violazione dell'invocato art. 112 della Costituzione.
    5.1. - Le censure relative agli artt. 2 e 4 del decreto  in  esame
 vanno   esaminate   congiuntamente   (cosi'  come,  del  resto,  sono
 prospettate), in quanto la seconda delle norme citate -  relativa  al
 potere del Capo della polizia di adottare misure di protezione in via
 di urgenza, in attesa delle deliberazioni della commissione - rinvia,
 come  s'e'  visto  sopra,  all'art.  2  in  ordine ai contenuti della
 proposta del procuratore della Repubblica e stabilisce, inoltre,  una
 disciplina  analoga  anche  in  ordine  al  verbale  di  informazioni
 preliminari alla collaborazione nel  caso  in  cui  la  proposta  sia
 sostituita  da  una semplice segnalazione.   In ordine al comma primo
 dell'art. 2 la censura  del  ricorrente  si  incentra  essenzialmente
 sulla  previsione  secondo cui nella proposta del procuratore (ovvero
 nel parere quando la proposta e'  di  altra  autorita'),  oltre  alla
 indicazione  dei  principali  fatti  criminosi su cui il soggetto sta
 rendendo le dichiarazioni, occorre precisare i  motivi  per  i  quali
 esse  sono ritenute attendibili e importanti per le indagini o per il
 giudizio, nonche' l'eventuale esistenza di  elementi  che  confermano
 detta attendibilita'.  La censura non e' fondata.  Occorre premettere
 che  la  norma in esame non impone al procuratore della Repubblica di
 raccogliere determinate dichiarazioni dal soggetto proposto e nemmeno
 di trasmettere copie di atti o di verbali; essa si limita a stabilire
 il contenuto della motivazione in  base  alla  quale  il  procuratore
 intende   formulare   la  proposta  di  ammissione  al  programma  di
 protezione  (ovvero  esprimere  il  parere  sulla  proposta  altrui).
 Orbene,  deve  escludersi  che tale disciplina violi l'art. 112 della
 Costituzione sotto alcuno dei profili prospettati nel  ricorso.    Va
 anche qui ribadito che l'obbligatorieta' dell'azione penale, punto di
 convergenza  di  un complesso di principi del sistema costituzionale,
 costituisce la fonte essenziale della garanzia dell'indipendenza  del
 pubblico  ministero  (cfr.  sentenze  nn. 88 del 1991 e 84 del 1979).
 Tuttavia, tale principio non comporta che debba ritenersi in assoluto
 preclusa ne'  l'attribuzione  al  pubblico  ministero  di  compiti  e
 funzioni   non  strettamente  "d'indagine",  cioe'  non  direttamente
 finalizzati all'esercizio dell'azione penale, ne' l'utilizzazione dei
 risultati dell'attivita' investigativa per scopi ulteriori rispetto a
 quelli tipici della funzione requirente e degni di tutela, a meno che
 non si dimostri che tali  previsioni  costituiscano  in  concreto  un
 intralcio serio e ingiustificato allo sviluppo delle indagini.  Nella
 fattispecie, le disposizioni censurate appaiono dirette a far si' che
 la commissione centrale possa esercitare nel modo migliore le proprie
 funzioni,  sia  cioe'  dotata  di tutti gli elementi utili per essere
 posta in grado di compiere le valutazioni che le competono e, quindi,
 di  adottare  le  conseguenti  decisioni  in  maniera   ponderata   e
 consapevole.  E  non  c'e'  dubbio  che  a tal fine assuma principale
 rilievo il dato dell'importanza del contributo offerto  (o  che  puo'
 essere  offerto) dal soggetto proposto, di cui ovviamente costituisce
 aspetto   essenziale   il   requisito    dell'attendibilita'    delle
 dichiarazioni  rese.    Come  si  e'  detto  sopra, la commissione e'
 chiamata a valutare congiuntamente tutti gli elementi ad essa forniti
 dall'autorita' giudiziaria attraverso la propria  motivata  proposta,
 onde   giungere  ad  un  giudizio  complessivo  -  di  sua  esclusiva
 pertinenza - in ordine al livello di rischio  cui  il  soggetto  deve
 ritenersi   esposto,   da   cui  dipende,  poi,  la  decisione  circa
 l'ammissione o meno al programma speciale di protezione (e,  in  caso
 positivo,   la  determinazione  dei  contenuti  e  della  durata  del
 programma  stesso):  che  ai  fini  dell'assolvimento  della  propria
 funzione  istituzionale la commissione - sulla base della motivazione
 del procuratore della Repubblica - si formi un convincimento anche in
 merito al grado di importanza da attribuire alla  collaborazione,  da
 un  lato  appare pienamente coerente con i poteri decisionali ad essa
 spettanti (e, per cosi' dire, inevitabile), dall'altro non  determina
 alcuna interferenza sull'esercizio dell'azione penale.
    Neanche sotto il profilo della tutela del segreto investigativo la
 censura e' fondata.
    Va premesso, in linea generale, che la inderogabilita' del segreto
 investigativo  non  riceve,  in  assoluto,  "copertura" nell'art. 112
 della Costituzione, nel senso che non  qualsiasi  deroga  all'obbligo
 del segreto sugli atti di indagine - pur indubbiamente strumentale al
 piu'  efficace  esercizio  dell'azione  penale  -  integra di per se'
 lesione dell'indicato  precetto,  ben  potendo  tale  obbligo  subire
 limitazioni  od  attenuazioni  a tutela di altri interessi di rilievo
 costituzionale (ad es.,  del  diritto  di  difesa).    Orbene,  nella
 fattispecie  certamente  ricorrono  i  presupposti per considerare la
 normativa  censurata  compatibile  con  il  dettato   costituzionale:
 l'onere  per  il  pubblico  ministero  di  fornire  alla  commissione
 centrale,  a  sostegno  della  propria  proposta,  informazioni   sul
 contenuto  di  atti  d'indagine  eventualmente  tuttora  coperti  dal
 segreto investigativo (cio' che, peraltro, di norma non  si  verifica
 quando,  come  accade il piu' delle volte, si tratti di dichiarazioni
 rese da un imputato) deve, infatti, ritenersi giustificato non  solo,
 e  non  tanto,  dal fatto che le notizie restano comunque coperte dal
 segreto d'ufficio (art. 1, comma 5, del decreto), per cui il grado di
 riservatezza  ne  risulta   si'   attenuato   rispetto   al   segreto
 investigativo,   ma   non   certo   annullato;   ma   soprattutto  in
 considerazione  delle  sopra  richiamate   finalita'   che   l'intero
 procedimento   in  esame  -  cui  sono  chiamati  a  partecipare,  in
 un'ottica,  come   s'e'   detto,   di   cooperazione   istituzionale,
 l'autorita' giudiziaria e l'organismo destinatario delle informazioni
 -  e'  diretto  a  perseguire,  tra le quali non puo' non annoverarsi
 anche quella di consentire, attraverso un adeguato  e  personalizzato
 sistema  di  protezione del collaboratore, proprio la migliore e piu'
 proficua prosecuzione dell'attivita'  d'indagine.    Tutto  cio'  non
 toglie, tuttavia, che, data la delicatezza degli interessi coinvolti,
 vada riconosciuto ai procuratori della Repubblica un certo margine di
 discrezionalita'  in  ordine  alla  comunicazione  di notizie su atti
 coperti dal segreto, e che, in ogni caso, eventuali divergenze  siano
 superate  attraverso le opportune intese, nel rispetto del menzionato
 principio di collaborazione cui  e'  auspicabile  che  si  ispiri  la
 prassi  applicativa  della norma in esame.  Le argomentazioni svolte,
 infine, non possono non valere anche per il caso in cui la  proposta,
 in  attesa  delle deliberazioni della commissione, sia utilizzata dal
 Capo della polizia per l'adozione, in casi di particolare urgenza, di
 misure provvisorie di protezione.   Premesso  che  tale  organo  deve
 indubbiamente  ritenersi  dotato  di  un  ambito  valutativo ridotto,
 rispetto a quello della commissione centrale, in ordine agli elementi
 forniti  dall'autorita'  giudiziaria  (data   anche   l'urgenza   del
 provvedere), basta osservare che, anche in questa ipotesi, da un lato
 le  notizie  trasmesse sono ovviamente coperte dal segreto d'ufficio,
 e, dall'altro, ricorrono le medesime finalita' degne di tutela  sopra
 evidenziate.
    5.2.  -  Resta  da  esaminare  la censura relativa alla cosiddetta
 "dichiarazione  d'intenti",  disciplinata  dai  commi  2  e  seguenti
 dell'art.  2  (nonche'  dal comma secondo dell'art. 4) del decreto in
 esame. Si tratta, in particolare, del  "verbale  delle  dichiarazioni
 preliminari alla collaborazione" (denominato "verbale di informazioni
 ai  fini  delle indagini", quando riguardi soggetto estraneo a gruppi
 criminali e che, rispetto al fatto o a fatti  connessi  o  collegati,
 assume  soltanto  la  qualita'  di  persona offesa, di testimone o di
 persona informata sui fatti) che il procuratore della Repubblica deve
 redigere ed allegare in copia - salvo l'eccezione di cui si  dira'  -
 alla proposta o al parere (o alla segnalazione nel caso dell'art. 4):
 nell'atto   il  soggetto  interessato  -  secondo  il  comma  secondo
 dell'art. 2 - "ha manifestato all'autorita' giudiziaria  la  volonta'
 di  collaborare",  "ha reso, con le forme e le modalita' previste dal
 codice di procedura penale per gli  atti  di  indagine  del  pubblico
 ministero,  le informazioni indicate nel comma primo", ed ha esposto,
 infine, "quantomeno sommariamente, i dati  utili  alla  ricostruzione
 dei  fatti  di  maggiore  gravita'  e  allarme  sociale  di  cui e' a
 conoscenza oltre che alla individuazione  e  alla  cattura  dei  loro
 autori".    A  differenza  di quanto osservato al punto precedente in
 ordine al comma primo del medesimo art.  2,  la  normativa  in  esame
 prevede,  dunque, la redazione di un atto con determinati contenuti e
 modalita' e la trasmissione del medesimo, di regola, unitamente  alla
 proposta  o al parere (o alla segnalazione): il pubblico ministero e'
 cioe' tenuto, prima di procedere alla formulazione di uno  di  questi
 atti,   a   raccogliere   dal   soggetto  interessato  una  serie  di
 dichiarazioni su oggetti prestabiliti, concernenti, fra l'altro (come
 risulta dalla citata ultima parte del comma secondo),  il  merito  di
 tutti  i  principali  fatti  delittuosi sui quali tale soggetto e' in
 grado di riferire, e poi  a  trasmettere  il  relativo  verbale  alla
 commissione  centrale  (o  al  Capo  della polizia).   Non appare, al
 riguardo, condivisibile la tesi dell'Avvocatura dello Stato,  secondo
 cui  l'atto  in  esame  sarebbe  estraneo al procedimento penale, non
 avrebbe  cioe'  natura   di   atto   d'indagine,   bensi'   meramente
 amministrativa:  a  parte il rilievo che la stessa norma dispone (con
 previsione forse pleonastica) che le dichiarazioni siano rese "con le
 forme e le modalita' previste dal codice di procedura penale per  gli
 atti  di  indagine  del  pubblico  ministero", non si vede come possa
 escludersi che le dichiarazioni medesime, aventi il  contenuto  sopra
 indicato,  entrino a far parte del fascicolo del pubblico ministero e
 siano quindi soggette alla disciplina dettata dal codice di procedura
 penale in tema di utilizzabilita' degli atti del procedimento.
    5.3. - Cio'  posto,  la  censura  si  rivela  fondata  per  quanto
 concerne la redazione del menzionato verbale.
    Ai  sensi  del  comma  quarto  dell'art. 2 e dell'ultima parte del
 comma secondo dell'art. 4, anche nell'ipotesi in cui il  verbale  non
 e'  trasmesso  contestualmente  alla  proposta,  al  parere,  o  alla
 segnalazione, occorre in ogni caso fare menzione del  suo  contenuto,
 ovvero,    nel   caso   della   segnalazione,   attestarne   comunque
 l'acquisizione. Ne risulta chiaramente confermato  che  la  redazione
 del  verbale  costituisce,  in base alla normativa impugnata, un atto
 dovuto, che  deve  imprescindibilmente  precedere  l'attivazione  del
 procedimento  di  deliberazione  dei  programmi di protezione.   Cio'
 determina  indubbiamente   una   violazione   dell'art.   112   della
 Costituzione.   Imponendo,  infatti,  al  pubblico  ministero,  quale
 condizione per l'ammissione del collaboratore al  programma  speciale
 di  protezione,  il  compimento  di  un  atto di natura investigativa
 avente  le caratteristiche di forma e di contenuto sopra indicate, si
 viene ad incidere direttamente  sull'attivita'  di  conduzione  delle
 indagini,  la cui strategia, ai fini del piu' proficuo sviluppo delle
 indagini medesime in relazione ai singoli procedimenti, va lasciata -
 nei limiti,  ovviamente,  previsti  dall'ordinamento  -  alla  libera
 valutazione del procuratore della Repubblica.  Ai fini del ripristino
 dell'integrita'  delle  attribuzioni costituzionali invocate occorre,
 pertanto, ad avviso di questa Corte, che  la  redazione  del  verbale
 della "dichiarazione d'intenti" sia rimessa alla discrezionalita' del
 pubblico   ministero,   con  la  ovvia  conseguenza  che  il  mancato
 compimento di tale atto - in quanto evidentemente  egli  ritenga,  in
 base a propria motivata valutazione, che possa recare pregiudizio per
 la  prosecuzione  delle indagini - non potra' costituire, di per se',
 ostacolo all'ammissione al programma di protezione, sulla base  della
 proposta  motivata  di  cui  al  primo comma dell'art. 2, nella quale
 devono, ovviamente, essere indicati gli elementi  dai  quali  risulti
 accertata la volonta' attuale di collaborare e il contributo che puo'
 essere  dato  alle indagini.   Va, in conclusione, dichiarato che non
 spetta al Governo, e per esso al Ministro dell'interno,  adottare  le
 disposizioni di cui agli artt. 2, commi secondo, terzo e quarto, e 4,
 comma  secondo,  del decreto n. 687 del 24 novembre 1994, nella parte
 in cui prevedono che il procuratore della Repubblica debba  redigere,
 anche  qualora  ritenga,  in base a propria motivata valutazione, che
 possa recare pregiudizio per lo sviluppo delle indagini, il  "verbale
 delle  dichiarazioni  preliminari  alla collaborazione", o, a seconda
 dei casi, il "verbale di informazioni ai fini  delle  indagini";  con
 conseguente annullamento in parte qua delle norme citate.
    5.4.  -  La  censura e', invece, non fondata, nei sensi di seguito
 esposti, per  quanto  concerne  la  trasmissione  del  verbale  della
 "dichiarazione d'intenti" alle autorita' competenti.
    Qualora    detta    trasmissione   dovesse   ritenersi   anch'essa
 obbligatoria, sarebbe effettivamente difficile  sostenere  in  questo
 caso  - a differenza di quanto si e' detto in ordine alla motivazione
 della proposta - la compatibilita' di tale previsione con l'art.  112
 della  Costituzione, sotto il profilo della deroga imposta al segreto
 investigativo.
    E', tuttavia, previsto che il verbale debba essere  allegato  alla
 proposta  o  al  parere  (o  alla segnalazione) "salvo che sussistano
 specifiche ed eccezionali esigenze  che  ne  rendano  inopportuna  la
 immediata  trasmissione".    Ad  avviso  di questa Corte, la clausola
 anzidetta puo' e deve essere interpretata in modo estensivo, cosi' da
 salvaguardare  le   attribuzioni   dell'autorita'   giudiziaria.   In
 particolare,   qualora  questa  abbia  provveduto  a  raccogliere  la
 "dichiarazione d'intenti", deve essere fatta salva la possibilita' di
 procrastinare la  trasmissione  del  verbale  per  il  tempo  che  il
 pubblico   ministero,   per   particolari   esigenze   di  segretezza
 investigativa,  ritenga  necessario  per  evitare   pregiudizi   allo
 sviluppo delle indagini.