ha pronunciato la seguente Sentenza nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 18, comma 2, e 29, comma 2, del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 109 (Attuazione delle direttive 89/395/CEE e 89/396/CEE concernenti l'etichettatura, la presentazione e la pubblicita' dei prodotti alimentari), promosso con ordinanza emessa il 7 ottobre 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Asti nel procedimento penale a carico di Dinaro Vincenzo, iscritta al n. 926 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell'anno 1996; Udito nella camera di consiglio del 10 luglio 1996 il giudice relatore Gustavo Zagrebelsky. Ritenuto in fatto 1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di un soggetto, indagato della contravvenzione di cui all'art. 13 della legge 30 aprile 1962, n. 283 - per avere, nella qualita' di titolare di esercizio commerciale, posto in vendita arance con "l'impropria denominazione di biologiche, tale da sorprendere la buona fede e da indurre in errore gli acquirenti circa la loro qualita'" - il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Asti solleva, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale degli artt. 18, comma 2, e 29, comma 2, del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 109 (Attuazione delle direttive 89/395/ CEE e 89/396/CEE concernenti l'etichettatura, la presentazione e la pubblicita' dei prodotti alimentari), "nella parte in cui abrogano (parzialmente) l'art. 13 della legge 30 aprile 1962, n. 283, in contrasto con l'art. 2, punto d), della legge 29 dicembre 1990, n. 428". Il giudice rimettente riferisce, in fatto, che presso l'esercizio commerciale era stato prelevato un campione di arance, esposte in vendita con un cartello collocato nella vetrina e recante la dicitura "arance biologiche di produzione propria", e che all'analisi era stata evidenziata la presenza nell'alimento di residui di imazalil, principio attivo ad azione fungicida, in concentrazione superiore al limite (0,010 mg/Kg) tollerato dall'ordinanza ministeriale 18 luglio 1990 e successive modificazioni. Ravvisata quindi la configurabilita' del reato di cui all'art. 13 citato, il giudice a quo dubita della vigenza della suddetta norma, dal momento che il decreto legislativo n. 109 del 1992 ha introdotto una fattispecie di illecito amministrativo (artt. 2, comma 1, e 18, comma 2) "che pare adattarsi perfettamente" all'ipotesi sottoposta al suo esame. Infatti di tale decreto l'art. 2, comma 1, stabilisce che "l'etichettatura, la presentazione e la pubblicita' dei prodotti alimentari non devono indurre in errore l'acquirente sulle caratteristiche del prodotto" (tali essendo, in particolare, la natura, l'identita', la qualita', la composizione, la quantita', la durabilita', il luogo di origine o di provenienza, il modo di ottenimento o di fabbricazione del prodotto) e l'art. 18, comma 2, punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria (da lire 1,5 a lire 9 milioni) la violazione di quel precetto. Ritiene, quindi, che il contestato reato dovrebbe essere ormai depenalizzato perche' sostituito con la nuova sanzione amministrativa, nonostante che parte della giurisprudenza sostenga la tesi opposta. In proposito ricorda che il previgente d.P.R. 18 maggio 1982, n. 322, relativo all'etichettatura dei prodotti alimentari, introducendo, con l'art. 2, un divieto di pubblicita' ingannevole sanzionato in via amministrativa ai sensi del successivo art. 16, aveva risolto ogni problema di interferenza con il precetto penale di cui all'art. 13 della legge del 1962, mediante l'espressa clausola di riserva penale ("salvo che il fatto costituisca reato") contenuta nel primo comma dello stesso art. 16. Analoga salvezza del precetto penale non si rinviene, invece, nell'ipotesi in esame. Infatti nel decreto n. 109 del 1992, mentre siffatta clausola e' collocata in apertura al comma 1 dell'art. 18, che contempla in generale l'illecito amministrativo derivante dall'inosservanza delle nuove norme e ne indica le sanzioni amministrative, la stessa formula di salvezza della fattispecie penale non e' ripetuta al comma 2 dello stesso art. 18, che reca la sanzione specifica per la violazione del precetto di cui all'art. 2 del decreto medesimo. D'altra parte, affermare la perdurante vigenza della norma penale (art. 13 della legge n. 283 del 1962) significherebbe svuotare la portata sanzionatoria della prima delle norme impugnate (art. 18, comma 2) che verrebbe cosi' limitata alle violazioni "meramente formali" non riconducibili alla previsione del citato art. 13. Ma cio' determinerebbe l'irragionevolezza del quadro normativo, perche' le infrazioni "formali" sarebbero punite dall'art. 18, comma 2, impugnato, con una sanzione amministrativa pecuniaria di rilevante entita' (da lire 6 a lire 36 milioni), mentre le piu' gravi infrazioni "sostanziali" attinenti al divieto di pubblicita' ingannevole sarebbero punite, dall'art. 13 citato, con l'ammenda da lire 600.000 a lire 15 milioni, che rappresenta, pur nella permanenza di un illecito penale - per il quale, peraltro, e' ammessa l'oblazione ex art. 162 del codice penale - una sanzione piu' lieve in termini di "afflittivita' concreta, intesa come incidenza reale sul patrimonio del responsabile". Conclusivamente, ad avviso del giudice a quo, le norme impugnate avrebbero determinato l'abrogazione implicita per incompatibilita' (cosi' come prevede l'art. 29, comma 2, del decreto legislativo n. 109 del 1992) della fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 13 della legge n. 283 del 1962, non essendo per di piu' invocabile, nella specie, il particolare regime ricavabile dall'art. 9, comma 3, della legge n. 689 del 1981 - per il quale ai fatti previsti dagli artt. 5, 6, 9 e 13 della legge n. 283 del 1962 "si applicano in ogni caso le disposizioni penali in tali articoli previste, anche quando i fatti stessi sono puniti da disposizioni amministrative che hanno sostituito disposizioni penali speciali" - nel senso in cui alcuni l'hanno interpretato, come deroga al principio di specialita' (indicato nel primo comma dello stesso art. 9), valevole anche rispetto alle fattispecie di illecito amministrativo introdotte successivamente alla legge di depenalizzazione n. 689 del 1981. Tutto cio' premesso, dovendosi applicare il principio di specialita' ex art. 9, primo comma, citato (e non operando invece la deroga a detto principio enunciata nel terzo comma) al rapporto tra la fattispecie penale di cui all'art. 13 della legge del 1962 e la fattispecie di illecito amministrativo di cui all'art. 18 impugnato, e dovendosi quindi ritenere implicitamente abrogata la prima di tali norme per effetto della seconda, il giudice a quo formula le censure ritenendo le norme impugnate - cosi' come da lui interpretate - in contrasto con l'art. 76 della Costituzione perche' inosservanti della legge 29 dicembre 1990, n. 428 che, nel conferire delega al Governo per l'attuazione di direttive comunitarie, all'art. 2 autorizza l'introduzione di sanzioni amministrative e penali "salve le norme penali vigenti"; tra queste va certamente ricompreso anche l'art. 13 della legge del 1962. 2. - Quanto al requisito della rilevanza, il giudice rimettente mostra di essere consapevole che, in caso di una pronuncia di accoglimento della Corte, egli sarebbe comunque tenuto ad applicare le norme piu' favorevoli, pur dichiarate incostituzionali, in virtu' del principio di irretroattivita' delle norme penali sfavorevoli all'indagato. Ma osserva che, non potendo esistere nell'ordinamento "zone franche" sottratte al controllo di costituzionalita', la pronuncia della Corte potrebbe comunque incidere sulla formula di proscioglimento o di archiviazione e sull'iter argomentativo della decisione. Infatti, pur non mutando gli effetti pratici del provvedimento da adottare nel giudizio a quo, e cioe' l'accoglimento della richiesta di archiviazione del pubblico ministero, "non vi sarebbe pero' perfetta coincidenza tra i parametri normativi e i passaggi argomentativi del decreto di archiviazione emesso senza promuovere il giudizio incidentale di costituzionalita' e quelli del decreto di archiviazione emesso all'esito (favorevole) di tale giudizio". Permarrebbe, pertanto, la rilevanza delle proposte questioni di legittimita' costituzionale. Considerato in diritto 1.1. - Il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Asti dubita della legittimita' costituzionale degli articoli 18, comma 2, e 29, comma 2, del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 109 (Attuazione delle direttive 89/395/CEE e 89/396/CEE concernenti l'etichettatura, la presentazione e la pubblicita' dei prodotti alimentari), in quanto essi, contrastando con l'art. 2, punto d), della legge-delega 29 dicembre 1990, n. 428, violerebbero l'art. 76 della Costituzione. 1.2. - La vigente situazione normativa nella quale e' posta la presente questione di costituzionalita', attinente alla repressione della pubblicita' ingannevole in materia di commercio di sostanze alimentari, puo' essere ricostruita sulla base di tre testi normativi. a) L'art. 13 della legge 30 aprile 1962, n. 283 (Modifica degli artt. 242, 243, 247, 250 e 262 del testo unico delle leggi sanitarie approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265: Disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande) prevede come reato, sanzionato con la pena dell'ammenda, il fatto di offrire in vendita o propagandare a mezzo della stampa od in qualsiasi altro modo, sostanze alimentari, adottando denominazioni, o nomi impropri, frasi pubblicitarie, marchi o attestati di qualita' o genuinita' da chiunque rilasciati, nonche' disegni illustrativi tali da sorprendere la buona fede o da indurre in errore gli acquirenti circa la natura, sostanza, qualita' o le proprieta' nutritive delle sostanze alimentari stesse o vantando particolari azioni medicamentose. b) In attuazione di direttive comunitarie in materia, la legge 29 dicembre 1990, n. 428 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle comunita' europee - legge comunitaria per il 1990), attribuiva al Governo poteri legislativi delegati, stabilendo all'art. 2, lettera d), quale principio e criterio generale, che "saranno previste, ove necessario per assicurare l'osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi, salve le norme penali vigenti, norme contenenti le sanzioni amministrative e penali, o il loro adeguamento, per le infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi, nei limiti, rispettivamente, della pena pecuniaria fino a lire 100 milioni, dell'ammenda fino a lire 100 milioni e dell'arresto fino a tre anni, da comminare in via alternativa o congiunta". c) L'art. 18, comma 2, del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 109, emanato in esecuzione della predetta delega legislativa, prevede la sanzione amministrativa pecuniaria da lire sei milioni a lire trentasei milioni di lire per le ipotesi indicate dall'art. 2 del medesimo testo normativo, cioe' (comma 1) per l'"etichettatura, la presentazione e la pubblicita' dei prodotti alimentari" che inducano "in errore l'acquirente sulle caratteristiche del prodotto e precisamente sulla natura, sulla identita', sulla qualita', sulla composizione, sulla quantita', sulla durabilita', sul luogo di origine o di provenienza, sul modo di ottenimento o di fabbricazione del prodotto stesso". Infine, l'art. 29, comma 2, del medesimo decreto legislativo n. 109 del 1992 dispone (oltre all'abrogazione della precedente disciplina della materia contenuta nel decreto del Presidente della Repubblica 18 maggio 1982, n. 322) l'abrogazione di "tutte le disposizioni in materia di etichettatura, di presentazione e di pubblicita' dei prodotti alimentari e relative modalita', diverse o incompatibili con quelle previste dal presente decreto, ad eccezione di quelle contenute nei regolamenti comunitari e nelle norme di attuazione di direttive comunitarie relative a singole categorie di prodotti". In questo quadro, il giudice rimettente ritiene che la normativa richiamata in c) abbia abrogato la norma penale indicata in a), con cio' violando il principio e criterio generale della salvaguardia delle norme penali vigenti, salvaguardia disposta dalla legge-delega menzionata in b). Su questa base - nella quale non entrano a far parte elementi di diritto dell'Unione europea, le direttive disposte dalla quale tacendo in ordine alla natura delle sanzioni nazionali da prevedersi per il commercio dei prodotti non conformi alle direttive stesse - si richiede, in base all'art. 76 della Costituzione, una pronuncia d'incostituzionalita' delle norme denunciate, nella parte in cui esse abrogherebbero l'art. 13 della legge 30 aprile 1962, n. 283, in contrasto con l'art. 2, punto d), della legge 29 dicembre 1990, n. 428. 2. - La questione d'incostituzionalita' cosi' proposta e' inammissibile. 2.1. - L'argomentazione del giudice rimettente si incentra sulla pretesa valenza abrogatrice propria delle norme impugnate, rispetto alla norma penale contenuta nell'art. 13 della legge del 1962. I dubbi di incostituzionalita' sollevati stanno o cadono su questo punto. L'ordinanza che propone la questione, discostandosi da un opposto orientamento pur presente nella giurisprudenza comune e largamente prevalente in quello della Corte di cassazione, argomenta l'effetto abrogativo anzidetto osservando innanzitutto che le ipotesi di illecito previste dall'art. 2 del decreto legislativo del 1992, cui rinvia l'impugnato art. 18 determinandone le sanzioni, si sovrappongono in gran parte - e sicuramente con riguardo all'ipotesi d'illecito che e' oggetto del giudizio a quo - a quelle descritte nell'art. 13 della legge del 1962. Si determinerebbe cosi' un caso di abrogazione secondo le regole generali e secondo il disposto particolare dell'art. 29, comma 2, del medesimo decreto legislativo del 1992, che dispone tale effetto per tutte le disposizioni "diverse o incompatibili". Inoltre, si fa valere la circostanza che il comma 2 dell'art. 18, prevedendo la sanzione amministrativa per le infrazioni alle disposizioni dell'art. 2, non ripete (a differenza di quanto disposto dall'art. 16, comma 1, dell'abrogato d.P.R. n. 322 del 1982) la formula, contenuta invece nel primo comma dello stesso articolo, "salvo che il fatto costituisca reato". Da tale omissione - argomenta il giudice rimettente - devesi pertanto presumere la volonta' del legislatore di escludere la "riserva penale" per le ipotesi previste, in relazione all'art. 2, dall'impugnato comma 2 dell'art. 18. A cio' si aggiunge la considerazione che, a voler ritenere perdurante la vigenza della norma penale del 1962, si svuoterebbe la portata del comma 2 dell'art. 18 del decreto legislativo del 1992, il quale risulterebbe applicabile soltanto a infrazioni meramente formali non riconducibili alla previsione della norma anteriore, con conseguenze - oltretutto - incongrue circa l'entita' delle pene applicabili rispettivamente alle "violazioni sostanziali" e a quelle esclusivamente "formali". Da queste osservazioni, il giudice rimettente trae ragione per ritenere che le violazioni in tema di pubblicita' ingannevole di prodotti alimentari e, in particolare, quella contestata nel giudizio a quo, integrino oggi l'illecito amministrativo previsto dagli artt. 2 e 18, comma 2, del decreto legislativo del 1992, e non piu' il reato previsto dall'art. 13, comma 2, della legge del 1962. 3. - Senonche', a tale ricostruzione normativa e' possibile contrapporne un'altra che conduce a esiti opposti - la perdurante vigenza della norma penale dell'art. 13 della legge del 1962 - con argomenti almeno altrettanto plausibili. E' vero che tra le norme del 1962 e del 1992 c'e' una sovrapposizione di fattispecie (peraltro non assoluta). Ma perche' se ne possa dedurre l'incompatibilita' e affermare l'abrogazione della norma piu' risalente a opera della piu' recente, occorrerebbe innanzitutto presupporre l'esclusione del concorso, nel caso in questione, di illecito penale e di illecito amministrativo (e quindi delle norme che prevedono l'uno e l'altro). L'art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, che disciplina il concorso tra norme e tra illeciti nell'ambito della "depenalizzazione" disposta da tale legge, non risolve il problema con evidenza. La sua formulazione riflette le perplessita' del legislatore, documentate dai lavori preparatori, e alimenta le divergenze dei commentatori sul problema: un problema interpretativo la cui soluzione non spetta alla Corte costituzionale e che - si potrebbe aggiungere - il giudice rimettente, chiedendo la dichiarazione d'incostituzionalita' delle norme impugnate non totale ma soltanto "nella parte in cui abrogano" la precedente disciplina penale, sembra implicitamente risolvere nel senso della possibilita' di concorso. A cio' si aggiunga, da un lato, che la formula del terzo comma dell'art. 9 della citata legge n. 689 - la' dove stabilisce che, ai fatti previsti da alcuni articoli della legge n. 283 del 1962 (tra cui l'art. 13, che rileva nella presente questione), "si applicano in ogni caso le disposizioni penali in tali articoli previste", anche quando gli stessi fatti sono puniti da altre disposizioni con sanzioni amministrative - e' perfettamente compatibile con il concorso degli illeciti, nonche' con il cumulo delle sanzioni; e, dall'altro, che lo stesso potrebbe dirsi in relazione, precisamente, alla lettera della legge di delegazione (art. 2, lettera d), della legge n. 428 del 1990) che si assume violata, la' dove essa prescrive che "si facciano salve le norme penali vigenti" e si delega il Governo a stabilire sanzioni amministrative e penali "in via alternativa o congiunta". Un'altra possibilita' - anch'essa nel senso della perdurante vigenza della risalente norma penale - e' offerta poi dall'interpretazione complessiva dell'art. 18 (impugnato nel suo secondo comma), potendosi sostenere che la clausola con la quale esso si apre ("Salvo che il fatto costituisca reato") si riferisca non solo alle ipotesi indicate al primo comma, ma a tutte quelle previste in tale articolo, il quale determina esaustivamente il sistema delle sanzioni alle infrazioni concernenti l'etichettatura, la presentazione e la pubblicita' dei prodotti alimentari. Secondo questo modo di vedere, il primo comma stabilirebbe una norma di portata generale, mentre il secondo - in relazione a ipotesi specifiche, valutate dal legislatore come piu' gravi - non delineerebbe un sistema alternativo, ma si limiterebbe a prevedere pene amministrative piu' pesanti rispetto a quelle indicate nel primo comma. Il silenzio della norma contenuta nel secondo comma circa la clausola di "riserva penale" - silenzio che il giudice rimettente giudica essere solida base per un'interpretazione a contrariis - potrebbe apparire cosi' un argomento privo di consistenza, valendo la riserva affermata in generale nel primo comma. Percio' anche il raffronto, operato dal giudice rimettente, con la diversa formulazione dell'art. 16, primo comma, del d.P.R. n. 322 del 1982 - che conteneva la clausola di riserva - non risulterebbe in alcun modo probante. Tanto piu', occorre aggiungere, che quest'interpretazione complessiva dell'art. 18 corrisponderebbe all'indicazione contenuta nella legge di delegazione, essendo principio di evidenza, tale da non richiedere spiegazioni, che il decreto delegato debba essere interpretato innanzitutto alla luce della delega del cui svolgimento esso e' il risultato. Infine, assume rilievo anche la circostanza che questa conclusione si porrebbe in linea col gia' ricordato art. 9 della legge n. 689 del 1981 il quale, dopo aver affermato il "principio di specialita'" nella concorrenza tra disposizioni penali e disposizioni che prevedono sanzioni amministrative per la medesima infrazione, al terzo comma stabilisce che "ai fatti puniti dagli artt. 5, 6, 9 e 13 della legge 30 aprile 1962, n. 283... si applicano in ogni caso le disposizioni penali in tali articoli previste, anche quando i fatti stessi sono puniti da disposizioni amministrative che hanno sostituito disposizioni penali speciali". Tale disposizione vale a indicare la volonta' del legislatore di ribadire, anzi rafforzare il rilievo della legge del 1962 nella tutela della veridicita' dell'informazione nel settore del commercio alimentare e nella punizione degli illeciti relativi, rilievo che verrebbe negato, pur in assenza di univoci elementi giustificativi, dall'interpretazione abrogante assunta dal giudice rimettente per formulare la presente questione di costituzionalita'. Ne' varrebbe in contrario rilevare che la disposizione del terzo comma dell'art. 9 citato dovrebbe intendersi rivolta soltanto alla disciplina della collisione tra norme anteriori alla legge n. 689 del 1981, poiche', altrimenti, le si attribuirebbe l'efficacia di "norma sulle fonti" legislative, dunque un'impropria efficacia superiore a quella tipica delle leggi ordinarie. Assegnare a una norma legislativa il valore di elemento interpretativo di una norma successiva, in mancanza di una sempre possibile deroga o abrogazione da parte di altre leggi, non equivale affatto ad attribuirle un rango diverso da quello che le e' proprio nel sistema delle fonti. Ove si seguissero queste linee interpretative, infine, anche il riferimento al denunciato art. 29, comma 2, del decreto legislativo n. 109 del 1992, che dispone l'abrogazione di tutte le disposizioni in materia di etichettatura, di presentazione e di pubblicita' dei prodotti alimentari e relative modalita', incompatibili ma anche semplicemente diverse da quelle previste nel decreto stesso, perderebbe di valore. L'art. 18, cosi' interpretato in ordine alla salvaguardia delle precedenti norme penali, costituirebbe deroga alla regola abrogativa generale disposta in tale art. 29. 4. - Nel quadro delle norme e delle loro interpretazioni cosi' esposto, due posizioni si fronteggiano dunque: la prima - risultante incidentalmente da una pronuncia della Corte di cassazione e assunta dal giudice rimettente come premessa della presente questione d'incostituzionalita' - afferma l'avvenuta abrogazione dell'art. 13 della legge n. 283 del 1962 a opera degli artt. 18, comma 2, e 29, comma 2, del decreto legislativo n. 109 del 1992; la seconda - accolta da altra e piu' numerosa giurisprudenza, di merito e di legittimita' - ritiene viceversa la perdurante vigenza della prima norma, pur in presenza di quelle successive, sottraendo cosi' alla questione d'incostituzionalita' sollevata la sua premessa. Entrambe queste posizioni, come si e' mostrato, non mancano di argomenti interpretativi a loro sostegno. In questa situazione, la richiesta pronuncia d'incostituzionalita' risulta ingiustificata. In linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e' possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perche' e' impossibile darne interpretazioni costituzionali. Ora, nel caso di specie, argomenti e precedenti giurisprudenziali non mancano a dimostrazione che il risultato al quale il giudice rimettente mira e ch'egli considera dovuto per ragioni costituzionali - la perdurante vigenza della norma del 1962 - puo' essere raggiunto sulla base dell'interpretazione delle norme vigenti, senza involgere la questione di legittimita' costituzionale delle norme del 1992. Il caso in esame presenta inoltre questa singolarita': di nascere in presenza di un contrasto interpretativo interno alla giurisprudenza comune, al di la' del quale, pero', vi e' convergenza sul risultato cui si mira e che e' ritenuto conforme alla Costituzione. La divergenza riguarda soltanto le vie da percorrere: l'una richiede una previa declaratoria d'incostituzionalita'; l'altra implica semplici operazioni interpretative di norme legislative. La questione di costituzionalita' proposta tende cosi' a configurarsi come un improprio tentativo per ottenere dalla Corte costituzionale l'avallo a favore di un'interpretazione, contro un'altra interpretazione, senza che da cio' conseguano differenze in ordine alla difesa dei principi e delle regole costituzionali, cio' in cui, esclusivamente, consiste il compito della giurisdizione costituzionale.