ha pronunciato la seguente


                              Sentenza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 48 del decreto
legislativo  31  dicembre  1992,  n. 546  (Disposizioni  sul processo
tributario   in   attuazione   della   delega  al  Governo  contenuta
nell'art. 30  della  legge  30  dicembre  1991, n. 413), promosso con
ordinanza  emessa  il  28  giugno  1999  dalla Commissione tributaria
provinciale  di  Firenze,  sui  ricorsi riuniti proposti da Maestrini
Iolanda  ed  altri contro l'Ufficio del Registro di Firenze, iscritta
al  n. 7  del  registro  ordinanze  2000  e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 5, 1a serie speciale, dell'anno 2000.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
Ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 24 maggio 2000 il giudice
relatore Massimo Vari.

                          Ritenuto in fatto


    1. -   La  Commissione  tributaria  provinciale  di  Firenze, con
ordinanza  del  28  giugno  1999  - emessa in un giudizio promosso da
taluni  contribuenti avverso avvisi di accertamento di maggior valore
di immobili caduti in successione - ha sollevato, in riferimento agli
artt. 97,  53  e  104  della  Costituzione, questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 48 del decreto legislativo 31 dicembre 1992,
n. 546  (Disposizioni  sul  processo  tributario  in attuazione della
delega  al  Governo  contenuta  nell'art. 30  della legge 30 dicembre
1991,  n. 413),  "nella  parte  in  cui non consente alla Commissione
tributaria  provinciale alcun giudizio sulla congruita' delle imposte
da versare su cui l'Ufficio e il contribuente si sono accordati".
    Il  giudice  a  quo,  premesso  che la sollevata questione appare
rilevante  ai  fini  del  decidere, giacche', nel corso del processo,
dopo  che  era stato "chiesto ed ottenuto un rinvio per conciliazione
alla  prima udienza", era pervenuta dall'Amministrazione una proposta
di  definizione prontamente accolta dalle controparti, osserva che la
disposizione  censurata  consente  agli  uffici  tributari,  "a  loro
insindacabile  giudizio  e  senza  neppure  motivazione  alcuna",  di
operare "sconti senza limiti rispetto ai valori accertati e sostenuti
con  la costituzione in giudizio", in assenza di "qualunque parametro
di riferimento".
    Ad avviso del rimettente, tale "assoluta discrezionalita', esente
da   motivazione",   colliderebbe   non  solo  con  il  principio  di
imparzialita'  di cui all'art. 97 della Costituzione, ma anche con il
disposto  dell'art. 53,  considerato  che, a fronte di "conciliazioni
prive  di controlli, si realizzano discriminazioni inevitabili, anche
senza ipotizzare comportamenti illeciti".
    Secondo  il giudice a quo sarebbe leso, altresi', il principio di
"indipendenza"  della  magistratura  da ogni altro potere, consacrato
nell'art. 104  della  Costituzione;  e cio' a motivo della soggezione
del  giudice  tributario  - il cui ruolo e' delegittimato e ridotto a
quello   di  "notaro"  di  "un  avvenuto  accordo  su  cui  non  puo'
interferire" - "alle decisioni della Amministrazione", atteso che "il
controllo  sulla  conciliazione  proposta  e' meramente formale e non
sulla   congruita'   degli   imponibili   e,  dunque,  delle  imposte
concordate".
    Escluso,  altresi', che la conciliazione prevista dalla censurata
disposizione  possa  essere  equiparata  a  "quelle che si verificano
nell'ambito  del  giudizio civile", in quanto, nella prima, una delle
parti  e'  pubblica  "e  rappresenta uno degli interessi vitali dello
Stato",  l'ordinanza  rileva che il "paragone" puo' proporsi, invece,
con   la   materia   penale,  e,  segnatamente,  con  la  "dichiarata
incostituzionalita'  dell'art. 444,  comma  2, del codice processuale
penale",  nella  parte  in  cui  non prevedeva la possibilita' per il
giudice  di  valutare  la  congruita'  della pena proposta in sede di
"patteggiamento"  dall'imputato  e  accettata  dal pubblico ministero
(sentenza n. 313 del 1990).

    2. - E'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  per sentir dichiarare inammissibile o, comunque, infondata la
sollevata questione.
    Preliminarmente, la difesa erariale, nel rilevare che l'ordinanza
di  rimessione  non  indica,  in  relazione  ai  commi  1,  4 e 5 del
denunciato art. 48, "la sequenza procedimentale in base alla quale in
ordine  alla  proposta  di  conciliazione  si  trovi ad esprimersi la
Commissione  (in  udienza) anziche' il Presidente della Commissione",
osserva  che  la  stessa  risulta  carente  di  motivazione "circa la
verifica  dei  presupposti e delle condizioni di ammissibilita' della
conciliazione,  il cui esito negativo soltanto avrebbe potuto rendere
rilevante" la sollevata questione.
    Nel  merito, si sostiene, anzitutto, l'inconferenza dell'invocato
parametro   di  cui  all'art. 97  della  Costituzione,  che  sarebbe,
infatti,  estraneo  "all'area  della  funzione  giurisdizionale". Nel
rilevare,   altresi',   che  non  possono  essere  confusi  tra  loro
"disciplina   dell'azione  dell'Amministrazione  e  poteri  che,  per
ipotetico  vincolo  costituzionale, dovrebbero" competere al giudice,
si  nega,  al  tempo  stesso,  che  il  ruolo  di  quest'ultimo possa
considerarsi  ridotto  a  quello  di  un notaio, essendo, infatti, il
medesimo  chiamato  a verificare il rispetto delle regole temporali e
formali  dell'accordo  stragiudiziale.  Il comportamento dell'ufficio
finanziario  che  avanza  o  accetta la proposta di conciliazione non
sarebbe,  del  resto,  svincolato  da  qualsiasi parametro normativo,
valendo  in  proposito le previsioni del comma 4-bis dell'art. 37 del
decreto  legislativo n. 545 del 1992 (introdotto con l'art. 14, comma
2,  del  decreto  legislativo  n. 218 del 1997), circa l'attivita' di
indirizzo degli uffici finanziari periferici.
    "Frutto di erronea sovrapposizione del piano processuale a quello
sostanziale"  viene ritenuta dall'Avvocatura la denunciata violazione
dell'art. 53  della  Costituzione,  precetto che vincola, infatti, il
legislatore   "sul  piano  sostanziale  delle  regole  inerenti  alla
configurazione  delle fattispecie impositive", ma "non in ordine alla
configurazione del processo tributario e dei poteri del giudice".
    Escluso,     altresi',     che     le     valutazioni    espresse
dall'Amministrazione  finanziaria  nella procedura conciliativa siano
"suscettibili  di  essere sindacate nel merito dal giudice tributario
in un'ottica di tutela delle ragioni del fisco che contrasterebbe con
la  sua  posizione di terzieta'", l'Avvocatura ritiene non pertinente
l'evocazione  dell'art. 104  della  Costituzione,  riferibile al solo
complesso  dei  giudici  ordinari  (a  differenza  di  quanto prevede
l'art. 108), sostenendo, al tempo stesso, la legittimita' dei giudizi
ad istanza di parte, retti dal principio dispositivo.
    Del pari, non pertinente sarebbe, ad avviso della parte pubblica,
il  richiamo  della  sentenza  della  Corte costituzionale n. 313 del
1990,   la   quale   ha  dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 444,  comma  2,  del  codice di procedura penale, in quanto
tale norma non consentiva al giudice di valutare la rispondenza della
pena  alla sua finalita' rieducativa, cosi' traducendosi in un vulnus
della  stessa  funzione  costituzionale  del  titolare  del potere di
sanzione penale.
    Diversa   sarebbe,   invece,   la   situazione   nel  caso  della
conciliazione   giudiziale   nel   processo   tributario,  nel  quale
"l'accordo   delle   parti   supera  la  necessita'  della  pronuncia
giurisdizionale"   ed   i   poteri  del  giudice  sono  definiti  dal
legislatore nell'ambito della sua discrezionalita'.

                       Considerato in diritto


    1. -   La  questione di legittimita' costituzionale sollevata con
l'ordinanza in epigrafe riguarda l'art. 48 del decreto legislativo 31
dicembre  1992,  n. 546  (Disposizioni  sul  processo  tributario  in
attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge
30  dicembre  1991,  n. 413),  "nella  parte in cui non consente alla
Commissione  tributaria  provinciale  alcun giudizio sulla congruita'
delle  imposte  da versare su cui l'Ufficio e il contribuente si sono
accordati".
    Con  tale  disposizione  il  legislatore,  al fine di snellire il
contenzioso tributario e di rendere piu' rapide le relative procedure
di  accertamento,  ha  dettato  una  disciplina  della  conciliazione
giudiziale   che,   nel  testo  riformato  dall'art. 14  del  decreto
legislativo  19 giugno 1997, n. 218, prevede un rito "ordinario" e un
rito  "semplificato":  il primo finalizzato ad una composizione della
lite,  da  perfezionare  nel  corso  dell'udienza,  sulla base di una
previa  richiesta formulata da una delle due parti; il secondo ad una
definizione  della controversia che, giusta le modalita' previste dal
comma  5 del gia' menzionato art. 48, si concreta nella presentazione
di  una  proposta  dell'Ufficio alla quale il contribuente abbia gia'
prestato adesione.

    2. - In  riferimento  a questa seconda ipotesi, il giudice a quo,
muovendo  dalla  premessa che la disposizione censurata consenta agli
uffici  tributari di addivenire alla conciliazione della lite "a loro
insindacabile  giudizio  e  senza  neppure  motivazione  alcuna",  in
assenza  oltretutto  di "qualunque parametro di riferimento", ritiene
violato,  anzitutto, il principio di imparzialita' di cui all'art. 97
della  Costituzione.  A  suo avviso, tale "assoluta discrezionalita',
esente da motivazione", lederebbe anche l'art. 53 della Costituzione,
considerato  che,  a  fronte di "conciliazioni prive di controlli, si
realizzano   discriminazioni   inevitabili,  anche  senza  ipotizzare
comportamenti illeciti".
    Sarebbe  inciso,  al tempo stesso, il principio di "indipendenza"
della  magistratura  da  ogni  altro potere, consacrato nell'art. 104
della  Costituzione;  e  cio'  a  motivo della soggezione del giudice
tributario  -  il  cui  ruolo  e' delegittimato e ridotto a quello di
"notaro" di "un avvenuto accordo su cui non puo' interferire" - "alle
decisioni  della  Amministrazione",  atteso  che  "il controllo sulla
conciliazione  proposta  e'  meramente formale e non sulla congruita'
degli imponibili e, dunque, delle imposte concordate".

    3. - Va,  anzitutto,  respinta  l'eccezione dell'Avvocatura dello
Stato,   secondo   la   quale   la   questione  sarebbe  da  reputare
inammissibile  per  difetto  di  motivazione  sotto  il profilo della
rilevanza.
    Giova  rammentare,  al riguardo, che il menzionato art. 48, comma
5,  del decreto legislativo n. 546 del 1992, nel disciplinare il rito
c.d. semplificato, dispone che l'Amministrazione puo', sino alla data
di  trattazione  in camera di consiglio, ovvero fino alla discussione
in  pubblica  udienza,  depositare una proposta di conciliazione alla
quale   l'altra   parte   abbia  previamente  aderito,  disponendosi,
altresi',  che  "se  l'istanza  e'  presentata prima della fissazione
della   data  di  trattazione",  spetta  al  presidente  valutare  la
sussistenza  dei  presupposti  e  delle  condizioni di ammissibilita'
della  conciliazione  e,  se  del  caso,  dichiarare l'estinzione del
giudizio.
    Poiche',  nella  specie,  la  proposta  di  conciliazione risulta
presentata,  come  si evince dal testo dell'ordinanza, dopo l'udienza
di  discussione,  che  era  stata  rinviata  proprio  in  vista di un
possibile  accordo  fra  le  parti,  non puo' dubitarsi che spettasse
all'organo  collegiale,  presso  il quale il giudizio risultava ormai
incardinato,   di   provvedere  in  ordine  all'intervenuta  proposta
conciliativa  e,  pregiudizialmente,  anche  di  sollevare  eventuali
incidenti di costituzionalita'.
    Ne'  puo'  condividersi  il  rilievo  che la questione, per poter
essere  considerata  rilevante,  avrebbe richiesto la previa verifica
con   esito   negativo   dei   presupposti   e  delle  condizioni  di
ammissibilita' della conciliazione, posto che il dubbio sollevato dal
giudice concerne proprio la disposizione attributiva della competenza
in ordine a tale verifica.

    4. - Nel merito la questione e' infondata.
    Va,  in primo luogo, rilevata l'inconferenza del richiamo operato
agli   artt. 97   e  53  della  Costituzione,  dovuto,  come  osserva
giustamente  la  parte  pubblica,  ad  un'erronea  sovrapposizione di
piani,  quello  sostanziale  e quello processuale. Come si evince dal
dispositivo   dell'ordinanza   di   rimessione,   la   questione   di
costituzionalita'    che   essa   intende   sollevare   si   incentra
essenzialmente  sulle  funzioni  del giudice tributario, assumendo al
riguardo che, a fronte della discrezionalita' che in subjecta materia
sarebbe attribuita ai funzionari del fisco, la limitazione dei poteri
del  giudicante alla sola verifica delle condizioni e dei presupposti
di  ammissibilita'  della  conciliazione,  senza  la  possibilita' di
controllare la congruita' delle determinazioni raggiunte fra le parti
in causa, porrebbe la norma denunciata in contrasto, tra l'altro, con
i sopra richiamati precetti costituzionali.
    Cosi'  posta  la  questione,  il rimettente non considera che sia
l'art. 97  che l'art. 53 esulano dalla tematica in se' della funzione
giurisdizionale,  attenendo, secondo la consolidata giurisprudenza di
questa  Corte,  l'uno all'organizzazione dell'amministrazione secondo
principi  di  imparzialita'  e  di  buon  andamento  e, l'altro, alla
garanzia   sostanziale   della   proporzionalita'  dell'imposta  alla
capacita'  del  contribuente  (ordinanze  n. 30 del 2000 e n. 322 del
1992).

    5. - Il  giudice  a  quo  ritiene,  al tempo stesso, che i poteri
spettanti in materia di conciliazione all'amministrazione finanziaria
compromettano    le    sue    funzioni   anche   sotto   il   profilo
dell'indipendenza,   cosi'   risultando   violato   l'art. 104  della
Costituzione.
    Nonostante  l'improprio  riferimento a quest'ultima disposizione,
che  ha  per  oggetto le garanzie di indipendenza istituzionale della
magistratura ordinaria considerata nel suo complesso, il problema che
l'ordinanza  intende  sollevare,  con  riguardo  alle  competenze del
giudice  tributario,  attiene,  come  si  evince  dal  contesto della
stessa,  all'indipendenza  funzionale  del  singolo  organo dotato di
potere  giurisdizionale;  all'uopo  evocando  un  principio,  il  cui
fondamento  va  rinvenuto  nell'enunciazione  generale dell'art. 101,
secondo  comma  (sentenza n. 440 del 1988), in connessione, quanto ai
giudici speciali, come nel caso oggetto di rimessione alla Corte, con
l'art. 108  della  Costituzione.  Orbene,  e'  da  escludere  che  il
menzionato  principio  -  il  quale,  mira ad assicurare, come questa
Corte  ha  gia' avuto occasione di chiarire (sentenze n. 40 del 1964,
n. 234  del  1976 e n. 375 del 1996), che l'attivita' giurisdizionale
si  svolga sotto l'esclusivo imperio della legge, senza inammissibili
influenze   esterne   -   risulti   compromesso   dalla  disposizione
denunciata. Infatti, attraverso la medesima, e' lo stesso legislatore
a definire i limiti della cognizione riservata all'organo giudicante,
affidando  ad  esso,  in  vista  di una piu' rapida definizione delle
controversie  tributarie, il compito di accertare se la conciliazione
era  ammissibile,  se  rientrava nei casi consentiti e se la relativa
procedura e' stata correttamente espletata.
    Come  la  Corte  ha  avuto  occasione  di  rilevare proprio nella
sentenza  n. 313  del  1990,  addotta dal rimettente a sostegno della
sollevata  questione, il fatto, poi, che al giudice sia attribuito un
mero  controllo  di  legittimita'  non  pregiudica l'integrita' della
funzione,  in  ragione del ruolo che resta a lui affidato; ruolo che,
essendo  preordinato  alla  definizione  del  giudizio, alla quale le
parti non potrebbero altrimenti pervenire, appare di decisivo rilievo
e   tale   da   riportarsi   alla   stessa   essenza  della  funzione
giurisdizionale.
    Per il resto e' sufficiente rilevare che, contrariamente a quanto
opina  il  rimettente,  la  soluzione  accolta  in questa sentenza, a
proposito dell'art. 444, comma 2, del codice di procedura penale, non
puo' in alcun modo fungere qui da precedente in vista di un eventuale
accoglimento,   giacche',  secondo  quanto  e'  dato  evincere  dalla
motivazione,  la  declaratoria di incostituzionalita' cui la Corte e'
pervenuta,  in  detta occasione, ha la sua specifica ragione d'essere
nel  fatto  che  la  norma  allora denunciata, nella sua formulazione
originaria,  non  consentendo  al  giudice di valutare la rispondenza
della  pena alla sua finalita' rieducativa, si risolveva in un vulnus
della  funzione  affidata  all'organo  giudicante dall'art. 27, terzo
comma,  della  Costituzione,  quanto alla determinazione dell'entita'
della pena stessa.