ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 656,  comma  10,
 del codice di procedura penale, come modificato dalla legge 27 maggio
 1998,  n.  165 (Modifiche all'art. 656 del codice di procedura penale
 ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354,  e  successive  modificazioni),
 promossi  con  ordinanze  emesse  il  13 luglio 1998 dal tribunale di
 sorveglianza di Napoli e il 27  agosto  1998  (n.  3  ordinanze)  dal
 tribunale di sorveglianza di Palermo, rispettivamente iscritte ai nn.
 855,  877,  878  e 879 del registro ordinanze 1998 e pubblicate nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  nn.  48  e  50,  prima  serie
 speciale, dell'anno 1998;
   Udito  nella  camera  di consiglio del 29 settembre 1999 il giudice
 relatore Giuliano Vassalli.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Il Tribunale di sorveglianza di Napoli solleva, in riferimento
 agli artt. 24, 3 e 27 della Costituzione, questione  di  legittimita'
 costituzionale  dell'art.  656,  comma  10,  cod.  proc.  pen.,  come
 sostituito dall'art. 1 della legge 27 maggio 1998, n. 165  (Modifiche
 all'art.   656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio
 1975, n.  354,  e  successive  modificazioni),  nella  parte  in  cui
 prescrive  che il tribunale di sorveglianza provvede senza formalita'
 all'eventuale applicazione della misura alternativa della  detenzione
 domiciliare  nei  confronti  del condannato che si trovi agli arresti
 domiciliari.   La  previsione  oggetto  di  impugnativa,  osserva  il
 rimettente,  risulterebbe "eccezionale" sotto un duplice profilo: per
 un verso, infatti, la decisione  del  tribunale  di  sorveglianza  e'
 adottata  de  plano;  sotto  altro profilo, anche il provvedimento di
 sospensione dell'esecuzione viene  disposto  d'ufficio  dal  pubblico
 ministero  e,  dunque, in assenza di previa istanza dell'interessato.
 Da cio' scaturirebbe anzitutto, a  parere  del  giudice  a  quo,  una
 violazione  dell'art.  24  della  Costituzione,  in quanto, attesa la
 varieta' delle misure  alternative  e  degli  specifici  interessi  e
 aspettative   che   il   condannato   puo'   nutrire,   soltanto   la
 partecipazione di quest'ultimo al  procedimento  di  sorveglianza  lo
 pone  in  condizione  di  sostenere adeguatamente le proprie ragioni.
 Violato sarebbe anche l'art. 27  della  Costituzione,  in  quanto  la
 decisione   sulla   ammissione   alla  detenzione  domiciliare  viene
 determinata automaticamente  dallo  stato  privativo  della  liberta'
 personale in cui si trova al momento del passaggio in giudicato della
 sentenza  il  condannato  e  non  dalla valutazione complessiva della
 situazione personale, familiare e sociale dello stesso.
   Si  ravvisa,  infine,  una  disparita'  di  trattamento  tra   chi,
 trovandosi   agli  arresti  domiciliari  all'atto  del  passaggio  in
 giudicato della sentenza, sia stato condannato a pena  detentiva  non
 superiore  a  tre o quattro anni e chi, pur dovendo espiare la stessa
 pena, sia libero  al  momento  della  condanna  definitiva,  giacche'
 soltanto quest'ultimo potra' chiedere la sospensione della esecuzione
 con contestuale richiesta della misura alternativa piu' adeguata alla
 propria  concreta  situazione,  avvalendosi  di tutte le garanzie del
 procedimento di sorveglianza.
   2. - L'identica questione e' stata sollevata anche dal tribunale di
 sorveglianza di Palermo, il  quale,  con  tre  ordinanze  recanti  la
 medesima   motivazione,  espressamente  richiama  e  fa  rinvio  alle
 argomentazioni svolte dal    tribunale  di  sorveglianza  di  Napoli.
 Puntualizza   il   tribunale  palermitano  di  ritenere  centrale  la
 violazione  del  principio  sancito  dalla  direttiva  n.  96   della
 legge-delega  n. 81 del 1987 in tema di giurisdizionalizzazione della
 fase esecutiva e di garanzia del contraddittorio, come d'altra  parte
 reso  evidente  dalla  giurisprudenza  di  questa  Corte, la quale ha
 esteso le garanzie della giurisdizione piena "anche a procedimenti di
 contenuto minore", come nel caso della sentenza n.  53 del 1993.
   3. - Nei giudizi non si sono costituite le  parti  private  ne'  ha
 spiegato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei Ministri.
                        Considerato in diritto
   1.  - Le doglianze dei giudici a quibus, identiche nei vari atti di
 rimessione e dunque tali  da  comportare  la  riunione  dei  relativi
 giudizi,  sono  incentrate  sulla  previsione  dettata  dal  comma 10
 dell'art.  656 cod. proc. pen., come  sostituito  dall'art.  1  della
 legge  27  maggio  1998, n. 165 (Modifiche all'art. 656 del codice di
 procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354,  e  successive
 modificazioni),  il quale stabilisce che, ricorrendo le condizioni di
 applicabilita'   della   disciplina   relativa    alla    sospensione
 dell'esecuzione  prevista  dal  comma  5 del medesimo articolo, se il
 condannato si trova agli arresti domiciliari, il  pubblico  ministero
 sospende  l'esecuzione  dell'ordine  di carcerazione trasmettendo gli
 atti  al  tribunale  di  sorveglianza,  il  quale   provvede   "senza
 formalita'"    alla   "eventuale"   applicazione   della   detenzione
 domiciliare. Stabilisce, poi, la disposizione  impugnata  che,  nelle
 more  della  decisione,  il condannato "permane nello stato detentivo
 nel quale si trova e il tempo corrispondente e' considerato come pena
 espiata a tutti gli effetti". La richiesta dei  Tribunali  rimettenti
 e'  concorde, e mira, non ad una sentenza manipolativa o additiva, ma
 alla  caducazione  dell'intero  procedimento   de   plano   e   della
 conseguente  statuizione - per cosi' dire vincolata e senza richiesta
 dell'interessato - demandata  all'organo  di  sorveglianza.    Tre  i
 parametri a tal proposito invocati: anzitutto si prospetta violazione
 del   diritto   di   difesa,  assumendosi  che  soltanto  la  diretta
 partecipazione del condannato puo' consentirgli  di  far  valere  gli
 specifici  interessi  che  intende  perseguire;  viene  dedotta, poi,
 violazione dell'art. 27 della Costituzione, giacche' la  applicazione
 della  misura  della  detenzione  domiciliare scaturirebbe non da una
 valutazione complessiva della situazione  del  condannato,  ma  dallo
 status  libertatis in cui il medesimo versa all'atto del passaggio in
 giudicato della sentenza; compromesso, infine, sarebbe  il  principio
 di  uguaglianza,  in  quanto,  a  parita'  di  condanna,  soltanto il
 condannato che si trovi in stato  di  liberta'  puo'  "richiedere  la
 sospensione  della  esecuzione  della pena con la contestuale istanza
 della misura alternativa alla detenzione  che,  a  proprio  opinabile
 giudizio,   meglio   risponda  alla  concreta  situazione  personale,
 familiare,  sociale,  nonche'  rispetto  alla  quale  abbia  maggiori
 aspettative circa una decisione favorevole avvalendosi "a tal fine di
 tutte  le garanzie del procedimento di sorveglianza di cui agli artt.
 666 e 678 c.p.p.". Il tribunale di sorveglianza  di  Palermo,  a  sua
 volta,  nell'evocare  gli stessi parametri, richiamando espressamente
 tutte  le  considerazioni  poste  a  fondamento  delle  ordinanze  di
 rimessione pronunciate dal tribunale di sorveglianza di Napoli, ha in
 particolare  sottolineato  il  contrasto che sarebbe dato riscontrare
 tra la norma impugnata e la direttiva n. 96 della legge-delega n.  81
 del  1987,  relativa  alle  garanzie di giurisdizionalita' nella fase
 della esecuzione ed alla  necessita'  del  contraddittorio,  pur  non
 deducendo  alcun profilo di eccesso di delega, essendo stata la norma
 in esame introdotta con legge ordinaria.
   2. - La questione non e' fondata.
   I rilievi critici sviluppati dai giudici a quibus non possono certo
 ritenersi ne' isolati ne' pretestuosi, giacche'  essi  trovano  quasi
 testuale  rispondenza nelle posizioni assunte dalla maggior parte dei
 commentatori che si sono sin qui occupati della normativa oggetto  di
 impugnativa. Tuttavia, nonostante le perplessita' che la disposizione
 impugnata  puo'  generare  sul  piano  non  soltanto  della  coerenza
 sistematica ma anche dei problemi pratici che  dalla  stessa  possono
 scaturire,  deve  escludersi  che i rilievi a tal proposito formulati
 assumano uno specifico risalto costituzionale, almeno se riferiti  ai
 parametri ed ai profili enunciati nelle ordinanze di rimessione.
   Quanto, infatti, al diritto di difesa che si assume essere violato,
 e'  agevole  osservare  che  non puo' ritenersi in contrasto con quel
 principio una disposizione che si limiti a configurare un  intervento
 de  plano  a  sua  volta  teso  a verificare la applicabilita' di una
 misura alternativa in se' non deteriore rispetto alla  condizione  in
 cui   versa  il  condannato  a  quel  momento.  La  legittimita'  dei
 provvedimenti de plano o delle determinazioni in se' suscettibili  di
 dar  luogo  a  contraddittorio differito o eventuale e' stata infatti
 piu'  volte  affermata  da  questa  Corte  ed  e'  ormai   da   tempo
 pacificamente  riconosciuta  anche in dottrina. A ben guardare, anzi,
 il profilo dedotto dai  giudici  a  quibus  non  attiene  neppure  al
 difetto  di  contraddittorio  in  se'  e per se' considerato, ma alla
 necessita'  di  consentire  al  condannato  di   esprimere   le   sue
 valutazioni  o  scelte in ordine alla misura alternativa che risponda
 meglio delle altre ai suoi specifici interessi. L'interlocuzione alla
 quale i rimettenti fanno riferimento, dunque,  non  e'  costruita  in
 chiave   di   difesa   stricto  sensu,  ma  nella  piu'  circoscritta
 prospettiva  di  rappresentare  i  propri  interessi  e  le   proprie
 aspettative   in   una   "occasione"   che   puo'   assumere  rilievo
 costituzionale soltanto ove quella fosse l'unica "occasione"  offerta
 al  condannato per far sentire la propria voce e formulare le proprie
 richieste in ordine alle misure da  applicare;  conclusione,  questa,
 non   soltanto   non  legittimata  dal  dato  normativo,  ma  neppure
 prospettata dagli stessi  giudici    a  quibus.    Vale  la  pena  di
 sottolineare,  a  tal  proposito,  che  la  Corte  di  cassazione  ha
 recentemente  avuto  modo  di  puntualizzare  che  il  tribunale   di
 sorveglianza   puo'   provvedere   de   plano  e  senza  garanzia  di
 contraddittorio solo nella  eventualita'  in  cui  ritenga  di  poter
 applicare  la  detenzione  domiciliare,  giacche', in caso contrario,
 deve essere seguita la procedura in contraddittorio prevista  in  via
 ordinaria  dagli  artt.   678, comma 1, e 666 cod. proc. pen. (Cass.,
 Sez. I, 15 aprile  1999,  n.  3005).  E'  evidente,  quindi,  che  il
 condannato  al  quale  viene  de  plano  applicata  la  misura  della
 detenzione domiciliare non puo'  ritenersi  privato  del  diritto  di
 richiedere  in  via ordinaria tutte le misure alternative cui ritenga
 di aver titolo, sicche' la disposizione di cui si discute finisce per
 atteggiarsi   come   provvedimento   d'urgenza   e   a   connotazioni
 eminentemente  interinali,  in  vista  dell'ordinario procedimento di
 sorveglianza ove il condannato non ritenga di "accettare"  la  misura
 applicatagli.  Al  tempo  stesso,  ed  a  conferma  del carattere non
 preclusivo del regime qui in esame, sta il rilievo  che  nessun  dato
 testuale   o   di   sistema   consente   di   ravvisare  elementi  di
 incompatibilita' tra la disciplina oggetto di  impugnativa  e  quella
 dettata  dal  parimenti  novellato art. 47, comma 4, dell'Ordinamento
 penitenziario: disposizione, quest'ultima,  in  base  alla  quale  e'
 stabilito  che  se  l'istanza  di  affidamento  in  prova al servizio
 sociale e' proposta dopo che ha avuto inizio l'esecuzione della pena,
 in presenza di determinate condizioni e' consentito al magistrato  di
 sorveglianza  di  sospendere  l'esecuzione  della  pena e ordinare la
 liberazione del condannato.
   Se la finalita' della norma censurata e'  stata  quindi  quella  di
 impedire  che  il  condannato  agli  arresti  domiciliari potesse far
 ingresso in carcere all'atto dell'esecuzione della condanna prima  di
 poter   accedere   alla  misura  alternativa  piu'  simile  a  quella
 cautelare, se ne deve concludere che tale obiettivo - in se' volto ad
 impedire un grave danno  per  il  condannato  -  pur  potendo  essere
 realizzato   attraverso   una  articolazione  normativa  tecnicamente
 diversa da quella prescelta,  non  puo'  certo  ritenersi  lesivo  di
 valori  costituzionali, specie se si considera che la stessa legge n.
 165  del 1998, all'art.  4, ha profondamente mutato la configurazione
 della detenzione domiciliare,  posto  che  le  relative  connotazioni
 consentono  ora  effettivamente  di tracciare un qualche parallelismo
 con la misura degli arresti domiciliari, in termini  senz'altro  meno
 labili rispetto al passato.
   3.  - Quanto, poi, alla violazione dell'art. 27 della Costituzione,
 e' agevole osservare  che  la  misura  della  detenzione  domiciliare
 applicata  de  plano  e  "d'ufficio"  a  chi  si  trovi  agli arresti
 domiciliari all'atto della condanna e  nelle  condizioni  per  fruire
 della  indicata  misura  alternativa,  non  determina  alcun  tipo di
 interferenza sulla  funzione  rieducativa  della  pena,  giacche'  si
 anticipa  -  evitando i naturali allungamenti dei tempi che sarebbero
 cagionati da una procedura camerale partecipata - cio'  al  quale  il
 condannato  avrebbe  diritto  come  misura  "minima"  applicabile. Va
 osservato  a  questo  riguardo  che  la   misura   della   detenzione
 domiciliare,  come si e' accennato ora mutata nella propria struttura
 ad  opera  della  stessa  legge  n.  165  del  1998,  non   e'   piu'
 caratterizzata   da   quella   eminente   finalita'   umanitaria   ed
 assistenziale che prima la contraddistingueva (v. sentenze n. 173 del
 1997 e n. 165 del 1996),  ma  ha  assunto  aspetti  sicuramente  piu'
 vicini  alla  ordinaria  finalita'  rieducativa  e  di  reinserimento
 sociale.  La circostanza, infatti, che la misura in questione non sia
 piu' limitata ai "soggetti deboli", prima previsti  come  destinatari
 esclusivi  della  misura  stessa  dall'art.  47-ter  dell'Ordinamento
 penitenziario, ma sia applicabile in tutti i casi di condanna a  pena
 non  superiore  a due anni (anche se residuo di maggior pena) purche'
 la misura sia idonea ad  evitare  il  pericolo  di  recidiva,  sta  a
 dimostrare  che in queste ultime ipotesi la pena o il residuo di pena
 detentiva breve legittimano l'applicazione  della  misura  in  quanto
 volta  ad  assecondare  il  passaggio graduale allo stato di liberta'
 pieno mediante un istituto  che  sviluppa  la  ripresa  dei  rapporti
 familiari  ed  intersoggettivi,  senza  incidere  negativamente sulle
 eventuali opportunita' di lavoro.  In questa prospettiva e'  evidente
 che  la detenzione domiciliare "d'ufficio" al condannato che ne abbia
 titolo e che si trovi in una  condizione  limitativa  della  liberta'
 assai  simile  a quella misura, appare essere previsione non soltanto
 non  in  contrasto,  ma  addirittura  in  linea  con   il   parametro
 costituzionale che si pretende esser stato compromesso.
   4. - Per quanto infine concerne la prospettata violazione dell'art.
 3  della  Costituzione,  e'  agevole  rilevare  che la questione, nei
 termini in cui e' sviluppata, e' palesemente priva di fondamento,  in
 quanto  i giudici a quibus contraddittoriamente finiscono per porre a
 raffronto fra loro  due  situazioni  eterogenee,  quali  sono  quella
 dell'imputato in stato di liberta' rispetto a quella in cui versa chi
 si  trova  agli arresti domiciliari al momento della condanna: a cio'
 va aggiunto, sotto altro profilo,  che  il  ragionamento  svolto  dai
 giudici  rimettenti non tiene in alcuna considerazione la circostanza
 che il condannato al quale e' applicata la  misura  della  detenzione
 domiciliare  e'  sempre  in  condizione  di  chiedere qualsiasi altra
 misura  alternativa,  sicche'  la  pretesa  disparita'  finisce   per
 risultare, anche per questo aspetto, soltanto apparente.