ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 8  della  legge
 15  luglio  1966,  n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), come
 modificato dall'art. 2 della legge 11 maggio 1990, n.  108,  promosso
 con  ordinanza  emessa  il  19  maggio  1997 dal pretore di Parma nel
 procedimento civile vertente tra Del Frate Antonio  e  il  Caseificio
 Sociale  San  Paolo  societa'  cooperativa a responsabilita' limitata
 iscritta al n. 435 del registro ordinanze  1997  e  pubblicata  nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  29, prima serie speciale,
 dell'anno 1997.
   Visto l'atto di costituzione di Del Frate Antonio nonche' l'atto di
 intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
   Udito  nell'udienza  pubblica  del  10  febbraio  1998  il  giudice
 relatore Fernando Santosuosso;
   Uditi  gli avvocati Luciano Petronio e Sergio Vacirca per Del Frate
 Antonio e l'Avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del
 Consiglio dei Ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Con ricorso del 21 maggio 1996, Antonio Del Frate conveniva in
 giudizio avanti  il  pretore  di  Parma  la  societa'  cooperativa  a
 responsabilita'  limitata "Caseificio Sociale San Paolo", sua datrice
 di lavoro, chiedendo, da un lato, che venisse dichiarata la  nullita'
 del  licenziamento  disciplinare  intimatogli senza il rispetto della
 procedura  prevista  dall'art.  7  della legge 20 maggio 1970, n. 300
 (Norme sulla tutela della liberta' e della dignita'  dei  lavoratori,
 della   liberta'   sindacale   sui  luoghi  di  lavoro  e  norme  sul
 collocamento:  c.d. statuto dei lavoratori)  e,  dall'altro,  che  la
 controparte  venisse  condannata  a  reintegrarlo  in  servizio  ed a
 risarcirgli i danni ai  sensi  dell'art.  18  del  medesimo  statuto,
 convenzionalmente  applicabile,  in  base  al contratto collettivo di
 lavoro (piu' esattamente, all'accordo  integrativo  per  i  caseifici
 sociali  e  le  aziende cooperative operanti nella zona di produzione
 del formaggio parmigiano reggiano), anche al rapporto  di  lavoro  de
 quo pur se il caseificio e' un'impresa con meno di  16 dipendenti.
   Il  pretore  di  Parma,  rilevato  che  al  caso  di specie risulta
 applicabile  la  c.d.  tutela  reale  del  posto  di   lavoro,   come
 trattamento   di  miglior  favore  per  i  dipendenti,  ha  sollevato
 d'ufficio questione di legittimita' costituzionale -  in  riferimento
 agli  artt.  3  e  44,  primo comma, della Costituzione - dell'art. 8
 della  legge  15  luglio  1966,  n.  604  (Norme  sui   licenziamenti
 individuali), nella parte in cui non prevede che le conseguenze molto
 piu' limitate ivi stabilite per il licenziamento senza giusta causa o
 giustificato motivo siano comunque e inderogabilmente estese anche al
 licenziamento  disciplinare  intimato in violazione dell'art. 7 dello
 statuto dei lavoratori da parte di un piccolo  imprenditore,  pur  se
 soggetto  convenzionalmente  al  regime  dell'art.  18  dello statuto
 medesimo.
   Infatti, nel caso di specie l'inosservanza della procedura prevista
 dal citato art. 7 comporta la  reintegrazione  nel  posto  di  lavoro
 ovvero  l'indennita'  sostitutiva  (pari  a  quindici  mensilita'  di
 retribuzione), nonche' il risarcimento dei danni (in misura pari alla
 retribuzione globale di fatto dal momento del licenziamento a  quello
 dell'effettiva   riassunzione  e  comunque  non  inferiore  a  cinque
 mensilita'), anziche' la meno gravosa sanzione prevista  dall'art.  8
 della  legge  n.  604 del 1966, consistente nella riassunzione ovvero
 nel risarcimento dei danni, anche minimo,  a  scelta  del  datore  di
 lavoro.  Ne  consegue che, a causa dell'elevato salario percepito dal
 lavoratore, l'indennita' sostitutiva - per la  quale  presumibilmente
 opterebbe  quest'ultimo,  che  nel  frattempo  e'  stato  assunto  da
 un'altra azienda - supererebbe l'importo di 120 milioni di lire,  che
 appare  "eccessivo,  sproporzionato  ed  irreale, tenuto conto che in
 tale misura viene sanzionata la  violazione  di  un  obbligo  formale
 (violazione  art.  7  statuto),  alla  pari,  cioe',  della  mancanza
 (sostanziale)  della  giusta  causa  o   del   giustificato   motivo,
 nell'ambito delle imprese di maggiori dimensioni".
   Risulterebbero,  percio',  violati  il  principio  di uguaglianza e
 quello del favore per la piccola impresa, sanciti dagli artt. 3 e 44,
 primo   comma,   della   Costituzione,    "posto    che    situazioni
 ontologicamente  differenziate  sono soggette allo stesso trattamento
 quanto alle sanzioni applicabili e alle conseguenze molto  gravi  cui
 e' assoggettabile il piccolo imprenditore".
   Ad  avviso  del  pretore, inoltre, il principio di cui all'art. 40,
 secondo comma, della legge n. 300 del 1970 (in base al quale  restano
 salve   le  condizioni  dei  contratti  collettivi  e  degli  accordi
 sindacali piu' favorevoli ai lavoratori) non  e'  coperto  da  alcuna
 garanzia  costituzionale  ed  e',  quindi,  derogabile in particolari
 situazioni.
   2.  - Si e' costituito in giudizio il ricorrente Antonio Del Frate,
 chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o  comunque
 infondata.
   Secondo  la  parte  privata,  il  pretore di Parma "ha chiesto alla
 Corte costituzionale la creazione di una  norma  ad  hoc",  la  quale
 stabilisca  che  le  disposizioni  di  legge  non siano derogabili in
 melius da parte della contrattazione collettiva,  nemmeno  quando  si
 tratti  di  sanzionare la violazione delle garanzie di difesa dettate
 dall'art.  7 dello statuto dei lavoratori: ma cio'  non  tiene  conto
 dell'art.   39 della Costituzione, che offre copertura costituzionale
 - contrariamente a quanto ritenuto dal pretore - al principio di  cui
 all'art.  40,  secondo  comma,  dello statuto; salvo nell'improbabile
 ipotesi - che nel caso di  specie  non  ricorrerebbe  -  che  vengano
 intaccate  norme  di ordine pubblico o dettate per la tutela di altri
 preminenti interessi costituzionalmente protetti.
   Sostiene il Del Frate  che,  in  questa  prospettiva,  non  possono
 richiamarsi  a sostegno della tesi del giudice a quo ne' il principio
 di uguaglianza, ne'  l'art.  44,  primo  comma,  della  Costituzione,
 perche' stabilire, come quest'ultimo fa, "che ''la legge ... aiuta la
 piccola  e  media proprieta''' non significa, sicuramente, che per le
 piccole  imprese  la  libera  contrattazione  collettiva  non   possa
 stabilire,  negli spazi lasciati dalla legge (nella specie, dall'art.
 40 stat. lav.), quegli ''equi rapporti sociali''  che  proprio  nella
 prima parte della norma costituzionale in parola vengono richiamati".
   In  caso  contrario,  poi,  avrebbero  dovuto  essere denunciati di
 incostituzionalita' l'art. 12 della legge n. 604 del 1966 e l'art. 40
 della legge n.   300 del 1970,  nella  parte  in  cui  consentono  la
 stipulazione  di condizioni migliori di quelle stabilite dalla legge,
 con una conseguente aberratio ictus compiuta dal giudice a quo.
   3. - E' intervenuto nel giudizio anche il Presidente del  Consiglio
 dei  Ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
 Stato, che ha chiesto di  dichiarare  la  questione  inammissibile  e
 comunque manifestamente infondata.
   Secondo la difesa erariale, l'elemento convenzionale che, superando
 quello  legale,  introduce  una  maggiore  tutela  del  prestatore di
 lavoro, non e'  direttamente  ricollegabile  alla  norma  denunciata,
 bensi' alla regola dettata dall'art. 40, secondo comma, dello statuto
 dei lavoratori, che da sempre ha informato l'applicazione delle norme
 dello statuto stesso.
   "Ne  risulta che, da un lato, e' fortemente dubbio che la questione
 di costituzionalita' possa essere riferita  all'art.  8  della  legge
 604/1966"  (anzi,  nella  memoria depositata in vista dell'udienza di
 discussione si precisa che il riferimento va fatto ad una  norma  non
 sottoponibile  al  sindacato  della  Corte,  quale  e'  il  contratto
 collettivo), "mentre, dall'altro lato, l'individuazione convenzionale
 (secondo le norme del contratto collettivo applicabile) di un  regime
 di  tutela ''reale'' del posto di lavoro, sia pure limitato alla sola
 fattispecie del licenziamento irrituale, non e' di per se' lesiva del
 principio di uguaglianza o del favor per l'impresa minore",  come  la
 stessa  Corte  costituzionale ha affermato, da ultimo, nella sentenza
 n. 398 del 1994.
                         Considerato in diritto
   1.  -    Il pretore di Parma ha sollevato questione di legittimita'
 costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 44, primo comma,  della
 Costituzione,  dell'art.  8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme
 sui licenziamenti individuali), come  modificato  dall'art.  2  della
 legge  11  maggio  1990, n. 108, nella parte in cui non prevede e non
 consente che al licenziamento  disciplinare  intimato  in  violazione
 dell'art. 7 del c.d. statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n.
 300)  da parte di un piccolo imprenditore, soggetto convenzionalmente
 al regime dell'art. 18  dello  statuto  medesimo,  siano  comunque  e
 inderogabilmente applicate le norme relative alla tutela obbligatoria
 di cui al citato art. 8, specifiche per tale tipo di imprenditore.
   2.  -  Va preliminarmente disattesa l'eccezione di inammissibilita'
 dedotta sia dalla parte costituita che dall'Avvocatura  dello  Stato,
 secondo  la  quale  la  questione  avrebbe dovuto essere proposta nei
 confronti non della norma denunciata, ma dell'art. 12 della legge  n.
 604  del  1966  e  dell'art. 40, secondo comma, della legge 20 maggio
 1970,  n.  300,  che  fanno  salve  le  disposizioni  dei   contratti
 collettivi e degli accordi sindacali piu' favorevoli ai lavoratori.
   In  realta',  tali ultime norme si limitano a ribadire un principio
 generale che, nel quadro dell'autonomia negoziale, informa il diritto
 del lavoro, in forza del quale i contratti di lavoro possono derogare
 in melius alle norme di legge non imperative, come si verifica  anche
 nella  presente  fattispecie. Nella quale, tuttavia, la normativa che
 il pretore e' chiamato direttamente ad applicare e' in effetti quella
 che stabilisce le sanzioni in caso di licenziamento illegittimo e che
 e' dettata dall'art. 8 della legge n. 604 del 1966 e  dall'art.    18
 della  legge n. 300 del 1970. E' vero che viene impugnata soltanto la
 prima di tali disposizioni, ma cio'  si  giustifica  in  quanto  essa
 rappresenta  la  disciplina  che sarebbe applicabile alla fattispecie
 concreta  in  mancanza  di  una  diversa  pattuizione  del  contratto
 collettivo;  ed  e'  appunto  la  derogabilita' dell'art. 8 ad essere
 censurata.
   3. - Nel merito la questione non e' fondata.
   Non  si  puo',  infatti,  affermare  che  il   legislatore,   nella
 disciplina    delle    conseguenze    sanzionatorie   derivanti   dai
 licenziamenti  illegittimi,  abbia  equiparato  il   trattamento   di
 situazioni  ontologicamente  differenti,  come  sostenuto dal giudice
 rimettente  nel  denunziare   la   violazione   dell'art.   3   della
 Costituzione.
   Prescindendo  dalla  ulteriore  parificazione, quanto alle suddette
 conseguenze sanzionatorie, della violazione delle norme relative alla
 mera procedura di licenziamento e di quelle che  prevedono  i  motivi
 giustificativi  dello stesso - parificazione che il giudice a quo non
 censura  -,  il  legislatore  ha  effettivamente  previsto   sanzioni
 differenti a seconda che ci si trovi nelle piccole ovvero nelle medie
 e  grandi  imprese.  Ma nel caso di specie e' stata la contrattazione
 collettiva integrativa ad estendere  anche  alle  imprese  minori  la
 disciplina dettata per quelle maggiori dall'art. 18 dello statuto dei
 lavoratori.
   Orbene,  l'autonomia collettiva, se non e' priva di limiti legali -
 potendo sempre il legislatore stabilire criteri direttivi  o  vincoli
 di  compatibilita' con obiettivi generali -, non puo' tuttavia essere
 annullata o compressa nei  suoi  esiti  concreti,  tra  i  quali,  ad
 esempio,   la  determinazione  della  misura  delle  retribuzioni  o,
 appunto,  la  disciplina  sanzionatoria  in  caso  di   licenziamento
 illegittimo;  compressione  ed  annullamento  che possono verificarsi
 solo  quando  detta  autonomia  introduca  un  trattamento  deteriore
 rispetto a quanto previsto dalla legge, ovvero, nell'ipotesi opposta,
 esclusivamente a salvaguardia di superiori interessi  generali  (cfr.
 le sentenze n. 34 del 1985 e n. 124 del 1991), interessi che non sono
 ravvisabili nella presente fattispecie.
   A  fondamento  della  questione non e' neppure invocabile l'art. 44
 della Costituzione, riguardo al quale questa Corte ha gia' avuto modo
 di precisare che, anche  se  e'  ravvisabile  in  esso  un  principio
 generale  di  favore per le piccole imprese (giustificato soprattutto
 da fini occupazionali), cio' non significa che per i loro  dipendenti
 debba sempre escludersi la c.d. tutela reale del posto di lavoro:  al
 contrario,   questa   deve   ritenersi   operante   nel  caso  di  un
 licenziamento privo della essenziale forma scritta (cfr. la  sentenza
 n.  398 del 1994) e, a maggior ragione, nell'ipotesi in cui il datore
 di  lavoro  si  sia  liberamente  impegnato,   nella   contrattazione
 collettiva, a garantire detta maggior tutela.
   Infine,   occorre   ricordare  che  l'art.  18  dello  statuto  dei
 lavoratori, prevedendo tale forma di tutela, non  e'  norma  speciale
 ne'  eccezionale,  ma  e'  dotato  di  forza  espansiva, che lo rende
 applicabile anche a casi diversi, purche' assimilabili per  identita'
 di ratio (cfr. l'ordinanza n. 338 del 1988).