ha pronunciato la seguente
                               Sentenza
 nei giudizi di legittimita' costituzionale  dell'art.  670,  primo  e
 secondo  comma, del codice penale, promossi con ordinanze emesse l'11
 novembre 1994, dal Giudice per  le  indagini  preliminari  presso  la
 Pretura  di  Firenze,  il  21  ottobre  1994, dal Pretore di Modena -
 sezione distaccata di Carpi, e il 3 febbraio 1995, dal giudice per le
 indagini preliminari presso la Pretura  di  Firenze,  rispettivamente
 iscritte ai nn. 22, 67 e 320 del registro ordinanze 1995 e pubblicate
 nella  Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 5, 7 e 23, prima serie
 speciale, dell'anno 1995;
   Visti gli atti di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del 18 ottobre 1995 il Giudice
 relatore Francesco Guizzi.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Nel corso del procedimento penale a carico di  Rufat  Elmaz  e
 Kasumova  Dzulistan, imputate del reato di mendicita', il Giudice per
 le indagini preliminari presso la Pretura di  Firenze  ha  sollevato,
 per   contrasto  con  gli  artt.  2,  3  e  27,  terzo  comma,  della
 Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 670,
 primo comma, del codice penale, riproponendola in  termini  identici,
 con  successiva  ordinanza,  nel  procedimento  a  carico  di Bajrami
 Dzafar, imputato del medesimo reato.
   Osserva il rimettente che la fattispecie contravvenzionale punitiva
 della  mendicita'  e'  posta  a  tutela  dei  beni  giuridici   della
 tranquillita'  e  del  decoro  della civile convivenza con offese che
 sussisterebbero sia nel caso  della  mendicita'  aggravata  da  forme
 particolari  (vessatorie,  ripugnanti,  petulanti o fraudolente: art.
 670, secondo comma),  sia  nel  caso  in  cui  si  impieghino  minori
 nell'accattonaggio  (art. 671).  Non vi sarebbe, invece, offesa della
 morale e della tranquillita' pubblica quando l'accusato versi in  una
 situazione  di bisogno non riconducibile a sua colpa, risolvendosi la
 mendicita' in una legittima richiesta di umana solidarieta', volta  a
 far leva sul sentimento della carita'.
   La  previsione incriminatrice di cui all'art. 670, primo comma, del
 codice penale, violerebbe - ad avviso del giudice a quo - i  principi
 costituzionali  di  solidarieta',  di  uguaglianza  e della finalita'
 rieducativa della pena contenuti negli artt. 2, 3 e 27, terzo  comma,
 della  Costituzione, giacche' sarebbe riservato lo stesso trattamento
 punitivo  anche   a   soggetti   che   si   trovino   in   condizioni
 economico-sociali  del  tutto diverse. Essa, infatti, prescinde dallo
 stato di indigenza non ascrivibile alla condotta individuale: di qui,
 un  trattamento  inadeguato,  poiche'  non  finalizzato  a  rieducare
 quanti,  obiettivamente  incapaci  di mantenersi autonomamente, siano
 percio' costretti a far ricorso all'altrui solidarieta'.
   2. - E' intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
 rappresentato  e  difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha
 concluso per la infondatezza della questione per essersi questa Corte
 gia' espressa in tal senso con la sentenza n. 51 del  1959,  fornendo
 una  interpretazione  adeguatrice  del combinato disposto degli artt.
 670 e 54 del codice penale e  sostenendo,  altresi',  che  i  diritti
 della   persona   umana,   solennemente   affermati  come  primari  e
 fondamentali, diverrebbero illusori se non venissero contemperati con
 le esigenze di una tollerabile convivenza (sentenza n. 102 del 1975).
 Priva  di  ogni  fondamento  sarebbe,  poi,   l'asserita   violazione
 dell'art.   27,   terzo   comma,   dal  momento  che  la  consolidata
 giurisprudenza   costituzionale   ha   circoscritto   la    finalita'
 rieducativa  e  risocializzante  della  pena esclusivamente alla fase
 dell'esecuzione.
   3.  -  Nel  corso  del  procedimento  penale  a  carico  di  Ismail
 Severdzan, di nazionalita' iugoslava, che era stato colto a mendicare
 nei  locali  di  una  scuola elementare mostrando la fotografia di un
 bambino  al  quale  erano  stati  parzialmente  amputati   gli   arti
 inferiori,  il  Pretore  di Modena - sezione distaccata di Carpi - ha
 sollevato  due  distinte  questioni  di  legittimita'  costituzionale
 sull'art. 670, primo e secondo comma, del codice penale.
   Il  giudice  a  quo  avverte  l'esigenza  di  individuare  il  bene
 giuridico protetto dalla  disposizione  in  esame,  e  lo  identifica
 nell'ordine pubblico inteso come moralita', decoro e pubblica quiete.
 Egli  dubita,  pero',  che  l'art.  670 offra una forma anche lata di
 tutela del dovere di svolgere un'attivita' lavorativa o  del  diritto
 all'integrita'  del  patrimonio e alla tranquillita' della persona; e
 ritiene, anzi, che si profilerebbe una evidente  e  non  giustificata
 sproporzione  nel sacrificio del diritto fondamentale, e inviolabile,
 della  liberta'   personale.   Il   rimettente   richiama,   percio',
 l'insegnamento  di  questa Corte, che anche da ultimo si e' riservata
 il compito di verificare se il legislatore rispetti il  limite  della
 ragionevolezza  nella  determinazione della sanzione penale (sentenza
 n. 341 del 1994);  limite  imposto  alla  sfera  di  discrezionalita'
 quando  le  finalita'  di  prevenzione siano perseguite con strumenti
 penali   che   producono   danni   all'individuo,  e  alla  societa',
 sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti  attraverso  l'uso
 della incriminazione (sentenza n. 409 del 1989).
   Sulla  scia  di  tali principi, sottolinea il Pretore di Modena, la
 Corte ha percio' censurato diverse disposizioni  della  legge  penale
 sia  per lesione del principio di uguaglianza (sentenze nn. 422 e 344
 del  1993  e  409  del  1989)  sia  per  violazione  della  finalita'
 rieducativa della pena (sentenza n. 313 del 1990).
   Il raffronto con talune disposizioni riguardanti l'ordine pubblico,
 o  la  tranquillita',  o  l'incolumita'  pubblica,  per  le  quali si
 prevedono in via alternativa le sanzioni dell'arresto o dell'ammenda,
 palesa un profilo di irragionevolezza quale si riscontra  nel  minimo
 edittale  dell'arresto, per un mese, comminato dall'art. 670, secondo
 comma, del codice penale. Il disturbo delle occupazioni o quello  del
 riposo,  la  molestia o il disturbo alle persone, e finanche gli atti
 contrari alla pubblica decenza, recherebbero  un'offesa  al  pubblico
 decoro  inferiore  a quella dell'accattonaggio, atteso che l'art. 726
 del codice penale punisce  con  l'arresto  sino  a  un  mese,  o  con
 l'ammenda da lire 20.000 a 400.000, i comportamenti da ultimo citati.
   L'estrema  severita'  della  norma  in esame e', certo, il prodotto
 delle  concezioni  autoritarie  che  connotavano   la   cultura   del
 legislatore  del  1930,  inducendolo  a  una  radicale  inversione di
 tendenza rispetto alla impostazione  del  codice  Zanardelli,  che  -
 ispirandosi  alla  tradizione  del  pensiero  liberale  -  puniva  la
 mendicita' con l'arresto fino a cinque giorni, nella forma meno grave
 (art.  453),  e  con  quello  fino  a  un  mese  per  l'accattonaggio
 vessatorio   (art.   454).   Attribuendo   peraltro   al  giudice  la
 possibilita' di far scontare la pena mediante prestazione d'opera  in
 lavori di pubblica utilita' (art. 455).
    Altra  doglianza prospettata dallo stesso Pretore riguarda infine,
 per violazione degli artt. 13 e 97 della Costituzione,  il  principio
 di  sussidiarieta'  della  tutela  penale, che potrebbe dispiegare un
 effetto perverso, nell'attuale stato  di  crisi  dell'amministrazione
 giudiziaria,  contribuendo  a  incrementare il sovraffollamento delle
 carceri. Piu' idonea sembra dunque la scelta della  depenalizzazione,
 anche  perche'  la  fattispecie  incriminatrice tutela, ad avviso del
 giudice a quo,  un  interesse  anacronistico  che,  certo,  non  puo'
 considerarsi    rivitalizzato   dall'intensificarsi   dei   movimenti
 migratori dai paesi in condizioni precarie di sviluppo.
   4. - E' intervenuto, anche nel giudizio sulla  questione  sollevata
 dal  Pretore  di  Modena,  il  Presidente del Consiglio dei ministri,
 rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
 concludendo per la infondatezza della questione.
   In   ordine   al   primo   profilo   di   asserita   illegittimita'
 costituzionale, che si concreta  nella  richiesta  di  una  pronuncia
 sostitutiva  volta  a ridimensionare le pene previste dal citato art.
 670 per ricondurle entro limiti ragionevoli, l'Avvocatura ha ribadito
 la  discrezionalita'  del  legislatore  per  la   rispondenza   della
 fattispecie  alla  tutela  dei  beni  giuridici  della "tranquillita'
 pubblica, con qualche riflesso sull'ordine pubblico" (sentenza n.  51
 del 1959).
   Con  riferimento, poi, al secondo profilo - quello in base al quale
 sarebbe  irrazionale  la  "criminalizzazione"  della   mendicita'   -
 verrebbe  in  rilievo  la pericolosita' del comportamento di coloro i
 quali possono porre in  pericolo  i  beni  giuridici  della  pubblica
 tranquillita'  e  dell'ordine  pubblico.  Sebbene la Costituzione non
 reprima in se' il comportamento di quanti - astenendosi dal lavoro  -
 conducono  un'esistenza  diversa  da  quella  della  generalita'  dei
 cittadini,  essa  demanda  tuttavia  al  legislatore  il  compito  di
 predisporre  i  mezzi  idonei  a  evitare  che il diritto del singolo
 contrasti con la tutela dei beni predetti (sentenza n. 12 del  1972).
 Di  conseguenza,  la  repressione penale dell'accattonaggio, conclude
 l'Avvocatura,  non  comprimerebbe  i   diritti   fondamentali   della
 personalita'   e,  quindi,  non  sconfinerebbe  nell'arbitrarieta'  e
 nell'irragionevolezza, ne' lederebbe il canone del buon andamento  di
 cui all'art. 97 della Costituzione.
                         Considerato in diritto
   1.  - Viene riproposta, a distanza di circa vent'anni, la questione
 di legittimita' costituzionale dell'art. 670 del  codice  penale  con
 due ordinanze di identico tenore sollevate dal Pretore di Firenze, in
 ordine  al  primo  comma, e con una ordinanza del Pretore di Modena -
 sezione distaccata di Carpi, in ordine al primo e secondo comma.
   Ad avviso del Pretore di Firenze, vi sarebbe lesione  dei  principi
 di  solidarieta',  di uguaglianza e della finalita' rieducativa della
 pena contenuti, rispettivamente, negli artt. 2, 3 e 27, terzo  comma,
 della  Costituzione,  assoggettandosi  a  sanzione  penale coloro che
 versano in condizioni  di  indigenza  non  ascrivibili  alla  propria
 condotta,  dolosa o colposa che sia. Oggetto di doglianza del Pretore
 di Modena - sezione di Carpi, e' il secondo comma del  medesimo  art.
 670  del  codice  penale,  nella  parte  in  cui  prevede come minimo
 edittale la pena di un mese di arresto: sanzione penale  che  sarebbe
 statuita  in spregio dei principi di ragionevolezza e della finalita'
 rieducativa della pena (art. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della
 Costituzione), fra l'altro piu' severa di quella comminata dal codice
 Zanardelli agli artt. 453 e 454.
   Con tale ultima ordinanza viene prospettata, altresi', la questione
 di costituzionalita' dell'intero articolo 670  per  contrasto,  oltre
 che  con  i  valori  costituzionali  indicati, anche con il principio
 della  liberta'  personale  e  con  il  canone  del  buon   andamento
 dell'amministrazione   (artt.   13   e   97,   primo   comma,   della
 Costituzione), apparendo violato il principio di sussidiarieta' della
 tutela penale perche' si utilizza una sanzione non congrua, correlata
 a un interesse che  si  palesa  anacronistico,  mentre  sarebbe  piu'
 efficace  la  repressione  amministrativa  che  eviterebbe, peraltro,
 l'effetto indotto d'un sovraffollamento delle carceri.
   Riguardando  le  questioni,  oggetto   delle   tre   ordinanze   di
 rimessione,  la stessa disposizione di legge, si deve necessariamente
 procedere alla loro riunione, esaminando per  prima  l'ordinanza  del
 Pretore di Modena - sezione di Carpi, che e' logicamente da anteporre
 alle  altre,  dato  il  suo  carattere  di  globalita'. E invero, ove
 accolta, essa renderebbe superfluo l'esame delle altre due questioni.
   2. - La Corte costituzionale si e' gia' pronunciata  sull'art.  670
 del  codice  penale, nel senso della infondatezza, con le sentenze n.
 51 del 1959 e n. 102 del 1975 in precedenza citate.
   Con la prima decisione, limitata al  controllo  di  conformita'  in
 riferimento  all'art.  38 della Costituzione, questa Corte escluse la
 illegittimita' costituzionale della disposizione, rilevando  che  "la
 liberta'  di  prestare  assistenza  in  forme private e ad iniziativa
 privata  non  comprende  in alcun modo la liberta' di accattonaggio".
 Con la seconda, diede, si', valore  recessivo  alla  mendicita'  come
 "scelta  di  liberta'",  ma  nel contempo sostenne che - per coloro i
 quali vi fossero indotti non essendo stati messi  "in  condizione  di
 poter  tempestivamente  usufruire  di  quell'assistenza pubblica" cui
 avrebbero avuto diritto  -  ben  potesse  rientrare  nella  sfera  di
 applicazione  dell'art.  54  del  codice penale l'accattonaggio della
 persona "fisicamente debilitata  e  priva  di  chi  debba  per  legge
 provvedere ai suoi bisogni essenziali".
   3.  -  L'art. 670 del codice penale consta di due ipotesi criminose
 che si devono  mantenere  fra  loro  nettamente  distinte.  La  prima
 punisce,  con la pena dell'arresto fino a tre mesi, "chiunque mendica
 in luogo pubblico o aperto al pubblico"  (primo  comma);  la  seconda
 sanziona  piu'  gravemente, con l'arresto da uno a sei mesi, il fatto
 "commesso  in  modo  ripugnante  o   vessatorio,   ovvero   simulando
 deformita'  o  malattie,  o  adoperando  altri  mezzi fraudolenti per
 destare l'altrui pieta'" (secondo comma).  E'  opportuno,  sul  piano
 metodologico, distinguere le due ipotesi nel caso in cui questa Corte
 dovesse   accedere   a  una  declaratoria  di  illegittimita',  anche
 parziale, delle questioni sollevate.  E cio' al  fine  di  consentire
 una valutazione disgiunta dei due valori penalistici coinvolti, senza
 pregiudicare,  con  l'esame  di  una  figura,  anche  la  valutazione
 dell'altra (che e' quanto accadrebbe qualora si configurasse il reato
 di cui al secondo comma dell'art. 670 quale ipotesi aggravata).
   La denuncia del Pretore di Modena - sezione  distaccata  di  Carpi,
 investe l'intera disposizione e, dunque, entrambe le figure di reato.
   L'ipotesi della mendicita' non invasiva integra una figura di reato
 ormai   scarsamente   perseguita   in  concreto,  mentre  nella  vita
 quotidiana, specie nelle citta' piu' ricche, non e' raro il  caso  di
 coloro che - senza arrecare alcun disturbo - domandino compostamente,
 se  non  con  evidente  imbarazzo,  un  aiuto ai passanti. Di qui, il
 disagio degli organi statali preposti alla repressione  di  questo  e
 altri  reati consimili - chiaramente avvertito e, talora, apertamente
 manifestato - che e' sintomo, univoco,  di  un'abnorme  utilizzazione
 dello strumento penale.
   Gli  squilibri  e  le forti tensioni che caratterizzano le societa'
 piu' avanzate producono condizioni di estrema emarginazione, si'  che
 -  senza indulgere in atteggiamenti di severo moralismo - non si puo'
 non cogliere con preoccupata inquietudine l'affiorare di tendenze,  o
 anche  soltanto  tentazioni,  volte  a  "nascondere"  la  miseria e a
 considerare le persone in condizioni di poverta'  come  pericolose  e
 colpevoli.  Quasi  in  una  sorta  di recupero della mendicita' quale
 devianza, secondo linee che il  movimento  codificatorio  dei  secoli
 XVIII e XIX stilizzo' nelle tavole della legge penale, preoccupandosi
 nel   contempo   di  adottare  forme  di  prevenzione  attraverso  la
 istituzione di stabilimenti di ricovero (o ghetti?) per i mendicanti.
 Ma la coscienza sociale ha  compiuto  un  ripensamento  a  fronte  di
 comportamenti  un tempo ritenuti pericolo incombente per una ordinata
 convivenza, e la societa'  civile  -  consapevole  dell'insufficienza
 dell'azione  dello  Stato  -  ha  attivato  autonome  risposte,  come
 testimoniano le organizzazioni di volontariato che  hanno  tratto  la
 loro  ragion  d'essere,  e  la loro regola, dal valore costituzionale
 della solidarieta'. D'altra parte, i paventati effetti  di  ulteriore
 affollamento  delle  carceri  e  d'un accrescimento del carico penale
 sono irrealistici e comunque potranno  essere  scongiurati  se  e  in
 quanto   si   consolidera'   l'indirizzo  del  legislatore  verso  la
 "depenalizzazione".
   In questo quadro, la figura criminosa della mendicita' non invasiva
 appare costituzionalmente illegittima  alla  luce  del  canone  della
 ragionevolezza,  non  potendosi ritenere in alcun modo necessitato il
 ricorso alla regola penale. Ne' la tutela dei  beni  giuridici  della
 tranquillita'  pubblica,  con  qualche  riflesso sull'ordine pubblico
 (sentenza n. 51 del 1959), puo'  dirsi  invero  seriamente  posta  in
 pericolo  dalla  mera  mendicita'  che  si  risolve  in  una semplice
 richiesta di aiuto.
   4. - Altro discorso attiene invece al secondo comma dell'art.  670,
 che riguarda una serie di figure di mendicita' invasiva. Per le forme
 in  cui prende corpo, questa disposizione rimane fattispecie idonea a
 tutelare rilevanti beni giuridici, fra i  quali  anche  lo  spontaneo
 adempimento del dovere di solidarieta', che appare inquinata in tutte
 quelle  ipotesi  nelle  quali  il  mendicante faccia impiego di mezzi
 fraudolenti al fine di "destare l'altrui pieta'".
   La questione sollevata in ordine a questa parte non  puo',  dunque,
 essere accolta.
   5.  -  Nella  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  nei
 termini esposti, resta assorbita la questione, particolare, sollevata
 dal Pretore di Firenze con riguardo al primo comma in parte qua.  Non
 puo'  essere  invece  assorbita  la  seconda  questione sollevata dal
 Pretore  di  Modena  -  sezione  distaccata  di   Carpi,   circa   la
 sproporzione della sanzione penale minima per l'ipotesi di reato piu'
 grave.  Essa,  tuttavia,  deve  essere  dichiarata infondata, perche'
 questa Corte non ritiene di poter ripercorrere, nella specie,  l'iter
 argomentativo  della  sentenza  n.  341  del  1994,  tenuta a modello
 nell'ordinanza  di  rimessione,  per  l'evidente   diversita'   delle
 condotte indicate quali tertia comparationis.