ha pronunciato la seguente


                              Ordinanza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 173 del codice
penale  militare  di  pace,  promosso  nell'ambito di un procedimento
penale  con  ordinanza emessa il 29 febbraio 2000, iscritta al n. 202
del  registro  ordinanze  2000  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 20, 1a serie speciale, dell'anno 2000.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 24 gennaio 2001 il giudice
relatore Guido Neppi Modona.
    Ritenuto che il giudice per le indagini preliminari del Tribunale
militare di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 24,
25,   secondo   comma,   e   112  della  Costituzione,  questione  di
legittimita'  costituzionale dell'art. 173 del codice penale militare
di pace;
        che   il   rimettente  premette  di  essere  investito  della
richiesta  del  pubblico  ministero  di  emettere  decreto  penale di
condanna  nei  confronti di un carabiniere scelto, imputato del reato
di  disobbedienza  (art. 173  cod.  pen.  mil.  di  pace) per essersi
rifiutato  di eseguire l'ordine impartito da un maresciallo capo, suo
superiore  in  grado, "di spostarsi e cedere il posto anteriore della
vettura di servizio riservata al "capo macchina ";
        che ad avviso del rimettente risulterebbero provati tutti gli
elementi   in   base   ai   quali   ravvisare,  "secondo  consolidata
giurisprudenza",  l'esistenza  di un legittimo rapporto gerarchico e,
di  conseguenza,  di  una  legittima  manifestazione  di volonta' del
superiore  diretta  ad  imporre  un  facere  o  un  non  facere  a un
inferiore;
        che  la  riconducibilita'  della condotta al reato contestato
dipenderebbe,  a  parere  del  rimettente,  dalla  circostanza che la
fattispecie   incriminatrice,   "caratterizzata   da   astrattezza  e
genericita' del fatto tipico", e' costruita in modo da demandare alla
volonta'  del superiore l'individuazione del comportamento penalmente
sanzionabile,  in  linea  con la volonta' del legislatore del 1941 di
"tutelare un concetto di disciplina militare eticamente inteso";
        che  alla  luce  dei  principi  costituzionali  e della legge
11 luglio   1978,   n. 382,  recante  le  norme  di  principio  sulla
disciplina  militare,  la norma censurata "dovrebbe essere riscritta"
dal  legislatore,  utilizzando  criteri  di  maggiore determinatezza,
quali  quelli  contenuti  nei  reati  di disobbedienza previsti dalle
leggi 1o aprile 1981, n. 121, e 15 dicembre 1990, n. 395;
        che   ad   avviso   del   rimettente  l'attuale  formulazione
dell'art. 173  cod.  pen. mil. di pace si pone in contrasto, in primo
luogo,  con  il  principio della riserva assoluta di legge in materia
penale  dettato  dall'art. 25,  secondo  comma,  Cost.,  in quanto il
legislatore  del 1941 avrebbe configurato una norma penale in bianco,
nella  quale  la  definizione del precetto e' totalmente demandata ad
"atti  normativi  secondari, sottordinati nella gerarchia delle fonti
del  diritto",  quali  sono le contingenti e "particolari intimazioni
verbali di un qualsiasi superiore di un qualsiasi ente militare", si'
che la disposizione censurata e' priva di "sufficiente determinazione
legale";
        che  il  principio  di  legalita'  risulterebbe violato anche
sotto  il  profilo  della mancanza di tassativita' della fattispecie,
perche'  la  norma  in  questione,  demandando  la determinazione del
precetto all'amministrazione, senza fissarne presupposti, contenuti e
limiti,  non  assicura  la  certezza  della  legge e rende il giudice
"arbitro  assoluto"  nella definizione della disobbedienza penalmente
rilevante;
        che  dalla  violazione  dei principi di riserva di legge e di
tassativita'  deriverebbe il contrasto con l'art. 24 Cost., in quanto
il  "cittadino  militare"  da un lato e' posto nell'impossibilita' di
conoscere  con  certezza cio' che e' consentito e cio' che e' vietato
dalla  legge,  dall'altro vede menomato il proprio diritto di difesa,
potendo  opporre  alla  contestazione del reato di disobbedienza solo
argomentazioni   basate  su  difformi  precedenti  giurisprudenziali,
nonche'  con l'art. 112 Cost., in quanto sarebbe impedito al pubblico
ministero di individuare con certezza i comportamenti in relazione ai
quali esercitare l'azione penale;
        che  la  disciplina  censurata violerebbe poi il principio di
eguaglianza  per  la  possibilita'  di diverse letture della norma e,
quindi,  per  il  pericolo  di  decisioni  diverse  e  di  differenti
trattamenti in presenza di identiche situazioni di fatto, nonche' per
la disparita' di trattamento tra militari e appartenenti alla Polizia
di  Stato e al Corpo di polizia penitenziaria, in quanto gli artt. 72
della  legge  n. 121  del  1981  e  20  della  legge  n. 395 del 1990
prevedono per tali soggetti un reato di disobbedienza di "non incerta
prescrittivita'";
        che,  infine,  sarebbero  violati anche gli artt. 25, secondo
comma, e 13 Cost., in quanto la norma censurata istituirebbe un reato
di  pericolo  presunto  e  punirebbe  condotte di mera disobbedienza,
disancorate  dalla  "effettiva  lesione  al  bene  giuridico servizio
militare";
        che  nel  giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio
dei  ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato,  chiedendo  che  la  questione sia dichiarata inammissibile o,
comunque, infondata.
    Considerato  che  l'essenza  delle  censure  mosse  al  reato  di
disobbedienza, previsto dall'art. 173 cod. pen. mil. di pace, si basa
sulla supposta violazione dei princi'pi di legalita' e determinatezza
della  fattispecie  incriminatrice,  non  essendo gli altri parametri
costituzionali  richiamati  dal  rimettente che corollari del dedotto
contrasto con l'art. 25, secondo comma, Cost.;
        che   il   rimettente   lamenta   che   l'individuazione  del
comportamento  penalmente  sanzionabile  sia  totalmente rimessa alla
volonta'  del superiore gerarchico, si' che l'art. 173 cod. pen. mil.
di   pace   sarebbe   caratterizzato   da   assoluta   genericita'  e
indeterminatezza del fatto tipico;
        che,  come rileva lo stesso rimettente senza peraltro dedurne
le  logiche conseguenze interpretative, il quadro normativo nel quale
si  inserisce  il  reato di disobbedienza previsto dall'art. 173 cod.
pen. mil. di pace e' radicalmente mutato rispetto a quello vigente al
momento di emanazione del codice del 1941;
        che  il principio enunciato dall'art. 52, terzo comma, Cost.,
secondo cui l'"ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito
democratico  della  Repubblica", ha trovato compiuta attuazione nella
legge  n. 382 del 1978 (Norme di principio sulla disciplina militare)
e  nel  relativo regolamento (d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545) (cfr. da
ultimo sentenze n. 519 del 2000 e n. 4 del 1997);
        che,  con  particolare riferimento al reato di disobbedienza,
da  un  lato  l'art. 4,  quarto  comma,  della  legge n. 382 del 1978
stabilisce  che  "gli  ordini  devono,  conformemente  alle  norme in
vigore,  attenere  alla  disciplina,  riguardare  il  servizio  e non
eccedere  i  compiti  di istituto", dall'altro l'art. 5, comma 1, del
d.P.R.  n. 545  del  1986  definisce  l'obbedienza  come l'esecuzione
"degli ordini attinenti al servizio ed alla disciplina";
        che tali disposizioni si inseriscono in un contesto in cui la
disciplina  non e' piu' concepita come un valore fine a se stesso, ma
risulta  funzionale  "ai  compiti istituzionali delle Forze armate ed
alle esigenze che ne derivano" (art. 2, comma 1, del regolamento);
        che  il  nuovo  assetto  normativo  e'  inconciliabile con la
costruzione,  prospettata  dal giudice rimettente, dell'art. 173 cod.
pen. mil.   di   pace  come  norma  penale  in  bianco,  nella  quale
l'individuazione  dei  comportamenti  penalmente sanzionabili sarebbe
rimessa  alla  mera  volonta'  del superiore gerarchico, in linea con
l'intenzione  del  legislatore  del  1941 di "tutelare un concetto di
disciplina militare eticamente inteso";
        che  la disposizione censurata, in cui il rifiuto, il ritardo
o   l'omissione   di   obbedienza  sono  comunque  puntualizzati  con
riferimento a "un ordine attinente al servizio o alla disciplina", va
pertanto  letta  - come e' preciso dovere dell'interprete - alla luce
del quadro normativo che si e' progressivamente formato nel corso del
periodo repubblicano;
        che  le  norme sopra menzionate rendono evidente che il reato
non  si  sostanzia  nella  disobbedienza  ad  un  "ordine"  qualsiasi
proveniente   da   un   superiore   gerarchico,  in  quanto  solo  la
disobbedienza  a un ordine funzionale e strumentale alle esigenze del
servizio  o  della  disciplina, e comunque non eccedente i compiti di
istituto,  integra gli estremi del modello legale di cui all'art. 173
cod. pen. mil. di pace;
        che,  infatti,  oggetto  della  tutela apprestata dalla norma
censurata  non  e'  il  prestigio  del  superiore  in  se'  e per se'
considerato,  ma il corretto funzionamento dell'apparato militare, in
vista  del  conseguimento  dei  suoi  fini  istituzionali, cosi' come
puntualmente   messo   in   rilievo   da   quella  giurisprudenza  di
legittimita' e di merito che ha sottolineato che l'ordine deve sempre
avere fondamento nell'interesse del servizio o della disciplina e non
puo'  trovare  causa in pretese di carattere personale o in contrasti
di natura privata tra superiore e inferiore;
        che,  non  essendo  dato  riscontrare  alcuna  violazione dei
parametri  costituzionali  evocati  dal  rimettente,  la questione va
dichiarata manifestamente infondata.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.