LA CORTE DI APPELLO

    Ha  pronunciato mediante lettura all'udienza dibattimentale del 6
luglio  2000, nel procedimento penale a carico di Aiello Filippo piu'
12,   la   seguente   ordinanza  sulla  eccezione  di  illegittimita'
costituzionale  degli  artt. 197,  lettere  a)  e b), e 210, comma 4,
c.p.p.,  nella parte in cui escludono l'assunzione come testimoni dei
coimputati  e  degli  imputati di reati connessi o collegati su fatti
concernenti  la responsabilita' di altri e riconoscono agli stessi la
facolta'  di  astenersi dal rispondere, per violazione degli artt. 3,
24, 25, 111 e 112 Costituzione, sollevata dal procuratore generale.
    La  Corte,  sentite  le  parti  e lette le memorie depositate dai
difensori all'odierna udienza;

                            O s s e r v a

    1.  -  Il  presente dibattimento in sede di giudizio di rinvio ex
art. 627  c.p.p.  consegue  al  parziale annullamento, da parte della
Corte  di  cassazione  (sentenza del 18 dicembre 1998) della sentenza
emessa  in  data  20  febbraio  1997  da  altra  sezione  della Corte
d'appello di Torino, con la quale erano state decise, previa riunione
dei  relativi procedimenti, le impugnazioni proposte dagli imputati e
dal    pubblico    ministero   avverso   le   sentenze   pronunciate,
rispettivamente  il 10 marzo 1995 ed il 10 marzo 1996, da due diverse
sezioni del tribunale di Torino.
    L'annullamento  non  ha  investito,  peraltro,  la  decisione del
giudice  d'appello  con  cui  era  stata  riformata  la  sentenza del
tribunale   emessa  in  data  10  marzo  1995,  con  assoluzione  per
insussistenza  del  fatto  degli imputati Marando Pasquale e Trimboli
Natale  dal  reato  loro  contestato  in  quel processo al capo B) di
imputazione,  ma  concerne  solamente  alcune  posizioni soggettive e
talune imputazioni oggetto dell'altro dei due processi riuniti, cioe'
quello definito in primo grado con la sentenza pronunciata in data 10
marzo 1996.
    E  le  ragioni  di tale parziale annullamento con rinvio ad altro
giudice  di  merito,  da  parte  della  Corte  di  cassazione,  vanno
individuate  esclusivamente nelle modificazioni normative intervenute
in  corso  di  causa  in  tema di modalita' di assunzione delle prove
costituite dalle dichiarazioni di imputati in procedimenti connessi o
collegati e di valutazione delle stesse.
    E'  stato  infatti  accolto dal S.C. il motivo di ricorso, comune
agli  imputati nei cui confronti ancora pende l'attuale procedimento,
con il quale, con riguardo alle dichiarazioni accusatorie di soggetti
imputati in procedimenti connessi o collegati che non erano state dai
medesimi  confermate  nei precedenti dibattimenti svoltisi dinanzi ai
giudici  di primo e di secondo grado, essendosi tali soggetti avvalsi
della  facolta'  di  non rispondere, e che erano state introdotte nel
fascicolo  per il dibattimento attraverso il meccanismo della lettura
dei   relativi   verbali   all'epoca   previsto,   veniva   richiesta
l'applicazione  della  norma  transitoria  di  cui  all'art. 6, legge
n. 267/1997,  secondo  l'interpretazione  ad  essa  data  dalla  nota
giurisprudenza della Corte di cassazione a sezioni unite (25 febbraio
1998, Gerina e 24 settembre 1998, Citaristi).
    Di  qui  il  parziale  annullamento  della  sentenza  della corte
d'appello, in quanto i giudici di merito avevano, appunto, fondato la
propria  decisione  su  dichiarazioni  accusatorie non confermate nei
precedenti  dibattimenti  ed  "acquisite"  mediante  lettura senza il
consenso delle parti, ed il conseguente rinvio ad altra sezione della
medesima  corte  per  la  necessaria rinnovazione del dibattimento in
riferimento a tali dichiarazioni.
    E la Cassazione, nella propria motivazione, ha altresi' precisato
come,  a seguito dell'intervento - tra la presentazione dei ricorsi e
la    relativa    decisione    -    della   pronuncia   di   parziale
incostituzionalita'  dell'art. 513,  comma 2,  ultimo periodo c.p.p.,
fosse  comunque  possibile, anche nei procedimenti in corso ed in via
transitoria,   applicare   la   disciplina   delineata   dalla  Corte
costituzionale  con la sentenza n. 361 del 26 ottobre 1998 e, quindi,
in  caso  di  persistenza del rifiuto a rispondere da parte di coloro
che  gia'  si  erano  in  precedenza  avvalsi  della facolta' ad essi
conferita  dall'art. 210 c.p.p., provvedere ugualmente, attraverso il
sistema   delle   contestazioni  previsto  dall'art. 500  c.p.p.,  al
recupero  dei singoli contenuti narrativi delle dichiarazioni rese da
tali soggetti.

    2.  -  Sono  peraltro  intervenute,  dopo  la decisione del S.C.,
ulteriori  importanti  modifiche  alla  normativa  che  disciplina le
modalita'    di   acquisizione   e   l'efficacia   probatoria   delle
dichiarazioni accusatorie rese da coimputati o da persone imputate in
procedimenti connessi o collegati.
    Anzitutto,  sono  ormai  assunti  a livello di principi di natura
costituzionale,   a   seguito   della  modifica  dell'art. 111  della
Costituzione  (art. 1,  legge  cost.  23 novembre 1999, n. 2), quello
secondo  cui  "il  processo  penale  e'  regolato  dal  principio del
contraddittorio nella formazione della prova" e, piu' specificamente,
quello  secondo  cui  "la  colpevolezza dell'imputato non puo' essere
provata  sulla  base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta,
si  e'  sempre  volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte
dell'imputato  o  del  suo difensore". Ed il principio secondo cui la
formazione  della prova ha luogo in contraddittorio incontra, in base
al  successivo  comma  del  citato  articolo, quali uniche eccezioni,
quelle  -  da  disciplinarsi attraverso legge ordinaria, che peraltro
allo  stato  non e' stata ancora emanata - in cui vi sia il "consenso
dell'imputato",  ovvero si verifichi una "accertata impossibilita' di
natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita".
    L'art. 2  della  citata legge costituzionale autorizzava, poi, il
legislatore   ordinario  a  regolare  per  legge  l'applicazione  dei
principi  in essa enunciati ai procedimenti penali in corso alla data
della sua entrata in vigore, quale e' l'attuale processo.
    Ed  il  legislatore  e'  in  effetti intervenuto, dapprima con un
decreto-legge  (d.l.  7  gennaio  2000,  n. 2)  e poi con la legge di
conversione (legge 25 febbraio 2000, n. 35), la quale (modificando il
provvedimento  convertito)  prevede, all'art. 1, comma 1, l'immediata
applicabilita'   dei   nuovi   principi   costituzionali  a  tutti  i
procedimenti  in  corso,  salve  talune  eccezioni indicate nei commi
successivi.
    Nessuna  delle  predette ipotesi eccezionali ricorre peraltro nel
caso di specie.
    Infatti,  come  gia'  questo  collegio ha avuto modo di affermare
nell'ordinanza  pronunciata  all'udienza dibattimentale del 15 giugno
2000,  non possono ritenersi "gia' acquisite" nel presente processo -
e,  quindi, suscettibili di essere comunque valutate, purche' la loro
attendibilita'  sia  confermata da altri elementi di prova, assunti o
formati con diverse modalita', come la legge di conversione prevede -
le prove costituite dalle dichiarazioni rese nel corso delle indagini
dagli  imputati in procedimento connesso o collegato che si sono fino
ad  ora  avvalsi  della  facolta'  di non rispondere, dal momento che
proprio  l'irritualita'  dell'acquisizione  di  tali prove, alla luce
dello  jus  superveniens, ha costituito l'oggetto delle doglianze dei
difensori  ricorrenti  e  il  fondamento  della decisione di parziale
annullamento  con  rinvio  a  questo  collegio,  per  la  conseguente
rinnovazione  del  dibattimento  al  fine della corretta acquisizione
delle suddette prove mediante nuovo esame dei dichiaranti.
    D'altro  canto, neppure sono emersi concreti elementi, verificati
in  contraddittorio,  per  ritenere  che gli imputati in procedimento
connesso   o   collegato  che  non  avevano  risposto  fossero  stati
sottoposti  a  violenza  o  minaccia, ovvero ad offerta o promessa di
denaro o di altra utilita' affinche' si sottraessero all'esame.
    Dovrebbe  quindi  trovare  applicazione,  nel  caso di specie, la
normativa  ordinaria attuativa dei principi di cui all'art. 111 della
Costituzione,  la quale peraltro, come gia' sopra si e' detto, non e'
stata ancora emanata dal legislatore.
    E,  in  assenza di tale nuova e necessaria disciplina, non pare a
questa  corte - ne e' parso in occasione delle precedenti udienze del
4  maggio  e  del 15 giugno 2000, destinate appunto alla rinnovazione
del  dibattimento  attraverso  l'esame  di  coloro che, nella propria
qualita'  di  imputati in procedimenti connessi o collegati, si erano
in  precedenza  avvalsi  della  facolta'  di  non  rispondere ad essi
riconosciuta  dall'art. 210, comma 4, c.p.p., e che, perlopiu', hanno
manifestato  la volonta' di continuare ad avvalersene - che, a fronte
del  persistere  del rifiuto di rispondere da parte di tali soggetti,
possa  oggi  ancora  trovare  applicazione  in  via interpretativa il
meccanismo  delle  contestazioni,  quale  risulta  a seguito del gia'
ricordato  intervento  della  Corte  costituzionale  con  la sentenza
n. 361  del  1998  e che era stato indicato dalla Corte di cassazione
nella sentenza di parziale annullamento con rinvio a questo giudice.
    Soprattutto,  quand'anche  si  fosse ritenuto di potere procedere
comunque  alle  contestazioni, nonostante le modifiche costituzionali
sopravvenute   alla   decisione   della   Consulta,   tale  attivita'
processuale  avrebbe poi finito per rivelarsi praticamente inutile ai
fini  del  "recupero" delle singole affermazioni che avessero formato
oggetto  di contestazione in occasione di quegli esami resi da chi si
fosse  avvalso della facolta' di non rispondere. Non sembra, infatti,
superabile   l'assolutezza   del  divieto  che  a  simili  operazioni
giurisprudenziali,  volte  in  qualche modo ad attenuare il principio
della    formazione   della   prova   nel   contraddittorio,   oppone
inequivocamente  il  nuovo  testo  dell'art. 111  della Costituzione,
nella  parte  in  cui  stabilisce,  al  quinto  comma,  la gia' sopra
ricordata  riserva  di  legge  quanto ai casi di possibile formazione
della  prova  al  di  fuori  del  contraddittorio,  individuandone  i
presupposti     esclusivamente    nel    "consenso    dell'imputato",
nell'"accertata  impossibilita' di natura oggettiva", ovvero nel caso
di "provata condotta illecita".
    Pertanto,   sebbene  ancora  il  legislatore  ordinario  non  sia
intervenuto  a  disciplinare  tali  casi, dando attuazione alla norma
costituzionale,  ben  puo' fin d'ora tuttavia desumersi dal tenore di
quest'ultima    l'illiceita'    di   qualsiasi   interpretazione   od
elaborazione  giurisprudenziale che individui ipotesi di formazione o
"recupero" di prove acquisite al di fuori del contraddittorio diverse
rispetto  a  quelle  espressamente  previste  dall'art. 111, comma 5,
Costituzione.

    3. - Conformi a quelle appena sopra ricordate sono le conclusioni
alle  quali,  e'  pervenuto, sul piano del diritto, il rappresentante
dell'accusa nel presente processo, dopo avere rilevato in fatto come,
essendo  stata  disposta  da  questa corte la rinnovazione dell'esame
degli imputati di reati connessi Tropiano Orsola, Foroni Ermenegildo,
Merlanti   Guido,   Meschini   Giulio,   Quintili  Marcello,  Maresta
Giancarlo,  Formaggio Luca, Francini Gabriele e Sanfilippo Francesco,
gli  stessi abbiano continuato ad avvalersi in questa sede (alle gia'
menzionate  udienze  del 4/5 e del 15 giugno 2000), come gia' avevano
fatto in primo grado, della facolta' di non rispondere.
    Sostiene,  infatti, il procuratore generale nella memoria con cui
chiede   al  collegio  di  sollevare  la  questione  di  legittimita'
costituzionale degli artt. 197, lett. a) e b), e 210, comma 4 c.p.p.,
per  contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 111 e 112 della Costituzione,
che il principio affermato dal quarto comma dell'art. 111, cosi' come
modificato  con  legge  cost.  n. 2 del 1999, "comporta l'abrogazione
tout  court  (senza necessita' di interventi dichiarativi del giudice
delle   leggi)   delle  norme  ordinarie  con  esso  direttamente  ed
immediatamente incompatibili ... e sancisce, conseguentemente, la non
recuperabilita'   assoluta   (all'infuori   dei   casi  espressamente
previsti)  delle  dichiarazioni  rese  fuori  dal contraddittorio". E
giunge alla conclusione secondo cui "nel caso specifico, dunque, sono
inutilizzabili  de  plano le dichiarazioni rese al pubblico ministero
dai  coimputati  che si sono avvalsi della facolta' di non rispondere
(come la Corte ha stabilito con ordinanza 15 giugno 2000) e non ne e'
consentito  il  recupero  mediante  contestazione in base al disposto
dell'art. 513  c.p.p.,  interpretato dalla sentenza n. 361/1998 della
Corte  costituzionale  (come ritenuto anche da questo ufficio, che ha
rinunciato a procedere in tal senso)".

    4. - A fronte di tale quadro, che caratterizza l'attuale processo
sul  piano  del  fatto  e  del  diritto e che vede, come si e' detto,
l'impossibilita' di qualsiasi "recupero" di dichiarazioni accusatorie
utilizzate  ai  fini  delle  precedenti  decisioni  di  merito  e, in
particolare, l'impossibilita' di assunzione in veste di testimoni dei
soggetti  sopra  indicati  che, nella propria qualita' di imputati in
procedimenti   per   reati   connessi   o   collegati,  avevano  reso
dichiarazioni  al pubblico ministero con riferimento ad altre persone
-  e,  specificamente, con riguardo agli (od a taluni degli) imputati
del   presente  processo  -  e  che,  successivamente  esaminati  nel
contraddittorio dibattimentale, si sono avvalsi della facolta' di non
rispondere  ad essi riconosciuta dall'art. 210 c.p.p., occorre dunque
chiedersi,  secondo il procuratore generale, se la disciplina dettata
in  simili ipotesi (cioe' nel caso in cui le precedenti dichiarazioni
accusatorie  siano state rese erga alios e limitatamente alle stesse)
sia tuttora conforme al modificato sistema costituzionale.
    In  altri  termini,  la  questione sottoposta dal proponente alla
valutazione di questo collegio, affinche' dallo stesso venga ritenuta
rilevante  e  non manifestamente infondata e, pertanto, devoluta alla
Corte  costituzionale,  e' quella concernente la compatibilita' della
disciplina  dettata  dagli  artt. 197,  lett. a) e b), e 210, comma 4
c.p.p.,  con  il nuovo assetto costituzionale (da un lato, il "mutato
equilibrio  tra  gli  artt. 3,  24,  112  e  111"  e,  dall'altro, il
"principio  del  contraddittorio  singolarmente  considerato"), quale
risulta  a  seguito  della  intervenuta  modifica dell'art. 111 della
Costituzione.
    Sostiene,  infatti,  il  procuratore  generale  che "l'assoluta e
inderogabile       centralita'       del      contraddittorio      si
ripercuote ... sull'intero   sistema  processuale  e  ne  impone  una
rilettura",  proprio  al  fine di verificarne la conformita' al nuovo
assetto come sopra delineato.
    4.1.  -  Ed  e' appunto collocandosi in tale prospettiva che, con
specifico  riferimento  a  quanto  si  e'  verificato  nel  corso del
presente  processo  e  ritenuta  la rilevanza della questione ai fini
della  definizione  dello stesso, a fronte dell'evidente utilita' per
la  decisione  delle dichiarazioni a suo tempo rese da coloro che poi
si  sono  avvalsi  della  facolta'  di non rispondere (implicitamente
risultante  dai  ripetuti richiami ad esse operati sia nelle sentenze
di  merito,  sia  in  quella  del  18  dicembre  1998  della Corte di
cassazione),  e' stata sollevata dal rappresentante dell'accusa sopra
ricordata eccezione di illegittimita' costituzionale degli artt. 197,
lett.  a) e b), e 210, comma 4, c.p.p., con riferimento agli artt. 3,
24,  25,  111 e 112 della Costituzione, nella parte in cui tali norme
processuali  escludono  la  possibilita' di assumere come testimoni i
coimputati  e  gli  imputati  di  reati connessi o collegati su fatti
concernenti  la responsabilita' di altri e riconoscono agli stessi la
facolta' di astenersi dal rispondere.
    4.2.  -  Sotto  il  profilo  della  non manifesta infondatezza di
quanto  eccepito, viene richiamata dal proponente l'analoga questione
gia'  sollevata,  con riferimento agli artt. 210 e 513 c.p.p. ed agli
artt. 3,  25,  111  e  112  della  Costituzione, con ordinanza del 20
marzo2000 dal Tribunale di Milano, alla quale il procuratore generale
ha   operato   un  espresso  rinvio  quanto  ai  motivi  addotti  per
sostenerla,  osservando  altresi'  come  a tali motivi possano essere
aggiunte alcune ulteriori considerazioni.
    Pertanto, gli argomenti addotti dal proponente per evidenziare la
fondatezza  della  questione  possono qui riferirsi come segue, sulla
scorta  di  quanto  e'  stato  espressamente  scritto  nella  memoria
presentata   a  questa  corte  e  dell'espresso  rinvio  alla  citata
ordinanza del tribunale milanese:
        a) in primo luogo, la stessa Corte costituzionale, rigettando
perche'  infondata,  nel contesto della nota sentenza n. 361/1998, la
questione  di  costituzionalita'  dell'art. 210, comma 4, c.p.p., per
violazione  degli artt. 3, 24, 25, secondo comma, 101, secondo comma,
102  e  111  della Costituzione, aveva affermato essere "censurabili,
sotto  il  profilo della ragionevolezza, soluzioni normative che, non
necessarie  per realizzare le garanzie della difesa, pregiudichino la
funzione  del  processo  come strumento, non disponibile dalle parti,
destinato  all'accertamento  giudiziale  dei  fatti  di reato e delle
relative  responsabilita'".  Aveva,  in particolare, sostenuto essere
"irragionevole"   ed   "incoerente"   rimettere   il  mantenimento  o
l'esclusione  di apporti probatori decisivi ai fini dell'accertamento
dei   fatti   e   delle   responsabilita'  alla  esclusiva  "volonta'
dell'imputato in procedimento connesso".
    Con  particolare  riferimento  alla posizione di tale soggetto, i
giudici  della Consulta avevano altresi' sottolineato che "l'imputato
in  procedimento  connesso  e'  in  gran  parte  gia' sottoposto alla
disciplina   dei   testimoni",  data  "l'analogia  tra  le  posizioni
processuali  di  soggetti  le  cui dichiarazioni sono contraddistinte
dall'essere  rivolte, e dall'essere destinate a valere, nei confronti
di   altri",   evidenziando   inoltre  il  "carattere  ibrido"  della
disciplina  contenuta  nell'art. 210  c.p.p. E la ragione per cui era
stata   esclusa   dalla   Corte,   pur  a  fronte  di  tale  percorso
argomentativo,  la  declaratoria di incostituzionalita' di tale norma
era stata individuata nel fatto che "altri sono gli strumenti offerti
dall'ordinamento processuale per porre rimedio" alla situazione sopra
evidenziata,  consistenti, in particolare, nell'"intervento additivo"
sull'art. 513,  comma  2,  c.p.p.  Intervento  che,  di  fatto, venne
operato  dal  giudice  costituzionale attraverso l'estensione, in via
interpretativa,  del  meccanismo  delle  contestazioni  previsto  per
l'esame   testimoniale  dall'art. 500,  commi  2-bis,  e  4,  c.p.p.,
nell'ipotesi  in cui gli imputati in procedimento connesso si fossero
avvalsi della facolta' di non rispondere in tutto o in parte su fatti
concernenti  la  responsabilita'  di  altri,  gia' oggetto delle loro
precedenti  dichiarazioni.  Venuta  ora  meno,  con  il  nuovo  testo
dell'art. 111 Cost., la possibilita' di operare in tal modo, coerenza
vorrebbe  che  l'irrazionalita'  e  l'incoerenza  del  sistema  siano
eliminate  incidendo  direttamente  sugli artt. 197, lett. a) e b), e
210, comma 4, c.p.p.;
        b)  inoltre, come gia' affermato dal tribunale milanese nella
sopra   ricordata   ordinanza,   proprio  "le  nuove  regole  fissate
dall'art. 111  della Costituzione impongono una revisione dei confini
tra  il diritto alla formazione in contraddittorio della prova, ed il
diritto  al  silenzio  del dichiarante erga alios, nel senso che alla
maggiore   espansione   ed   alla  piu'  intensa  tutela  del  primo,
corrisponde inevitabilmente la riduzione dell'area costituzionalmente
protetta  riguardante  l'esercizio della facolta' di non rispondere",
sicche'  finisce  per rivelarsi "contraria al precetto costituzionale
del  diritto  al  contraddittorio ... la previsione della facolta' di
non    rispondere   prevista   dall'art. 210   c.p.p.   quanto   alle
dichiarazioni   che   un  imputato  renda  su  fatti  concernenti  la
responsabilita'   di   altri".  In  altri  termini,  "ferma  restando
l'intangibilita'   del   diritto   al   silenzio   dell'imputato  fin
dall'inizio  delle  indagini  preliminari, ...  l'eventuale scelta di
rendere  dichiarazioni su fatto che implica la responsabilita' altrui
ha  ormai  acquisito  la connotazione dell'irrevocabilita'". Infatti,
"una  volta  intrapresa  la  via  della formulazione di dichiarazioni
coinvolgenti  la responsabilita' di altri, l'esercizio successivo del
diritto  al  silenzio  da  parte della persona sottoposta ad esame ai
sensi  dell'art. 210  c.p.p.,  finisce  per scontrarsi con il diritto
dell'accusato  al  confronto dialettico nella formazione della prova,
ormai assunto a regola costituzionale".
    E,  ad  avviso del giudice remittente, "la concorrenza tra le due
predette contrapposte articolazioni del diritto di difesa puo' essere
composta  solo  affermando  l'intervenuta  compressione - per effetto
dell'introduzione delle nuove regole ex art. 111 della Costituzione -
dello  spazio  costituzionalmente garantito al silenzio, che non puo'
piu'  includere la facolta' di non rispondere per il dichiarante erga
alios" pena "l'irragionevole ed inaccettabile sacrificio dei principi
del  libero  convincimento del giudice, della irrinunciabile funzione
conoscitiva del processo, dell'indefettibilita' della giurisdizione e
dell'obbligatorieta' dell'azione penale". E nella memoria indirizzata
a questa corte il procuratore generale, dopo avere richiamato e fatti
propri   gli   appena   ricordati  argomenti  del  giudice  milanese,
affermando  anch'egli  come  la  riduzione  dell'area del "diritto al
silenzio"   del   coimputato  o  dell'imputato  di  reato  collegato,
conseguente  alla  prospettata  declaratoria  di  incostituzionalita'
degli  artt. 197, lett. a) e b), e 210, comma 4, c.p.p., sia "imposta
dal  novellato  art. 111 della Costituzione", sottolinea ed evidenzia
come,   proprio  ritenendo  che  il  "contraddittorio  e'  il  cuore,
l'essenza  stessa del processo" e che "la legge ordinaria e' chiamata
a  garantirlo", appare inevitabile il "dubbio di costituzionalita' di
tutte le norme che, in assenza di piu' forti ragioni giustificatrici,
ne  limitino  la  piena  esplicazione".  Con  la  conseguenza che "la
trasformazione  del  dibattimento  in sfilata di soggetti muti, prima
ancora che una violazione dei diritti della difesa o del principio di
obbligatorieta'    dell'azione    penale ...,   e'   la   morte   del
contraddittorio,    la    negazione   della   riforma   dell'art. 111
Costituzione";
        c)  sottolinea,  infine,  il  procuratore  generale nella sua
memoria,  facendosi  carico  di  una possibile obiezione agli effetti
derivanti  dall'accoglimento dell'eccezione proposta, come "l'obbligo
di  rispondere  sui fatti concernenti la responsabilita' di altri non
costituisce   di  per  se'  una  violazione  del  diritto  di  difesa
dell'imputato a cio' chiamato" e, quindi, una "ragione forte", atta a
giustificare,  nell'equilibrio  degli  interessi  costituzionali,  la
compressione  del  principio  del  contraddittorio,  dal  momento che
resterebbero  comunque  "ferme  le  disposizioni  degli artt. 64 e 65
c.p.p.,  da  interpretare  alla  luce  dell'art. 24,  secondo  comma,
Costituzione,   che  impongono  al  giudice  di  fare  rispettare  (e
rispettare  egli stesso) il diritto al silenzio dell'imputato in caso
di  inscindibilita'  delle  dichiarazioni erga alios e di quelle erga
se".  E  cio'  nell'attesa  di  una  auspicabile specifica disciplina
legislativa,  la  quale  sarebbe  certamente  atta a meglio garantire
l'equilibrio   fra   i   sopra   ricordati   interessi   e   principi
costituzionali,  ma  la  cui mancanza non puo' comunque giustificare,
allo stato, la vanificazione di essi o di taluno di essi.
    5.  -  La  questione cosi' come prospettata nel presente processo
dal  rappresentante  dell'accusa  appare  senz'altro rilevante e puo'
essere   altresi'   ritenuta   non   manifestamente   infondata,  con
riferimento  ad entrambe le norme del codice di rito e per violazione
delle norme costituzionali indicate dal proponente, peraltro nei piu'
ristretti  limiti  espressamente  evidenziati  dal giudice milanese e
che,   del  resto,  sono  stati  implicitamente  indicati  anche  dal
procuratore generale in questa sede, attraverso la specificazione che
egli ha comunque effettuato nella propria memoria illustrativa, e che
gia'  sopra  si  e' ricordata, secondo cui sarebbe costituzionalmente
illegittima  l'impossibilita' di assumere come testimoni gli imputati
in  procedimento  connesso e collegato, solamente nell'ipotesi in cui
"gli  stessi  abbiano  reso  in precedenza dichiarazioni erga alios e
limitatamente ad esse".
    Infatti,  una piu' ampia "innovazione", che escluda ab origine, e
quindi  fin  dal  primo  "interrogatorio"  a cui venga sottoposto nel
corso   delle  indagini  preliminari  a  suo  carico,  ovvero  in  un
differente  procedimento penale a carico di altre persone, il diritto
di  un  soggetto  che  rivesta  la  qualita'  di  indagato, o che sia
imputato  o  ne  abbia  in passato assunto la qualifica, ad avvalersi
della  facolta'  di  non  rispondere  alle  domande  che  gli vengano
rivolte,  ancorche'  concernenti l'esclusiva responsabilita' di altri
in ordine al reato a lui attribuito o ad un reato con quello connesso
o  collegato,  non  sembra possa ritenersi imposta dal nuovo "assetto
costituzionale"  conseguente  alla modifica dell'art. 111 e potrebbe,
inoltre,  apparire  in  contrasto  con  il principio "nemo tenetur se
detegere"  (quale  esplicazione  del  piu'  ampio  diritto  di difesa
garantito  dal  secondo  comma  dell'art. 24  Cost.),  che  e'  stato
richiamato   dai   difensori   degli   imputati  in  occasione  delle
osservazioni  svolte  in  merito all'eccezione di incostituzionalita'
proposta dal rappresentante dell'accusa.
    Una simile "innovazione", quindi, non potrebbe essere sicuramente
ricercata   ed   ottenuta   attraverso   l'intervento   del   giudice
costituzionale   impositivo   di   una  disciplina  ricavata  in  via
analogica,  costituendo  essa  piuttosto  un aspetto di un piu' ampio
problema de iure condendo, la cui soluzione - sempre che l'abolizione
del  diritto  al  silenzio  di  chi  sia,  o  sia stato, coimputato o
imputato  in  un  procedimento  connesso  o  collegato venga ritenuta
effettivamente  necessaria  o,  comunque, utile nel mutato quadro del
nostro  processo penale conseguente alla modifica dell'art. 111 della
Costituzione   e,   inoltre,   non   contrastante   con  altre  norme
costituzionali  - deve essere necessariamente trovata dal legislatore
ordinario,  nell'esercizio  dei  propri  poteri  e  doveri  e  con la
discrezionalita' spettantegli in tale ambito.
    Ben diverso appare, invece, il caso in cui un soggetto, avendo la
possibilita'  di  avvalersi  della facolta' di non rispondere a causa
della   propria   qualita'  di  indagato  o  di  imputato,  vi  abbia
volontariamente  e  consapevolmente  rinunciato  ed  abbia  scelto di
rendere   dichiarazioni   accusatorie   coinvolgenti  altre  persone.
Ancorche'  formalmente  indagato  od imputato, tale soggetto finisce,
infatti,  per  assumere,  da  un  punto  di  vista  sostanziale e con
riferimento  a  tali  dichiarazioni,  tutte  le caratteristiche di un
testimone,  sicche'  -  e  sempre  che  le  sue  affermazioni  non si
ritorcano  anche contro di lui a causa della concreta impossibilita',
da  verificare  peraltro  caso  per  caso, di scindere le accuse erga
alios  da  quelle  eventualmente  anche  contra se - appare difficile
comprendere quale sia la ragione per cui egli non possa, a seguito di
tale  scelta  consapevolmente  operata,  assumere  anche i doveri che
incombono  ai  testimoni,  quantomeno  con riferimento all'obbligo di
rispondere.
    Ed  e' proprio questo il caso sottoposto all'attenzione di questo
collegio     e     che     costituisce     l'oggetto    dell'eccepita
incostituzionalita'  del  "diritto al silenzio" che l'attuale sistema
processuale  penale, attraverso le norme di cui agli artt. 197, lett.
a)  e  b), e 210, comma 4, c.p.p., ancora garantisce a tale soggetto,
nonostante  l'intervenuta modifica dell'art. 111 della Costituzione e
gli  effetti  gia' direttamente prodotti da tale norma costituzionale
sulle norme che regolano le modalita' di acquisizione al dibattimento
del contenuto delle dichiarazioni dallo stesso rese in precedenza.
    5.1.  -  Cio'  premesso  e precisato in via generale, affrontando
dapprima   il   problema   circa  la  rilevanza  della  questione  di
costituzionalita'  proposta  nel  presente processo ai fini della sua
definizione,   e'   opportuno   prendere   le   mosse  proprio  dalla
affermazione   secondo   cui   l'introduzione   nella   nostra  Carta
costituzionale, ad opera della legge modificatrice dell'art. 111, del
principio  del  contraddittorio nella formazione della prova, ha reso
impossibile, nel giudizio di rinvio in corso di svolgimento dinanzi a
questa  corte  a  seguito  del  parziale  annullamento disposto dalla
Cassazione  con la sentenza del 18 dicembre 1998, l'acquisizione o il
"recupero", quali prove suscettibili di essere valutate ai fini della
decisione,  attraverso  il meccanismo delle contestazioni a suo tempo
indicato  dalla  Corte costituzionale (sentenza n. 361 del 1998) o in
forza  della disciplina transitoria di cui alla legge n. 35 del 2000,
delle  dichiarazioni  rese  al  pubblico  ministero  nel  corso delle
indagini preliminari dalle persone, imputate in procedimenti connessi
o  collegati,  che  hanno ancora in questa sede confermato la propria
volonta' di avvalersi della facolta' di non rispondere.
    La  tesi  che  qui si sostiene era stata gia' affermata da questo
collegio  in  occasione  delle precedenti udienze, dedicate all'esame
delle  predette  persone  in  conseguenza della disposta rinnovazione
dell'istruttoria   dibattimentale,   e  puo'  ora  essere  senz'altro
ribadita,   in   quanto   non   solo   ha   trovato  consenzienti  il
rappresentante  dell'accusa  ed i difensori di tutti gli imputati, ma
appare  senz'altro supportata, sul piano del diritto, dagli argomenti
che gia' sono stati indicati nei precedenti paragrafi 2 e 3, ai quali
si rinvia.
    Ed  invero,  la  "perdita"  di tali "prove" e l'impossibilita' di
"recuperare"  le  stesse  sul  piano  processuale  in base alle norme
attualmente  in  vigore  costituiscono  sicuramente  un primo profilo
sotto  il quale appare fuori discussione la rilevanza della questione
di costituzionalita' prospettata dal procuratore generale, specie ove
si  consideri che proprio al fine della corretta acquisizione di quel
materiale  probatorio  era  stato  disposto dalla Corte di cassazione
l'annullamento  della sentenza del precedente giudice d'appello ed il
rinvio  ad  altra  sezione  della  stessa  corte  per  la  necessaria
rinnovazione dibattimentale.
    Del  resto,  anche  sullo  stretto  piano  del merito e pur senza
scendere  ad  un  esame particolareggiato, e non necessario in questa
sede, delle singole posizioni soggettive e di ciascuna delle relative
imputazioni,  appare  senz'altro  condivisibile,  per quanto concerne
l'affermazione  della  rilevanza della questione di costituzionalita'
prospettata,  il  generico,  ma  esatto  rilievo  fatto sul punto dal
procuratore  generale  nella  propria  memoria,  ricordando  come  le
dichiarazioni  dei soggetti che dinanzi a questa corte ancora si sono
avvalsi  della  facolta' di non rispondere, ancorche' non decisive ai
fini  del  giudizio,  erano  state  comunque  ritenute  utili  per la
decisione  sia  dai  precedenti  giudici di merito che dalla Corte di
cassazione  che,  nelle  rispettive  sentenze,  hanno  fatto  a  tali
dichiarazioni  ripetuti  richiami. E si puo' qui ancora rilevare come
la  predetta  utilita'  ai  fini del giudizio emerga, con particolare
evidenza,  specie  per  quanto attiene alle dichiarazioni a suo tempo
rese da Tropiano Orsola, le cui affermazioni, relativamente ad alcuni
episodi   e  con  riguardo  a  talune  posizioni  soggettive,  sembra
costituissero l'unico riscontro alle chiamate di correo operate da Di
Benedetto  Montano,  nonche'  per  quanto  concerne  la  chiamata  in
correita'  effettuata,  con riferimento al reato di cui al capo B14),
da  Maresta  Giancarlo e che dallo stesso non e' mai stata confermata
nel contraddittorio con le persone da lui accusate.
    5.2.   -   Passando  alla  valutazione  circa  la  non  manifesta
infondatezza  della  questione proposta - sia pure nei piu' ristretti
limiti  sopra  precisati  e  ricordati  -  si  possono qui senz'altro
richiamare   tutti   gli  argomenti  gia'  addotti  nella  richiamata
ordinanza  del  Tribunale di Milano in data 20 marzo 2000, che questo
collegio  interamente  condivide  e  fa  propri, nonche' le ulteriori
osservazioni   svolte   in   questa  sede  dal  procuratore  generale
proponente, che appaiono logicamente corrette e convincenti.
    Condivisibile  e',  certamente,  l'affermazione  secondo  cui  la
modifica  dell'art. 111  Costituzione  e  l'assoluta  ed inderogabile
centralita'  del  contraddittorio che da essa si ricava sul piano dei
principi  costituzionali ai quali si deve ispirare il processo penale
impone   una   rilettura  delle  norme  che  lo  disciplinano  e,  in
particolare,  per  quanto  specificamente  interessa  in questa sede,
impone  che  venga sottoposta a verifica, alla luce del nuovo assetto
costituzionale,  la  disciplina  attualmente  vigente  del diritto al
silenzio  delle  persone  coimputate  o  imputate in procedimento per
reati  connessi o collegati che abbiano reso nel corso delle indagini
dichiarazioni  erga  alios,  da  un lato, e, dall'altro, quella delle
modalita'  attraverso  cui  tali  dichiarazioni possono eventualmente
assumere  efficacia  probatoria  nel  processo  a carico dei soggetti
accusati.
    Infatti,  il  delicato  punto  di  equilibrio  tra  il diritto al
silenzio,  comunque riconosciuto dall'art. 210 c.p.p. (e prima ancora
dall'art. 197  c.p.p.)  a  coloro  che,  rivestendo  la  qualita'  di
imputati, abbiano fornito e siano, quindi, ancora in grado di fornire
indicazioni utili relativamente a fatti di reato da altri commessi, e
il  diritto di questi ultimi a difendersi, nel contraddittorio, dalle
accuse loro rivolte segretamente dai primi, era stato rinvenuto dalla
Corte  costituzionale  (nella  gia' piu' volte citata sentenza n. 361
del  1998)  in  uno  strumento  processuale  -  il  meccanismo  delle
contestazioni tratto in via analogica dalla norma di cui all'art. 500
c.p.p.,  dettata per l'esame dibattimentale dei testimoni - che, come
gia'  si  e'  detto,  alla  luce  del  "rafforzamento"  dei  principi
stabiliti  in  tema di contraddittorio dal legislatore costituzionale
con la modifica dell'art. 111 della Costituzione, non puo' ormai piu'
trovare applicazione.
    Ci  si  trova,  pertanto,  a  fronte della perdurante inerzia del
legislatore  ordinario,  che  a tutt'oggi ancora non ha provveduto ad
adeguare   le  norme  processuali  a  tali  nuovi  principi,  in  una
situazione  nella  quale, per un verso, rivivono tutte quelle ragioni
che,  secondo i giudici remittenti, inducevano gia' allora a ritenere
costituzionalmente  illegittimo  l'indiscriminato diritto al silenzio
dei  soggetti  esaminati  ai  sensi dell'art. 210 c.p.p., a fronte di
norme  quali  l'art. 3  (sotto  il  profilo  della  ragionevolezza) o
l'art. 112   della  Costituzione  (con  riguardo  all'obbligatorieta'
dell'azione penale ed al conseguente principio di conservazione della
prova,  elaborato  dal  giudice  costituzionale)  e, per altro verso,
appare  ancora  piu'  irragionevole  e contrastante con l'assoluta ed
inderogabile  centralita'  del contraddittorio nella formazione della
prova,  sancita  dal nuovo testo dell'art. 111 della Costituzione, la
scelta  che  il  legislatore ha implicitamente ed in concreto operato
(rimanendo   inerte   nonostante  l'immediato  effetto  dei  principi
prodotti  dalla  citata norma su quelle ordinarie, tra cui certamente
quella dell'art. 513 comma 2 c.p.p., e "sull'intervento additivo" che
su di essa era stato operato dal giudice costituzionale) di sottrarre
totalmente  al contraddittorio - e, quindi, sotto tale profilo, anche
al   diritto   dell'accusato   di   confrontarsi   con  chi  l'accusa
(costituente  esplicazione  del  piu'  generale  diritto  di  difesa,
garantito  dall'art. 24,  secondo  comma,  Cost.)  -,  sia  pure  per
escluderne  l'efficacia probatoria all'infuori dei casi espressamente
previsti  dal  quinto  comma  dell'art. 111  Cost.,  le dichiarazioni
precedentemente  rese  in  un  procedimento  penale  da  soggetti poi
sottoposti  ad esame ai sensi dell'art. 210 c.p.p. e che si avvalgano
della  facolta'  di non rispondere, senza che tale scelta sia imposta
dal  rispetto  di  ragioni  giustificatrici  desumibili  da una norma
anch'essa di rango costituzionale, quale potrebbe essere, ad esempio,
quella  di  cui  al  secondo comma dell'art. 24 Cost, con riferimento
all'esercizio del diritto di difesa da parte di quei soggetti.
    5.2.1.  -  In  particolare, come esattamente ha gia' sostenuto il
tribunale  milanese ed afferma altresi' il procuratore generale nella
propria   memoria,  venuta  meno  la  possibilita'  di  contemperare,
attraverso  il  meccanismo delle contestazioni ai sensi dell'art. 500
c.p.p.  che  era  stato  individuato  dalla  Corte costituzionale, il
principio  del diritto di difesa con quelli di ragionevolezza e della
obbligatorieta'  dell'azione  penale,  sotto  il  particolare profilo
della  conservazione  della prova e della non rimessione della stessa
alla  esclusiva  volonta' dell'imputato in procedimento connesso, non
appare   piu'  possibile  esimersi  dalla  necessita'  di  affrontare
direttamente  il problema circa la conformita' o meno del "diritto al
silenzio",  indiscriminatamente  riconosciuto  a  tale  soggetto  dal
quarto  comma  dell'art. 210  c.p.p.  (in  conformita'  della  regola
generale dettata dall'art. 197 lett. a) e b) c.p.p.), con i princi'pi
costituzionali sopra ricordati.
    E  tale  problema, come esattamente ha evidenziato il proponente,
e'  gia'  stato  affrontato ed implicitamente risolto, quantomeno per
quanto attiene alla sussistenza di una violazione degli artt. 3 e 112
della  Costituzione,  dagli  stessi giudici della Consulta allorche',
nella  motivazione  della  ricordata  sentenza  n. 361 del 1998, essi
sostengono    essere    "privo   di   ragionevole   giustificazione",
"incoeren[te]"   e   tale   da  "pregiudica[re]  la  stessa  funzione
essenziale   del   processo,  che  e' ...  quella  di  verificare  la
sussistenza dei reati oggetto del giudizio e di accertare le relative
responsabilita'",  un sistema, quale e' quello conseguente alla legge
n. 267  del  1997,  nel  quale  "la  utilizzabilita' delle precedenti
dichiarazioni   venga   fatta   dipendere   dalla   scelta  meramente
discrezionale dell'imputato in procedimento connesso di rispondere in
dibattimento  su  fatti concernenti la responsabilita' di altri, dopo
che  il medesimo imputato, pur avendo la facolta' di non rispondere a
norma  dell'art. 210,  comma 4, cod. proc. pen., si era in precedenza
consapevolmente  risolto  a rendere dichiarazioni erga alios." (cosi'
il  testo  della  motivazione  della  citata  sentenza,  in  Gazzetta
Ufficiale, 1a serie speciale, n. 44 del 4 novembre 1998, p. 32).
    Ne',  d'altro  canto,  pare  che  una  esclusione  del diritto al
silenzio   dell'imputato   in   procedimento   connesso  circoscritta
all'ipotesi  in  cui egli abbia consapevolmente e liberamente reso in
precedenza dichiarazioni erga alios e limitatamente alle stesse possa
seriamente  collocarsi  in  contrasto  con  l'esercizio, da parte del
medesimo,  del  diritto  di  difesa  costituzionalmente garantito dal
secondo  comma  dell'art. 24  e,  in  particolare,  con il gia' sopra
ricordato  principio  secondo cui "nemo tenetur se detegere". Vale al
riguardo  quanto ha correttamente evidenziato il procuratore generale
nella  propria  memoria,  osservando che resterebbe comunque fermo il
dovere  per il giudice di rispettare e far rispettare le disposizioni
degli  artt. 64  e  65  c.p.p., che consentono il diritto al silenzio
dell'imputato  in  caso di concreta impossibilita' di scindere, dalle
dichiarazioni   riguardanti  altre  persone,  quelle  concernenti  la
propria  responsabilita'.  E  puo'  essere, inoltre, richiamato anche
quanto  disposto  in  via  piu'  generale  dall'art. 63 c.p.p. e, con
specifico  riferimento  a  chi  venga  assunto in veste di testimone,
dall'art. 198  comma  2  c.p.p.,  che  espressamente esclude che tale
soggetto possa essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe
emergere una sua responsabilita' penale.
    5.2.2.  -  Inoltre,  come  gia' sopra si e' accennato ed e' stato
sostenuto   sia  nell'ordinanza  del  Tribunale  di  Milano  sia  dal
procuratore generale nella propria memoria, quale ulteriore argomento
a   favore  dell'eccezione  proposta,  anche  l'intervenuta  modifica
dell'art. 111   della   Costituzione   che,  stabilendo  la  assoluta
centralita',  nel  nostro  sistema  processuale,  del  principio  del
diritto al contraddittorio e, in particolare, prevedendo fra l'altro,
nel  terzo  comma e con riferimento al processo penale, l'obbligo per
il  legislatore  di  "assicura[re]  che  la  persona  accusata  di un
reato ..., abbia la facolta', davanti al giudice, di interrogare o di
far  interrogare  le persone che rendono dichiarazioni a suo carico",
comporta  certamente una compressione dello spazio costituzionalmente
garantito  al  diritto  al  silenzio in capo ai soggetti esaminati ai
sensi dell'art. 210 c.p.p., quantomeno nelle ipotesi in cui tale loro
diritto  si  pone  in contrasto con quello dell'accusato al confronto
dialettico nella formazione della prova.
    Mantenere  il diritto al silenzio in favore di un coimputato o di
un   imputato  in  procedimento  connesso  o  collegato  che,  agendo
liberamente  e  consapevolmente e, quindi, rinunciando almeno in quel
momento  alla facolta' di non rispondere riconosciutagli dalla legge,
abbia  in  precedenza  reso  delle  dichiarazioni  a  carico di altra
persona nel segreto e senza consentire ad essa di ascoltare le accuse
contro  di  lei  rivolte  e  di replicare alle stesse, costituirebbe,
pertanto,  anche  una  violazione  del  sopra ricordato diritto della
persona  accusata  di un reato al confronto dialettico con il proprio
accusatore,  che e' stato introdotto dall'art. 111 della Costituzione
e  che  non pare possa ritenersi soddisfatto attraverso la previsione
del  semplice  obbligo  di  tale  ultimo  soggetto  di  comparire  al
dibattimento, ove poi questo si risolva, come e' accaduto nel caso di
specie  e  come  finirebbe  per  accadere  senza  l'adeguamento della
normativa  vigente,  nella "sfilata di soggetti muti" descritta nella
memoria del procuratore generale, la quale certamente rappresenta, in
concreto,  come  lo  stesso proponente ancora ha sostenuto, la "morte
del contraddittorio".
    Ne'  argomenti  contro  quanto  si e' appena sostenuto potrebbero
trarsi  dal  rilievo  che  lo  stesso  legislatore costituzionale ha,
comunque,  altresi' previsto l'ipotesi del "silenzio dell'accusatore"
stabilendo,  nella  seconda parte del quarto comma dell'articolo 111,
che "la colpevolezza dell'imputato non puo' essere provata sulla base
di  dichiarazioni  rese  da  chi,  per  libera  scelta,  si e' sempre
volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o
del suo difensore".
    Tale  norma,  infatti,  altro  non  costituisce  se non un logico
corollario    della   affermata   centralita'   del   principio   del
contraddittorio nella formazione della prova, in quanto con essa, nel
bilanciamento fra l'interesse dello Stato all'esercizio della pretesa
punitiva  ed  il diritto dell'accusato al confronto dialettico con il
proprio accusatore, si e' coerentemente fatto prevalere il secondo.
    Ma  proprio tale rinuncia alla pretesa punitiva statuale comporta
che  debbano essere considerati eccezionali i casi in cui si verifica
tale  sottrazione  al  confronto dialettico con l'accusato e, quindi,
che  essi  o siano determinati da situazioni "patologiche", dovute ad
un  rifiuto di rispondere, comunque contrario alla legge e sanzionato
-  o  sanzionabile,  in una prospettiva de iure condendo -, che venga
opposto da colui che sia stato chiamato nel processo penale a rendere
dichiarazioni  erga  alios,  sia  che  egli  rivesta  la  qualita' di
coimputato  o  imputato  in procedimento connesso o collegato sia che
abbia   la  veste  di  testimone  (come  e'  dato  desumere  dall'uso
dell'espressione  generica  "chi" nel testo costituzionale, contro la
quale  non  pare possa valere il successivo termine "interrogatorio",
che  del  resto  ripete l'espressione gia' usata nel precedente comma
dello  stesso  art. 111  della  Costituzione  e  che  e'  volutamente
generica  e,  per  giunta,  corrispondente  al  termine  usato  nella
Convenzione  europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo alla quale
la  novella  costituzionale  si e' ispirata), ovvero, nell'ipotesi in
cui  il rifiuto di sottoporsi "all'interrogatorio" costituisca invece
l'esercizio  di  un  vero  e  proprio  diritto  al silenzio, che tale
diritto  trovi  la  propria  ragione  giustificatrice in un principio
anch'esso    dotato    di   rilevanza   sul   piano   costituzionale,
contrapponibile  al  diritto-dovere dello Stato di perseguire i fatti
considerati  per  legge  quali reati e tale da potere ragionevolmente
prevalere su di esso.
    Diversamente,  la  codificazione  - o la conservazione nel nostro
sistema  processuale  penale,  ove  gia'  previsto  -  del diritto al
silenzio  in capo al dichiarante erga alios, si' da rendere possibile
in  caso  di  esercizio  di tale diritto l'applicazione del principio
stabilito  in  via  eccezionale  nella seconda parte del quarto comma
dell'art. 111  Cost.,  non  potrebbe ritenersi consentita e dovrebbe,
anzi,  considerarsi  vietata  per  contrasto  con  il  principio  del
contraddittorio, espressamente stabilito dalla prima parte del quarto
comma, con le uniche deroghe di cui al quinto comma, quale regola per
la  formazione  della  prova del processo penale e, inoltre, previsto
come  regola  generale  a cui si deve ispirare ogni processo anche da
tutti  gli  altri  nuovi commi introdotti con la novella del 1999 dal
legislatore costituzionale nel citato articolo 111.
    Ed invero, non pare possibile rinvenire nella nostra Costituzione
alcun  principio  idoneo  a  giustificare  il  diritto al silenzio in
ipotesi  quale  e' quella di cui ci si occupa in questa sede e che ha
formato  oggetto  dell'eccezione  di  incostituzionalita' delle norme
processuali  penali  che la disciplinano, dal momento che, come sopra
gia'  si e' detto, l'imposizione ad un coimputato o ad un imputato in
procedimento   connesso   o   collegato  dell'obbligo  di  rispondere
esclusivamente  su  fatti  concernenti altra persona e sui quali egli
abbia precedentemente e liberamente reso dichiarazioni non sembra che
possa  in concreto violare il principio "nemo tenetur se detegere" e,
piu'  in  generale,  il diritto di difesa garantito dal secondo comma
dell'art. 24  Cost.,  sempre che l'acquisizione di tale prova avvenga
nel  rispetto  di  quelle  norme  che  escludono  la  possibilita' di
richiedere  e,  comunque, di utilizzare dichiarazioni rese contra se.
Con  la  conseguenza  che  va  ritenuta  non manifestamente infondata
l'eccezione  di incostituzionalita' proposta dal procuratore generale
anche  con  riferimento  ai  principi  di  cui  al novellato art. 111
Costituzione.
    5.2.3.  -  E  si  puo',  infine,  ancora  osservare che mantenere
inalterata   l'attuale   estensione   del  diritto  al  silenzio  del
coimputato  o  dell'imputato  in  procedimento  connesso  o collegato
potrebbe   altresi'   comportare  una  ingiustificata  disparita'  di
trattamento   fra  le  parti,  dal  momento  che  parrebbe  possibile
utilizzare  le  dichiarazioni  precedentemente  rese  al di fuori del
contraddittorio,   nell'ipotesi  e  per  quella  parte  in  cui  esse
risultino  in concreto favorevoli all'imputato (come e' dato desumere
dalla  lettera  della  seconda  parte  del quarto comma del novellato
art. 111  Cost.,  che esclude l'utilizzabilita' di tali dichiarazioni
solo  quale prova della sua "colpevolezza", lasciando peraltro aperto
il  problema  circa lo strumento processuale attraverso il quale tale
prova  potrebbe  essere introdotta nel fascicolo per il dibattimento:
forse  a  seguito  di un discutibile consenso "limitato" e "parziale"
dell'imputato,  prestato  ai  sensi  del  quinto  comma dell'art. 111
Cost.),  mentre  l'esercizio  indiscriminato  del diritto al silenzio
(sia  nel  dibattimento,  ma anche nell'ipotesi che, in previsione di
cio',  si ricorra allo strumento dell'incidente probatorio) finirebbe
per  comportare,  per  la  parte  cui  spetta l'esercizio dell'azione
penale   ed   il   compito   di   sostenere   l'accusa  in  giudizio,
l'impossibilita'  di  introdurre  nel  dibattimento  il contributo di
indagini  che  la stessa aveva peraltro legittimamente svolte e sulla
base   delle  quali  era  stata  persino  possibile,  ricorrendone  i
presupposti,  l'applicazione di provvedimenti cautelari nei confronti
dell'accusato  e  si  era  potuto  richiedere ed ottenere il rinvio a
giudizio   del   medesimo,   nella  ragionevole  aspettativa  che  le
dichiarazioni  precedentemente  rese  dall'accusatore venissero dallo
stesso poi ripetute nel contraddittorio.
    5.3.  -  Ritenuta  pertanto,  per  le ragioni sin qui esposte, la
rilevanza   e   la  non  manifesta  infondatezza,  nei  limiti  sopra
evidenziati,  della  questione proposta dal procuratore generale, non
resta  che affidare al giudizio della Corte costituzionale, con tutte
le  conseguenze  di rito, la questione di legittimita' delle norme di
cui  agli  artt. 197  lett.  a)  e b) e 210, comma 4, c.p.p., perche'
verifichi  se  veramente sussista l'ipotizzato contrasto delle stesse
con  gli  artt. 3,  24,  111  e  112 della Costituzione, in quanto le
predette  norme  del  codice  di  rito, escludendo la possibilita' di
assumere  come  testimoni  e riconoscendo, comunque, ai coimputati ed
agli  imputati di reati connessi o collegati la facolta' di astenersi
dal  rispondere relativamente ai fatti concernenti la responsabilita'
di   altri  sui  quali  essi  abbiano  in  precedenza  liberamente  e
consapevolmente risposto, violerebbero il principio di ragionevolezza
(art. 3  Cost.),  quello  del  contraddittorio nella formazione della
prova  (art. 111 Cost.) e, sotto tale profilo, anche il piu' generale
principio  secondo  cui  la difesa costituisce diritto inviolabile in
ogni  stato  e  grado  del  procedimento  (art. 24 Cost.), nonche' il
principio  dell'obbligatorieta' dell'azione penale (art. 112 Cost.) e
quello  dallo stesso ricavabile di conservazione della prova e di non
dispersione  della  stessa per effetto della esclusiva volonta' delle
parti.