ha pronunciato la seguente
                               Sentenza
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 5, comma 3,  del
 d.-l.   15   novembre  1993,  n.  453  (Disposizioni  in  materia  di
 giurisdizione e controllo della Corte  dei  conti),  convertito,  con
 modificazioni,  nella  legge  14  gennaio  1994, n. 19, promossi, con
 ordinanza emessa il 5 luglio 1996, dal giudice designato della  Corte
 dei  conti,  sezione  giurisdizionale  per  la regione Siciliana, nel
 giudizio di responsabilita' instaurato dal procuratore regionale, nei
 confronti di Lupo Michele, iscritta al n. 1113 del registro ordinanze
 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  42,
 prima  serie  speciale,  dell'anno 1996 e con ordinanza emessa, il 20
 giugno 1996, dal giudice designato della  Corte  dei  conti,  sezione
 giurisdizionale    per   la   regione   Puglia,   nel   giudizio   di
 responsabilita' instaurato dal procuratore regionale,  nei  confronti
 di De Feo Alberto ed altri, iscritta al n. 181 del registro ordinanze
 1997  e  pubblicata  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16,
 prima serie speciale, dell'anno 1997.
   Udito, nella camera di consiglio del 25 febbraio 1998,  il  giudice
 relatore Massimo Vari.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Con ordinanza emessa in data 5 luglio 1996 (r.o. n. 1113 del
 1996) il giudice designato per la conferma, modifica  o  revoca,  del
 decreto  di  sequestro  conservativo,  adottato il 3 giugno 1996, dal
 presidente della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la
 regione Siciliana, nei confronti di un presunto responsabile di danno
 erariale,  ha  sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.   5,   comma   3,  del  d.-l.  15  novembre  1993,  n.  453
 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei
 conti), convertito, con modificazioni, nella legge 14  gennaio  1994,
 n.  19,  denunciandone  il  contrasto con gli artt. 3, 97 e 108 della
 Costituzione, nella parte in cui prescrive che  il  presidente  della
 sezione giurisdizionale, anziche' limitarsi a designare il giudice al
 quale  e'  affidata  la  trattazione  del procedimento, provvede egli
 stesso ad autorizzare il sequestro con proprio decreto.
   1.2.  -  Il  rimettente  ritiene  la  disposizione  denunciata   in
 contrasto con i principi "di logicita', buon andamento e indipendenza
 del  giudice"  (artt.  3,  97 e 108 della Costituzione), in quanto la
 devoluzione  dell'ulteriore  fase  del  procedimento  ad  un  giudice
 diverso da quello che ha emesso il decreto di sequestro comporterebbe
 una   "irrazionale   frantumazione   del   procedimento   stesso"   e
 l'attribuzione del provvedimento conclusivo ad un organo che, "pur se
 libero da  formali  rapporti  di  subordinazione  gerarchica  con  il
 presidente,  viene  a trovarsi in una situazione della quale non puo'
 sfuggire  la  delicatezza,  dovendo  riesaminarne  ed   eventualmente
 censurarne l'operato".
   In  definitiva, il sistema previsto dal codice di procedura civile,
 che attribuisce  al  presidente  la  sola  designazione  del  giudice
 competente  a pronunciarsi sull'istanza di sequestro, sarebbe l'unico
 idoneo a  garantire  il  principio  di  unicita'  e  continuita'  del
 giudizio,  oltre  che  il  rispetto  delle  competenze  funzionali  e
 dell'ordinaria composizione del collegio giudicante.
   2. - Anche la seconda delle ordinanze in epigrafe - emessa in  data
 20  giugno  1996 (r.o. n. 181 del 1997) dal giudice designato per gli
 ulteriori provvedimenti relativi al decreto di sequestro conservativo
 adottato  il  10  maggio  1996,  nei  confronti  di  alcuni  presunti
 responsabili   di   danno  erariale,  dal  presidente  della  sezione
 giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Puglia -  dubita
 della  legittimita'  costituzionale dell'art. 5, comma 3, lettera a),
 del gia' menzionato decreto-legge, che viene denunciato per contrasto
 con l'art. 25, primo comma, della Costituzione, nella  parte  in  cui
 non  prevede  che  la designazione del giudice venga effettuata sulla
 base di criteri oggettivi e predeterminati.
   2.1. - Ad avviso del rimettente, la collocazione del principio  del
 giudice  naturale  nella  parte  della  Costituzione  concernente  "i
 diritti ed i doveri dei cittadini" ne avvalorerebbe l'interpretazione
 come strumento  di  garanzia  a  favore  del  cittadino,  in  stretto
 rapporto  con  il riconoscimento del diritto di difesa (art. 24 della
 Costituzione), venendo, percio', a riguardare  "la  designazione  del
 giudice  in relazione a ciascuna regiudicanda", mentre, diversamente,
 l'art.   102,   primo   comma,   della   Costituzione,   nel  vietare
 l'istituzione di giudici speciali  e  straordinari,  salvaguarderebbe
 "l'apparato giudiziario astrattamente considerato".
   Nel  rammentare  che  la Corte costituzionale, fin dal 1962, con la
 sentenza n. 88,  ha  ritenuto  che  "precostituzione  del  giudice  e
 discrezionalita'  nella  sua concreta designazione sono criteri fra i
 quali  non  si  ravvisa  una  possibile  conciliazione",  l'ordinanza
 osserva  che  la  considerazione  del  fine  perseguito  dall'art. 25
 suffragherebbe la tesi che il principio  del  giudice  naturale  vada
 riferito anche al "magistrato-persona fisica".
   Infatti,  se  il principio del giudice naturale, oggetto di riserva
 assoluta di legge, e' uno strumento di garanzia  dell'indipendenza  e
 della  imparzialita'  del  giudice,  come  la  Corte  ha affermato in
 numerose decisioni, la finalita' perseguita dal  Costituente  sarebbe
 vanificata se ci si limitasse ad assicurare il formale rispetto della
 competenza  dell'ufficio  giudiziario  precostituito per legge, ma si
 ammettesse, poi, che la  ripartizione  interna  degli  affari  fra  i
 magistrati, la composizione dei collegi ed altri aspetti analoghi del
 profilo organizzativo dell'attivita' giurisdizionale continuassero ad
 essere  affidati "a provvedimenti discrezionali, presi dai capi degli
 uffici  ed  ex   post   rispetto   alla   fattispecie   concretamente
 verificatasi".
   L'interpretazione  del  termine  giudice come riferito alla persona
 fisica   si   giustificherebbe,   inoltre,   con   due   ordini    di
 considerazioni:   da un lato, la strumentalita' della precostituzione
 del giudice rispetto all'imparzialita'  della  funzione  giudiziaria,
 sicche' la garanzia avrebbe un senso solo se riferita, per l'appunto,
 al  "giudice-persona  fisica",  poiche' e' soltanto in relazione agli
 atteggiamenti psicologici di questi che puo' valutarsi se sussista  o
 meno    l'imparzialita';    dall'altro,    il    carattere   creativo
 dell'attivita' interpretativa del giudice, che recherebbe  insita  la
 possibilita'  di  dare  soluzioni  diverse  a  casi  analoghi, pur in
 applicazione della stessa legge.
   Rilevato, quindi, che il principio dell'art. 25, primo comma, della
 Costituzione tende a realizzare ed a garantire la  permanenza  di  un
 effettivo  pluralismo  all'interno della magistratura, escludendo che
 l'assegnazione di un processo venga  fatta  post  factum,  e  che  lo
 stesso principio non avrebbe alcuna ragion d'essere in una situazione
 di  assoluta  fungibilita'  dei  giudici, l'ordinanza assume che, nel
 caso in esame, le esigenze  di  obiettiva  precostituzione  risultano
 vanificate   dalla   disposizione   denunciata,  che  attribuisce  al
 presidente della sezione giurisdizionale il potere di  designare,  in
 modo  assolutamente discrezionale ed insindacabile, il magistrato per
 l'ulteriore fase del giudizio cautelare.
   Secondo l'ordinanza, l'esigenza che,  nel  giudizio  cautelare,  il
 giudice  sia  designato in base a criteri obiettivi e predeterminati,
 pur essendo comune  anche  agli  analoghi  giudizi  che  si  svolgono
 innanzi  ai giudici ordinari nella fase anteriore alla causa (v. art.
 669-ter, terzo comma, cod.  proc.  civ.),  assume  maggiore  spessore
 presso  la  giurisdizione  contabile,  posto che, presso di essa, non
 vige  il  sistema  delle  c.d.  "tabelle  degli  affari  giudiziari",
 previsto, invece, per l'ordinamento giudiziario e strutturato in modo
 da  offrire  un  quadro  analitico  delle diverse ripartizioni in cui
 l'ufficio e' articolato, del ruolo assegnato a ciascun  magistrato  e
 della  composizione  di ogni singolo collegio che operera' secondo un
 calendario  programmato.    Nel  ricordare  che  il  procedimento  di
 formazione delle tabelle e' circondato da speciali garanzie, giacche'
 detta formazione deve essere deliberata dal consiglio superiore della
 magistratura, all'esito di un procedimento aperto alla partecipazione
 ed   alle   osservazioni   o   reclami  dei  magistrati  interessati,
 l'ordinanza rileva come al sistema tabellare abbiano fatto  richiamo,
 nel  tempo,  varie  leggi,  a  partire  dalla  legge n. 532 del 1982,
 istitutiva del tribunale della liberta'. Nel  ripercorrere  le  varie
 tappe  della  evoluzione  della  disciplina  legislativa  in materia,
 l'ordinanza rileva che, fin dal 1984, il  consiglio  superiore  della
 magistratura,  con ripetute circolari, ha costantemente richiesto che
 i  capi  degli  uffici   formulino   anche   "criteri   obiettivi   e
 predeterminati"  per  la  distribuzione degli affari tra le sezioni e
 per "l'assegnazione di essi ai  singoli  magistrati";  criteri,  che,
 allegati alle tabelle, vanno assoggettati allo stesso procedimento di
 approvazione delle stesse.
   La  regola cosi' elaborata dal consiglio superiore ha, poi, trovato
 codificazione  in  vari  interventi  legislativi  e,  con   specifico
 riguardo   agli   affari   penali,   nell'art.   7-ter   della  legge
 sull'ordinamento giudiziario (aggiunto dall'art. 4 del d.P.R. n.  449
 del  1988), nonche', in materia di applicazione dei magistrati, nella
 legge 16 ottobre 1991, n. 321: leggi che hanno affidato al  consiglio
 superiore  il compito di indicare in via generale i criteri obiettivi
 e predeterminati di assegnazione degli affari, nel primo caso, e, per
 la scelta dei magistrati da applicare, nel secondo caso.
   Rilevato che le dette regole sono state  ritenute  applicabili  dal
 consiglio  superiore  anche alla materia civile e a quella cautelare,
 il giudice a  quo  ritiene  che  l'excursus  in  ordine  al  "sistema
 tabellare"  valga  a  dimostrare come l'assenza, nel giudizio innanzi
 alla Corte dei conti, di  criteri  obiettivi  e  predeterminati,  che
 vincolino  il  potere  del  presidente  della sezione giurisdizionale
 regionale, nella designazione del giudice di cui all'art. 5, comma 3,
 lettera a) del decreto-legge n. 453 del 1993, comporti il rischio  di
 scelte  atte a concretare proprio la situazione che il Costituente ha
 inteso impedire.
                        Considerato in diritto
   1. - Entrambe le ordinanze  in  epigrafe  dubitano,  sotto  diversi
 profili  e con riferimento a differenti parametri, della legittimita'
 costituzionale dell'art. 5, comma 3, del d.-l. 15 novembre  1993,  n.
 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte
 dei  conti),  convertito,  con  modificazioni, nella legge 14 gennaio
 1994, n. 19. Tale disposizione affida  al  presidente  della  sezione
 giurisdizionale  regionale  della  Corte  dei  conti  la competenza a
 disporre, con proprio decreto motivato, sulla  domanda  di  sequestro
 conservativo   proposta   dal  procuratore  regionale  ed  a  fissare
 contestualmente  (secondo  quanto  stabilisce  la  lettera  a)  della
 medesima   norma)   l'udienza  di  comparizione  innanzi  al  giudice
 designato, al quale spetta, con propria ordinanza,  la  conferma,  la
 modifica o la revoca dei provvedimenti cautelari adottati.
   2.  -  I  giudizi,  avendo  ad oggetto questioni tra loro connesse,
 vanno riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.
   3. - La prima delle ordinanze denuncia la disposizione stessa nella
 parte  in  cui  stabilisce  che il presidente della sezione, anziche'
 limitarsi a designare il giudice al quale e' affidata la  trattazione
 del procedimento, disponga egli stesso il sequestro.
   La  devoluzione  dell'ulteriore fase della trattazione del giudizio
 cautelare ad un giudice diverso ne comporterebbe - secondo il giudice
 a quo - "una irrazionale frantumazione", in ragione dell'attribuzione
 del provvedimento conclusivo ad un  organo  che,  se  pur  libero  da
 formali  rapporti  di  subordinazione gerarchica con il presidente si
 trova a doverne riesaminare ed eventualmente censurare l'operato.
   Di qui il denunciato contrasto  della  norma  "con  i  principi  di
 logicita',  buon andamento e indipendenza del giudice", sanciti negli
 artt. 3, 97 e 108 della Costituzione.
   3.1. - La questione e' manifestamente infondata.
   Del tutto impropriamente appare, anzitutto, richiamato il parametro
 dell'art. 97  della  Costituzione,  relativamente  ad  una  questione
 concernente   l'esercizio   della   funzione  giurisdizionale,  avuto
 riguardo ai  provvedimenti  che,  nel  contesto  di  tale  esercizio,
 possono e devono essere adottati.
   Alla  luce della costante giurisprudenza di questa Corte, il canone
 del  buon  andamento  investe,   infatti,   l'amministrazione   della
 giustizia  unicamente  per  cio'  che  attiene  all'ordinamento degli
 uffici  giudiziari  ed  al   loro   funzionamento   sotto   l'aspetto
 amministrativo,  ma  non  si  estende  all'esercizio  della  funzione
 giurisdizionale (cfr., da ultimo, ordinanza n. 103 del 1997).
   Quanto agli altri due parametri invocati, e cioe' gli artt. 3 e 108
 della Costituzione, l'ordinanza prospetta, in sostanza, un rischio di
 condizionamento   psicologico,    e    quindi    di    compromissione
 dell'imparzialita',   che  il  giudice  designato  per  la  conferma,
 modifica o revoca del provvedimento potrebbe subire per il  fatto  di
 essere  chiamato  a pronunciarsi su un decreto assunto dal presidente
 della sezione presso la quale egli e' incardinato.
   Osserva, in proposito, la Corte che, in realta', la soggezione agli
 accennati poteri  presidenziali  di  organizzazione  e  distribuzione
 degli  affari  giurisdizionali  non  rappresenta altro che la normale
 condizione di  ogni  apparato  giurisdizionale,  tale  da  non  poter
 apportare  di  per se' turbamento al libero esercizio della funzione,
 in presenza dei mezzi di  tutela  previsti  dalla  legge  a  garanzia
 dell'indipendenza  del  giudice, in attuazione proprio dell'art. 108,
 secondo  comma,  della  Costituzione,  invocato  come  parametro   di
 giudizio dall'ordinanza di rimessione.
   Ad  escludere il supposto condizionamento psicologico sta, in primo
 luogo,  la  circostanza  che,  tra  il  presidente  ed  i  magistrati
 assegnati  alla  sezione, non intercorre alcun rapporto di dipendenza
 gerarchica,  nell'ambito  di   un   ordinamento   caratterizzato   da
 diversita'  di funzioni e tale da riservare al primo soltanto compiti
 di  organizzazione  e  direzione,  strumentali  all'esercizio   della
 funzione   giudicante,   la   quale  e'  affidata  paritariamente  ai
 componenti del collegio (o, nella specie, al giudice singolo).
   Inoltre,  ne'  la  nomina,  ne'  le  promozioni,  ne'   la   stessa
 assegnazione  delle funzioni dipendono da provvedimenti di competenza
 del presidente spettando essi ad organi diversi ed  essendo  regolati
 da meccanismi volti a garantire obiettivita' di determinazioni.
   Deve,   infine,   considerarsi  che  il  presidente  della  sezione
 giurisdizionale, il quale emette il decreto motivato di sequestro, ed
 il  giudice  da  lui  designato   per   gli   ulteriori   adempimenti
 intervengono  in due diversi momenti del procedimento e sulla base di
 diverse valutazioni, in quanto, in effetti, il giudice  designato,  a
 differenza del presidente, provvede dopo aver sentito le parti.
   4.  -  I  dubbi  di  legittimita' costituzionale prospettati con la
 seconda ordinanza investono la medesima disposizione, con particolare
 riguardo alla sua lettera a), nella parte in cui non prevede  che  la
 designazione  del  giudice,  al  quale  e'  demandato  il riesame del
 decreto presidenziale di sequestro conservativo, venga effettuata dal
 presidente della sezione giurisdizionale regionale  della  Corte  dei
 conti sulla base di criteri oggettivi e predeterminati.
   Secondo  il  rimettente il carattere assolutamente discrezionale ed
 insindacabile del potere presidenziale non  sarebbe  compatibile  con
 l'esigenza  di  obiettiva precostituzione del giudice, disattendendo,
 cosi',  il  principio  di  cui  all'art.  25,  primo   comma,   della
 Costituzione.
   4.1. - La questione non e' fondata, nei sensi di cui si dira'.
   Questa Corte, gia' da tempo, ha avuto occasione di affermare che la
 finalita'  perseguita  dall'art. 25, primo comma, della Costituzione,
 nell'enunciare il principio del giudice  naturale  precostituito  per
 legge,  e' quella di assicurare l'assoluta imparzialita' degli organi
 giudiziari, sottraendo la loro competenza  ad  ogni  possibilita'  di
 arbitrio  (sentenza  n.  127 del 1979 e da ultimo sentenza n. 460 del
 1994).
   Il  dettato  costituzionale,  significativamente  collocato,   come
 ricorda  anche  il  giudice  a  quo,  nella  parte della Costituzione
 concernente "i  diritti  e  i  doveri  dei  cittadini",  e'  volto  a
 garantire  "la  certezza  del  cittadino  di  veder tutelati i propri
 diritti e interessi  da  un  organo  gia'  preventivamente  stabilito
 dall'ordinamento  e indipendente da ogni influenza esterna" (sentenza
 n. 156 del 1985), proprio perche' istituito  sulla  base  di  criteri
 generali  fissati  in  anticipo  dalla  legge, e non gia' in vista di
 singole controversie.
   4.2. - Il rimettente, muovendo dall'assunto  che  il  rispetto  del
 principio costituzionale postuli un rapporto giudice-causa, del quale
 sarebbe vano prefissare uno solo dei termini ove l'altro, il giudice,
 possa  poi  essere soggetto, di volta in volta, a modifiche, pone una
 questione che attiene ai  criteri  di  individuazione  della  persona
 chiamata a svolgere la funzione dopo l'insorgenza della regiudicanda,
 in tal guisa evocando una delle due prospettive (giudice come ufficio
 e giudice come persona) che la giurisprudenza costituzionale ha avuto
 modo  di  considerare,  con  riferimento  -  occorre precisare - alle
 diverse fattispecie su cui di volta in  volta  e'  stata  chiamata  a
 pronunciarsi,  e  non  in  ragione di incertezze interpretative sulla
 portata del principio, o di  letture  limitative  dello  stesso  come
 sembra, invece, assumere l'ordinanza.
   In  relazione al secondo dei menzionati profili la Corte, dopo aver
 rilevato l'inconciliabilita', in linea generale, fra  precostituzione
 del  giudice  e  discrezionalita'  nella  sua  concreta  designazione
 (sentenza n. 88  del  1962),  ha  avuto  in  prosieguo  occasione  di
 soffermarsi  specificamente sul tema della discrezionalita' spettante
 ai capi degli uffici per l'assegnazione degli affari, precisando  che
 il  relativo potere deve essere rivolto unicamente al soddisfacimento
 di  obiettive  ed imprescindibili esigenze di servizio, allo scopo di
 rendere possibile  il  funzionamento  dell'ufficio  e  di  agevolarne
 l'efficienza,  restando,  invece, esclusa qualsiasi diversa finalita'
 (sentenze nn. 143 e 144 del 1973; ordinanza n. 93 del 1988).
   4.3. - Quanto agli assetti che, sul  piano  ordinamentale,  possono
 essere  apprestati  al  fine  di  dare concretezza ed effettivita' ai
 richiamati principi, la Corte e' dell'avviso che, una  volta  escluso
 che   la   nozione   di   giudice   naturale  si  cristallizzi  nella
 determinazione legislativa di una competenza generale (v. sentenza n.
 42 del 1996), il problema  sia  pur  sempre  quello  di  contemperare
 obiettivita'  ed  imparzialita'  con  continuita'  e  prontezza delle
 funzioni. Fra le possibili soluzioni  di  un  siffatto  problema,  il
 rimettente richiama la disciplina vigente per i giudici ordinari, che
 prevede  l'applicazione  del  c.d.  sistema  delle  tabelle  e,  piu'
 recentemente,  a  seguito  di  specifica  disposizione   legislativa,
 l'indicazione da parte del consiglio superiore della magistratura, in
 via  generale,  dei  criteri  obiettivi  sia per l'assegnazione degli
 affari penali (art. 7-ter della  legge  sull'ordinamento  giudiziario
 aggiunto   dall'art.   4  del  d.P.R.  n.  449  del  1988),  sia  per
 l'applicazione dei magistrati (art. 1 della legge 16 ottobre 1991, n.
 321 di modifica dell'art. 110 della medesima  legge  sull'ordinamento
 giudiziario).
   Ma  la sopra ricordata regolamentazione, paradigmaticamente evocata
 dal giudice  a  quo,  non  vale,  tuttavia,  a  dar  fondamento  alla
 richiesta  di declaratoria di incostituzionalita', nei termini in cui
 la stessa risulta qui sollecitata.
   Nessun dubbio  sussiste,  invero,  sull'importanza  delle  garanzie
 dell'indipendenza   e   terzieta'   della   funzione   anche  per  la
 magistratura della Corte dei conti,  alla  stregua  della  previsione
 dell'art.  108  della  Costituzione,  tant'e'  che  per  essa risulta
 istituito (art.  10 della legge 13 aprile 1988, n. 117) un  consiglio
 di   presidenza   al  quale  sono  affidate  le  deliberazioni  sulle
 assunzioni, assegnazioni di  sedi  e  di  funzioni,  trasferimenti  e
 promozioni  e  su  ogni  altro  provvedimento  riguardante  lo  stato
 giuridico dei  magistrati.  Cio'  non  significa,  tuttavia,  che  le
 esigenze rappresentate dall'ordinanza portino ad una dichiarazione di
 incostituzionalita' della disposizione censurata, potendosi, infatti,
 la  soluzione  della  prospettata  questione,  far  discendere, senza
 eccessive difficolta' e in maniera  piana,  dalla  stessa  ratio  del
 principio  dell'art. 25, primo comma, della Costituzione e dai valori
 che esso tende a tutelare. Invero la connessione fra imparzialita'  e
 precostituzione  che  si  ricava  da detto principio, nell'escludere,
 come gia' detto, che i poteri organizzativi  dei  capi  degli  uffici
 possano  essere  svolti  in  modo  assolutamente libero o addirittura
 arbitrario, consente di ritenere che l'esplicitazione di criteri  per
 l'assegnazione  degli  affari,  in  quanto  espressivi di un'esigenza
 costituzionale, che opera in tutti  i  settori  della  giurisdizione,
 possa  aver  luogo proprio nell'ambito di detti poteri discrezionali,
 quale manifestazione ed esercizio dei medesimi, senza necessita'  ne'
 di  una  specifica  previsione  legislativa  ne',  tantomeno,  di  un
 intervento additivo di questa Corte. In tal  senso,  come  la  stessa
 ordinanza  ricorda,  depone  anche  la prassi del Consiglio superiore
 della magistratura che, per gli affari civili, in  assenza  di  norme
 analoghe  a quelle della materia penale, richiede comunque che i capi
 degli  uffici  diano, in sede di proposte tabellari, indicazioni "sui
 criteri obiettivi e  predeterminati"  seguiti  per  le  assegnazioni.
 Ferma  dunque  la  facolta'  del  legislatore,  ove  lo  ritenga,  di
 intervenire per disciplinare la materia, la questione e' da ritenere,
 percio', non fondata, potendo pervenirsi gia'  ora,  nell'ordinamento
 vigente  per  la  Corte  dei  conti, alla formulazione di criteri per
 l'assegnazione  degli  affari  attraverso  l'esercizio   dei   poteri
 spettanti  ai  capi  degli uffici, secondo modalita' che non spetta a
 questa Corte indicare, se non  nel  senso  che  esse  siano  tali  da
 garantire, comunque, la verifica ex post  della loro osservanza.