LA CORTE D'APPELLO
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza nei confronti di La Volpe
 Alberto e Renzoni Daniele;
    Premesso che Alberto La Volpe e Daniele Renzoni hanno avanzato, in
 via interlocutoria, rituale richiesta di revoca e/o sospensione della
 provvisoria  esecuzione  della  disposizione   della   sentenza   del
 tribunale  di  Bologna  del  20  febbraio  1995,  concernente la loro
 condanna al risarcimento definitivo dei danni cagionati, col reato di
 diffamazione aggravata commesso in danno di costoro, alle  costituite
 parti  civili Aldo Romano, Alessandro Lomazzi, Maddalena Conti, Rocco
 Buccarello e Gabriele Vecchiettini;
    Considerato che, con detta istanza, si e', per  un  verso  (quello
 della  revoca),  lamentato  che  i  primi giudici non avessero, ancor
 prima che positivamente scrutinato, neanche individuato  ed  indicato
 il  motivo  che  potesse giustificare la concessione della clausola -
 come,  invece,  avrebbero  dovuto  fare,  vertendosi   in   tema   di
 liquidazione  definitiva del danno e non gia' di mera provvisionale -
 e,  sotto  altro  profilo  (quello della sospensione), prospettata la
 gravita'  del  pregiudizio  che  agli  istanti,  semplici  lavoratori
 dipendenti,  sarebbe  derivato dall'esecuzione della sentenza sia per
 l'enormita' dell'esborso sia per il suo non garantito recupero;
    Ritenuto che contro l'individuazione, operata dai  primi  giudici,
 dell'art.  282  c.p.c.  come  parametro  normativo di riferimento con
 riguardo alla provvisoria esecuzione delle disposizioni civili  della
 sentenza  penale (di condanna), milita il dato della pacifica vigenza
 dell'art. 540 c.p.p., di certo non abrogato dall'omologo articolo del
 codice di rito operante nel diverso ambito civilistico puro;
    Rilevato, peraltro, che  la  diversita'  di  disciplina  delineata
 dall'art.  540  c.p.p.  per  la  condanna  definitiva  rispetto  alla
 provvisionale in punto di provvisoria esecuzione,  appare  del  tutto
 ingiustificata,  atteso  che i due tipi di condanna si differenziano,
 sul piano concettuale, non gia' per un diverso livello di  (apparente
 o  reale)  fondatezza  della corrispondente e sottostante pretesa, ma
 solo  per  la  maggiore  o  minore  acquisizione   probatoria   delle
 componenti  del danno, e che la segnalata irrazionalita' appare ancor
 piu' ingiustificata, poi, ove si considerino gli effetti perversi che
 ne derivano: per tale via, invero, si finisce con orientare la  parte
 civile  verso  una  richiesta di provvisionale invece che di condanna
 esaustiva, onde asssicurarsi una esecutivita' ex lege non resistibile
 e vincibile, in alcun modo, dalla controparte  ne'  sindacabile,  nei
 suoi  presupposti giustificativi, dal giudice d'appello, al contrario
 di quanto avviene per la seconda.
    Con conseguente rischio, tutt'altro che teorico e  gia'  segnalato
 dalla  dottrina,  di  una  moltiplicazione  dei processi senza alcuna
 utilita'; e cio' in  controtendenza  col  piu'  recente  orientamento
 legislativo  che  considera  un  obiettivo primario la deflazione del
 (carico di) contenzioso.
    E' noto, infatti, come la modifica del regime  dell'esecutorieta',
 apportata  col  novellato  art. 282 c.p.c. (legge 26 ottobre 1990, n.
 353), sia stata dettata dall'intento di  scoraggiare  e  sconsigliare
 dapprima   resistenze  e  poi  impugnazioni,  motivate  da  finalita'
 esclusivamente o prevalentemente dilatorie.  Considerato che sotto il
 profilo in  esame  la  disciplina  della  condanna  esaustiva  appare
 ingiustificata,  ed  anzi  irrazionale,  con  riferimento  non solo a
 quella della provvisionale - per la qualcosa essa gia' va  denunziata
 d'illegittimita'  costituzionale  per  violazione  dell'art.  3 della
 Costituzione -, ma anche alla regolamentazione  della  corrispondente
 sentenza   emessa  dal  giudice  civile  munita,  come  e'  noto,  di
 incondizionata ed  automatica  provvisoria  esecutorieta'  (art.  282
 c.p.c.);  ora,  e' ben vero che, come la Corte costituzionale ha piu'
 volte affermato (da ultimo, con sentenza del 27 luglio 1994  n.  353,
 ove  sono indicati i numerosi precedenti), "l'inserimento dell'azione
 civile nel processo penale pone in essere una situazione in linea  di
 principio  differente  rispetto  a  quella determinata dall'esercizio
 dell'azione civile nel processo civile, anche ove si tratti di azione
 di restituzione o di risarcimento dei danni  derivanti  da  reato,  e
 cio'  in quanto tale azione assume carattere accessorio e subordinato
 rispetto all'azione penale, sicche' e' destinato a  subire  tutte  le
 conseguenze  e  gli  adattamenti  derivanti  dalla  funzione  e dalla
 struttura del processo penale, cioe'  dalle  esigenze,  di  interesse
 pubblico,   connesse   all'accertamento   dei  reati  e  alla  rapida
 definizione  dei  processi":  e,  tuttavia,  nessuno  dei considerati
 profili appare venire in  rilievo  e  giustificare,  allorquando  sia
 stato  gia' accertato l'intero ammontare del danno in sede penale, la
 mancata   previsione,   come   invece   avviene   in   sede   civile,
 dell'esecutivita'  ex  lege della sentenza che lo liquidi. Di tal che
 il diverso presidio, sul piano dell'effettivita' e della concretezza,
 offerta alla  stessa  azione  a  seconda  della  differente  sede  di
 esercizio,  finisce  col  rilevarsi frutto di mera arbitrarieta', con
 conseguente e aperta violazione del principio di uguaglianza;
    Ritenuto  che  la  rilevanza  della   questione   discende   dalla
 considerazione che, mentre i profili attinenti all'opportunita' della
 sospensione  della  provvisoria esecuzione (enormita' dell'esborso in
 relazione alla qualita' di lavoratori  dipendenti  degli  imputati  e
 mancanza  di garanzie circa la sua ripetibilita') non sono meritevoli
 di accoglimento (la qualifica di lavoratore dipendente in se'  e  per
 se'  non  e',  infatti, significativa di alcunche', data l'amplissima
 gamma delle posizioni che essa copre e  tenuto  conto,  poi,  che  le
 parti   civili   svolgono   attivita'  lavorativa,  il  che  fuga  le
 preoccupazioni di irripetibilita' di quanto loro versato),  dovrebbe,
 invece,  essere  accolto  quello  concernente la revoca, non avendo i
 primi giudici  neanche  indicato  il  giustificato  motivo  richiesto
 dall'art.  540  primo  comma  c.p.p.  ne' potendo a cio' sopperire la
 Corte, in assenza perfino della necessaria  allegazione  delle  parti
 civili, non disponendo essa di poteri ufficiosi a tal riguardo.
    L'istanza di revoca andrebbe, invece, rigettata ove dovesse essere
 dichiarata  l'illegittimita' costituzionale del primo comma dell'art.
 540 c.p.p. e del secondo comma dell'art. 600 c.p.p.  nella  parte  in
 cui,  rispettivamente,  prevedono  che l'esecuzione provvisoria delle
 disposizioni civili venga concessa su istanza  di  parte  e  solo  in
 presenza  di  ingiustificato  motivo e non gia' ex lege e consente di
 revocare, e non solo di sospendere, la  provvisoria  esecuzione  gia'
 concessa.