ha pronunciato la seguente
                               Sentenza
 nei  giudizi di legittimita' costituzionale: a) dell'art. 486, quinto
 comma, del codice di procedura  penale;  b)  del  combinato  disposto
 degli  artt.  97, 486, quinto comma, del codice di procedura penale e
 29 delle disposizioni attuative del codice di  procedura  penale;  c)
 del combinato disposto degli artt. 420, terzo comma, 97 del codice di
 procedura  penale,  29  delle  disposizioni  attuative  del codice di
 procedura penale e 1 della  legge  12  giugno  1990,  n.  146  (Norme
 sull'esercizio   del   diritto   di  sciopero  nei  servizi  pubblici
 essenziali  e  sulla   salvaguardia   dei   diritti   della   persona
 costituzionalmente   tutelati.   Istituzione   della  commissione  di
 garanzia dell'attuazione della legge); d) degli  artt.  304,  lettera
 b),  e  76  del codice di procedura penale in relazione all'art. 102,
 secondo comma, stesso codice e art. 30 delle  disposizioni  attuative
 del  codice di procedura penale; e) degli artt. 2, 4, 8, 12, 13 della
 legge 12 giugno 1990, n. 146; f) degli artt. 85 e 169, secondo comma,
 del codice di procedura civile; g) degli artt. 1, secondo  comma,  2,
 terzo  comma,  della  legge  12  giugno  1990,  n.  146 e degli artt.
 669-duodecies, 669-septies  e  669-octies  del  codice  di  procedura
 civile, promossi con ordinanze emesse il 30 maggio 1995 dal Tribunale
 di  Sassari,  il  1  giugno  (n.  2 ordinanze) e il 3 giugno 1995 dal
 Pretore di Padova, l'8 giugno e il 2 giugno  1995  dal  Tribunale  di
 Roma  sez.  per  il  riesame,  il 14 giugno 1995 (n. 4 ordinanze) dal
 Pretore di Bologna, il 1 giugno 1995 dal Pretore  di  Padova,  il  16
 giugno,  il 3 giugno, il 31 maggio (n. 2 ordinanze), il 13 giugno, il
 31 maggio, il 7 giugno, il 14 giugno, il 3 giugno (n.  3  ordinanze),
 il  31  maggio,  il  30  maggio  (n.  2 ordinanze), il 2 giugno (n. 3
 ordinanze), il 14 giugno, il 9 giugno, il 6 giugno, il 9 giugno, il 3
 giugno, il 6 giugno, il 30 maggio (n. 2 ordinanze), il 2 giugno, il 9
 giugno, il 20 giugno, il 30 maggio, il 9 giugno, il 20 giugno, il  21
 giugno  (n. 5 ordinanze), il 16 giugno, il 6 giugno, il 9 giugno e il
 13 giugno 1995 dal Tribunale di Sassari,  il  5  giugno  1995  (n.  5
 ordinanze)  dal Pretore di Forli', il 2 giugno 1995 (n. 15 ordinanze)
 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale  militare
 di  Padova,  il 29 giugno 1995 dalla Corte d'appello di Napoli, il 20
 giugno 1995 (n. 2 ordinanze) dal Pretore di Milano, il 2 giugno  1995
 dal  giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare
 di Padova, il 23 giugno (n. 5 ordinanze), il 16 giugno, il 20 giugno,
 il 31 maggio, il 6 giugno, il 23 giugno, il 3 giugno, il 23 giugno  e
 il  2  giugno  1995  dal Tribunale di Sassari, il 2 giugno 1995 (n. 3
 ordinanze)  dal  giudice  per  le  indagini  preliminari  presso   il
 Tribunale  militare  di  Padova,  il  20  luglio  1995 dal Pretore di
 Padova, il 2 giugno 1995 dal  giudice  per  le  indagini  preliminari
 presso il Tribunale militare di Padova e il 1 giugno 1995 dal Pretore
 di Padova, iscritte rispettivamente ai nn. 500, 508, 509, 510, da 512
 a  517,  521, da 530 a 536, da 545 a 577, da 594 a 598, da 618 a 632,
 657, 660, 661, 690, da 696  a  709,  717,  729,  731,  739,  780  del
 registro  ordinanze 1995, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica, prima serie speciale, nn. 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44,  46
 e 48 dell'anno 1995;
   Visti  l'atto  di costituzione di Bergantino Vincenzo e gli atti di
 intervento del Consiglio  nazionale  forense  e  del  Presidente  del
 Consiglio dei Ministri;
   Udito nella udienza pubblica del 9 gennaio 1996 il giudice relatore
 Francesco Guizzi;
   Uditi  gli  avvocati Piero Longo e Gaetano Pecorella per Bergantino
 Vincenzo, Antonino  Galati  e  Vincenzo  Panuccio  per  il  Consiglio
 nazionale  forense  nonche'  gli  avvocati  dello  Stato Carlo Sica e
 Alessandro De Stefano per il Presidente del Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Nel corso del procedimento penale a carico di Bosinco  Antonio
 e di altro imputato, nonche' nel corso di altri cinquantatre' giudizi
 -  alcuni  dei  quali  in  prosecuzione  sotto  il vigore delle norme
 anteriori, ai sensi dell'art. 245 del decreto legislativo  28  luglio
 1989,  n.    271 - tutti pendenti davanti al Tribunale di Sassari, il
 Presidente della Camera penale sarda, con nota del  30  maggio  1995,
 informava   l'autorita'   giudiziaria   circa  l'astensione  a  tempo
 indeterminato  degli  avvocati  dalle  udienze  penali.  Rilevata  la
 tempestivita'  della comunicazione e la legittimita' dell'impedimento
 dei difensori, alla luce del consolidato orientamento della Corte  di
 cassazione,   che   a   tale   impedimento   riconduce   il  fenomeno
 dell'astensione di avvocati e procuratori dalle udienze, il Tribunale
 di  Sassari  ha  sollevato,  per  lesione  degli  artt.  2,  10   (in
 riferimento  all'art.  6  della  Convenzione  per la salvaguardia dei
 diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata con legge
 4 agosto 1955, n. 848),  24,  101,  102  e  134  della  Costituzione,
 questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.    486, quinto
 comma, del codice di procedura  penale.  Perche'  in  conseguenza  di
 detto  impedimento,  quantunque  sinora  ritenuto legittimo, l'azione
 penale verrebbe a essere paralizzata e la giustizia non sarebbe  piu'
 amministrata,  in spregio delle previsioni costituzionali di cui agli
 artt. 101 e 102.  La disposizione denunciata violerebbe altresi',  in
 riferimento al dettato dell'art. 6 della Convenzione ratificata dalla
 citata  legge n. 848 del 1955, anche l'art. 2 della Costituzione, che
 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, fra  i  quali
 vi e', certo, l'esame della res litigiosa entro termini ragionevoli.
   2.  -  E'  intervenuto  il  Presidente  del Consiglio dei ministri,
 rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
 concludendo  per  la  manifesta inammissibilita' della questione.  Ad
 avviso dell'Avvocatura, con l'ordinanza di rimessione si chiede -  in
 assenza  di  soluzioni  costituzionalmente  obbligate - una pronuncia
 additiva che questa Corte ha  gia'  espressamente  escluso  di  poter
 adottare, considerandola invasiva della discrezionalita' riservata al
 legislatore  e  limitandosi,  con  la  sentenza  n.  114  del 1994, a
 chiedere un intervento  legislativo  sul  cosiddetto  sciopero  degli
 avvocati.
   3.  - E' intervenuto il Consiglio nazionale forense, in persona del
 Presidente pro-tempore, che ha affermato la propria legittimazione  -
 quale   rappresentante   istituzionale  dell'avvocatura  italiana  e,
 quindi, come portatore di un interesse collettivo - e ha concluso nel
 merito per la manifesta infondatezza, sia perche' l'astensione non si
 e' protratta a tempo indeterminato, avendo le  assemblee  deliberato,
 di volta in volta, tempi e modalita', anche di revoca, sia perche' la
 disposizione  denunciata attribuisce al giudice il potere di valutare
 la legittimita' dell'impedimento  dei  difensori  e  di  negarla  per
 particolari   esigenze   o   situazioni  come  quella  dell'eccessivo
 protrarsi della condizione impeditiva. L'art. 486, quinto comma,  del
 codice  di  procedura  penale  consentirebbe  infatti  di  bilanciare
 l'interesse al buon andamento  dell'amministrazione  della  giustizia
 (unitamente  a  quello  dell'imputato  alla  pronta  definizione  del
 processo)  con  l'interesse  alla  difesa  tecnica  di fiducia, dando
 evidente prevalenza a quest'ultimo, specie  in  considerazione  della
 garanzia offerta dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione.  La
 scelta  del legislatore di ammettere la legittimita' dell'impedimento
 all'avvocato  senza   limitazioni   non   sarebbe   compatibile   con
 l'intervento  del  giudice  ne' potrebbe essere censurata dalla Corte
 costituzionale.  Non pertinente sarebbe, poi, il richiamo agli  artt.
 101  e  102  della  Costituzione,  inapplicabili  alle  parti,  e non
 riferibile al legittimo  impedimento  del  singolo  patrocinatore  la
 questione  relativa  all'agitazione  di categoria, dal momento che si
 colloca su un piano diverso, implicando il bilanciamento di valori in
 conflitto: gli interessi di categoria e le esigenze di  funzionamento
 dell'amministrazione  della  giustizia.    Tale questione, pero', non
 potrebbe che essere risolta con l'intervento del legislatore, onde in
 mancanza di esso sarebbe demandato al giudice di valutare,  nel  caso
 concreto,  la  legittimita'  dell'impedimento  del  difensore, con la
 possibilita' di negarla in circostanze particolari  come  l'imminente
 prescrizione   del   reato  o  il  lungo  e  intollerabile  protrarsi
 dell'agitazione.  L'attento  esercizio  del  potere   giudiziale   di
 ponderazione   dei   contrapposti   interessi,   in   relazione  alla
 specificita'  delle  situazioni,  non  farebbe  dunque   venir   meno
 l'assistenza  legale  di  fiducia  -  malgrado l'adesione del singolo
 all'agitazione di categoria - e non legittimerebbe  il  ricorso  alla
 difesa  d'ufficio,  neanche  prospettando il caso della revoca tacita
 del mandato ai sensi dell'art.  30 delle disposizioni  di  attuazione
 del codice di procedura penale, come suggerisce il giudice a quo.  La
 Corte  potrebbe  certo  propendere  per  una sentenza manipolativa di
 rigetto, ma la soluzione piu' corretta - cosi' conclude il  Consiglio
 nazionale  forense  -  dovrebbe  essere  una  decisione  di manifesta
 infondatezza.
   4. - Nel corso di quattro distinti procedimenti penali  davanti  al
 Pretore  di  Padova,  i  difensori  di  fiducia  degli imputati hanno
 dichiarato  di  aderire  all'astensione  dalle   udienze   deliberata
 dall'Unione   delle   camere   penali   e   successivamente  ribadita
 dall'assemblea degli avvocati italiani; il pubblico ministero  si  e'
 pero'  opposto  al  rinvio,  eccependo in subordine la illegittimita'
 costituzionale dell'art.  486, quinto comma, del codice di  procedura
 penale.  In merito a cio', il Pretore ha preliminarmente rilevato che
 l'astensione   dei   difensori   dalle   udienze   non   e'    ancora
 legislativamente  disciplinata  nonostante  le  indicazioni formulate
 nella sentenza di questa Corte n. 114 del 1994  e  quelle  ricavabili
 dalla  legge  n.  146  del  1990. Ha quindi sollevato, per violazione
 degli articoli 2, 24, primo e secondo comma, 97, 101, secondo  comma,
 e  112  della  Costituzione,  altrettante  questioni  di legittimita'
 costituzionale della disposizione richiamata.  La Corte di cassazione
 - osserva il giudice a quo - ha ricondotto l'astensione dei difensori
 alla nozione di legittimo impedimento  contenuta  nell'art.  486  del
 codice   di  procedura  penale,  si'  che  sembrano  presentarsi  due
 interpretazioni alternative. Stando a  una  prima  ricostruzione,  il
 diritto  di  protesta della classe forense dovrebbe sempre prevalere,
 anche  a  costo   di   determinare   la   paralisi   della   funzione
 giurisdizionale;  stando  invece  all'altra, il diritto di protesta -
 ancorche' garantito dalla Costituzione nella sua forma associativa  -
 andrebbe   bilanciato   con   gli  altri  diritti  costituzionalmente
 protetti.  Di  qui,  la  sussistenza  del  legittimo impedimento solo
 quando l'astensione si eserciti con modalita' idonee a  salvaguardare
 diritti e principi costituzionali anche solo potenzialmente lesi.  Un
 esempio  di concreto bilanciamento e' offerto dalla legge n.  146 del
 1990 che - quantunque non applicabile ad  avvocati  e  procuratori  -
 prescinde  dalla qualita' dei soggetti che si astengono e, in ragione
 della peculiare natura del servizio e  della  funzione  svolta,  pone
 alcuni punti fermi, come il congruo preavviso, il termine certo circa
 la   cessazione   dell'astensione   e  gli  affari  ineludibili,  che
 dovrebbero considerarsi vincolanti sul  piano  interpretativo,  quali
 che siano i soggetti che si astengono dall'attivita' giudiziaria. Non
 costituirebbero  percio'  legittimo  impedimento,  ai sensi dell'art.
 486, quinto comma, del codice di procedura penale,  quelle  forme  di
 protesta  prive  sia  d'un congruo preavviso sia di un termine finale
 certo: onde, in relazione agli artt.  97,  2,  24,  primo  e  secondo
 comma,  101,  terzo comma, e 112 della Costituzione, la non manifesta
 infondatezza della questione  di  legittimita'  costituzionale  della
 disposizione  processuale censurata.   Essa sarebbe rilevante - cosi'
 motiva l'ordinanza di rimessione - perche' le agitazioni si sarebbero
 svolte senza alcun preavviso e senza un termine certo di conclusione,
 in  quanto  genericamente  ancorato,  questo,  all'approvazione   dei
 "contenuti   delle   riforme  a  cui  si  erano  impegnate  le  forze
 politiche".
   5. - Nel corso di altri due procedimenti penali, lo stesso  Pretore
 -  operando  un  concreto  giudizio  di  bilanciamento - rigettava la
 richiesta di rinvio del dibattimento senza ottenere, tuttavia,  alcun
 effetto.    Nominava,  percio', difensore d'ufficio il Presidente del
 locale  ordine  forense  che,  a  sua  volta,   negava   la   propria
 disponibilita',  dichiarando  di  aderire  alla  protesta.  E  quindi
 sollevava una  ulteriore  questione  di  legittimita'  costituzionale
 avente  a  oggetto il combinato disposto degli artt. 97 e 486, quinto
 comma, del codice di  procedura  penale,  nonche'  dell'art.  29  del
 decreto  legislativo  28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di
 coordinamento e transitorie del codice di  procedura  penale),  nella
 parte  in  cui  consente  di ritenere legittimo l'impedimento di quei
 difensori che sono  nominati  d'ufficio  a  seguito  della  rigettata
 richiesta  di rinvio proposta dal difensore di fiducia in adesione al
 medesimo deliberato assembleare.   Nel richiamare  le  considerazioni
 sopra illustrate, il giudicante prospetta la violazione:  dell'art. 2
 della  Costituzione, perche' il "legittimo impedimento" provocherebbe
 la paralisi della giustizia e priverebbe il cittadino di  una  tutela
 costituzionalmente  garantita  in ragione dell'ordinato funzionamento
 della  giurisdizione;  dell'art.  24,  primo  comma,  per  la   grave
 turbativa che deriverebbe al diritto di azione; dell'art. 24, secondo
 comma, perche' si vanificherebbe il diritto di difesa in ogni stato e
 grado  del processo; dell'art. 35, primo comma, perche', con rinvii a
 catena delle udienze, si turberebbe la regolarita' delle  occupazioni
 di tutti quei cittadini a vario titolo coinvolti nel processo;
     dell'art.   97,  per  gli  inconvenienti  nel  funzionamento  del
 processo penale che scaturirebbero dalla mancata  applicazione  degli
 artt.    132  e  160  delle  disposizioni di attuazione del codice di
 procedura penale, nonche' dell'art. 477 dello stesso codice;
     dell'art.  101,  secondo  comma, impedendosi lo svolgimento della
 funzione giurisdizionale;
     dell'art.   112,   perche'    verrebbe    leso    il    principio
 dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale,  non  essendo garantita la
 sospensione dei termini prescrizionali.
   6. - E' intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
 rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  dello  Stato,  la quale ha
 concluso per la  infondatezza  della  questione,  sostenendo  che  il
 richiamo agli artt.  2, 35 e 97 della Costituzione sarebbe generico e
 improprio  -  in  quanto i tre valori costituzionali non atterrebbero
 all'esercizio  della  giurisdizione  -   e   sottolineando   che   le
 disposizioni  censurate  non  riguarderebbero  l'organizzazione degli
 uffici giudiziari, ma un complesso di regole di  ordine  strettamente
 processuale.    Il  riferimento  all'art.  24  della  Costituzione si
 rivelerebbe  addirittura   contraddittorio   rispetto   all'obiettivo
 perseguito,   perche'  la  difesa  d'ufficio  dell'imputato  -  quale
 risulterebbe   dall'accoglimento   della   questione    -    potrebbe
 pregiudicare  gli  interessi  dell'assistito. Ne' sarebbe ravvisabile
 una  violazione  degli  artt.  101,  secondo  comma,  e   112   della
 Costituzione,  poiche'  le  disposizioni  censurate non impedirebbero
 l'esercizio della funzione giurisdizionale, ma inciderebbero soltanto
 sulla  sua  celerita',  non  derogando  neppure   al   principio   di
 obbligatorieta' dell'azione penale da parte del pubblico ministero.
   7. - Anche in questo giudizio e' intervenuto il Consiglio nazionale
 forense,  concludendo per l'inammissibilita', e l'infondatezza, della
 questione.  L'inammissibilita' conseguirebbe alla  scelta  effettuata
 dal Pretore che avrebbe nominato, ai sensi dell'art. 97, primo comma,
 del   codice   di   procedura   penale,   quale  difensore  d'ufficio
 dell'imputato, il Presidente del locale ordine forense anziche' altro
 sostituto. Nel richiamare l'art. 97 del codice di rito, il giudice  a
 quo avrebbe, nella specie, dovuto applicare il quarto comma, e non il
 primo  comma,  poiche'  l'imputato, nel caso in esame, non rimarrebbe
 privo del difensore, ne' il rapporto fiduciario sarebbe venuto  meno,
 secondo  quanto affermato dalla Corte nell'ordinanza n. 480 del 1991.
 La questione sarebbe comunque irrilevante, sia  per  la  sopravvenuta
 cessazione della protesta degli avvocati, sia perche' sollevata in un
 procedimento  diverso,  e non appropriato, dovendo invece esser posta
 nel corso del procedimento da instaurarsi a seguito del  rifiuto  del
 difensore  nominato  d'ufficio.    Nel merito, poi, sarebbe infondata
 sulla base delle argomentazioni svolte a  proposito  della  questione
 sollevata  dal Tribunale di Sassari.  Circa i parametri qui invocati,
 si  paleserebbe   erroneo   il   riferimento   all'art.   112   della
 Costituzione,  giacche'  tale  disposizione  concerne solo il momento
 dell'iniziativa  processuale  e  dell'irretrattabilita'   dell'azione
 penale,  una  volta  che  sia  esercitata.  Ne'  appare pertinente il
 richiamo all'art. 102 della Costituzione con riguardo a disposizioni,
 qual e' quella denunciata,  che  consentono  al  giudice  di  operare
 valutazioni  comparative  (cfr.  sentenza  n.  178  del  1991).   Pur
 respingendo l'equiparazione della protesta forense  allo  sciopero  -
 solo quest'ultimo effettivamente regolato dalla legge n. 146 del 1990
 -  il  Consiglio forense contesta inoltre la ricostruzione del fatto,
 secondo cui le  assemblee  della  categoria  non  avrebbero  prestato
 ossequio al principio del termine finale certo e agli altri stabiliti
 dalla  predetta  legge.  L'obbligo  del preavviso, almeno come inteso
 dall'art. 486 del codice di rito (la "pronta comunicazione"), e  come
 risulterebbe  dalle  ordinanze  dei  giudici  a quibus, sarebbe stato
 d'altronde  rispettato,  avendo  i  difensori  provveduto,  in   ogni
 occasione,  a  comunicare  con  "prontezza"  la  loro  adesione  alla
 protesta. Ne' troverebbe fondamento, infine, la pretesa diversita' di
 posizione fra l'avvocato di fiducia dell'imputato e  quello  nominato
 d'ufficio  dal  giudice,  in quanto chiamato a difendere l'imputato a
 causa dell'astensione del primo. Dichiarando fondata la questione, si
 verrebbe a creare una disparita' di trattamento  fra  due  figure  di
 professionisti, cui la legge riconosce gli stessi diritti.
   8. - In data 23 aprile 1994, il giudice per le indagini preliminari
 presso Tribunale di Roma emetteva ordinanza di custodia cautelare nei
 confronti  d'un  imputato  del  reato  di  acquisto  e  detenzione di
 sostanze stupefacenti al fine di spaccio, ma questi proponeva istanza
 di riesame, ottenendo dal Tribunale, il 6 maggio 1994, l'accoglimento
 del ricorso e il conseguente annullamento della  misura.  Su  ricorso
 del  Procuratore  della  Repubblica,  la  Corte  di  cassazione,  con
 sentenza del 31 gennaio 1995, annullava  a  sua  volta,  con  rinvio,
 l'ordinanza del Tribunale.  All'udienza dell'8 giugno 1995, avendo il
 difensore   chiesto  un  differimento  della  decisione  per  aderire
 all'astensione dalle udienze proclamata dalla categoria, il Tribunale
 di Roma ha sollevato, in relazione agli artt. 3, 24, secondo comma, e
 97 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale degli
 artt. 2, 4, 8, 12 e 13 della legge 12  giugno  1990,  n.  146  (Norme
 sull'esercizio   del   diritto   di  sciopero  nei  servizi  pubblici
 essenziali  e  sulla   salvaguardia   dei   diritti   della   persona
 costituzionalmente   tutelati.   Istituzione   della  commissione  di
 garanzia dell'attuazione della legge).   Osserva  preliminarmente  il
 Collegio  rimettente  che  la protesta e' stata piu' volte prorogata,
 con la sola eccezione della difesa nei processi con detenuti. D'altra
 parte, nei procedimenti  di  riesame  dei  provvedimenti  coercitivi,
 personali  e  reali, gli artt. 309, 322 e 324 del codice di procedura
 penale non prevedono, come obbligatoria, la presenza  delle  parti  e
 dei   difensori,   prescrivendo   un  termine  di  dieci  giorni  per
 l'emanazione del provvedimento. Rilevato, poi, che le competenze  del
 tribunale  del  riesame  dovrebbero  rientrare fra i servizi pubblici
 essenziali, si afferma che la presenza non necessaria delle  parti  o
 del  difensore  non  costituirebbe,  in  questo tipo di procedimenti,
 principio assoluto. La regola consentirebbe all'imputato,  senza  che
 la  scelta sia sindacabile, di comparire personalmente o di avvalersi
 della difesa tecnica; si' che il giudice  -  quando  la  parte  abbia
 appunto  deciso  di  avvalersi della difesa tecnica e l'avvocato, nel
 comparire, dichiari di astenersi dalla partecipazione alle udienze  -
 non   potrebbe   considerare  la  sua  presenza  come  non  avvenuta,
 difettandogli il potere di  nominare  un  difensore  d'ufficio.    Il
 Tribunale  di  Roma sostiene che la legge n. 146 del 1990 non avrebbe
 quali  suoi  destinatari  i  liberi  professionisti,  per  quanto  la
 giurisprudenza  della  Corte di cassazione sia da tempo orientata nel
 senso di configurare gli avvocati  come  "esercenti  un  servizio  di
 pubblica  necessita'".  La  loro  astensione  dal  lavoro non sarebbe
 assimilabile  allo  sciopero  e,  sotto  il   profilo   penale,   non
 integrerebbe  interruzione  di  pubblico servizio, ai sensi dell'art.
 331 del codice penale, perche' le finalita'  dell'azione  "sindacale"
 avrebbero una copertura costituzionale.  Per la potenziale lesione di
 altri  interessi  costituzionalmente  garantiti, l'astensione sarebbe
 pero' equiparabile allo sciopero dei dipendenti di imprese o enti che
 erogano  servizi  pubblici  essenziali,  per  i  quali la legge sopra
 menzionata ha previsto una serie di obblighi - fra cui il preavviso e
 la possibilita' dell'intervento autoritativo, al  fine  di  garantire
 detti  servizi  -  e ha stabilito varie sanzioni in caso di accertate
 violazioni (artt.  2,  4,  8,  9  e  13).  Sarebbe  irragionevolmente
 discriminatoria  l'inapplicabilita'  della disciplina dello sciopero,
 introdotta con la citata legge  n.  146,  ai  privati  che  adempiono
 servizi   di   pubblica   necessita'   la   cui   collaborazione   e'
 indispensabile per il funzionamento dei servizi  pubblici  essenziali
 (v.  sentenza n. 114 del 1994). Tale carenza normativa determinerebbe
 la lesione dei diritti di difesa per coloro che non possono in  alcun
 modo opporsi allo "sciopero" del difensore, vanificando il canone del
 buon andamento dell'amministrazione (della giustizia).
   9.  -  E'  intervenuto  il  Presidente  del Consiglio dei Ministri,
 rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
 concludendo  per  l'inammissibilita' della questione sotto un duplice
 profilo. Anzitutto, per difetto di rilevanza, in quanto sollevata  in
 un procedimento camerale (ex art. 127 del codice di procedura penale,
 richiamato   dall'art.  309,  ottavo  comma)  di  riesame  di  misura
 coercitiva personale. Tali procedimenti, infatti, consentirebbero  la
 valutazione   del   legittimo   impedimento   della  parte  solo  con
 riferimento  all'imputato  che  abbia  chiesto  di   essere   sentito
 personalmente  ai  sensi  del  quarto  comma  del citato art. 127; il
 quale, tuttavia, non sarebbe applicabile ai difensori (e al  pubblico
 ministero)   che,   ai  sensi  del  terzo  comma,  "sono  sentiti  se
 compaiono". Risulta evidente, percio', che la presenza del  difensore
 non   e'   obbligatoria,   per  cui  dovrebbe  escludersi  il  rinvio
 dell'udienza anche quando  l'assenza  sia  determinata  da  legittimo
 impedimento.    La  questione sarebbe altresi' inammissibile, perche'
 imperniata sulla richiesta di una pronuncia additiva in un ambito che
 e' riservato alla discrezionalita' del legislatore.
   10. - Nel corso di quattro distinti procedimenti penali, il Pretore
 di  Bologna,  con  altrettante  ordinanze  del  14  giugno  1995,  ha
 sollevato,  in  relazione  agli  artt. 3, 21 e 40 della Costituzione,
 questione di  costituzionalita'  dell'art.  486,  quinto  comma,  del
 codice di procedura penale, nella parte in cui riconosce al difensore
 un  diritto,  privo  di  limiti,  ad  astenersi  da ogni attivita' di
 difesa.  Secondo il giudice a quo la norma assicurerebbe al difensore
 l'esercizio di un diritto che - potendo paralizzare  l'azione  penale
 per  tutta  la  durata  della protesta - deve necessariamente trovare
 fondamento   costituzionale   o   compatibilita'   con    i    valori
 costituzionali.  Non  essendo  riconducibile  al  diritto di sciopero
 tutelato dall'art. 40 della Costituzione  (v.  sentenza  n.  114  del
 1994),  e  neppure  ai principi affermati dalla Corte costituzionale,
 nella sentenza n. 222 del 1975, andrebbe  piuttosto  rapportato  alla
 liberta' di manifestazione del pensiero, garantita dall'art. 21 della
 Costituzione, che non puo' pero' tollerare comportamenti in contrasto
 con  "doveri  normativamente  imposti" ne' implicare il sacrificio di
 altri  valori  costituzionalmente  protetti.    Non  potendo   essere
 effettuato   in   via  interpretativa,  tale  bilanciamento  dovrebbe
 realizzarsi  per  effetto  della  dichiarazione   di   illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  486, quinto comma, del codice di procedura
 penale, nella parte in cui consente che  l'astensione  del  difensore
 dalle  udienze  (in  adesione a una protesta collettiva) si configuri
 quale  legittimo  impedimento.  L'esercizio  di  un  vero  e  proprio
 "diritto di astensione", senza limiti stabiliti, sarebbe costruito in
 contrasto  sia  con  gli  artt. 40 e 21 della Costituzione sia con il
 canone della  ragionevolezza.    E'  intervenuto  il  Presidente  del
 Consiglio  dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello
 Stato, la quale ha concluso per  l'infondatezza,  sostenendo  che  il
 richiamo  agli  artt.  40 e 21 della Costituzione sarebbe improprio -
 specie il secondo,  perche'  non  pone  divieti  a  simili  forme  di
 protesta  -  mentre l'indicazione dell'art. 3, come sembra d'altronde
 riconoscere lo stesso rimettente, risulterebbe generica.
   11. - Nel corso di cinque distinti procedimenti penali, il  Pretore
 di  Forli'  -  rilevata  l'astensione  dalle udienze dei difensori di
 fiducia degli imputati - ha sollevato, in relazione  agli  artt.  97,
 112   e   101,   secondo  comma,  della  Costituzione,  questione  di
 legittimita' costituzionale dell'art. 486, quinto comma,  del  codice
 di  procedura  penale,  nella  parte  in cui prevede che l'astensione
 dalle udienze degli avvocati costituisca legittimo impedimento  anche
 se   manchi   un   termine   finale  certo.  L'agitazione  proclamata
 dall'assemblea generale degli avvocati italiani non aveva un  termine
 finale  certo,  come  dimostrano  le  proroghe  susseguitesi,  mentre
 l'agitazione delle camere  penali,  aggiuntasi  e  sovrappostasi,  ha
 sostituito   addirittura   il  termine  finale  con  una  condizione:
 l'approvazione "in sede parlamentare dei contenuti  delle  riforme  a
 cui  si  erano  impegnate  le forze politiche".   La celebrazione dei
 processi sarebbe cosi' rimessa alla volonta' delle camere  penali,  e
 cio'  costituirebbe  un  vulnus al disposto degli artt. 97, 112 e 101
 della  Costituzione,  giacche'  sarebbe  leso  il  canone  del   buon
 andamento,  riferibile  anche  all'organizzazione  giudiziaria  e  ai
 profili   prescrizionali,   particolarmente    brevi,    dei    reati
 contravvenzionali;  sarebbe  vanificata l'obbligatorieta' dell'azione
 penale da parte del  pubblico  ministero;  e  sarebbe  oggettivamente
 compromessa  l'indipendenza  del  giudice, soggetto solo alla legge e
 non  agli  indirizzi  di  una  qualche  assemblea.  Del   resto,   il
 legislatore  potrebbe, forse, aver inteso fornire un orientamento nel
 prevedere, con l'art. 477, secondo comma,  del  codice  di  procedura
 penale,  la possibilita' - per i processi che non possono concludersi
 in una sola udienza - di sospendere il dibattimento  per  un  termine
 massimo  di  dieci  giorni.    Nel  motivare  sulla  rilevanza  della
 questione, il Pretore di Forli' suggerisce l'estensione  al  processo
 penale  dei  principi  stabiliti, per lo sciopero, dalla legge n. 146
 del 1990.
   12. - Nel corso del procedimento  penale  a  carico  di  Bergantino
 Vincenzo,  e  in  altri  diciannove  procedimenti,  il giudice per le
 indagini preliminari presso  il  Tribunale  militare  di  Padova,  ha
 sollevato,  in  relazione  all'art.  1  della  legge n. 146 del 1990,
 questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli
 artt. 420, terzo comma, e  97  del  codice  di  procedura  penale,  e
 dell'art.  29 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.  L'art.
 420 del codice di procedura penale, ricorda  il  rimettente,  prevede
 come  necessaria  la  partecipazione  del  pubblico  ministero  e del
 difensore all'udienza preliminare, stabilendo che - nel caso  in  cui
 quest'ultimo  non  compaia  -  venga  designato un sostituto ai sensi
 dell'art. 97, quarto comma, dello stesso codice. In  linea  astratta,
 per  la  reperibilita'  soccorre  l'art.  29  delle  disposizioni  di
 attuazione, ma se tutti i professionisti, come nel  caso  di  specie,
 dichiarano  di  aderire  all'agitazione  e si astengono (da ultimo il
 componente del Consiglio dell'ordine  forense),  nessun'altra  strada
 sarebbe   percorribile   per   assicurare  l'effettivita'  di  quella
 partecipazione del difensore che e' condizione indefettibile  per  la
 celebrazione  dell'udienza.  Osserva il giudice a quo che la legge n.
 146 del 1990 non ricomprenderebbe fra i suoi destinatari  coloro  che
 esercitano  un  servizio  di  pubblica necessita', e soggiunge che lo
 spirito   di   essa   consisterebbe   nel   bilanciare   i    diritti
 costituzionalmente  protetti  -  quello  di sciopero, da una parte, e
 quelli alla vita, alla salute e alla liberta' personale, dall'altra -
 attraverso una  regolamentazione  del  primo  che  non  impedisca  il
 realizzarsi  di  attivita'  pubbliche  in  settori  essenziali per la
 tutela dei diritti della persona.  Alla luce di tali  considerazioni,
 appare  irrazionale che, mentre per i pubblici dipendenti che operano
 nel settore giustizia sono previste numerose limitazioni  al  diritto
 di  sciopero  (dettate  dalla preoccupazione di non intaccare diritti
 dei cittadini meritevoli di tutela), altrettanto non si verifica  per
 coloro  che,  in  ragione della loro attivita', sono attori necessari
 per la salvaguardia di ogni diritto.    Non  operando  nei  confronti
 della classe forense, la legge n. 146 del 12 giugno 1990, si porrebbe
 in  contrasto  -  cosi'  conclude  l'ordinanza  -  con l'art. 2 della
 Costituzione,  che  riconosce  e  garantisce  i  diritti  inviolabili
 dell'uomo;  con  l'art.  24,  che assicura a tutti la possibilita' di
 agire in giudizio per la tutela dei propri diritti; con l'art.   101,
 per  il  quale  i giudici sono soggetti solo alla legge; e con l'art.
 40,  che  prescrive,  per  il  diritto  di  sciopero,  un   esercizio
 nell'ambito delle leggi regolatrici.
   13.  -  Si  e'  costituito  Bergantino  Vincenzo  che ha chiesto la
 declaratoria di inammissibilita' o, in subordine, di  non  fondatezza
 della  questione,  essendo preclusa alla Corte una pronuncia additiva
 in una materia riservata alla discrezionalita' del legislatore, e non
 risultando irragionevole la normativa censurata.
   14. - Nel corso del procedimento  penale  a  carico  di  Romaniello
 Luigi  e  altro imputato, rilevata l'assenza dei difensori di fiducia
 aderenti  all'agitazione  della  categoria,  e  di   altri   avvocati
 "nominabili"  d'ufficio,  la  Corte d'appello di Napoli ha sollevato,
 per violazione degli artt. 3 e  24,  primo  e  secondo  comma,  della
 Costituzione,  questione  di costituzionalita' degli artt. 304, primo
 comma, lettera b), 76 (in relazione all'art. 102, secondo comma)  del
 codice  di procedura penale, e 30 delle disposizioni di attuazione di
 cui al decreto legislativo n. 271 del 1989.  Osserva  preliminarmente
 il  Collegio  rimettente  che il potenziale contrasto fra l'interesse
 del "giudicabile" e quello del difensore sarebbe regolato dagli artt.
 486 e 304, primo comma, lettera a), del codice di  procedura  penale,
 essendo  ivi  previsto  che  soltanto  l'imputato  puo'  chiedere  la
 celebrazione del processo se e in  quanto  il  difensore  di  fiducia
 abbia    tempestivamente    comunicato    il   proprio   impedimento.
 Diversamente, l'art. 304,  primo  comma,  lettera  b),  dello  stesso
 codice,  regolerebbe  un'evenienza  distinta  dall'impedimento:    la
 "privazione di assistenza" conseguente alla "mancata  presentazione",
 o   all'"allontanamento",   o   alla   "mancata  partecipazione"  del
 difensore.   Tale situazione si adatterebbe  meglio  dell'altra  alle
 agitazioni  forensi  caratterizzate  dall'astensione dalle udienze; e
 tuttavia, questa disposizione non formalizzerebbe il contrasto  degli
 interessi  fra  l'imputato e il suo difensore (come invece, per altra
 ipotesi,  farebbe  l'art.  486  del  codice  di  procedura   penale),
 cosicche'  l'imputato,  qualora  volesse  sostituire  il difensore di
 fiducia, o rinunciarvi, non potrebbe  ottenere  alcun  risultato  nel
 caso,  qual  e'  quello  in  esame, d'una generalizzata mobilitazione
 della categoria.  Eppure,  gia'  le  sezioni  unite  della  Corte  di
 cassazione  e  la  Corte  costituzionale,  con la sentenza n. 114 del
 1994, hanno individuato la linea da seguire nel  bilanciamento  degli
 interessi  in  conflitto  (gia' accolto nell'art.   304, primo comma,
 lettera b), del codice  di  procedura  penale)  e  hanno  evitato  di
 adottare la soluzione aprioristica in favore della categoria forense.
 La citata disposizione risulterebbe percio' viziata, in rapporto agli
 indicati  parametri  costituzionali,  nella  parte in cui non prevede
 che, nel caso di privazione di assistenza  legale,  l'imputato  possa
 chiedere  e  ottenere la celebrazione del dibattimento. Sarebbero del
 pari viziati anche:  l'art. 97, quarto comma,  dello  stesso  codice,
 nella  parte  in cui, richiamando l'art. 102, secondo comma, consente
 al sostituto del difensore  di  fiducia  di  non  prestare  l'ufficio
 deferitogli per l'identica ragione allegata dal sostituito; l'art. 30
 delle  disposizioni  di attuazione del codice di procedura penale, di
 cui al decreto legislativo n. 271  del  1989,  nella  parte  in  cui,
 quand'anche  potesse  giungersi  a  nominare  un difensore d'ufficio,
 questi  potrebbe  allegare   l'astensione   in   atto   quale   causa
 dell'impossibilita'  di  adempiere.    Le questioni cosi' prospettate
 sarebbero non manifestamente  infondate,  perche'  impedirebbero  una
 valutazione  bilanciata  degli  interessi  contrapposti, imponendo il
 rinvio del processo  con  la  sospensione  dei  termini  di  custodia
 cautelare,  in  violazione  del principio di uguaglianza, del diritto
 dell'imputato al processo e del diritto alla difesa.
   15. - E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,
 rappresentato   e   difeso   dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,
 concludendo     per     l'inammissibilita'     e      l'infondatezza.
 L'inammissibilita'  della  questione  relativa  all'art.  304,  primo
 comma, lettera b), del codice di procedura penale, conseguirebbe alla
 sua irrilevanza, non risultando  la  richiesta  di  celebrazione  del
 processo  in  assenza  dei  difensori di fiducia. Nel merito, sarebbe
 manifestamente infondata, giacche'  l'ipotesi  dell'astensione  dalle
 udienze  degli  avvocati  dovrebbe  rientrare,  in base all'indirizzo
 giurisprudenziale  della  Corte  di  cassazione,  nella  figura   del
 legittimo   impedimento   a   comparire,  giustificativa  del  rinvio
 dell'udienza ai sensi dell'art. 486,  quinto  comma,  del  codice  di
 procedura  penale.    L'ordinanza  di  rimessione  sarebbe, pertanto,
 basata su un erroneo presupposto in diritto.  Del pari inammissibili,
 perche' irrilevanti, sarebbero le questioni relative agli  artt.  97,
 comma  4,  del  codice  di  procedura  penale,  e 30 delle menzionate
 disposizioni di attuazione, poiche' non  sarebbe  intervenuta  alcuna
 nomina  in  sostituzione  e, quindi, non si sarebbe potuto verificare
 alcun rifiuto. Le questioni di costituzionalita' prospettate  in  via
 ipotetica  sono improponibili: del resto, la difficolta' di rinvenire
 un difensore d'ufficio darebbe luogo a un impedimento di fatto.   Nel
 merito,  anch'essa  sarebbe  infondata,  poiche'  il  giudice  a  quo
 differenzierebbe,  indebitamente,  la  posizione  del  difensore   di
 fiducia,  al  quale  sarebbero riconosciute le liberta' sindacali, da
 quella del difensore d'ufficio al  quale  analoga  liberta'  dovrebbe
 essere  negata, con la palese violazione del principio di uguaglianza
 che,  invece,  si  vorrebbe  garantire.  L'agitazione  sindacale  non
 sarebbe   riconducibile   alle  disposizioni  censurate,  costituendo
 un'espressione delle liberta' costituzionali  che,  attualmente,  non
 subiscono  limitazioni  per  il bilanciamento con altri e concorrenti
 valori costituzionali:  limitazioni che solo il legislatore  potrebbe
 introdurre (cfr. sentenza n. 114 del 1994).
   16.  -  Nel  corso di una causa avente a oggetto il pagamento di un
 corrispettivo, il Pretore di Milano ha sollevato, in riferimento agli
 artt. 3, 24 e 41, secondo comma,  della  Costituzione,  questione  di
 legittimita'  costituzionale degli artt. 85 e 169, secondo comma, del
 codice di procedura civile, nella parte  in  cui  non  consentono  di
 depositare   personalmente  il  fascicolo  di  causa  a  chi  si  sia
 costituito in giudizio mediante  un  procuratore  che  aderisca  alla
 protesta collettiva e non permettono al giudice di fissare un termine
 per  l'effettuazione del deposito. Nel caso esaminato dal rimettente,
 dei tre patrocinatori delle parti costituite, uno aveva dichiarato di
 aderire all'astensione dalle udienze, un altro era risultato  assente
 e  il  terzo,  pur  non  partecipando all'agitazione, aveva chiesto -
 senza successo - un rinvio "per  spirito  di  colleganza".    Osserva
 preliminarmente  il  giudice  a  quo che non e' censurabile la scelta
 compiuta dal procuratore di  non  depositare  il  proprio  fascicolo,
 anche   se   espone   l'assistito   alle  conseguenze  d'un  giudizio
 sfavorevole per la impossibilita' di valutare le  prove  documentali:
 di  qui,  la  rilevanza  della  sollevata  questione  di legittimita'
 costituzionale.  L'astensione dalle udienze d'uno dei  difensori  non
 puo',  infatti,  essere attratta nella previsione di cui all'art. 115
 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura  civile  che
 regola  il  grave  impedimento,  ma  puo'  esserlo,  piuttosto, nella
 previsione dell'art.   85 dello  stesso  codice,  che  disciplina  la
 rinuncia   alla   procura   da   parte  del  difensore.  Non  essendo
 l'astensione degli avvocati  dalle  udienze  esercizio  d'un  diritto
 costituzionale  (qual  e'  lo  sciopero  in  base  all'art.  40 della
 Costituzione),  bensi'  soltanto  una  libera  scelta,   ovvero   una
 volontaria omissione, civilisticamente qualificabile come rinuncia al
 mandato.  L'art. 85 del codice di procedura civile - non imponendo al
 giudice  la  verifica della conoscenza, da parte del litigante, circa
 l'astensione del proprio procuratore dall'udienza -  si  porrebbe  in
 contrasto  con quei precetti costituzionali che permettono alla parte
 di provvedere in  altro  modo  alla  propria  difesa.  In  violazione
 dell'art.  3  della  Costituzione,  esso  lederebbe  il  principio di
 uguaglianza, trattando diversamente quei cittadini i cui  procuratori
 non   si  astengono  dall'udienza  e  gli  altri  i  cui  procuratori
 aderiscono alla protesta collettiva, cosi' demandando al difensore la
 scelta del grado di tutela dei diritti.  Ove, pero', la disparita' di
 trattamento non sia ravvisata dalla Corte, si dovrebbe sospettare  di
 illegittimita'  costituzionale  la disposizione processuale nella sua
 totalita', in quanto non riconosce efficacia alla rinuncia al mandato
 difensivo e non impone che ne sia data tempestiva notizia alla  parte
 prima  dell'udienza in cui sara' dichiarata. In tal caso, non essendo
 possibile valutare se la  parte  sia  stata  adeguatamente  posta  in
 condizione  di provvedere alla sostituzione, risulterebbe preclusa al
 giudice  anche la possibilita' di disporre un rinvio utile alla parte
 per esplicare in concreto le proprie difese  (la  disciplina  dettata
 per  il  caso  di morte o impedimento del procuratore ex art. 301 del
 codice di procedura civile costituirebbe il  tertium  comparationis).
 La  disposizione  lederebbe,  inoltre,  l'art. 24 della Costituzione,
 rimettendo  alla   discrezionale   e   incontrollabile   scelta   del
 procuratore,  la concreta realizzazione della difesa nel processo; e,
 in violazione dell'art. 41, farebbe si'  che  l'iniziativa  economica
 del   professionista  (alla  cui  opera  deve  ricorrere  normalmente
 chiunque voglia agire in giudizio) possa svolgersi in  contrasto  con
 l'utilita' sociale e la liberta', e dignita', del mandante.  Analoghe
 considerazioni  andrebbero  sviluppate con riferimento all'art.  169,
 secondo comma, del codice di procedura civile,  nella  parte  in  cui
 vieta   la  fissazione  di  un  termine,  successivo  all'udienza  di
 discussione, perche' avvenga il deposito del fascicolo non effettuato
 dal difensore, senza distinguere fra le possibili ragioni del mancato
 adempimento (in ispecie fra  il  mancato  deposito  per  la  protesta
 collettiva e ogni altro caso).
   17.  -  E'  intervenuto  il  Presidente del Consiglio dei Ministri,
 rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che  ha  concluso
 per  l'inammissibilita'  e la non fondatezza della questione, perche'
 l'ordinanza  conterrebbe  due  premesse  inesatte.  La   prima,   che
 riconduce  l'astensione  del  difensore alla figura della rinuncia al
 mandato (e, per suo effetto, alla totale interruzione  dell'attivita'
 difensiva); la seconda, che esalta il deposito del fascicolo di parte
 sino  a farlo assurgere a sola, o a fondamentale, attivita' difensiva
 da espletare in udienza. In realta', il  deposito  del  fascicolo  si
 esegue  di  norma  in  cancelleria  (artt.  169  e  190 del codice di
 procedura civile), mentre la partecipazione alle udienze ha ben altro
 rilievo e  contenuto.  Una  volta  passata  in  decisione,  la  causa
 potrebbe,  del  resto, essere definita con un successivo deposito dei
 fascicoli delle parti; oppure il giudice potrebbe disporre un  rinvio
 ad esso finalizzato.  Poiche' il rapporto tra la parte e il difensore
 sarebbe estraneo al processo, ne consegue tuttavia che il giudice non
 avrebbe  alcun  potere  di verifica in ordine alla valutazione che la
 parte effettua sulla scelta del proprio  difensore  circa  l'adesione
 alla  protesta.  Il compito della Corte consisterebbe nel vagliare le
 disposizioni con riferimento alle normali previsioni e  non,  invece,
 con riguardo ai dati dell'emergenza, che richiederebbero l'intervento
 esclusivo  del  legislatore.  La questione sarebbe dunque irrilevante
 nel processo a quo.
   18. - Con una seconda ordinanza, emessa in data 20 giugno 1995,  il
 Pretore  di  Milano  ha  sollevato,  in riferimento agli artt. 3 e 24
 della Costituzione, questione di  legittimita'  costituzionale  degli
 artt.  1,  secondo  comma,  e  2, terzo comma, della legge n. 146 del
 1990, nonche' degli artt. 669-duodecies, 669-septies e 669-octies del
 codice di procedura civile, nella parte in cui tali norme impediscono
 al giudice, investito di un  procedimento  cautelare  e  urgente,  di
 decidere allo stato degli atti nel caso di astensione dei procuratori
 delle  parti,  motivata da adesione a una protesta collettiva indetta
 senza il rispetto delle prescrizioni dettate dalla  citata  legge  n.
 146  del  1990.    Premette  il  giudice a quo che all'udienza del 23
 maggio 1995,  nella  causa  avente  a  oggetto  un  ricorso  ex  art.
 669-duodecies  del  codice  di  procedura  civile,  i  procuratori di
 entrambe  le  parti  avevano dichiarato di astenersi - per l'adesione
 allo stato di agitazione proclamato dal Consiglio nazionale forense -
 e di ritenere inapplicabili al caso di specie i limiti previsti dalla
 predetta legge n. 146 per lo sciopero in materia di servizi pubblici.
 Ad avviso del rimettente, il procedimento in questione,  instauratosi
 a  seguito di un'ordinanza di accoglimento di denuncia di nuova opera
 e regolato dall'art. 669-duodecies del codice  di  procedura  civile,
 avrebbe indiscutibilmente natura cautelare e urgente. Di conseguenza,
 soltanto  per  i lavoratori dipendenti coinvolti nell'amministrazione
 della  giustizia  rientrerebbe  nel  novero  di  quei   provvedimenti
 cautelari  e  urgenti  che l'art. 1, secondo comma, lettera a), della
 legge n.   146 prevede come prestazioni  indispensabili  al  fine  di
 contemperare  l'esercizio del diritto di sciopero con la salvaguardia
 dei diritti della persona. L'effettivita' di tale  garanzia  potrebbe
 pero'  essere  vanificata dalla protesta di quei lavoratori autonomi,
 dalla cui opera il titolare del diritto non puo' prescindere; ne'  il
 giudice,  di fronte all'astensione dei difensori, potrebbe provvedere
 d'ufficio,  in  base  agli  elementi  gia'  acquisiti,  si'  che   si
 verificherebbe un contrasto delle suddette disposizioni con gli artt.
 3 e 24 della Costituzione. La tutela dei diritti costituzionali della
 persona,  che la legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali
 intende tutelare tout court, e non soltanto per i  casi  di  protesta
 dei  lavoratori dipendenti, si rivelerebbe infatti monca e inefficace
 per la  sua  inapplicabilita'  a  coloro  che  -  sebbene  non  siano
 lavoratori  dipendenti  -  pongono  in essere forme di astensione dal
 lavoro idonee a provocare turbative e pregiudizi, secondo il  Pretore
 di   Milano,   non   meno   devastanti   di  uno  sciopero.  Onde  la
 illegittimita' costituzionale  della  legge  n.  146  del  1990,  per
 lesione  dell'art.  3  della  Costituzione,  giacche' escluderebbe la
 categoria  dei  professionisti  dall'osservanza  delle  modalita'   e
 limitazioni   di  cui  fa  carico,  per  i  servizi  essenziali  e  i
 procedimenti cautelari, alle  altre  categorie  di  lavoratori.  Essa
 violerebbe,  inoltre,  l'art.  24  della  Costituzione, comprimendo o
 addirittura elidendo il diritto di difesa ogni qual volta  si  voglia
 far  valere  un  diritto  costituzionalmente garantito della persona,
 tutelabile solo con l'adozione di provvedimenti cautelari o  urgenti.
 Un  effetto sintomatico, questo, dell'irragionevolezza della legge in
 esame, che si paleserebbe come incoerente  con  l'intero  ordinamento
 giuridico  e  con i fini enunciati, perche' quegli stessi diritti che
 mira a  tutelare  sarebbero  lesi,  o  comunque  pregiudicati,  dalla
 condotta  di  coloro che sono chiamati a svolgere funzioni necessarie
 per l'espletamento d'un servizio essenziale.    Analoghe  conclusioni
 dovrebbero   altresi'  essere  avanzate  in  riferimento  agli  artt.
 669-duodecies, 669-septies  e  669-octies  del  codice  di  procedura
 civile   nell'ipotesi   di   astensione   dei  difensori,  in  quanto
 escluderebbero che il giudice, investito della decisione cautelare  e
 urgente, possa provvedere allo stato degli atti.
   19.  -  E'  intervenuto  il  Presidente del Consiglio dei Ministri,
 rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato,  concludendo  per
 l'inammissibilita'  e  la non fondatezza della questione. L'ordinanza
 non sarebbe,  infatti,  sufficientemente  motivata  sul  punto  della
 rilevanza, poiche' il giudizio a quo sembrerebbe riguardare non tanto
 l'adozione di un provvedimento cautelare, quanto la sua attuazione ex
 art.   669-duodecies   del   codice  di  procedura  civile,  che  non
 sottenderebbe  il  carattere dell'urgenza. Nel merito, poi, l'ipotesi
 di pronuncia additiva richiesta  dal  Pretore  di  Milano  (il  quale
 intende emanare un provvedimento di natura cautelare senza sentire le
 parti),  non  sarebbe  suscettibile  di  accoglimento,  in  quanto vi
 sarebbe una profonda  diversita'  fra  la  posizione  del  lavoratore
 dipendente e quella del lavoratore autonomo.  D'altronde, la sentenza
 n.  114 del 1994, richiamata dal giudice a quo, avrebbe gia' indicato
 la strada per il bilanciamento dei  valori  coinvolti  nell'esercizio
 della   giurisdizione,  escludendo  la  possibilita'  d'una  sentenza
 additiva.
                        Considerato in diritto
   1. - Con 94 ordinanze di  rimessione,  di  cui  molte  di  identico
 contenuto,  indicate  in  dettaglio  nella  narrativa  in  fatto,  il
 Tribunale di Sassari, il Pretore di Padova, il Tribunale di Roma,  il
 Pretore  di  Bologna,  il  Pretore  di  Forli', la Corte d'appello di
 Napoli, il Pretore di Milano e il giudice per le indagini preliminari
 presso il Tribunale militare di Padova hanno sollevato  questioni  di
 legittimita'  costituzionale,  tutte  in  materia di astensione degli
 avvocati dalle udienze,  che  si  possono  raggruppare  -  riuniti  i
 giudizi  per  omogeneita'  della materia - nei cinque tipi di seguito
 indicati.
   1.1. - Il primo gruppo di questioni,  sollevate  dal  Tribunale  di
 Sassari,  dal Pretore di Padova, dal Pretore di Bologna e dal Pretore
 di Forli', concerne l'art. 486, quinto comma, del codice di procedura
 penale, e ha riguardo alla nozione di "legittimo impedimento" e  alla
 riconducibilita'  ad essa dell'ipotesi dell'astensione degli avvocati
 dalle udienze.
   1.1.1.  -  Il  Tribunale  di  Sassari  ha  sollevato  questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art. 486, quinto comma, del codice
 di  procedura  penale,  per  contrasto  con  gli  artt.  2,  10   (in
 riferimento  all'art.    6  della  Convenzione  europea  dei  diritti
 dell'uomo che assicura il diritto a una decisione giudiziale in tempi
 ragionevoli), 24, 101, 102 e 134 della Costituzione, perche' l'azione
 penale sarebbe paralizzata e la giustizia non  piu'  amministrata  in
 conseguenza  dell'astensione  a  tempo indeterminato degli avvocati e
 procuratori.
   1.1.2. - Il Pretore di Padova ha denunciato la stessa disposizione,
 perche'  ricomprende   nella   nozione   di   legittimo   impedimento
 l'astensione  dalle  udienze  del  difensore  di  fiducia - ovvero di
 quello d'ufficio nominato a seguito del rigetto  della  richiesta  di
 rinvio  -  senza prevedere un congruo preavviso ne' il termine finale
 dell'astensione, diversamente da quanto richiede in via obbligatoria,
 per le categorie dei pubblici dipendenti, la legge 12 giugno 1990, n.
 146. Si' che sarebbero violati:
     l'art. 2 della Costituzione, perche' la paralisi della  giustizia
 inciderebbe  sulla tutela dei diritti inviolabili, il cui presupposto
 e' l'ordinato funzionamento della giurisdizione;
     l'art. 24, primo  comma,  per  la  grave  turbativa  arrecata  al
 diritto di agire in giudizio;
     l'art. 24, secondo comma, perche' si vanificherebbe il diritto di
 difesa in ogni stato e grado del processo;
     l'art.  35,  primo comma, perche' i rinvii a catena delle udienze
 si rifletterebbero sulla regolarita' delle occupazioni di coloro  che
 sono, a vario titolo, coinvolti nel processo;
     l'art.  97,  perche',  impedendo l'applicazione dell'art. 477 del
 codice di procedura penale e degli artt. 132  e  160  delle  relative
 disposizioni  di  attuazione, si produrrebbero seri inconvenienti nel
 funzionamento del processo penale;
     l'art.  101,  secondo  comma,   perche'   si   intralcerebbe   lo
 svolgimento della funzione giurisdizionale;
     l'art.    112,   perche'   sarebbe   compromesso   il   principio
 dell'obbligatorieta' dell'azione penale,  non  essendo  garantita  la
 sospensione dei termini prescrizionali.
   1.1.3.  - Il Pretore di Bologna dubita parimenti della legittimita'
 costituzionale dell'art. 486, quinto comma, del codice  di  procedura
 penale,  perche'  sarebbe in contrasto con gli artt. 3, 21 e 40 della
 Costituzione, nella parte in cui riconosce al difensore  un  diritto,
 privo di limiti, ad astenersi dall'esercizio della difesa.
   1.1.4.  - ll Pretore di Forli' ha denunciato la disposizione teste'
 citata, nella parte in cui prevede  che  l'astensione  dalle  udienze
 costituisca  legittimo  impedimento  anche  se  non vi sia un termine
 finale certo o comunque non superiore a dieci giorni  (ex  art.  477,
 secondo  comma,  del  codice  di  procedura  penale). Rimettendo alla
 volonta' delle camere  penali  la  celebrazione  dei  processi,  essa
 lederebbe:
     l'art.  97  della  Costituzione,  perche' il buon andamento della
 pubblica  amministrazione  e'  riferibile  anche   all'organizzazione
 giudiziaria;
     l'art.   112,   perche'  l'azione  penale,  obbligatoria,  spetta
 esclusivamente al pubblico ministero;
     l'art. 101, secondo comma, perche' il giudice e' sottoposto  solo
 alla legge e non, quali che siano, a determinazioni assembleari.
   1.2.  -  La  seconda questione, sollevata dalla Corte di appello di
 Napoli, sottopone alla verifica di costituzionalita':
     l'art. 304, primo comma, lettera  b),  del  codice  di  procedura
 penale, nella parte in cui non prevede che, nel caso di privazione di
 assistenza   legale,   l'imputato   possa   chiedere  e  ottenere  la
 celebrazione del dibattimento;
     l'art. 97, quarto comma, dello stesso codice, nella parte in cui,
 richiamando l'art.  102,  consente  al  sostituto  del  difensore  di
 fiducia  di non prestare l'ufficio deferitogli per l'identica ragione
 allegata dal sostituito;
     l'art.  30  delle  disposizioni  di  attuazione  del  codice   di
 procedura  penale,  di  cui  al  decreto legislativo n. 271 del 1989,
 perche' - quand'anche si riuscisse a nominare un difensore  d'ufficio
 -     questi    potrebbe    addurre    l'astensione    quale    causa
 dell'impossibilita' di adempiere.  Tali disposizioni violerebbero  il
 principio  di  uguaglianza, il diritto dell'imputato al processo e il
 diritto alla difesa, rispettivamente tutelati dall'art. 3 e dall'art.
 24, primo e secondo comma, della Costituzione. Con specifico riguardo
 all'art. 304, primo comma, lettera b), la Corte d'appello  di  Napoli
 osserva   che   l'astensione   dalle   udienze  non  dovrebbe  essere
 qualificata come legittimo impedimento del difensore,  ma  assimilata
 alle   previsioni   del   secondo   comma   dell'art.  304  ("mancata
 presentazione",  "allontanamento",   "mancata   partecipazione"   del
 difensore),   ragion   per  cui  se  ne  chiede  la  declaratoria  di
 illegittimita' costituzionale al fine di  garantire  all'imputato  la
 possibilita'   di   domandare,   e   ottenere,  la  celebrazione  del
 dibattimento  in  assenza  del  difensore.   In merito alle altre due
 disposizioni,   il   Collegio   rimettente   sospetta   della    loro
 incostituzionalita'  nella  parte in cui non impediscono al difensore
 d'ufficio - nominato in  sostituzione  di  quello  di  fiducia  -  di
 astenersi dalla difesa.
   1.3.  -  Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale
 militare di Padova ha denunciato il combinato  disposto  degli  artt.
 420,  terzo  comma,  e 97 del codice di procedura penale, e dell'art.
 29  del  decreto  legislativo  28  luglio  1989,  n.  271  (Norme  di
 attuazione,  di  coordinamento  e transitorie del codice di procedura
 penale), in relazione all'art. 1 della legge 12 giugno 1990,  n.  146
 (Norme  sull'esercizio  del  diritto di sciopero nei servizi pubblici
 essenziali  e  sulla   salvaguardia   dei   diritti   della   persona
 costituzionalmente   tutelati.   Istituzione   della  Commissione  di
 garanzia dell'attuazione della legge), nella parte in cui non prevede
 fra i suoi destinatari anche coloro che  esercitano  un  servizio  di
 pubblica necessita'. Tali disposizioni sarebbero in contrasto con gli
 artt.  2,  24,  101 e 40 della Costituzione, perche' non stabiliscono
 alcuna limitazione al diritto di astensione collettiva,  come  accade
 invece  per  coloro che, in ossequio all'art.  40 della Costituzione,
 sono ormai soggetti alla citata legge n. 146.
   1.4. - Il Tribunale di Roma  ha  sollevato,  con  riferimento  agli
 artt.  3,  24  e  97  della  Costituzione,  questione di legittimita'
 costituzionale degli artt. 2, 4, 8, 12 e 13 della legge  n.  146  del
 1990  teste' indicata.  A differenza di quanto previsto per gli altri
 lavoratori  del  settore  giustizia,   le   disposizioni   denunciate
 mancherebbero infatti di regolamentare la protesta degli appartenenti
 alla  categoria  forense,  che  vengono  qualificati, sulla base d'un
 indirizzo giurisprudenziale, quali privati esercenti un  servizio  di
 pubblica  necessita'.  Con  cio'  esse opererebbero una irragionevole
 discriminazione e determinerebbero la lesione del diritto di difesa e
 quello del buon andamento della pubblica amministrazione.
   1.5. - Il quinto gruppo di questioni di  costituzionalita'  attiene
 ad  alcune previsioni del codice di procedura civile che sono oggetto
 di doglianza del Pretore di Milano in due distinte ordinanze.
   1.5.1. - Con la prima  (r.o.  660  del  1995),  il  giudice  a  quo
 solleva,  in  relazione  agli  artt.  3,  24 e 41 della Costituzione,
 questione di  legittimita'  costituzionale  degli  artt.  85  e  169,
 secondo  comma,  del  codice  di procedura civile, nella parte in cui
 inibiscono a colui che si sia costituito  in  giudizio,  mediante  un
 procuratore che abbia aderito alla protesta collettiva, di depositare
 personalmente  il  proprio  fascicolo, e non consentono al giudice di
 fissare  un  termine  perche'  la  parte  effettui  personalmente  il
 deposito,  anche  dopo  l'udienza di discussione. Donde la violazione
 dell'art. 3, perche'  non  sarebbe  assicurata  l'uguaglianza  fra  i
 cittadini  i cui procuratori non si astengono dall'udienza e quelli i
 cui  procuratori  aderiscono  all'astensione;  quella  dell'art.  24,
 perche'  si  rimetterebbe alla discrezionale e incontrollabile scelta
 del procuratore la concreta realizzazione della difesa nel  processo;
 e,   infine,   quella   dell'art.   41  della  Costituzione,  perche'
 l'iniziativa economica del professionista si svolgerebbe in contrasto
 con l'utilita' sociale, la liberta' e la dignita' del mandante.
   1.5.2.  -  Lo stesso Pretore (r.o. 661 del 1995) ha successivamente
 censurato anche gli artt. 1, secondo comma, e 2, terzo  comma,  della
 legge n. 146 del 1990, nonche' gli artt. 669-duodecies, 669-septies e
 669-octies  del  codice  di  procedura  civile,  nella  parte  in cui
 impediscono al giudice, investito  di  un  procedimento  cautelare  e
 urgente, di decidere allo stato degli atti nel caso di astensione dei
 procuratori   delle  parti  motivata  dall'adesione  a  una  protesta
 collettiva indetta senza il rispetto della citata legge  n.  146  del
 1990. Disposizioni che sarebbero in contrasto con:
     il  principio  di uguaglianza, per l'inapplicabilita' della legge
 n. 146 del 1990 agli avvocati e procuratori, che -  pur  non  essendo
 lavoratori dipendenti - possono porre in essere forme di lotta idonee
 a  provocare,  non  meno  dello sciopero, seri pregiudizi al pubblico
 servizio interessato;
     il diritto di difesa, specie con riguardo a procedimenti delicati
 come sono quelli finalizzati al rilascio di provvedimenti cautelari o
 urgenti.
   2. - Vanno dapprima esaminate le questioni di ammissibilita'  sorte
 nel corso dei singoli giudizi.
   2.1.  -  In  primo  luogo va affrontato un problema di rito: quello
 posto dal Consiglio nazionale forense che - pur non essendo parte nei
 processi a quibus - ha  tuttavia  depositato  atti  d'intervento  nei
 giudizi promossi dal Tribunale di Sassari e dal Pretore di Padova.
   Questa  Corte  ha  gia'  chiarito  con  specifico  riferimento alla
 materia disciplinare (sentenza n. 114  del  1970)  che  il  Consiglio
 nazionale  forense  tutela un interesse pubblicistico, ragion per cui
 non si puo' non riconoscergli un ruolo di  rappresentanza  sia  delle
 diverse  articolazioni  associative,  altrimenti prive d'un canale di
 comunicazione istituzionale, sia dei singoli che  non  aderiscano  ad
 alcuna  associazione.  Di conseguenza, la Corte ritiene di confermare
 l'orientamento   espresso   in   occasione   dell'intervento    della
 Federazione  nazionale  degli  ordini  dei  medici  chirurghi e degli
 odontoiatri che si  fonda  sul  riconoscimento  delle  competenze  di
 entrambi  gli  ordini  (cfr.  sentenza  n.  456  del 1993). E' quindi
 ammissibile l'intervento del Consiglio nazionale forense, giacche' si
 tratta  di  questioni  inerenti  allo  statuto   degli   avvocati   e
 procuratori,  il  cui  esito  non e' indifferente all'esercizio delle
 attribuzioni dello stesso Consiglio (cfr. sentenze nn. 421 del 1995 e
 315 del 1992).
   2.2. - In base a una interpretazione dell'art. 127  del  codice  di
 procedura penale che si assume letterale, l'Avvocatura dello Stato ha
 eccepito   l'inammissibilita'   della  questione  sollevata  con  due
 ordinanze dal Tribunale di Roma, di cui al punto 1.4, e ha  sostenuto
 che  non  sarebbe  necessaria  la  presenza del difensore, potendo il
 giudice - dopo averla constatata - decidere  in  assenza  di  questi.
 Nell'ordinanza   di   rimessione   si  osserva,  tuttavia,  che  tale
 interpretazione  e'  possibile  solo  quando  l'assenza  non  sia  da
 ascrivere  a  una  protesta  collettiva:  in  tal  caso,  invece,  il
 Tribunale avrebbe il dovere di attendere la cessazione dello stato di
 agitazione prima di adottare la propria decisione.  L'eccezione e' da
 respingere, perche' il controllo sull'ammissibilita' puo'  comportare
 una  decisione processuale solo quando la premessa interpretativa sia
 palesemente arbitraria e,  cioe',  in  caso  di  assoluta,  reciproca
 estraneita'  fra  oggetto  della  questione e oggetto del giudizio di
 provenienza o quando l'interpretazione prospettata dal giudice a  quo
 risulti  non plausibile (da ultimo, v. le sentenze nn. 344 del 1993 e
 436 del 1992).
   2.3. -  Va  accolta  l'eccezione  di  inammissibilita'  prospettata
 dall'Avvocatura   dello   Stato   in   ordine   alla   questione   di
 costituzionalita',  sollevata  dalla  Corte  d'appello   di   Napoli,
 dell'art.  304,  primo  comma,  lettera  b),  del codice di procedura
 penale e degli artt. 97, quarto comma, dello stesso codice e  30  del
 decreto  legislativo  28  luglio  1989,  n.  271.  Dall'ordinanza  di
 rimessione non e' dato sapere se gli imputati abbiano chiesto - anche
 in assenza dei difensori di fiducia - la celebrazione del processo; e
 se vi sia stata la nomina di  un  difensore  d'ufficio  in  luogo  di
 coloro  che abbiano aderito alla protesta. Poiche' tali elementi sono
 necessari per accertare la rilevanza delle  due  questioni  sollevate
 dalla Corte d'appello di Napoli, ne va dichiarata l'inammissibilita'.
   2.4.  - E' stata poi eccepita, dalla stessa Avvocatura dello Stato,
 l'inammissibilita' della  questione  di  legittimita'  costituzionale
 degli  artt.  669-septies,  669-octies  e 669-duodecies del codice di
 procedura civile, nonche' degli artt. 1, secondo comma,  e  2,  terzo
 comma,  della  legge n. 146 del 1990, sollevata dal Pretore di Milano
 (r.o. n. 661 del 1995), perche' il Pretore  non  e'  stato  investito
 della  richiesta  di  rilascio  d'un  provvedimento cautelare, bensi'
 soltanto della sua attuazione.  Tale eccezione va respinta,  giacche'
 la  fase  attuativa  della  cautela  (che  non rientra nell'attivita'
 esecutiva, oggetto del processo di esecuzione) e' strettamente legata
 a quella del suo rilascio. La qualificazione  datane  dal  giudice  a
 quo,  conformemente  a  quanto  si  e'  detto sopra al n. 2.2, non e'
 dunque arbitraria ne' suscettibile di censure preliminari.
   2.5. - Il Consiglio nazionale forense eccepisce  l'inammissibilita'
 della questione sollevata dal Pretore di Padova non solo in quanto e'
 sopravvenuta  la cessazione dell'astensione collettiva dalle udienze,
 ma per i  termini  in  cui  e'  posta.  Perche'  il  Pretore  avrebbe
 applicato  erroneamente  il  quarto  comma dell'art. 97 del codice di
 procedura penale, e non il primo  comma,  nominando  quale  difensore
 d'ufficio  il  Presidente  del  locale  ordine forense anziche' altro
 professionista scelto nell'albo predisposto ai  sensi  dell'art.  97,
 secondo  comma,  del  codice  di procedura penale e, inoltre, perche'
 avrebbe dovuto sollevare la questione  nel  procedimento  conseguente
 alla  dichiarazione  di  astensione  anche  da  parte  del  difensore
 d'ufficio.
   Tali eccezioni sono da disattendere.  La nomina del Presidente  del
 locale  Consiglio  dell'ordine puo' costituire una irregolarita' o un
 vizio procedurale, ma non implica alcuna ragione  d'inammissibilita'.
 La  questione, poi, non doveva essere sollevata in un giudizio penale
 a carico del difensore d'ufficio  anch'egli  aderente  all'astensione
 collettiva,  derivando gli effetti giuridici del rifiuto direttamente
 dalla qualificazione dell'astensione  (rilievo  costituzionale  della
 protesta  e  assenza  di  limiti  al suo esercizio con riferimento al
 processo)  che  e'  il  presupposto   implicito   dell'ordinanza   di
 rimessione.  Ne'  ha  rilievo  l'eventuale cessazione dell'astensione
 collettiva dalle udienze, giacche' il mutamento della  situazione  di
 fatto  non  incide  sul  giudizio di legittimita' costituzionale gia'
 proposto.
   3.  -  Passando  al  merito, alcuni giudici (Tribunale di Sassari e
 Pretore di Bologna) chiedono una pronuncia meramente  caducatoria,  e
 altri (Pretore di Padova e Pretore di Forli') una sentenza che limiti
 il  legittimo  impedimento esclusivamente al caso dell'astensione con
 preavviso e termine finale certo (v. supra nn. 1.1 ss.).  I parametri
 indicati sottendono la lesione di beni  costituzionalmente  protetti,
 quali  i diritti inviolabili della persona, i principi di uguaglianza
 e  di  ragionevolezza  (assumendosi  come  tertium  comparationis  la
 condizione  dei  lavoratori  subordinati  nel  settore giustizia), di
 soggezione  del  giudice  solo   alla   legge,   di   obbligatorieta'
 dell'azione    penale,   di   buon   andamento   dell'amministrazione
 giudiziaria.  Si impone, a questo punto, un  preliminare  chiarimento
 sui  caratteri  dell'astensione,  qui  in  esame,  e sulle situazioni
 soggettive di cui  sono  titolari  gli  appartenenti  alla  categoria
 professionale forense.
   3.1. - L'ordinamento repubblicano si fonda sul pieno riconoscimento
 della   liberta'   di   associazione  e  dell'attivita'  sindacale  e
 sull'espressa  garanzia  del  diritto  di  sciopero  entro  i  limiti
 indispensabili     alla     salvaguardia     di    altri    interessi
 costituzionalmente protetti. Vi  e'  dunque  un'area,  connessa  alla
 liberta'   di   associazione,   che   e'   oggetto   di  salvaguardia
 costituzionale ed e' significativamente  piu'  estesa  rispetto  allo
 sciopero.  Si' che e' accordata una generale tutela alle iniziative -
 le quali si traducano in aggregazioni sociali  di  varia  natura  che
 possono  esprimersi anche mediante astensioni collettive dal lavoro -
 volte a difendere peculiari  interessi  di  categoria,  non  soltanto
 economici,   e   a  garantire  un  corretto  esercizio  della  libera
 professione. E qui vengono in rilievo le potesta' che, a salvaguardia
 di  interessi  pubblici,  l'ordinamento   attribuisce   agli   ordini
 professionali  per rimuovere situazioni pregiudizievoli (v. da ultimo
 Cassazione civile n. 3361 del 1993).  Il riconoscimento che la  Carta
 costituzionale  assicura  all'autonomia  dei  singoli  e dei gruppi e
 all'insieme  delle  liberta'  sopra  richiamate,  vale  altresi'  per
 l'astensione  dal  lavoro  di quei professionisti che svolgono - come
 gli avvocati e  i  procuratori  legali  -  la  propria  attivita'  in
 condizioni  di  indipendenza.  E,  dunque,  se da un lato e' vero che
 l'astensione da ogni attivita'  defensionale  non  puo'  configurarsi
 come  diritto  di sciopero e non ricade sotto la specifica protezione
 dell'art. 40, dall'altro va pero' sottolineato che nel caso in  esame
 viene  in rilievo il favor libertatis, il quale ispira la prima parte
 della Costituzione e si pone come fondamentale criterio regolatore di
 tale ambito di rapporti, garantendo la liberta'  di  ogni  formazione
 sociale e postulando, nel contempo, la concorrente tutela degli altri
 valori di rango costituzionale.  D'altro canto, se l'astensione dalle
 udienze degli avvocati e procuratori e' manifestazione incisiva della
 dinamica  associativa  volta  alla  tutela  di questa forma di lavoro
 autonomo, essa non puo' essere ridotta a  mera  facolta'  di  rilievo
 costituzionale.  E  cio'  senza  dimenticare le indubbie peculiarita'
 dell'avvocatura considerate in piu' parti della Carta costituzionale:
 nell'art. 24, che garantisce la difesa tecnica a supporto del diritto
 di agire in giudizio; negli artt.  104, quarto comma, e 135,  secondo
 comma,  che  conferiscono  agli  avvocati  la  legittimazione sia per
 l'elezione al Consiglio  superiore  della  magistratura  sia  per  la
 nomina  o elezione alla Corte costituzionale; e infine nell'art. 106,
 terzo comma, che prevede per loro la possibilita' di essere  chiamati
 all'ufficio di consigliere di cassazione.
   3.2.  -  Sulla base di queste considerazioni, vanno respinte le due
 questioni di costituzionalita' sollevate dal Pretore di Milano.    La
 prima,  per  erroneita'  della  premessa  secondo  cui la liberta' di
 astenersi dalle udienze equivarrebbe a una  implicita  rinuncia  alla
 procura  ad  litem sottoscritta dal titolare dell'interesse coinvolto
 nella  res  litigiosa.  Una  ipotesi  estrema,  carente   di   solido
 fondamento,  che  richiede  -  quale  effetto  dell'invocata sentenza
 additiva - un incremento di poteri, per vero modesto,  a  favore  del
 litigante  in  prima persona, al quale sarebbe concesso di depositare
 il  fascicolo  precedentemente  ritirato  dal  difensore.  Con   cio'
 venendosi  a  introdurre  surrettiziamente  una  forma  di autodifesa
 alternativa alla difesa tecnica che  si  porrebbe  in  contrasto  con
 l'art. 24 della Costituzione (cfr. sentenze nn. 188 del 1980 e 99 del
 1975), dal momento che la parte sarebbe privata della possibilita' di
 avvalersi  del  proprio  difensore  in  una  fase  o  in un grado del
 processo.  La seconda, perche' la decisione allo stato degli  atti  -
 che  ad  avviso  del  giudice  a  quo  meglio  si  adatta al summatim
 cognoscere  caratteristico  dei  procedimenti  cautelari  -   sarebbe
 assunta  in  spregio  della  funzione  dell'avvocato e con potenziale
 pregiudizio per la parte che ha ragione, ove a favore  di  questa  si
 dovesse richiedere un ulteriore apporto defensionale.
   3.3.  -  La  salvaguardia degli spazi di liberta' dei singoli e dei
 gruppi  che  ispira  l'intera  prima  parte  della  Costituzione  non
 esclude,   tuttavia,   che   vi  siano  altri  valori  costituzionali
 meritevoli  di  tutela.  Vengono  cosi'   in   evidenza   i   diritti
 fondamentali  dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della
 funzione giurisdizionale, in ispecie il diritto di azione e di difesa
 di cui all'art. 24 della Costituzione, nonche' i principi  di  ordine
 generale    che    sono   posti   a   tutela   della   giurisdizione.
 Significativamente l'art. 1, primo comma, della legge n. 146 del 1990
 qualifica come essenziale il  servizio  pubblico  che  garantisce  il
 godimento  dei  diritti  della  persona  costituzionalmente tutelati:
 quello alla vita, alla salute, alla liberta' e alla  sicurezza,  alla
 liberta'   di  circolazione,  all'assistenza  e  previdenza  sociale,
 all'istruzione e alla  liberta'  di  comunicazione.  Esso  dunque  fa
 riferimento  non  tanto  a  prestazioni  determinate  oggettivamente,
 quanto al nesso  teleologico  fra  queste  e  gli  interessi  e  beni
 costituzionalmente protetti. Coerentemente, il secondo comma, lettera
 a), dello stesso articolo, annovera fra i servizi pubblici essenziali
 "l'amministrazione  della  giustizia,  con particolare riferimento ai
 provvedimenti  restrittivi  della  liberta'  personale  ed  a  quelli
 cautelari ed urgenti nonche' ai processi penali con imputati in stato
 di  detenzione".   Quando la liberta' degli avvocati e procuratori si
 eserciti in contrasto con la tavola di valori sopra richiamata,  essa
 non  puo' non arretrare per la forza prevalente di quelli. Ma da cio'
 non puo' derivare la fondatezza delle questioni di  costituzionalita'
 sollevate  dal  Tribunale  di  Sassari,  dal  Pretore  di Padova, dal
 Pretore di Bologna e dal Pretore di Forli'.  Tutte  denunce  riferite
 all'art.  486, quinto comma, del codice di procedura penale, le quali
 muovono dall'erroneo presupposto che la liberta'  dei  professionisti
 non incontri limite alcuno, mentre e' vero il contrario. Nella stessa
 giurisprudenza  di  legittimita'  non si e' ancora formato un diritto
 vivente, essendovi pronunce della Corte di cassazione  che  rigettano
 la  richiesta  di  rinvio  per  legittimo impedimento del difensore e
 dispongono doversi proseguire oltre.    Alcune  decisioni  tendono  a
 riconoscere  al giudice il potere di bilanciare i valori in conflitto
 e, conseguentemente, di  far  recedere  la  "liberta'  sindacale"  di
 fronte  a  valori  costituzionali primari.   Conforme a Costituzione,
 tale linea e', fra le due possibili, quella da privilegiare,  secondo
 quanto  si  desume  dalla  giurisprudenza  di questa Corte in tema di
 interpretazione adeguatrice. Sta di fatto, pero', che a  seguito  del
 bilanciamento  degli  opposti  interessi operato dal giudice penale -
 gran parte delle questioni in esame e' sorta, invero, nell'ambito  di
 tale  processo  -  la  nomina  d'un difensore d'ufficio non offre una
 risposta soddisfacente. Perche' l'adesione anche del  sostituto  alla
 protesta  di categoria - come ha denunciato in questa sede il Pretore
 di Padova - puo' far nascere altri processi a carico di coloro che si
 astengono dalle  udienze:  processi  che  esigono,  essi  stessi,  la
 presenza  d'un difensore.   Non sfugge questa impasse al Tribunale di
 Roma, che solleva la questione di costituzionalita' degli artt. 2, 4,
 8, 12 e 13 della legge n. 146 del 1990;  mentre  il  giudice  per  le
 indagini  preliminari presso il Tribunale militare di Padova pone una
 questione sostanzialmente analoga - la  mancata  estensione  di  essa
 agli  esercenti  servizi  di  pubblica necessita' - con riguardo a un
 complesso normativo palesemente non pertinente: gli artt. 420,  terzo
 comma, e 97 del codice di procedura penale e l'art. 29 delle norme di
 attuazione  di  cui  al  decreto legislativo n. 271 del 1989. Si' che
 quest'ultima  questione  va  dichiarata  inammissibile   per   errata
 identificazione delle norme denunciate.
   3.4.  - Nata per garantire i servizi pubblici essenziali e, quindi,
 i beni della vita ch'essi mirano a tutelare, la legge n.  146  omette
 di  disciplinare  situazioni  che  - al pari dello sciopero - possono
 determinare lesioni non rimediabili ai detti beni.  E  non  regolando
 analiticamente  procedure  e  modalita'  per  le  diverse  ipotesi di
 astensione dal lavoro, non  predispone  specifiche  misure  idonee  a
 evitare  che  vengano  compromessi  i  beni  primari della convivenza
 civile che non tollera la paralisi della funzione giurisdizionale  e,
 quindi,  esige prescrizioni volte ad assicurare, durante l'astensione
 dall'attivita' giudiziaria,  le  prestazioni  indispensabili.    Gia'
 nella  sentenza  n.  114  del  1994,  questa  Corte  ha  indicato con
 preoccupazione  le  gravi   conseguenze   che   all'esercizio   della
 giurisdizione  possono  derivare dalle astensioni senza preavviso e a
 tempo indeterminato; ma in considerazione del  principio  di  stretta
 legalita'  contenuto nell'art. 25 della Costituzione - che delimita i
 poteri  della  Corte  costituzionale  precludendo  l'adozione  d'ogni
 pronuncia  additiva in malam partem - si e' ritenuta inammissibile la
 richiesta di una sentenza additiva  mirante  a  sospendere  il  corso
 della  prescrizione  al di fuori dei casi previsti dalla legge. Nella
 stessa sentenza si ricorda come la legge n. 146 del  1990  disciplini
 il   diritto   di   sciopero   nei   servizi   pubblici   essenziali,
 ricomprendendovi anche l'amministrazione della giustizia  proprio  al
 fine  di salvaguardare beni essenziali costituzionalmente protetti. A
 tal proposito, richiamando l'art. 1 della citata legge n. 146, questa
 Corte ha rilevato che non vi  e'  ragione  per  cui  debbano  restare
 esenti  da  regolamentazione  forme  di protesta collettiva, le quali
 compromettono, al pari dello sciopero, il pieno e ordinato  esercizio
 di  funzioni,  come  quella  giurisdizionale,  che  assumono  rilievo
 fondamentale  nell'ordinamento;  e  ha  quindi  rivolto  un invito al
 legislatore, auspicando l'introduzione d'una disciplina che colmi  la
 lacuna denunciata (v. ancora la sentenza n. 114 del 1994, considerato
 in  diritto, n. 3).  Nell'adottare siffatta decisione, la Corte aveva
 presente l'impegno e lo scrupolo  deontologico  con  cui  avvocati  e
 procuratori assolvono quotidianamente una funzione insostituibile per
 il  corretto  svolgimento  della dinamica processuale. Cosi' come non
 era dimentica dei meriti storici che l'avvocatura ha acquisito  anche
 fuori delle aule di giustizia, contribuendo alla crescita culturale e
 civile del Paese e, soprattutto, alla difesa delle liberta'. L'invito
 al  legislatore era necessario, ma si e' rivelato inadeguato, essendo
 trascorsi invano due anni senza che l'auspicato intervento  normativo
 si  sia  realizzato.    In  questi  due  anni  la  situazione  si  e'
 deteriorata  al  punto  da  destare  allarme  per  il  ripetersi   di
 astensioni  non regolamentate, si' che acuto e' il disagio e concreto
 il   pregiudizio   per   l'amministrazione   della    giustizia    e,
 conseguentemente,  per  i  diritti  fondamentali della persona che in
 essa trovano tutela. Si e' fatto uso della "liberta' sindacale" tanto
 che in alcuni distretti giudiziari vi e' stata per lunghi periodi  la
 paralisi  di tutte le attivita', con inevitabili effetti perversi che
 ancora oggi si avvertono. D'altra parte, la questione in  esame  pone
 problemi  nuovi  rispetto  a  quelli vagliati con la sentenza n. 114:
 sollevata in riferimento ad alcune disposizioni della legge  n.  146,
 palesa  l'incongruenza  fra gli obiettivi ispiratori di essa e i suoi
 strumenti operativi, limitati all'esercizio del diritto  di  sciopero
 quale    risulta    dalla    legislazione    e    dagli   svolgimenti
 giurisprudenziali.
   3.5. - I dubbi di costituzionalita' sulla normativa del  1990  sono
 dunque  parzialmente  fondati.   L'obiettivo della legge n. 146 e' la
 garanzia  dei  servizi  pubblici  essenziali,  costruita  com'e'   in
 funzione  della tutela dei beni fondamentali della persona: l'art. 1,
 primo comma, e' in tal senso emblematico, ma la restante parte  della
 legge  -  nel  mirare  esclusivamente  alla protezione dall'abuso del
 diritto  di  sciopero  -  non  appresta  una  razionale  e   coerente
 disciplina  che  includa  tutte  le  altre  manifestazioni collettive
 capaci di comprimere detti valori primari.  Non si puo'  procedere  a
 una  interpretazione  estensiva  o  analogica  dei diversi meccanismi
 contenuti nella legge, tale da ricomprendere l'astensione dal  lavoro
 di  soggetti  che  non  siano  lavoratori  subordinati ne' presentino
 quell'indice  di  "non  indipendenza"  che  ne  rivela  la  debolezza
 economica;  e  tuttavia,  l'astensione dalle udienze di questi attori
 del processo, la cui presenza e' necessaria, incide - in  misura  non
 minore  dello  sciopero  del  personale  delle  cancellerie  e  delle
 segreterie giudiziarie - sull'amministrazione della giustizia, che e'
 servizio pubblico essenziale.  La mancata previsione di tale  ipotesi
 fra  quelle  che  la  legge  n.    146  individua,  ne compromette le
 finalita' e ne riduce l'efficacia, ponendo nel contempo un  problema,
 non  piu' eludibile, di legittimita' costituzionale.  La salvaguardia
 degli spazi di liberta' riservati ai singoli, e ai gruppi, che ispira
 la prima parte della Carta costituzionale non esclude  che  vi  siano
 altri  valori  costituzionali  meritevoli di tutela, come s'intravede
 nell'impianto della legge n. 146, dove  vengono  in  rilievo  diritti
 fondamentali - quello di azione e quello di difesa di cui all'art. 24
 della  Costituzione  - che sono attribuiti ai soggetti destinatari, a
 vario   titolo,   della   funzione  giurisdizionale.     Ora,  avendo
 l'esperienza rivelato le carenze della legge n. 146,  si  impone  una
 piu'  ampia  regolamentazione  anche  in  riferimento  all'astensione
 collettiva dal lavoro  non  qualificabile,  per  l'assenza  dei  suoi
 tratti   tipici,  come  esercizio  del  diritto  di  sciopero;  e  si
 richiedono, quanto meno, un congruo preavviso e un ragionevole limite
 temporale  di  durata,  peraltro   gia'   previsti   da   codici   di
 autoregolamentazione   recentemente   adottati   da   vari  organismi
 professionali  che,   tuttavia,   non   hanno   efficacia   generale.
 Un'adeguata  disciplina,  ormai  indilazionabile, e' strumentale alla
 salvaguardia  dei  principi  e  valori  costituzionali   piu'   volte
 menzionati:    il buon andamento dell'amministrazione della giustizia
 postula che il legislatore, coerentemente con i canoni costituzionali
 richiamati, specifichi anche le prestazioni essenziali  da  adempiere
 durante   l'astensione,  le  procedure  e  le  misure  conseguenziali
 nell'ipotesi   di   inosservanza.      Si'   che   deve   dichiararsi
 l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.    2,  commi 1 e 5, della
 legge  n.  146,  nella  parte  in   cui   non   prevede,   nel   caso
 dell'astensione  collettiva dall'attivita' giudiziaria degli avvocati
 e dei procuratori legali, l'obbligo d'un  congruo  preavviso  e  d'un
 ragionevole limite temporale dell'astensione e non prevede, altresi',
 gli  strumenti  idonei  a  individuare  (e assicurare) le prestazioni
 essenziali durante l'astensione stessa, nonche'  le  procedure  e  le
 misure conseguenziali nell'ipotesi di inosservanza.  Nel sottolineare
 che   l'astensione  di  avvocati  e  procuratori  da  ogni  attivita'
 defensionale non rientra compiutamente, per la  sua  morfologia,  nei
 meccanismi  procedurali  previsti  dagli  artt. 8, 9, 10, 12, 13 e 14
 della legge n. 146, la Corte non puo' che lasciare al legislatore  di
 definire  in  modo organico le misure atte a realizzare l'equilibrata
 tutela dei beni coinvolti, essendole  preclusa  l'individuazione  nel
 dettaglio delle soluzioni.