ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 7-bis della
 legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei  confronti
 delle  persone  pericolose  per  la  sicurezza  (e  per  la  pubblica
 moralita')), promosso con ordinanza emessa il  9  novembre  1995  dal
 tribunale  di  Avellino  sull'istanza  proposta da Covelluzzi Andrea,
 iscritta al n. 519 del registro ordinanze  1996  e  pubblicata  nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  24, prima serie speciale,
 dell'anno 1996;
   Udito nella camera di  consiglio  del  12  marzo  1997  il  giudice
 relatore Gustavo Zagrebelsky.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Chiamato  a  provvedere sulla richiesta di autorizzazione ad
 allontanarsi dal comune di soggiorno obbligato, formulata da  persona
 sottoposta  alla  misura  della  sorveglianza speciale con obbligo di
 soggiorno,  per  esigenze  lavorative  (nella  specie,  per  svolgere
 saltuari  lavori  di fabbro), il tribunale di Avellino, con ordinanza
 del 9 novembre 1995 (pervenuta alla Corte costituzionale il 10 maggio
 1996),  ha  sollevato  questione   di   legittimita'   costituzionale
 dell'art.  7-bis  della  legge  27  dicembre 1956, n. 1423 (Misure di
 prevenzione nei confronti delle persone pericolose per  la  sicurezza
 (e  per  la pubblica moralita')), introdotto dall'art. 11 della legge
 13 settembre 1982, n. 646  (Disposizioni  in  materia  di  misure  di
 prevenzione  di  carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27
 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965,  n.
 575.  Istituzione  di una commissione parlamentare sul fenomeno della
 mafia), in riferimento agli artt. 3 e 4 della Costituzione.
    2. - Il giudice rimettente  osserva  che  l'art.  7-bis  impugnato
 prevede che la persona sottoposta a sorveglianza speciale di pubblica
 sicurezza  puo'  essere  autorizzata,  nei  modi  ivi  stabiliti,  ad
 assentarsi dal luogo di soggiorno obbligato  soltanto  per  "gravi  e
 comprovati  motivi  di  salute".  Tale  delimitazione,  ad avviso del
 tribunale, per un verso sarebbe contrastante con il diritto al lavoro
 riconosciuto dall'art. 4 della Costituzione, per altro verso  sarebbe
 irragionevole,  posto che, pur prescrivendosi al sorvegliato speciale
 di darsi  alla  ricerca  di  un  lavoro,  gli  si  impedisce  poi  di
 allontanarsi  dal  luogo  di  soggiorno  obbligato - che e' spesso un
 comune di piccole dimensioni - per svolgere un'attivita'  lavorativa.
 Ulteriore  profilo  di  irragionevolezza  della  norma  impugnata, ad
 avviso del tribunale, sarebbe altresi' da ravvisare nel raffronto con
 la misura cautelare degli  arresti  domiciliari,  la  cui  disciplina
 prevede  la  possibilita'  (art.  284,  terzo comma, cod. proc. pen.)
 dell'allontanamento temporaneo giustificato da  esigenze  lavorative:
 arresti   domiciliari   che  rappresentano  una  misura  maggiormente
 afflittiva rispetto al soggiorno obbligato,  e  che,  comunque,  sono
 dettati  da  ragioni  di  prevenzione  generale analoghe a quelle che
 sorreggono la misura del soggiorno obbligato.
   Ne' la limitazione dell'ambito applicativo della norma alle ragioni
 sanitarie puo' giustificarsi - conclude il tribunale rimettente - con
 l'esigenza  di  controllo  della  persona   socialmente   pericolosa,
 giacche'   questo   controllo  sarebbe  agevolmente  attuabile  anche
 ammettendo la variazione richiesta.
   L'art. 7-bis della legge n. 1423 del 1956 e' dunque  denunciato  di
 incostituzionalita', in relazione ai parametri indicati, "nella parte
 in  cui  non  prevede  che  il  sorvegliato  speciale  con obbligo di
 soggiorno possa essere autorizzato a recarsi in un luogo  determinato
 fuori  del  comune  di  residenza o di dimora abituale per esercitare
 un'attivita' lavorativa".
                        Considerato in diritto
   1.  -  Il  tribunale  di   Avellino   dubita   della   legittimita'
 costituzionale  dell'art. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423
 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per  la
 sicurezza  (e  per  la  pubblica moralita')), introdotto dall'art. 11
 della legge 13 settembre 1982, n. 646  (Disposizioni  in  materia  di
 misure  di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle
 leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31  maggio
 1965,  n.  575.    Istituzione  di  una  commissione parlamentare sul
 fenomeno della mafia) - che, per le persone  sottoposte  alla  misura
 della  sorveglianza  speciale  con  obbligo  di  soggiorno, prevede e
 disciplina l'autorizzazione a recarsi in un luogo  determinato  fuori
 del  comune  di  residenza  o di dimora abituale, nei casi di gravi e
 comprovati motivi di salute - nella parte in cui non prevede  che  la
 medesima autorizzazione possa valere anche per consentire l'esercizio
 di un'attivita' lavorativa.
   Tale  mancata previsione, ad avviso del giudice rimettente, sarebbe
 in  contrasto  (a)  con  l'art.  4  della  Costituzione,  in   quanto
 violerebbe  il  diritto  al lavoro; (b) con l'art. 3, perche' sarebbe
 irragionevole prescrivere  al  sorvegliato  speciale  di  darsi  alla
 ricerca  di un lavoro (art. 5, secondo comma, della legge n. 1423 del
 1956) quando vengono imposte limitazioni in tale ricerca e infine (c)
 ancora con l'art.  3, in quanto la disposizione impugnata  negherebbe
 irragionevolmente  una  possibilita'  prevista  invece  per  chi  sia
 sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari (art. 284,
 terzo comma, cod.  proc. pen.).
   2. - La questione non e' fondata.
   2.1.  -  Nel  sistema  della citata legge n. 1423, l'autorizzazione
 prevista dall'art. 7-bis rappresenta una deroga all'originario regime
 esecutivo della misura della sorveglianza  speciale  con  obbligo  di
 soggiorno  (ordinanza  n.  722 del 1988), una deroga dettata in vista
 della tutela del bene della salute del prevenuto,  quando  sussistano
 gravi  e  comprovati  motivi  che  la  giustifichino. Attraverso tale
 deroga, il legislatore ha inteso introdurre  un  contemperamento  tra
 esigenze  diverse - la salute, da un lato, e la sicurezza, dall'altro
 - per mezzo di un'articolata disciplina che prevede limiti  temporali
 della  autorizzazione, procedure giudiziarie ordinarie e semplificate
 per il caso d'urgenza e adempimenti speciali di  pubblica  sicurezza,
 adeguati alla particolarita' della situazione.
   Non   e'  escluso,  in  linea  di  principio,  che  una  disciplina
 derogatoria,  in  forza  del  principio  di   uguaglianza   e   della
 ragionevolezza  delle  leggi, sia da estendere a ipotesi non previste
 dal legislatore. Ma cio' e' possibile  solo  quando  la  ratio  della
 deroga   sia  realizzata  in  maniera  irragionevolmente  manchevole,
 trascurando casi che manifestamente hanno da ricomprendersi in essa e
 la cui mancata previsione  determina,  percio',  una  contraddittoria
 discriminazione.
    Nel  caso  in esame, non e' tuttavia cosi'. Le ragioni di sanita',
 infatti, non sono assimilabili alle ragioni lavorative.
   E' evidente che le ragioni sanitarie, tanto piu' se  gravi  -  come
 richiede  la norma - sono tali da mettere a repentaglio, talora anche
 in maniera definitiva e irrimediabile, un bene primario della persona
 (art.  32  della  Costituzione)  che   puo'   rischiare   di   essere
 pregiudicato  una  volta  per  sempre.  Le  ragioni  lavorative,  pur
 trovando riconoscimento anch'esse sul piano costituzionale (art.  4),
 possono  essere  valutate  diversamente  da  quelle  sanitarie,  alla
 stregua della diversita'  del  bene  che  e'  in  questione  e  della
 rimediabilita',  nel  caso  del lavoro, della perdita che si rendesse
 necessaria  in  conseguenza   della   soggezione   alla   misura   di
 prevenzione.  Cio' vale tanto piu' in quanto si tratti, come nel caso
 in esame, di un lavoro consistente in una prestazione  saltuaria,  la
 cui rinuncia non pregiudica il mantenimento dell'attivita' principale
 e  continuativa.  A cio' si deve aggiungere - a conferma dell'assenza
 di omologia tra l'ipotesi disciplinata dall'art. 7-bis e  quella  che
 vi  si  vorrebbe  ricomprendere per mezzo della pronuncia richiesta a
 questa Corte - che anche le modalita'  organizzative  del  potere  di
 autorizzazione  previsto dalla norma impugnata sarebbero suscettibili
 di variare, in relazione  alle  esigenze  lavorative,  nelle  diverse
 ipotesi in cui queste potrebbero manifestarsi.
   Quanto  precede dimostra l'inutilizzabilita' della norma impugnata,
 come base di una pronuncia additiva che ne  estenda  la  portata  nel
 senso   indicato   dal   giudice   rimettente.   A  cio'  osta  tanto
 l'eterogeneita' delle fattispecie quanto l'esistenza  di  margini  di
 scelte   del  legislatore,  una  volta  che  questi  si  inducesse  a
 prevedere, nella sua discrezionalita', ipotesi di  autorizzazione  in
 vista  delle  esigenze lavorative del prevenuto (cosi' la gia' citata
 ordinanza n. 722 del 1988) .
   2.2. - D'altronde,  gli  specifici  motivi  di  incostituzionalita'
 della  vigente  disciplina,  fatti valere dal giudice rimettente, non
 sono fondati.
   2.2.1. - Innanzitutto, non sussiste la violazione dell'art. 4 della
 Costituzione.
   Come nell'applicazione di tutte le misure limitative della liberta'
 personale,  anche  rispetto  alle misure di prevenzione il diritto al
 lavoro non puo'  essere  sacrificato  oltre  la  soglia  minima  resa
 necessaria dalla misura medesima, cioe' dalle esigenze in vista delle
 quali essa sia legittimamente prevista e disposta. Tale limite, nella
 misura  della  sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, non e'
 superato.  La legge n. 1423 del 1956 nella sua  versione  attualmente
 in  vigore,  con  lo stabilire (art. 3, terzo comma) che l'obbligo di
 soggiorno puo' riguardare solo il comune di  residenza  o  di  dimora
 abituale,  esclude  lo  sradicamento dai luoghi abituali di vita e di
 attivita' del prevenuto e vale  percio'  a  garantire,  in  linea  di
 massima, la prosecuzione, ove vi siano, delle attivita' lavorative in
 corso  o la possibilita' di ricerca di un lavoro nei medesimi luoghi.
 Qualora poi venisse reperita una nuova attivita'  da  svolgere  fuori
 dal  territorio  del  comune  in cui e' fatto obbligo di soggiornare,
 cio', oltre a poter costituire motivo  di  revoca  della  misura,  in
 quanto sintomo di diminuzione della pericolosita' sociale, sarebbe di
 per   se'   ragione  sufficiente  della  modifica  del  provvedimento
 applicativo, a norma dell'art. 7, secondo comma, della legge n.  1423
 del 1956, conformemente a quanto riconosciuto dalla giurisprudenza di
 merito e di legittimita'.
   Quanto  poi  alla  pretesa  di  poter svolgere fuori del territorio
 comunale prestazioni lavorative del tutto sporadiche  e  occasionali,
 come  nel  caso  che  ha  dato  origine  alla  presente  questione di
 costituzionalita', deve osservarsi che l'impossibilita' la quale, per
 ragioni di pubblica sicurezza, derivi dall'esecuzione della misura di
 prevenzione si traduce non nella negazione del diritto al  lavoro  ma
 in  una  diminuzione  puntuale  ed  episodica  della  possibilita' di
 svolgere  singole  attivita'   lavorative:   diminuzione   certamente
 compresa nelle limitazioni della liberta' personale che la soggezione
 alla misura di prevenzione ragionevolmente implica.
   2.2.2.  -  Neppure  e' fondata la censura d'incostituzionalita' per
 irrazionalita',  in   base   all'asserita   contraddizione   tra   la
 limitazione  alla  possibilita'  di  svolgere  attivita'  lavorative,
 conseguente alla misura di prevenzione,  e  la  prescrizione  che  il
 tribunale,  a  norma  dell'art. 5, secondo comma, della legge n. 1423
 del 1956, deve rivolgere al prevenuto di darsi  alla  ricerca  di  un
 lavoro, entro un congruo termine.
   L'obbligo  che da tale prescrizione deriva - previsto in precedenza
 per gli oziosi e vagabondi (categorie, peraltro, espunte  dall'ambito
 di  applicazione della legge n. 1423 a seguito della modifica portata
 all'art. 1 dall'art. 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327) e, tuttora,
 per le persone sospettate di vivere con il provento di reati - non e'
 affatto  reso  impossibile  dalle  limitazioni  che  derivano   dalla
 soggezione  alla  misura  di prevenzione. Semplicemente, tale obbligo
 vale entro i limiti  in  cui,  compatibilmente  con  le  esigenze  di
 sicurezza, quella ricerca  e' possibile.
   2.2.3.  -  Infine,  priva  di  consistenza  e'  anche la censura in
 termini di irragionevolezza, per la pretesa ingiustificata disparita'
 di disciplina del diritto al  lavoro  nel  caso  in  esame,  rispetto
 all'ipotesi  degli arresti domiciliari, nel cui regime puo' rientrare
 l'autorizzazione del giudice all'imputato  che  non  puo'  altrimenti
 provvedere  alle sue indispensabili esigenze di vita, oppure versa in
 situazione di assoluta  indigenza,  ad  assentarsi  nel  corso  della
 giornata  dal  luogo  di arresto per il tempo strettamente necessario
 per  provvedere  alle  suddette  esigenze   ovvero   per   esercitare
 un'attivita' lavorativa (art.  284, terzo comma, cod. proc. pen.).
   Innanzitutto,  e' da rilevare che tra le misure di prevenzione e le
 misure cautelari esistono differenze strutturali tali  da  escludere,
 di  regola,  la  comunicabilita'  tra le due discipline (ordinanza n.
 148 del 1987; sentenze nn. 74 del 1973 e  96  del  1970)  e  tali  da
 impedire  - al contrario di quanto ritiene il giudice rimettente - la
 configurabilita' delle prime come "misure meno gravi" delle  seconde.
 In  particolare,  poi,  l'autorizzazione  di  cui all'art. 284, terzo
 comma, cod. proc.  pen. si innesta su una  misura  che  consiste  nel
 divieto  di allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di
 privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o  di  assistenza,
 mentre la misura di prevenzione comporta il divieto di allontanamento
 dal  territorio  del  comune. Cio' di per se' determina una rilevante
 differenza rispetto alle possibilita' lavorative,  che  permette  una
 valutazione  legislativa  differenziata  delle esigenze minime vitali
 alle quali, da un  lato,  e'  finalizzata  la  possibilita'  prevista
 dall'art.  284,  terzo  comma, cod. proc. pen. e, dall'altro, sarebbe
 finalizzata l'analoga possibilita'  che  si  vorrebbe  innestare  nel
 regime  di  esecuzione della misura di prevenzione della sorveglianza
 speciale con obbligo di soggiorno.
   3.   -   La   riconosciuta   infondatezza   della   questione    di
 costituzionalita'   cosi'  come  proposta,  sotto  il  profilo  delle
 restrizioni che dalla sorveglianza speciale con obbligo di  soggiorno
 conseguono  all'esercizio  del  diritto  al  lavoro,  non preclude la
 ricerca,  attraverso  l'approfondimento  delle  possibilita'  che  la
 disciplina vigente consente, del piu' adeguato contemperamento tra le
 esigenze  collettive  di  sicurezza,  cui  le  misure  di prevenzione
 imprescindibilmente mirano, e il diritto  al  lavoro  del  prevenuto.
 Tale  ricerca - in via di esecuzione amministrativa o di applicazione
 giurisdizionale della disciplina vigente -  e'  aperta,  pur  in  una
 situazione  normativa  che,  per  come  ricostruita nei termini sopra
 esaminati dal giudice rimettente al fine di prospettare  la  presente
 questione  di  costituzionalita',  si  sottrae  ai sollevati dubbi di
 legittimita' costituzionale.