ha pronunciato la seguente


                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  degli artt. 11 della
legge  10  maggio  1938,  n. 745 (Ordinamento dei Monti di credito su
pegno)  e  47  del  regio decreto 25 maggio 1939, n. 1279 (Attuazione
della  legge  10  maggio  1938,  n. 745 sull'ordinamento dei Monti di
credito  su  pegno),  promosso con ordinanza emessa il 18 maggio 1999
dal  giudice  per le indagini preliminari presso la Pretura di Torino
nel procedimento penale a carico di Dragutinovic Veselin, iscritta al
n. 719  del  registro  ordinanze  1999  e  pubblicata  nella Gazzetta
Ufficiale  della  Repubblica  n. 2,  prima  serie speciale, dell'anno
2000.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
Ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 21 giugno 2000 il giudice
relatore Fernando Santosuosso.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Nell'ambito  di  un  procedimento  penale  per  i reati di
ricettazione  e  di falsita' materiale (artt. 648 e 482 cod. pen.), a
carico  di  un  soggetto che aveva dato in pegno vari monili ed altri
beni  presso il Monte dei pegni di Torino, il giudice per le indagini
preliminari  presso  la  Pretura circondariale di Torino ha sollevato
questione  di  legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 3
della Costituzione, degli artt. 11 della legge 10 maggio 1938, n. 745
(Ordinamento dei Monti di credito su pegno) e 47 del regio decreto 25
maggio  1939,  n. 1279 (Attuazione della legge 10 maggio 1938, n. 745
sull'ordinamento   dei  Monti  di  credito  su  pegno),  che  vietano
all'autorita'  giudiziaria  di  ordinare  la  restituzione delle cose
smarrite,  rubate  o provenienti da reato, costituite in pegno presso
un Monte, se il proprietario non fornisce la prova di aver rimborsato
al  Monte  stesso  la somma data in prestito, con gli interessi e gli
eventuali diritti accessori.
    Secondo  il  giudice  per le indagini preliminari la questione e'
rilevante  nel  giudizio  a  quo  in  quanto,  ai  sensi  delle norme
impugnate,  non  potrebbe  ordinarsi  la  restituzione  ad  una delle
persone  offese dal reato di un anello in oro sottrattole e collocato
dall'indagato al Monte dei pegni.
    Inoltre,  la  questione  non  sarebbe  manifestamente  infondata,
poiche'   le   norme   impugnate   riserverebbero  un  ingiustificato
privilegio  ai  Monti dei pegni rispetto ad altri terzi possessori di
beni  mobili,  "in particolare in confronto a coloro che detengono un
bene  a  titolo  di garanzia". Diversamente dai Monti dei pegni, alla
generalita' di detti terzi l'autorita' giudiziaria potrebbe sottrarre
il  bene,  restituendolo  al  legittimo  proprietario, se ritenga che
abbiano  agito  non  in  buona  fede  o  anche  solo senza la normale
diligenza nell'accertamento dell'origine del bene.
    Nel   caso   di  specie,  secondo  il  giudice  per  le  indagini
preliminari,  il  Monte dei pegni di Torino non si sarebbe comportato
con  diligenza,  ed  anzi  avrebbe  violato  anche l'art. 38 del r.d.
n. 1279  del 1939 (che gli consentiva di rifiutare la concessione del
prestito  qualora avesse avuto fondato motivo di ritenere che le cose
offerte  in  pegno  fossero  di  illegittima  provenienza), in quanto
avrebbe  ritirato  da  persona  -  quanto  meno  all'apparenza  - non
facoltosa   un   rilevante   numero   di  monili  che,  per  le  loro
caratteristiche,  si  potevano fondatamente sospettare di provenienza
delittuosa.
    Il giudice a quo sostiene, inoltre, che il privilegio concesso ai
Monti dei pegni colliderebbe con qualsiasi principio di razionalita',
anche perche' tali istituti non sarebbero vincolati ad un particolare
facere oneroso, ne' sarebbero tenuti a ricevere in ogni caso il bene,
ne'  infine  rischierebbero  di  perdere  somme  rilevanti,  dato che
l'art. 39  del citato r.d. n. 1279 stabilisce il tetto massimo, e non
quello  minimo,  del  rapporto  tra  il  valore  del bene impegnato e
l'entita' del prestito concesso.
    2. - E'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  chiedendo  che  la  questione  sia dichiarata inammissibile o
comunque infondata.
    La  difesa  erariale richiama la precedente decisione della Corte
costituzionale  avente ad oggetto le stesse norme oggi impugnate, sia
pure   in   riferimento   al  diverso  parametro  dell'art. 42  della
Costituzione (sentenza n. 702 del 1988), nella quale si affermava che
dette  norme  prevedono  un  caso  di  affidamento  incolpevole  e si
presentano  come  applicazione specifica della generale disciplina di
cui  all'art. 1153,  terzo  comma, del codice civile, secondo cui "il
possesso  in  buona  fede  vale  titolo".  In tale pronuncia, secondo
l'Avvocatura,  si  richiamava  l'innovazione  introdotta  dal  codice
civile  del  1942 rispetto a quello del 1865, che ha fatto venir meno
la  distinzione  tra  perdita  volontaria  e perdita involontaria del
possesso di un bene.
    Non  sussisterebbe,  quindi, la dedotta disparita' di trattamento
rispetto alle altre forme di garanzia reale.
    Per   quanto   riguarda,  poi,  la  denunciata  scarsa  diligenza
dell'istituto creditizio che, nel caso specifico, avrebbe concesso il
prestito   su  pegno  a  persona  non  affidabile,  non  verrebbe  in
considerazione la disparita' di trattamento con situazioni simili, ma
si  verterebbe  in un caso di responsabilita' civile sia contrattuale
che extracontrattuale.

                       Considerato in diritto

    1.  -  Il  giudice  per le indagini preliminari presso la Pretura
circondariale  di  Torino  ha  sollevato  questione  di  legittimita'
costituzionale,  in  riferimento all'art. 3 della Costituzione, degli
articoli 11 della legge 10 maggio 1938, n. 745 (Ordinamento dei Monti
di  credito  su pegno) e 47 del regio decreto 25 maggio 1939, n. 1279
(Attuazione  della  legge 10 maggio 1938, n. 745 sull'ordinamento dei
Monti  di credito su pegno), che vietano all'autorita' giudiziaria di
ordinare la restituzione delle cose smarrite, rubate o provenienti da
reato,  costituite  in  pegno presso un Monte, se il proprietario non
fornisce la prova di aver rimborsato al Monte stesso la somma data in
prestito, con gli interessi e gli eventuali diritti accessori.
    Il  giudice a quo ritiene che tale previsione riservi ai Monti di
credito  su  pegno un ingiustificato privilegio, nella ipotesi in cui
gli  organi  dell'istituto  di credito abbiano agito senza la normale
diligenza  nel  valutare  se  le  cose  offerte  in  pegno fossero di
illegittima provenienza.
    La questione e' infondata nei termini di seguito precisati.
    2.  -  La  legge  n. 745  del  1938  ed  il r.d. n. 1279 del 1939
stabiliscono  una  disciplina  speciale  di  favore per i Monti e gli
altri istituti che effettuano crediti su pegno, al fine di consentire
loro   di   concedere  prestiti  di  importo  anche  minimo,  a  miti
condizioni,  alle  persone  che si trovino in difficolta' economica e
non  possano  fornire  le  ordinarie  garanzie patrimoniali richieste
dalle aziende di credito.
    Cosi'  il  prestito  non  puo' eccedere i due terzi del valore di
stima  del  bene impegnato (o i quattro quinti, in caso di preziosi):
tale  valore  e'  fissato  da  un  perito,  "il  quale deve garantire
all'ente  mutuante, in caso di vendita all'asta della cosa costituita
in  pegno,  l'integrale  recupero  dell'importo  del  prestito  e dei
relativi  interessi  ed  accessori"  (art. 12  della  legge  n. 745 e
art. 39  del  r.d.  n. 1279, citati), per cui, se non vi sono offerte
adeguate, la cosa e' aggiudicata al perito medesimo, per l'importo da
lui  stimato.  Inoltre si limita la responsabilita' del Monte in caso
di perdita del bene ed e' vietato far valere preventivamente nei suoi
confronti   eventuali  pretese  sulle  cose  impegnate,  da  chiunque
avanzate,  che  potranno  indirizzarsi  unicamente sull'eccedenza che
dovesse conseguire alla vendita all'asta dei beni stessi.
    In questo quadro di garanzie per l'istituto si collocano le norme
impugnate,  che, come detto, impediscono all'autorita' giudiziaria di
ordinare la restituzione delle cose smarrite, rubate o provenienti da
reato,  costituite in pegno, se il proprietario non fornisce la prova
di aver rimborsato al Monte stesso la somma data in prestito, con gli
interessi e gli eventuali diritti accessori.
    3.  -  Tale  ultima  previsione e' gia' stata impugnata davanti a
questa  Corte,  ma  con riferimento al diverso parametro dell'art. 42
della Costituzione.
    Nel  dichiarare  infondata  la  questione  allora  sollevata,  la
sentenza  n. 702  del  1988 ha precisato che, mentre nell'ordinamento
del  codice civile del 1865 le norme denunziate (gia' stabilite dalla
legge  n. 169  del 1898 e dal r.d. n. 185 del 1899) avevano carattere
eccezionale,  in  quello  del  nuovo  codice  -  che  ha soppresso la
distinzione  tra  perdita  volontaria ed involontaria del possesso da
parte  del rivendicante ed ha ammesso la tutela immediata della buona
fede  del  terzo  anche  nel  caso di provenienza delle cose da furto
(salvo  l'art. 1154)  -  tali  norme  sono  divenute una applicazione
specifica della regola generale (fissata dall'art. 1153, terzo comma,
codice civile) secondo cui il "possesso in buona fede vale titolo".
    Pertanto,   nel   conflitto   tra   l'interesse  individuale  del
proprietario  e  l'interesse  collettivo alla sicurezza del commercio
mobiliare    prevale    il   secondo,   in   ragione   della   tutela
dell'affidamento  incolpevole  dei terzi acquirenti: cio' sia in caso
di  pegno  ordinario, sia in caso di credito pignoratizio concesso da
un  istituto  abilitato. Infatti - soggiunge la citata sentenza - "il
Monte di Pieta' che, nell'esercizio della sua attivita' istituzionale
di  prestito  su  pegno,  riceve  in  buona fede cose mobili altrui a
titolo  di  garanzia reale, acquista il diritto di pegno e, con esso,
le facolta' previste dagli artt. 2794 e 2796 codice civile".
    4.  -  Questa  complessiva disciplina deve tuttavia operare entro
limiti   ben  precisi,  convertendosi  altrimenti  in  un  privilegio
ingiustificato a favore di alcuni operatori economici: tanto piu' che
l'evoluzione  normativa  ha  portato a sopprimere la peculiare figura
dei  Monti  dei  pegni  (ad opera dell'art. 161 del testo unico delle
leggi  in  materia  creditizia,  di  cui  al d.lgs. 1 settembre 1993,
n. 385,  che  ha abrogato tutte le disposizioni previgenti relative a
tali  istituti,  salvo  quelle  regolanti  l'operazione di prestito e
quindi  anche  le  norme  in questa sede impugnate) ed a consentire a
qualunque  azienda  bancaria  di  esercitare  il  credito  su  pegno,
parallelamente alle altre attivita' (art. 48).
    Tra  i  limiti  in  esame  vanno  innanzitutto  annoverati quelli
previsti  da norme penali, nel caso in cui gli operatori del Monte si
rendano  colpevoli dei reati di ricettazione o di incauto acquisto. A
tal  proposito,  occorre  anche  rilevare  la tendenza legislativa ad
accrescere   i   possibili   controlli   dell'autorita'   giudiziaria
sull'attivita'  di  prestito  su  pegno:  in  particolare, la legge 4
febbraio  1977,  n. 20  ha  abolito  l'anonimato che tradizionalmente
contrassegnava  i prestiti su pegno, prescrivendo l'annotazione in un
apposito  registro,  esaminabile  da  parte  degli  agenti di polizia
giudiziaria  a  cio'  delegati  dal  giudice,  di  tutti gli elementi
dell'operazione  (generalita'  e  domicilio  del cliente, estremi del
documento   di  identificazione,  data  dell'operazione,  descrizione
dettagliata degli oggetti ricevuti in pegno, numero della polizza).
    5. - Inoltre, i diritti sanciti dalle norme impugnate non possono
essere  attribuiti agli istituti creditizi che esercitano il prestito
su  pegno  nel  caso  in  cui risultino, a carico dei loro operatori,
comprovati  elementi  di  dolo  o di colpa. Cio' e' ravvisabile anche
quando   essi  agiscano  con  accertata  violazione  della  diligenza
richiesta  non solo - come a qualunque altro possessore - dalle norme
civili  e penali, ma specificamente dall'art. 38 del r.d. n. 1279 del
1939,  in  base  al  quale  "i  Monti  possono  sempre  rifiutare  la
concessione  di  prestiti quando hanno fondato motivo di ritenere che
le cose offerte in pegno sono di illegittima provenienza".
    Diversamente  opinando,  si  dovrebbe  affermare  che,  nel  caso
specifico,  l'ordinamento  configura  come assoluta la presunzione di
buona  fede  prevista  dall'art. 1147,  terzo  comma,  codice civile:
soluzione  invece  esclusa, sia dalla lettura dei principi in materia
di   possesso,   sia   dalla   necessita'   di  scegliere,  fra  piu'
interpretazioni possibili, quella conforme alla Costituzione.
    Cosi'   interpretata,   la  disciplina  censurata  consente  alla
autorita' giudiziaria penale di provvedere alla restituzione del bene
impegnato,  eventualmente  rimettendo,  ai sensi dell'art. 263, terzo
comma,  cod.  proc.  pen.,  al  giudice  civile  la risoluzione della
"controversia sulla proprieta' delle cose sequestrate".
    Pertanto  le  norme  impugnate,  se  correttamente  interpretate,
sfuggono alla sollevata censura di legittimita' costituzionale.