ha pronunciato la seguente
                               Sentenza
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 441, comma 1,
 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza  emessa  il  4
 febbraio  1995  dal  giudice  per  le  indagini preliminari presso il
 Tribunale di Gela  nel  procedimento  penale  a  carico  di  Ferrigno
 Antonio  ed  altri,  iscritta al n. 179 del registro ordinanze 1995 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14,  1ΓΏ serie
 speciale, dell'anno 1995;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del 18 ottobre 1995 il Giudice
 relatore Giuliano Vassalli.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale  di
 Gela  dopo  aver  premesso  di  essere  subentrato  ad  altro giudice
 nell'ufficio e di essere stato chiamato a celebrare l'udienza fissata
 per la definizione con rito  abbreviato  della  posizione  di  alcuni
 imputati  a  seguito  di stralcio operato nell'ambito di un complesso
 procedimento, osserva che, pur coincidendo di regola il  giudice  che
 ammette  il  rito  abbreviato  con  quello che definisce il giudizio,
 possono  nella  pratica  verificarsi  "situazioni  abnormi  del  tipo
 descritto",  rispetto  alle  quali  il  quadro  normativo  non  offre
 soluzioni adeguate.
   Piu' in particolare, il  giudice  a  quo  ritiene  che  la  mancata
 previsione  nell'art. 441, comma 1, del codice di procedura penale di
 un principio analogo a quello previsto  dall'art.  525  dello  stesso
 codice,  e quindi di immutabilita' del giudice che ha ammesso il rito
 abbreviato rispetto a quello davanti al quale  le  parti  concludono,
 contrasti con gli artt.  3, 76 e 25 della Costituzione.
   Violato  sarebbe,  anzitutto,  il  principio di ragionevolezza e di
 uguaglianza, stante l'omogeneita' delle situazioni poste a  raffronto
 (rito  abbreviato  e  dibattimento) e l'irragionevole discriminazione
 che subisce l'imputato giudicato con il rito  abbreviato,  in  quanto
 per  il  medesimo non opera la garanzia di nullita' assoluta prevista
 dall'art. 525 c.p.p.
   Si appaleserebbe poi, ad avviso del rimettente,  un  contrasto  con
 l'art.  76  della  Costituzione,  in riferimento alla direttiva n. 53
 della legge-delega n. 81  del  1987,  in  quanto  la  previsione  ivi
 enunciata  che  consente al giudice di pronunciare sentenza di merito
 nell'udienza preliminare, deve  necessariamente  interpretarsi  "come
 espressione  di  un  principio  che  impone  l'identita' fra GUP, che
 ammette il rito, e giudice che delibera la sentenza di merito".
   Infine, la mancata previsione di un potere di revoca del "consenso"
 precedentemente espresso dal giudice diverso  (la  revocabilita'  del
 "consenso",  osserva,  infatti,  il  giudice  a  quo, pure ammessa da
 qualche giudice di merito, sarebbe stata negata da questa Corte nella
 sentenza  n.  318  del  1992)  e  la  conseguente   regressione   del
 procedimento  all'udienza  preliminare, comprometterebbe anche l'art.
 25 della Costituzione, inteso non soltanto  quale  garanzia  posta  a
 tutela  dell'individuo,  ma  anche quale "espressione dell'autonomia,
 imparzialita'  e  indipendenza  del  giudice",   che   nella   specie
 risulterebbe  irragionevolmente compressa in quanto vincolata "ad una
 precedente   valutazione,   dalla   quale   potrebbe   legittimamente
 dissentire".
   2.  -  Nel  giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato,  la  quale,  pur  concludendo  per  la  inammissibilita' della
 questione, ha svolto considerazioni nel senso della non fondatezza. A
 parere dell'Avvocatura, infatti, non sussisterebbe alcun dubbio circa
 l'applicabilita'   nel   caso   di   specie   del   principio   della
 immodificabilita'  del  giudice, "nel senso che potra' farsi luogo al
 rito alternativo da parte del giudice differente,  mutato  nella  sua
 fisicita',  ma  identico  nella  rappresentanza  dello stesso ufficio
 giurisdizionale".   Quanto,   poi,   alla   censura   relativa   alla
 irrevocabilita'  del  provvedimento  ammissivo  del  rito adottato da
 altro  giudice, l'Avvocatura ne rileva l'infondatezza sul presupposto
 che la immodificabilita' del "consenso" e' in linea "con la natura  e
 la  funzione  deflattiva  del  rito  in  questione".  D'altra  parte,
 conclude l'Avvocatura, la revoca - ritenuta inammissibile  da  questa
 Corte  nella sentenza n. 318 del 1992 - consentirebbe una regressione
 del rito alternativo a quello ordinario  che  contrasterebbe  con  il
 generale principio della non regressione del processo.
                        Considerato in diritto
   1.  - Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di
 Gela solleva questione di legittimita' costituzionale dell'art.  441,
 comma 1, del codice di  procedura  penale  nella  parte  in  cui  non
 stabilisce,  analogamente  a  quanto prevede l'art. 525 c.p.p. per il
 dibattimento, l'immutabilita' del giudice che ha accolto la richiesta
 di giudizio abbreviato rispetto a quello davanti al  quale  le  parti
 sono  chiamate  a  svolgere  le  rispettive conclusioni. A parere del
 giudice a quo una simile omissione  comprometterebbe,  anzitutto,  il
 principio  di  uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, in
 quanto per l'imputato giudicato con il  rito  abbreviato  non  opera,
 senza  alcuna  ragionevole  giustificazione  la  garanzia di nullita'
 assoluta prevista dall'art. 525 c.p.p. per chi e' tratto  a  giudizio
 con  il  rito  ordinario.  Risulterebbe  poi  violato l'art. 76 della
 Costituzione,  giacche'  l'enunciato   della   direttiva   53   della
 legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, e' formulato in termini tali da
 imporre  l'identita'  fra il giudice che ammette il rito e il giudice
 che delibera la sentenza  di  merito.  Si  profilerebbe,  infine,  un
 contrasto  anche  con  l'art.    25  della  Costituzione,  in quanto,
 considerata  l'irrevocabilita'  del  provvedimento  che  ammette   il
 giudizio  abbreviato,  il diverso giudice chiamato a definire il rito
 sarebbe    irragionevolmente    vincolato    ad    una    valutazione
 precedentemente fatta da altro giudice e rispetto alla quale, dunque,
 potrebbe anche legittimamente dissentire.
   2. - La questione e' infondata nei termini che seguono.
   La  situazione  che  il  giudice a quo prospetta a fondamento delle
 dedotte censure indubbiamente presenta, come lo stesso remittente  ha
 correttamente posto in risalto, caratteristiche quanto mai peculiari,
 al  punto  da  rendere del tutto ragionevole la mancata previsione di
 una disciplina che altro scopo non avrebbe avuto  se  non  quello  di
 regolare  una  evenienza  di eccezionalita' tale da porsi al di fuori
 delle fisiologiche sequenze che contraddistinguono  la  dinamica  del
 giudizio  abbreviato.  Tanto la direttiva n. 53 della legge di delega
 che le disposizioni dettate dal codice di rito, evidenziano, infatti,
 una marcata concentrazione funzionale e cronologica tra  la  fase  in
 cui  il  giudice e' chiamato a deliberare l'ammissibilita' del rito e
 quella, immediatamente conseguenziale, in cui il giudizio  abbreviato
 deve  concretamente  svolgersi,  relegando, quindi, entro confini del
 tutto ipotetici l'eventualita' che il giudice della prima fase  possa
 non  coincidere  con  quello della seconda. Ma quand'anche una simile
 eventualita'  abbia  a  realizzarsi,  come  e'  accaduto   nel   caso
 prospettato,  il  sistema offre sicuri indici per risolvere i quesiti
 sollevati dal giudice a quo  senza  ricorrere  alla  declaratoria  di
 illegittimita' costituzionale che lo stesso sollecita.
   Il principio di immutabilita' del giudice, che l'art. 525, comma 2,
 c.p.p.  espressamente  enuncia  per  la  deliberazione della sentenza
 dibattimentale, ha ricevuto, infatti,  interpretazione  estensiva  ad
 opera della giurisprudenza di legittimita'. Si e' cosi' ritenuto che,
 attesa  la  portata  che quel principio assume nel sistema, lo stesso
 trovi applicazione anche per le ordinanze  adottate  all'esito  della
 procedura in camera di consiglio, negli incidenti di esecuzione e nel
 procedimento  di  sorveglianza,  avuto  riguardo  alla  necessita' di
 soddisfare la generale esigenza  che  la  decisione  giurisdizionale,
 qualsivoglia  forma  venga  ad  assumere,  sia  emanata  dal medesimo
 giudice  che  ha  provveduto  alla   trattazione   della   procedura,
 intendendosi   per   tale   l'esame   delle  acquisizioni  probatorie
 funzionali alla decisione, ogni attivita' istruttoria destinata  allo
 stesso  scopo,  nonche'  l'assunzione  delle  richieste e conclusioni
 delle parti. Simili affermazioni hanno di recente trovato  eco  anche
 in  relazione al giudizio abbreviato.  Nel disattendere, infatti, una
 eccezione di illegittimita' costituzionale del tutto analoga a quella
 che forma oggetto del presente giudizio, la Corte  di  cassazione  ha
 avuto  modo  di  affermare  che  nell'ipotesi  in cui si realizzi una
 scissione tra il giudice che ammette il rito e quello che celebra  il
 giudizio  abbreviato,  non  si determina una violazione del principio
 del giudice naturale ne' un contrasto con l'art. 101, secondo  comma,
 della  Costituzione,  giacche' e' "indispensabile soltanto che sia lo
 stesso giudice (inteso come persona fisica), che ha partecipato  alla
 trattazione  della  causa, a pronunciare poi la sentenza". Da cio' si
 e' tratto il corollario  che  "soltanto  dal  momento  in  cui  viene
 disposto   il  rito  abbreviato  deve  essere  lo  stesso  giudice  a
 presiedere tutta l'attivita' processuale  che  viene  successivamente
 espletata...  allo  scopo  di  garantire uniformita' di conoscenza di
 tutta la vicenda processuale", sicche' ove il giudice venga ad essere
 successivamente sostituito "e' necessario procedere alla rinnovazione
 dell'intera attivita' compiuta dopo l'ammissione del  rito  medesimo"
 (Sez. I, 26 maggio 1995, n. 1128).
   Ma  se  l'identita' del giudice deve essere preservata per tutto lo
 svolgimento del  giudizio  abbreviato  fino  alla  decisione  che  lo
 conclude,  trattandosi  di pronuncia strutturalmente omologa a quella
 che viene adottata all'esito del dibattimento,  anche  la  precedente
 fase che inerisce alla verifica dei presupposti di ammissibilita' del
 rito  non  puo'  non  ricadere  sotto  la  delibazione  autonoma  del
 magistrato che quel rito e' poi chiamato a celebrare e definire.   In
 altri  termini,  e'  proprio la stretta concatenazione funzionale che
 correla l'ammissione  del  giudizio  ed  il  relativo  svolgimento  a
 rendere  evidente  come  il  giudice  del  rito alternativo non possa
 soffrire preclusioni di sorta a  causa  dell'apprezzamento  da  altri
 svolto circa la relativa ammissibilita'. In proposito va considerato,
 fra  l'altro,  che  la  valutazione  riguardante  la  possibilita' di
 definire il processo con le forme proprie di quel rito si radica  sul
 medesimo  "stato degli atti" che viene posto, poi, a fondamento della
 sentenza di merito.
   Ove, pertanto, muti la persona del giudice dopo la pronuncia  della
 ordinanza  che  ha  ammesso  il giudizio abbreviato, il nuovo giudice
 sara' libero di assumere le proprie determinazioni anche in punto  di
 ammissibilita',  cosi'  da  saldare  in  capo al medesimo soggetto la
 celebrazione del  rito  e  cio'  che  ne  costituisce  l'ineluttabile
 premessa,  ad  integrale soddisfacimento di un postulato di identita'
 che,  inespresso  nel  dato  normativo,  risulta  invece  chiaramente
 delineato dal sistema.
   Cosi' ricostruito il quadro delle disposizioni coinvolte, le stesse
 sfuggono,  quindi,  alle censure delineate dal giudice a quo, proprio
 perche' il petitum che lo stesso mostra di perseguire trova  adeguata
 soluzione,   nel   particolare   caso   dedotto,   alla   luce  delle
 considerazioni dianzi esposte.