ha pronunciato la seguente Ordinanza nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 344 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 3 febbraio 1995 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da La Sala Rocco, iscritta al n. 735 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 1995; Udito nella camera di consiglio del 17 aprile 1996 il giudice relatore Giuliano Vassalli; Ritenuto che la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dell'art. 344 del codice penale "nella parte concernente il minimo edittale della pena"; che a parere del giudice a quo la sentenza n. 341 del 1994, con la quale e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 341 cod. pen. nella parte in cui prevedeva come minimo edittale la reclusione per mesi sei, non estenderebbe i suoi effetti alla fattispecie prevista dall'art. 344 dello stesso codice; che per effetto della citata sentenza di questa Corte si sarebbe dunque venuta a creare a parere della Corte rimettente una ingiustificata disparita' di trattamento tra i due reati, nel senso che alla meno grave ipotesi di oltraggio a pubblico impiegato sarebbe riservato un trattamento piu' grave nel minimo rispetto a quello ora previsto per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, con conseguente compromissione degli indicati parametri, attesa la palese sproporzione del sacrificio della liberta' personale fra le due ipotesi poste a raffronto, tale da vanificare anche il fine rieducativo della pena; una sproporzione, conclude il giudice a quo neppure componibile in via ermeneutica, sia perche' non e' consentito estendere interpretativamente la citata sentenza di questa Corte a reati diversi da quello ivi considerato, sia perche' si perverrebbe comunque alla conclusione di una ingiustificata equiparazione, quoad poenam nel limite minimo di reati di diversa gravita'; Considerato che l'art. 344 cod. pen., nel richiamare le disposizioni dettate dall'art. 341 dello stesso codice, individua sul piano sanzionatorio un regime di mera proporzionalita' fra le pene, con l'ovvia conseguenza di far si' che qualsiasi modifica apportata alla sanzione edittalmente prevista dalla norma richiamata automaticamente si riverberi sulla disposizione richiamante; che l'ordinanza del giudice a quo si fonda, dunque, su un presupposto interpretativo erroneo, mentre nessun rilievo assume la circostanza che le ipotesi in comparazione risultino ora equiparate nel limite minimo della pena, giacche' - anche a voler prescindere dalla inammissibilita' di quesiti manipolativi sul punto - l'omologazione del trattamento sanzionatorio al minimo fissato in via generale dall'art. 23 cod. pen. e' proprio di tutte le fattispecie delittuose che, senza per questo turbare alcun valore di rango costituzionale, non stabiliscono un minimo edittale autonomo malgrado la diversa gravita' dei reati contrassegnata dalla differente pena massima; che, pertanto, la questione proposta deve essere dichiarata manifestamente infondata; Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.