ha pronunciato la seguente


                              Sentenza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 649 del codice
penale,  promosso  con  ordinanza emessa il 6 maggio 1999 dal giudice
per le indagini preliminari del Tribunale di Imperia nel procedimento
penale  a  carico  di  Limo  Guido  iscritta  al  n. 465 del registro
ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 38, prima serie speciale, dell'anno 1999.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
Ministri;
    udito  nella  camera  di  consiglio del 10 maggio 2000 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.

                          Ritenuto in fatto


    1.  -  Nel  corso di un procedimento a carico di persona imputata
del  reato  di  circonvenzione  di  persone  incapaci  in danno della
propria convivente more uxorio il giudice per le indagini preliminari
del   Tribunale   di   Imperia,  a  seguito  di  eccezione  formulata
nell'udienza  preliminare  dal  difensore dell'imputato, ha sollevato
questione di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3
e  24 della Costituzione, dell'art. 649 cod. pen., nella parte in cui
non  stabilisce la non punibilita' dei fatti previsti dal titolo XIII
del  libro II del codice penale commessi in danno del convivente more
uxorio.
    Dopo  aver  premesso che la norma denunciata - nel sancire la non
punibilita'  dei  delitti  contro  il patrimonio commessi in danno di
determinati  congiunti,  tra cui il coniuge non legalmente separato -
trova   la  sua  ratio  nella  comunanza  degli  interessi  economici
nell'ambito  della  famiglia  o  nell'esigenza  di evitare turbamenti
nelle  relazioni  familiari,  il  giudice  a quo osserva che la norma
stessa,  stante  il  tempo  in cui fu emanata, non poteva contemplare
istituti  o situazioni di fatto il cui rilievo sociale e' emerso solo
in  epoca  posteriore,  quale,  appunto,  la  convivenza more uxorio:
rapporto,  quest'ultimo,  cui  l'ordinamento  civile  ha collegato, a
tappe successive, plurimi effetti giuridici, i quali andrebbero ormai
riverberandosi anche nel settore penale.
    Particolarmente  significativo  risulterebbe, in tale direzione -
ad  avviso  del  rimettente - l'art. 199, comma 3, lett. a) del nuovo
codice di procedura penale, che, recependo le sollecitazioni sociali,
ha  parificato  al coniuge, agli effetti della facolta' di astensione
dalla  testimonianza,  "chi,  pur  non essendo coniuge dell'imputato,
come  tale conviva o abbia convissuto con esso": e cio' nella cornice
di  una  previsione  normativa  finalizzata  a tutelare il sentimento
familiare,  evitando  che  colui  il quale e' chiamato a testimoniare
venga a trovarsi nell'alternativa tra mentire o nuocere al congiunto.
Tra le due disposizioni - l'art. 649 cod. pen. e l'art. 199, comma 3,
lett. a) cod. proc. pen. - potrebbe in effetti istituirsi un puntuale
parallelo  sul  piano  della  ratio  in quanto entrambe sanciscono la
prevalenza  dell'unita'  della  famiglia  sulle esigenze di giustizia
della  collettivita':  prevalenza  che,  peraltro, sarebbe ancor piu'
giustificata  allorche'  offeso  dal  reato  sia  lo stesso congiunto
dell'imputato.
    Su   tali   premesse,   il   giudice   a   quo   ritiene   dunque
irragionevolmente  discriminatoria  la diversita' di disciplina fra i
reati  commessi  in  danno  del  coniuge non legalmente separato, non
punibili  ai  sensi  dell'art. 649,  primo comma, cod. pen., e quelli
commessi  in  danno del convivente more uxorio per i quali si procede
di   contro  ex  officio  anche  quando  la  convivenza  presenti  le
caratteristiche  cui  l'ordinamento  condiziona  il riconoscimento di
effetti  (stabilita'  del  legame  affettivo,  comunanza  materiale e
spirituale, reciproca assistenza e solidarieta').

    2.  - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
    L'Avvocatura    erariale    ricorda   come,   alla   luce   della
giurisprudenza   di  questa  Corte,  l'art. 649,  primo  comma,  cod.
pen. colleghi  razionalmente l'esclusione della punibilita', riguardo
ai   delitti  contro  il  patrimonio,  a  dati  incontrovertibili  ed
agevolmente  riscontrabili (vincoli di parentela, affinita', adozione
e  coniugio),  che  non  sono  presenti  nella convivenza more uxorio
rapporto  per sua natura intrinsecamente aleatorio, in quanto fondato
sull'affectio  quotidiana  di ciascuna delle parti, liberamente ed in
ogni istante revocabile.

                       Considerato in diritto


    1.  -  Il  giudice  per  le indagini preliminari del Tribunale di
Imperia dubita della legittimita' costituzionale, in riferimento agli
artt. 3  e  24 Cost., dell'art. 649 cod. pen., nella parte in cui non
stabilisce  la non punibilita' dei fatti previsti dal titolo XIII del
libro  II  del  codice  penale  commessi in danno del convivente more
uxorio.  Alla  base  del dubbio di costituzionalita' vi e' il rilievo
della  disparita' di trattamento tra convivente more uxorio e coniuge
non  legalmente  separato,  che per gli stessi fatti beneficia invece
del regime di non punibilita': disparita' di trattamento ritenuta dal
rimettente  irrazionale,  anche  a fronte dell'avvenuta parificazione
dei  due  soggetti  - in un'ottica di riconoscimento della prevalenza
dell'unita'  familiare  sull'interesse  collettivo alla punizione dei
reati, omologa a quella che informa la ratio della norma denunciata -
ai  fini  della facolta' di astensione dalla testimonianza, in virtu'
dell'art. 199, comma 3, lett. a), cod. proc. pen..

    2. - La questione non e' fondata.
    Posto  che  le censure del giudice a quo attengono esclusivamente
alla  violazione dell'art. 3 della Costituzione (l'asserito contrasto
con  l'art. 24  della  Costituzione  non  e' in alcun modo motivato e
rappresenta,  comunque,  un  mero riflesso della denuncia della norma
impugnata  sul  piano  del rispetto del principio di uguaglianza), va
rilevato  come  questa Corte abbia gia' in piu' occasioni affermato -
anche con specifico riferimento al disposto dall'art. 649 cod. pen. -
che  la  convivenza more uxorio e' diversa dal vincolo coniugale, e a
questo   non   meccanicamente   assimilabile  al  fine  di  desumerne
l'esigenza  costituzionale di una parificazione di trattamento: essa,
infatti,  manca  dei  caratteri  di  stabilita' e certezza propri del
vincolo   coniugale,   essendo   basata   sull'affectio   quotidiana,
liberamente  ed  in  ogni istante revocabile (sentenza n. 8 del 1996;
sentenza n. 423 del 1988; ordinanza n. 1122 del 1988).
    In  tale  prospettiva, non puo' ritenersi dunque irragionevole ed
arbitrario  che  -  particolarmente  nella disciplina di cause di non
punibilita',  quale  quella  in esame, basate sul "bilanciamento" tra
contrapposti interessi (quello alla repressione degli illeciti penali
e  quello  del valore dell'unita' della famiglia, che potrebbe essere
pregiudicato  dalla  repressione)  -  il legislatore adotti soluzioni
diversificate  per  la  famiglia  fondata sul matrimonio, contemplata
nell'art. 29  della  Costituzione,  e  per la convivenza more uxorio:
venendo  in  rilievo,  con  riferimento  alla prima, a differenza che
rispetto   alla  seconda,  non  soltanto  esigenze  di  tutela  delle
relazioni  affettive  individuali,  ma  anche quella della protezione
dell'"istituzione  familiare",  basata  sulla stabilita' dei rapporti
(sentenza n. 8 del 1996), di fronte alla quale soltanto si giustifica
l'affievolimento  della  tutela  del singolo componente, ravvisata da
alcuni  nell'art. 649  c.p..  Di  qui l'impossibilita' di qualificare
come  illogica e "discriminatoria" la mancata estensione del medesimo
regime ad una situazione di fatto quale la convivenza more uxorio.
    Ne'  ad  inficiare la validita' della conclusione vale il rilievo
della  parificazione del convivente al coniuge riguardo alla facolta'
di  astensione  dalla testimonianza, operata dall'art. 199 cod. proc.
pen. (parificazione  per  vero  ampia, ma non totale, giacche' per il
convivente,  a differenza che per il coniuge non legalmente separato,
la   facolta'   di  astensione  e'  limitata  dalla  legge  ai  fatti
verificatisi  o  appresi  dall'imputato  durante  la convivenza), non
potendosi  far discendere dalla norma invocata dal giudice a quo come
termine  di  raffronto  un  principio  di assimilazione dotato di vis
espansiva  fuori  del  caso considerato. Come si legge, invero, nella
relazione  ministeriale  al  progetto  di  nuovo  codice di procedura
penale,  la  facolta'  di  astensione riconosciuta al convivente more
uxorio  si  connette anche all'invito a suo tempo formulato da questa
Corte, la quale - nel dichiarare infondata, in parte qua la questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 350 cod. proc. pen. del 1930
(costituente  l'antecedente storico dell'art. 199 del codice vigente)
-  aveva  auspicato  una  valutazione  del  legislatore riguardo alla
tutela da accordare agli interessi connessi al rapporto di convivenza
(sentenza   n. 6   del  1977).  La  soluzione  in  concreto  adottata
rappresenta  il  frutto di una scelta rispetto all'alternativa - pure
prospettata  in  iniziative  legislative  rimaste  senza seguito - di
incidere  sulla  definizione  generale  della  nozione  di  "prossimi
congiunti",   offerta   dall'art. 307,   quarto   comma,  cod.  pen.,
includendovi  anche  il  convivente:  in  sostanza, con apprezzamento
discrezionale  non  censurabile,  il  legislatore penale ha preferito
limitare  l'assimilazione  a singole situazioni ben individuate (come
egualmente  e' avvenuto, dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di
rito,  ad esempio in rapporto alla circostanza aggravante dei delitti
di  prostituzione  e  pornografia minorile di cui all'art. 600-sexies
secondo  comma,  cod.  pen.,  aggiunto  dalla  legge  3  agosto 1998,
n. 269),   anziche'   procedere  ad  un  "allineamento"  generale  ed
indiscriminato dei due rapporti.
    Anche  l'argomento  che  il  rimettente  ritiene  di poter trarre
dall'asserita identita' di ratio fra le due norme poste a confronto -
l'art. 199  cod.  proc.  pen. e  l'art. 649 cod. pen. - denuncia, del
resto,  evidenti  limiti  di validita'. La disposizione del codice di
rito  sancisce,  bensi',  la  prevalenza  delle  relazioni  affettive
familiari  sull'interesse  della  collettivita'  alla  punizione  dei
reati,  ma  in  un'ottica di preminente salvaguardia del membro della
famiglia  chiamato  a rendere testimonianza, al quale e' riconosciuta
la  facolta'  (esercitabile  o meno, sulla base del proprio personale
apprezzamento)   di   sottrarsi   al   relativo   obbligo  e,  cosi',
all'alternativa  fra  deporre  il  falso o nuocere al congiunto. Tale
facolta'  resta  peraltro  esclusa,  in virtu' dell'espresso disposto
dell'art. 199,  comma  1,  secondo  periodo,  cod. proc. pen., quando
l'interessato  (o  un  suo  prossimo congiunto) sia offeso dal reato:
onde  risulta  privo  di  pregio  l'argumentum a fortiori evocato dal
giudice   a  quo  secondo  cui  il  riconoscimento  della  preminenza
dell'interesse    della    famiglia    sull'interesse   pubblico   al
perseguimento   degli   illeciti   penali,  sotteso  alla  previsione
processuale  in  parola,  si  imporrebbe a maggior ragione - rendendo
cosi'  irrazionale  il  disallineamento  della  sfera  soggettiva  di
operativita'   delle   due  norme  -  nelle  ipotesi  avute  di  mira
dall'art. 649  cod.  pen. (ipotesi  nelle  quali il congiunto e', per
l'appunto,  offeso  dal  reato).  Di  contro, come gia' accennato, la
disposizione  del  codice  penale,  almeno con la radicale esclusione
della  punibilita'  sancita  dal  primo comma, protegge l'istituzione
familiare  in  una prospettiva in certo qual senso inversa, e, cioe',
anche  ad  eventuale discapito del singolo componente, il quale viene
privato  della tutela penale offerta dalle norme incriminatrici poste
a  presidio  del  patrimonio  pure  se  abbia,  nel caso concreto, un
personale interesse alla punizione del colpevole.
    La  non  omogeneita' della situazione regolata dalla disposizione
assunta  come tertium comparationis impedisce, pertanto, di ravvisare
il  censurato  profilo  di  irragionevolezza della norma sottoposta a
scrutinio di costituzionalita'.
    D'altronde  questa  Corte, in analoga occasione - nella quale era
parimenti  in  discussione  la  razionalita' dei limiti soggettivi di
applicazione    della    causa   di   non   punibilita'   prefigurata
dall'art. 384,  primo comma, cod. pen., nel confronto con il disposto
dell'art. 199,  comma  3,  lett. a) cod. proc. pen. - ha rilevato che
un'eventuale dichiarazione di incostituzionalita', la quale assumesse
a  base  la  pretesa identita' di posizione tra convivente e coniuge,
rispetto  all'altro  convivente o coniuge, avrebbe effetti di sistema
eccedenti  l'ambito  del  singolo  giudizio  di costituzionalita'. Si
aprirebbe  in  tal  modo  il problema dell'estensione al convivente -
talora  anche  in  malam  partem  (artt. 570, 577, ultimo comma, 591,
ultimo comma, 605 cod. pen.) - del complesso delle disposizioni della
legge   penale   sostanziale  e  processuale  (e  anche  della  legge
extrapenale)  che,  a  diversi fini, fanno riferimento al rapporto di
coniugio  (sentenza  n. 8  del 1996): opera di revisione, questa, che
esorbita dai compiti e dai poteri della Corte.