ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 5 del d.P.R.
 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico  delle  norme
 sulle  prestazioni  previdenziali  a  favore  dei dipendenti civili e
 militari dello Stato), promosso con ordinanza emessa  il  26  gennaio
 1995  dal T.A.R. della Calabria, sul ricorso proposto da Giotta Maria
 Antonietta contro il Ministero della pubblica istruzione, iscritta al
 n. 405 del  registro  ordinanze  1995  e  pubblicata  nella  Gazzetta
 Ufficiale  della  Repubblica  n.  27, prima serie speciale, dell'anno
 1995;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del  6  marzo  1996 il Giudice
 relatore Cesare Ruperto.
                            Ritenuto in fatto
   1. - Nel corso di un giudizio proposto dalla erede testamentaria di
 una dipendente del Ministero della pubblica istruzione,  deceduta  in
 servizio,  al  fine  di ottenere la corresponsione dell'indennita' di
 buonuscita da questa maturata per effetto dell'espletata attivita' di
 insegnante, il tribunale amministrativo regionale della Calabria, con
 ordinanza emessa il 26 gennaio 1995, ha sollevato  -  in  riferimento
 agli  artt.  3  e  36  della Costituzione - questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 5, primo comma,  del  d.P.R.    29  dicembre
 1973,  n.  1032  (Approvazione  del  testo  unico  delle  norme sulle
 prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili  e  militari
 dello  Stato), nella parte in cui non prevede che il dipendente dello
 Stato possa disporre per testamento  dell'indennita'  di  buonuscita,
 per  il  caso  in  cui  egli  deceda  in  servizio  senza  lasciare i
 superstiti  che  la   norma   impugnata   indica   come   beneficiari
 dell'indennita'  stessa  (nell'ordine,  il  coniuge  superstite,  gli
 orfani, i genitori, i fratelli e le sorelle).
   Premesso che la ricorrente,  in  assenza  di  alcuno  dei  predetti
 congiunti, era stata designata per testamento dalla dante causa quale
 sua  erede  universale,  con  espressa  manifestazione di volonta' di
 disporre anche dell'indennita' di buonuscita,  rileva  il  rimettente
 come  - a seguito dell'evoluzione giurisprudenziale amministrativa in
 materia nonche', in particolare,  dell'affermazione  contenuta  nella
 sentenza  n.  243  del  1993  di  questa  Corte in ordine alla natura
 propriamente retributiva assunta in termini generali dalla indennita'
 in questione - tale carattere ne implichi l'entrata  pleno  iure  nel
 compendio patrimoniale del de cuius, con conseguente riconoscibilita'
 della  facolta' di disporne a mezzo testamento. Cosicche', la diversa
 disciplina  che  caratterizza   la   trasmissibilita'   dei   diritti
 patrimoniali   a   titolo   di   buonuscita,   rispetto  alla  libera
 disponibilita' (anche  mortis  causa)  riconosciuta  al  titolare  in
 relazione   agli   altri  elementi  della  retribuzione,  verrebbe  a
 vulnerare il principio di cui all'art.   36  della  Costituzione,  il
 quale non introduce alcuna ipotesi di differenziazione fra componenti
 retributive   spettanti   al   lavoratore,   sancendo  piuttosto  che
 l'indennita' di buonuscita debba essere riferita alla retribuzione ed
 alla durata del rapporto, e quindi  alla  quantita'  e  qualita'  del
 lavoro.   A   cio'   si  aggiunge  la  circostanza  che  la  denegata
 possibilita' di disporre per testamento dell'indennita' di buonuscita
 puo' pregiudicare le esigenze di vita e di sostentamento di  soggetti
 che,  pur  se  non  ricompresi  dalla  norma  de  qua  nel novero dei
 destinatari  del  beneficio,  nondimeno  facciano  parte  del  nucleo
 familiare del pubblico dipendente.
   Osserva, infine, il rimettente che - dichiarata, con sentenza n.  8
 del  1972,  l'illegittimita' costituzionale dell'art. 2122 del codice
 civile, nella parte in cui escludeva  che  il  prestatore  di  lavoro
 potesse  disporre per testamento dell'indennita' di fine rapporto, in
 mancanza del coniuge, dei figli, dei parenti entro il terzo  grado  e
 degli affini entro il secondo grado, ed affermata l'omogeneita' della
 natura   retributiva   delle   rispettive  spettanze  -  si  appalesa
 un'evidente disparita' di trattamento tra  i  lavoratori  subordinati
 privati  e  i dipendenti statali, con conseguente vulnus al principio
 di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione.
   2. - Nel giudizio avanti alla Corte costituzionale  e'  intervenuto
 il  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri, rappresentato e difeso
 dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  che  ha  concluso  per   la
 dichiarazione  di manifesta infondatezza della questione, deducendo -
 in una successiva memoria - che la buonuscita costituisce un  vero  e
 proprio diritto patrimoniale autonomo, distinto dallo stipendio e che
 sorge  all'atto  della  cessazione  del  servizio,  quando concorrano
 determinati  presupposti  fissati  dalla  legge  e  che,  alla  morte
 dell'impiegato,   si   trasferisce   ai   suoi   familiari  non  jure
 successionis, bensi' in forza di un loro diritto proprio ed  autonomo
 derivante dalla vocazione legale.
   Pertanto, la norma sarebbe immune dalle dedotte censure, in ragione
 della  differente disciplina dei trattamenti connessi alla cessazione
 del rapporto di lavoro nel settore  pubblico  e  in  quello  privato,
 nonche'   dell'errore   in   cui   sarebbe   incorso   il  rimettente
 nell'interpretare  la  disposizione  impugnata  come  se  essa  fosse
 diretta  a  tutelare  non  gia'  la proporzionalita' e la sufficienza
 della retribuzione, ancorche' differita, del  lavoratore  dipendente,
 quanto  piuttosto  gli  interessi patrimoniali di persona diversa dal
 lavoratore ed estranea al suo nucleo familiare.
                         Considerato in diritto
   1. - Il tribunale amministrativo regionale  della  Calabria  dubita
 della  legittimita'  costituzionale  dell'art.  5,  primo  comma, del
 d.P.R.  29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle
 norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti  civili
 e  militari  dello  Stato),  nella  parte  in  cui non prevede che il
 dipendente statale possa disporre per testamento  dell'indennita'  di
 buonuscita,  per  il caso in cui il medesimo deceda in servizio senza
 lasciare i superstiti che  la  denunciata  disposizione  indica  come
 beneficiari   dell'indennita'   stessa   (nell'ordine:   il   coniuge
 superstite, gli orfani, i genitori, i fratelli e le sorelle).
    Ritiene il rimettente che la denunciata disposizione si  ponga  in
 contrasto:
     a)  con  l'art.  36 della Costituzione, poiche' il diverso regime
 che   caratterizza   la   limitata   trasmissibilita'   dei   diritti
 patrimoniali   a   titolo   di   buonuscita,   rispetto  alla  libera
 disponibilita' (anche  mortis  causa)  riconosciuta  al  titolare  in
 relazione   agli   altri  elementi  della  retribuzione,  verrebbe  a
 determinare un'irrazionale ipotesi di differenziazione fra componenti
 retributive  spettanti  al  lavoratore  (con  conseguente  esclusione
 dell'ineludibile riferimento dell'indennita' stessa alla retribuzione
 ed alla durata del rapporto, e quindi alla quantita' e  qualita'  del
 lavoro prestato);
     b) ancora con lo stesso parametro, in quanto la limitazione posta
 alla    trasmissibilita'    del    diritto   anche   per   testamento
 pregiudicherebbe le esigenze di vita e di sostentamento  di  soggetti
 che,  pur  se non ricompresi nel novero dei destinatari del beneficio
 ai sensi della  norma  de  qua,  nondimeno  fanno  parte  del  nucleo
 familiare del pubblico dipendente;
     c)   con  l'art.  3  della  Costituzione,  giacche'  -  a  fronte
 dell'omogenea natura  retributiva  dell'indennita'  di  buonuscita  e
 dell'indennita'  di  fine rapporto dei lavoratori subordinati privati
 (trasmissibile per testamento ex art. 2122 del  codice  civile,  come
 emendato  da  questa  Corte  con  la  sentenza  n.  8  del 1972) - la
 disposizione denunciata darebbe luogo  a  un'evidente  disparita'  di
 trattamento tra questi ultimi e i dipendenti statali.
   2. - La questione e' fondata.
   2.1.  -  Questa  Corte,  ponendo  termine  a  una complessa fase di
 evoluzione giurisprudenziale (v., in particolare, sentenza n. 220 del
 1988, in cui veniva sollecitato l'intervento del legislatore, volto a
 ricondurre ad omogeneita' i trattamenti  di  quiescenza  nell'a'mbito
 del  pubblico impiego), e' infine pervenuta a ricondurre l'indennita'
 di buonuscita  nella  categoria  generale  dei  trattamenti  di  fine
 rapporto   nel   settore   pubblico,   riconoscendo  a  tutti  questi
 trattamenti - in stretta analogia con quelli del  settore  privato  -
 l'essenziale  natura  di retribuzione differita, pur se legata ad una
 concorrente funzione previdenziale (v. sentenze  nn.  243  e  99  del
 1993, nn. 439 e 63 del 1992, n. 319 del 1991 e n. 471 del 1989).
   Tutte  le  indennita' di fine rapporto, invero, costituiscono parte
 del compenso dovuto per il lavoro  prestato,  la  cui  corresponsione
 viene  differita - appunto in funzione previdenziale - onde agevolare
 il superamento delle difficolta' economiche che possono insorgere nel
 momento in cui viene meno la retribuzione. Tant'e' che la misura  del
 trattamento  si  determina  in  proporzione  alla  durata  del lavoro
 prestato nonche' alla globale retribuzione di carattere  continuativo
 spettante  al  dipendente. E per ognuna di esse puo' dunque ripetersi
 che e' stata conquistata  attraverso  la  prestazione  dell'attivita'
 lavorativa e come frutto di essa (sentenze nn. 208 del 1986 e 156 del
 1973).
   2.2.  -  Cio'  spiega  perche'  sia stata ritenuta contrastante con
 l'art.  36  della  Costituzione  ogni  disposizione  che  privi,  per
 qualsiasi   ragione,   il  lavoratore  o  i  suoi  aventi  causa  del
 trattamento di fine rapporto, facendosi  applicazione  del  risalente
 principio, secondo cui "la retribuzione dei lavoratori - tanto quella
 corrisposta   nel   corso  del  rapporto  di  lavoro,  quanto  quella
 differita, ai fini previdenziali, alla cessazione di tale rapporto, e
 corrisposta,  sotto  forma  di  trattamento  di  liquidazione  o   di
 quiescenza,  a  seconda  dei  casi,  allo stesso lavoratore o ai suoi
 aventi causa - rappresenta, nel vigente ordine costituzionale  (...),
 un'entita'  fatta oggetto, sul piano morale e su quello patrimoniale,
 di particolare protezione" (sentenze nn.  208 del 1986 e 3 del 1966).
 Ma  spiega  anche  perche'  questa  Corte  abbia   contemporaneamente
 affermato  e  piu'  volte  ribadito  che,  al momento della morte del
 lavoratore, le indennita' di fine rapporto sono gia'  entrate  a  far
 parte del patrimonio dello stesso, come si rileva anche dalla lettura
 del  terzo  comma  dell'art. 2122 del codice civile, dove e' previsto
 che, in mancanza delle persone indicate  nel  primo  comma  (coniuge,
 figli  a  carico,  parenti  entro  il  terzo  grado e affini entro il
 secondo grado), le relative somme siano attribuite secondo  le  norme
 della successione legittima.
   Pertanto  -  proprio  sulla  base  di dette considerazioni - l'art.
 2122 cod. civ. e' stato dichiarato incostituzionale  nella  parte  in
 cui  non  prevedeva  che  il  lavoratore  subordinato, in assenza dei
 menzionati soggetti, potesse disporre per testamento  dell'indennita'
 stessa (sentenza n. 8 del 1972). Ed eguale sorte ha subi'to l'art. 3,
 secondo  comma,  della  legge  8 marzo 1968 n. 152, con riguardo alla
 trasmissibilita' dell'indennita' premio  di  servizio  del  personale
 degli  enti locali (sentenza n. 471 del 1989, segui'ta dalla sentenza
 n. 319 del 1991, che ha esteso  la  dichiarazione  di  illegittimita'
 costituzionale  alla  mancata  previsione  anche della successione ex
 lege per tale indennita').
   2.3. - Basandosi sul medesimo presupposto, non si puo'  allora  non
 ritenere costituzionalmente illegittima anche la norma denunciata dal
 tribunale amministrativo regionale della Calabria.
   E'  in proposito sufficiente ribadire che la connotazione unitaria,
 in termini  di  natura  e  di  funzione,  delle  varie  categorie  di
 indennita'  di  fine  rapporto  -  nonostante  l'esistenza di diverse
 regolamentazioni riguardanti i meccanismi  di  provvista,  nonche'  i
 soggetti  gravati  dall'onere contributivo e quelli tenuti ad erogare
 il trattamento - consente una generale applicazione a qualsiasi  tipo
 di  rapporto di lavoro subordinato dei relativi princi'pi informatori
 della materia (v. sentenze nn.  243  e  99  del  1993).  Conclusione,
 questa,  che per l'avvenire trova puntuale riscontro nella disciplina
 riguardante i lavoratori assunti dal 1 gennaio 1996  alle  dipendenze
 delle  pubbliche  amministrazioni  di  cui  all'art.  1  del  decreto
 legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 avendo l'art. 2,  comma  5,  della
 recente legge 8 agosto 1995, n. 335, disposto che per tali lavoratori
 i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, sono regolati in
 base a quanto previsto dall'art. 2120 del codice civile in materia di
 trattamento di fine rapporto.
   La  denunciata  norma  -  in  deroga  ai  princi'pi  generali sulla
 successione mortis causa - prevede l'attribuzione dell'indennita'  di
 buonuscita  maturata  dal  dipendente  deceduto  durante il servizio,
 esclusivamente a favore di determinati soggetti.
   Tale  disposto  puo'  certo  trovare  razionale  fondamento   nella
 surrichiamata  concorrente  funzione previdenziale dell'indennita' di
 buonuscita, considerando che destinatarie di questa vengono  indicate
 persone  nei  cui  confronti  il  dipendente  deceduto aveva obblighi
 alimentari.  Ma e' chiaro che, in assenza di tali soggetti, a  favore
 dei  quali  opera una riserva legale di destinazione, perde qualunque
 rilevanza la  concorrente  funzione  previdenziale,  espandendosi  in
 tutta  la sua portata la natura retributiva dell'indennita' stessa. E
 allora, essendo questa gia' entrata nel patrimonio del dipendente  al
 momento    della    sua   morte,   non   e'   ragionevole   escludere
 legislativamente ch'essa formi oggetto di successione ereditaria  con
 la conseguenza che il dipendente non ne possa disporre per testamento
 e che, in mancanza di questo, non trovino applicazione le norme sulla
 successione  legittima, cosi' come invece e' previsto con riguardo al
 trattamento di fine rapporto dei dipendenti privati ed all'indennita'
 premio di servizio del personale degli enti locali, per effetto delle
 sopra citate sentenze di questa Corte.
   In tal senso -  e  dunque  estendendo  nei  termini  imposti  dalla
 conseguenzialita'  logica  l'a'mbito  della  sollevata questione - va
 dichiarata l'illegittimita' costituzionale della denunciata norma, in
 riferimento all'art.  3  della  Costituzione,  con  assorbimento  dei
 profili legati all'altro parametro evocato dal rimettente.