ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 646, ultimo
comma,  del  codice penale, promosso con ordinanza emessa il 2 maggio
2000 dal Tribunale di Fermo nel procedimento penale a carico di Luigi
Spinozzi, iscritta al n. 595 del registro ordinanze 2000 e pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica, 1a seriespeciale, n. 43
dell'anno 2000.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri.
    Udito  nella  camera  di consiglio del 7 febbraio 2001 il giudice
relatore Franco Bile.
    Ritenuto  che il Tribunale di Fermo, nel corso di un procedimento
penale, ha sollevato - in riferimento all'art. 3 della Costituzione -
la  questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 646, ultimo
comma,  del  codice  penale,  nella  parte  in cui, per il delitto di
appropriazione   indebita,   prevede   la   procedibilita'  d'ufficio
qualoraconcorra   alcuna   delle   circostanze   indicate  dal  n. 11
dell'art. 61 cod. pen.;
        che  il  rimettente  -  premesso che il giudizio penale a quo
pende  a  carico  di  una  persona,  che, avendo ricevuto da altra un
ricevitore  guasto  per  ripararlo,  se ne era appropriato al fine di
procurarsi  un  ingiusto profitto; che era contestata l'aggravante ex
art. 61, n. 11, cod. pen., trattandosi di fatto commesso con abuso di
prestazione  d'opera;  e che la parte offesa aveva rimesso la querela
"con  contestuale  accettazione dell'imputato" - dichiara di trovarsi
nell'impossibilita'  di  definire il giudizio indipendentemente dalla
soluzione della proposta questione di legittimita' costituzionale;
        che,  circa la non manifesta infondatezza della questione, il
rimettente  rileva  che, avendo l'art. 12 della legge 25 giugno 1999,
n. 205  (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e
modifiche  al sistema penale e tributario) reso procedibile a querela
il   furto   aggravato   dalla   medesima   circostanza,  si  sarebbe
"determinata   un'incomprensibile   disparita'   di  trattamento  tra
fattispecie  criminose  analoghe  a  sfavore di chi commette il reato
piu' grave", ossia il furto;
        che,  anche  qualora  i  due  delitti  si reputassero di pari
gravita',   non  sussisterebbero  "ragionevoli  motivi  di  una  loro
differente  disciplina  sotto il profilo della procedibilita'", posto
che  essa  sul  piano pratico darebbe luogo a situazioni analoghe, le
quali,  in ipotesi di remissione della querela da parte della persona
offesa,  riceverebbero irrazionalmente trattamenti giuridici diversi,
come  accadrebbe nel caso in cui la sussumibilita' del fatto nell'una
o   nell'altra   fattispecie   criminosa   dipendesse  dal  carattere
condizionato o meno dell'affidamento del bene ad un soggetto;
        che  e'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio
dei  ministri,  tramite l'Avvocatura generale dello Stato, sostenendo
l'infondatezza   della   questione,   anzitutto   sull'assunto  della
disomogeneita'  delle situazioni poste a confronto dal rimettente, ed
in  secondo luogo sul rilievo che la disciplina della perseguibilita'
di  un  reato  aquerela implicherebbe opzioni di politica legislativa
non necessariamente fondate sul disvalore delle condotte incriminate,
ma riferite talvolta "ad altre esigenze ritenute meritevoli di tutela
da   parte  del  legislatore",  quali,  nella  specie,  lo  scopo  di
decongestionare   il   funzionamento  della  "macchina  giudiziaria",
essendo  statisticamente  il furto uno dei reati piu' ricorrenti, per
il   quale   il   procedimento   penale  si  conclude  sovente  senza
l'individuazionedell'autore.
    Considerato  che  recentemente questa Corte (ordinanza n. 354 del
1999)  ha  dichiarato  la  manifesta  infondatezza della questione di
legittimita' costituzionale della norma impugnata, sottolineando che,
secondo  la  propria  costante e risalente giurisprudenza, "la scelta
del   modo   di   procedibilita'  dei  reati  coinvolge  la  politica
legislativa   e   deve,   quindi,  rimanere  affidata  a  valutazioni
discrezionali   del   legislatore,   presupponendo  bilanciamenti  di
interessi  e  opzioni  di  politica criminale spesso assai complessi,
sindacabili  in  sede di giudizio di legittimita' costituzionale solo
per vizio di manifesta irrazionalita'" ed ha escluso, alla stregua di
questo   canone   di   valutazione,   che  fosse  ravvisabile  alcuna
irragionevolezza   nella   scelta   legislativa   di   prevedere   la
procedibilita'  d'ufficio, "in quanto l'interversione del possesso di
cose  altrui  che abbia luogo in violazione del vincolo eminentemente
fiduciario  scaturente  dai  rapporti di cui all'art. 61, n. 11, cod.
pen., assume un disvalore sociale particolare";
        che   il  rimettente  dubita  ora  della  ragionevolezza  del
mantenimento di siffatta perseguibilita' d'ufficio assumendo che essa
sarebbe  venuta  meno,  per  effetto della recente eliminazione della
perseguibilita'  d'ufficio  del  furto  nel  caso di ricorrenza della
stessa aggravante di cui al n. 11 dell'art. 61;
        che  il  primo profilo da cui si dovrebbe desumere la lesione
del  principio di ragionevolezza, cioe' lamaggiore gravita' del furto
rispetto  all'appropriazione  indebita  in  caso di concorrenza della
suddetta  aggravante,  non  solo  e'  enunciato  in  modo apodittico,
derivando   dal   mero   rilievo   che   il  furto  suppone  il  c.d.
impossessamento  della  cosa altrui mediante sottrazione, ma - tenuto
conto  che  l'incidenza  dell'aggravante  non  puo'  che operare allo
stesso  modo - appare smentito dal confronto fra le pene edittali, il
quale  evidenzia  che  i  due  reati, nella configurazione come reati
semplici,  sono  puniti  con  la reclusione nella stessa misura, onde
l'irrilevanza   delle   differenze  riscontrabili  quanto  alla  pena
pecuniaria,   fissata  per  l'appropriazione  indebita  senza  limite
minimo,  a  differenza  che  per  il furto, e per quest'ultimo con un
limite massimo minore rispetto all'altro reato;
        che   il   secondo   profilo   da   cui   il   rimettente   -
subordinatamente  ammettendo  la pari gravita' dei due reati - desume
la  lesione  del  principio  della  ragionevolezza,  cioe' quello del
differente   trattamento   di   fattispecie   che   essendo  analoghe
meriterebbero  identica  disciplina,  appare  inconferente, in quanto
poggia    sull'erroneopresupposto   che   la   discrezionalita'   del
legislatore  nella  previsione  della  procedibilita'  d'ufficio  o a
querela  di  un reato debba basarsi solo sul profilo della maggiore o
minore gravita', onde, a parita' di gravita' di due reati diversi, si
debba estrinsecare con la previsione di una regola identica;
        che, invece, gia' da tempo (ord. n. 27 del 1971) questa Corte
ha  precisato  che  la  perseguibilita'  d'ufficio di un reato non e'
necessariamente in relazione alla gravita' di esso ed ha sottolineato
che  tra  le molteplici esigenze che il legislatore puo' considerare,
nell'esercizio  della  discrezionalita'  che  in  materia  e'  a  lui
riservata,  vi puo' anche essere quella di assicurare - attraverso il
meccanismo  della  perseguibilita'  a  querela  -  una  significativa
deflazione   del  lavoro  giudiziario,  in  ragione  della  rilevante
incidenza statistica del reato (ord. n. 294 del 1987);
        che,  come  emerge  dai  lavori  parlamentari, proprio questa
risulta   essere   stata   l'esigenza   perseguita  in  concreto  dal
legislatore  con  la  norma  che  il  rimettente  assume come tertium
comparationis;
        che,  pertanto,  il legislatore, mantenendo la procedibilita'
d'ufficio  dell'appropriazione indebita nel caso previsto dalla norma
impugnata,  ha fatto legittimo esercizio della discrezionalita' a lui
riservata  in  materia  e,  dunque, la sollevata questione dev'essere
dichiarata manifestamente infondata.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87  e  9,  secondo  comma,  delle  norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.