IL TRIBUNALE

    In relazione al procedimento n. 456/1998 r.g. trib. nei confronti
di  Pasqualone  Sandro  piu'  altri solleva d'ufficio la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  195,  comma quarto, c.p.p. -
cosi'  come  recentemente modificato dall'art. 4 della legge 1o marzo
2001,  n. 63  (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 22 marzo 2001,
n. 68)  -, per violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione,
e  cio'  nella parte in cui vieta la testimonianza degli ufficiali ed
agenti   di   polizia   giudiziaria  in  ordine  al  contenuto  delle
dichiarazioni  acquisite  da  testimoni  con le modalita' di cui agli
artt.  351  e  357,  secondo  comma,  lett.  a)  e  b), del codice di
procedura penale.
    A tal fine, emette la seguente ordinanza.
    La  questione  di  legittimita'  costituzionale  cosi' come sopra
articolata,  e  sollevata  all'odierna  udienza, viene prospettata in
ragione del mutato panorama normativo derivante dalla recente entrata
in  vigore  della  legge  n. 63/2001  che,  in attuazione della legge
costituzionale di riforma dell'art. 111 della Costituzione, ha inteso
informare   il   nostro   ordinamento  processuale  ai  principi  del
cosiddetto  "giusto  processo", che impongono, per come e' noto e per
disposizione di rango costituzionale, che ogni procedimento penale si
svolga  nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parita', e
davanti ad un giudice terzo ed imparziale.
    Del  resto,  lo  stesso  primo comma del su citato art. 111 della
Costituzione precisa, in via generale, che "la giurisdizione si attua
mediante  il  giusto  processo  regolato  dalla legge" e, a tal fine,
appunto,  e  stata  promulgata  la  predetta legge del 1o marzo 2001,
n. 63,  la  quale,  tra i numerosi precetti normativi di modifica del
quadro processuale previgente, ha inserito - tra i 26 articoli di cui
si  compone  -  con  l'art. 4, una rilevante modifica legislativa del
quarto comma dell'art. 195 c.p.p., il cui precedente tenore normativo
e'  stato  oggi  cosi'  sostituito:  "Gli  ufficiali  e gli agenti di
polizia   giudiziaria   non   possono  deporre  sul  contenuto  delle
dichiarazioni  acquisite  da  testimoni  con le modalita' di cui agli
artt.  351  e  357, secondo comma, lett. a) e b). Negli altri casi si
applicano le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 del presente articolo".
    La  suddetta  modifica normativa, in altre parole, vieta - e solo
in  quei  casi  espressamente  indicati - la cosiddetta testimonianza
indiretta  degli  agenti  ed  ufficiali  di  polizia  giudiziaria: in
ragione  di  cio' all'odierna udienza, nel corso dell'esame dei testi
m.llo  Cannella  e  Lauria  nel  mentre  gli  stessi si accingevano a
deporre  sulle dichiarazioni assunte dalla parte offesa Khtibari Ali'
in  sede  di  denuncia,  venivano  ripetutamente interrotti da questo
tribunale, su legittima istanza delle parti, che evidenziavano a piu'
riprese  il  divieto  in  capo  ai  predetti verbalizzanti di rendere
testimonianza indiretta, e cio' in ossequio al nuovo e vigente regime
processuale che governa questo tipo di deposizioni.
    Il  collegio,  quindi,  invitati i testi ad astenersi dal deporre
sulle  circostanze su cui stavano riferendo, avendole essi apprese da
un'altra persona in sede di denuncia (seppure della stessa indicavano
compiutamente le generalita', nonche' i tempi e modi della escussione
nel corso delle indagini preliminari) sollevava la presente questione
di  legittimita'  costituzionale  che si reputa rilevante ai fini del
decidere e non manifestamente infondata per le seguenti ragioni:
        va   preliminannente   precisato,  in  fatto,  che  l'odierno
giudizio,  instaurato  dall'ufficio di procura di Palmi nei confronti
di  Pasqualone  Sandro  piu'  altri  (cui e' stato oggi riunito altro
procedimento recante il n. 449/1999 r.g. trib. a carico di Pasqualone
Vincenzo  piu'  altri)  ha  ad  oggetto  una  serie  di delitti che i
predetti  imputati  avrebbero compiuto in tempi diversi in esecuzione
di  un  medesimo disegno criminoso ai danni del suddetto denunciante,
nonche' delle di lui figlie a nome Khtibari Hanane e Madiha. Trattasi
di  fatti  che  vanno  dal  tentato omicidio commesso con il mezzo di
un'arma,  alle  lesioni aggravate, a minacce aggravate, violazione di
domicilio,  ingiurie,  tentata estorsione aggravata e rapina; delitti
tutti  maturati  in un contesto di elevata conflittualita' che appare
configurarsi  tra  i  due  nuclei familiari Pasqualone da una parte e
Khtibari, dall'altra.
    Fonti   di   prova  ammesse  dal  tribunale  sono  una  serie  di
verbalizzanti (tra cui i suddetti marescialli), meglio indicati nella
lista  del  p.m.  e  che, nel corso delle indagini preliminari, hanno
acquisito   la  denuncia  di  Khtibari  Ali'  e  sentito  a  sommarie
informazioni  le di lui figlie in qualita' di persone offese, nonche'
altri testimoni, questi ultimi non ancora sentiti.
    Rileva  questo  collegio  che - indipendentemente dalla possibile
futura  escussione  dei  testimoni  e  dei  denuncianti  dell'odierno
processo  -  il divieto imposto a carico degli ufficiali ed agenti di
polizia giudiziaria di rendere testimonianza indiretta nei termini di
cui  al  quarto  comma  dell'art.  195 c.p.p., che rende estremamente
difficoltosa  la  cognizione  dei  fatti  di  causa,  sia  in  aperto
contrasto  innanzitutto con l'art. 3 della Costituzione che riconosce
una  posizione di uguaglianza, a parita' di condizioni, nei confronti
di  tutti  i  cittadini  davanti  alla  legge.  A cio' si aggiunga un
ulteriore  profilo  di  irragionevolezza  che  si  coglie nella nuova
formulazione  normativa  del  citato  comma  4  dell'art. 195 c.p.p.,
laddove  esso  vieta  solo alcuni tipi di testimonianza indiretta dei
cosiddetti  verbalizzanti  (quelle  cioe' relative alle dichiarazioni
dai  medesimi  acquisite  da  testimoni  con le modalita' di cui agli
artt. 351  e 537, comma 2, lett. a e b), consentendo, invece, la loro
testimonianza  indiretta  in  tutti  "gli altri casi", che includono,
comunque,   solo  alcune  ipotesi  residuali,  peraltro,  di  incerta
individuazione.
    Non  si  comprendono, in altre parole, le ragioni per le quali un
pubblico  ufficiale  che ha svolto le indagini e che in forma diretta
si e' occupato dell'escussione di un testimone nella fase antecedente
al  dibattimento non possa poi deporre sul contenuto di quelle stesse
dichiarazioni  sulle  quali,  invece,  qualunque  altro  cittadino di
questo  Stato - che sia naturalmente diverso dagli ufficiali o agenti
di  polizia  che  hanno  proceduto  alla  raccolta di quelle medesime
dichiarazioni   testimoniali  -  puo',  ed,  anzi,  deve  deporre  al
dibattimento.
    Il  divieto  di  rendere  testimonianza  di  cui si diceva appare
ancora  piu' in contrasto con il precetto normativo di cui all'art. 3
della  Costituzione  in  ragione  del  fatto  che  gli  agenti  e gli
ufficiali  di  polizia  giudiziaria  sono  provvisti  di  capacita' a
testimoniare,   ex  art.  196  c.p.p.,  tant'e'  che  essi  non  sono
ricompresi  espressamente nelle tassative ipotesi di incompatibilita'
a  rendere  testimonianza  di  cui all'art. 197 c.p.p., nonostante la
recente   modificazione   normativa  che  anche  questo  articolo  ha
registrato per effetto della nuova legge n. 63/2001.
    Ma  vi  e'  di  piu':  ed,  infatti,  per  come  si  accennava in
precedenza,    si    ravvisa   ancora   un   ulteriore   profilo   di
irragionevolezza,  anch'esso  censurabile ex art. 3 Cost., laddove si
vieta  la  testimonianza  indiretta  dei  verbalizzanti  in quei casi
specificamente  indicati,  consentendola, invece, "negli altri casi";
dizione, quest'ultima, che risulta di difficile comprensione circa la
portata    della    sua   applicazione,   quanto   meno   in   ordine
all'individuazione del tipo di deposizioni, rese da testimoni in sede
di  indagini  preliminari,  e su cui i verbalizzanti potrebbero, poi,
deporre  al  dibattimento:  il  pensiero corre, ad esempio, alle sole
dichiarazioni che essi potrebbero occasionalmente percepire in quanto
rese  dai testimoni in sede di perquisizione, sequestro, ispezione e,
quindi,  al  di  fuori  di  un verbale di sommarie informazioni ed in
occasione   dell'espletamento   di   quelle   attivita'   di  polizia
giudiziaria indicate nelle residue lettere di cui all'art. 357 c.p.p.
    Non  si'  comprende,  pertanto,  quale  logica  abbia  seguito il
legislatore,  nell'avvalersi  della  discrezionalita' di cui dispone,
nel  distinguere  le ipotesi in cui verbalizzanti possono deporre, da
quelle  diverse  ipotesi in cui, invece, essi non possono deporre sul
contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni.
    E  cio'  appare  ancor  piu'  irragionevole in considerazione dei
precetti  costituzionali  del  giusto  processo,  di cui all'art. 111
della Costituzione, che impongono il contraddittorio nella formazione
della  prova, vietandosi solo che un imputato possa essere condannato
sulla  base  di  dichiarazioni  rese da chi, per libera scelta, si e'
sempre   volontariamente   sottratto   all'interrogatorio   da  parte
dell'imputato  o del suo difensore: orbene, nel caso di specie, e' la
stessa  legge  ordinaria che impone al verbalizzante di non deporre e
cio'  anche  ove  entrambe  le  parti  del processo lo volessero e ne
facessero espressa richiesta.
    Quest'ultimo  profilo  innesca,  inoltre, conseguenze processuali
ancor piu' paradossali ed irragionevoli se solo si pensi al fatto che
sia  la  difesa che l'accusa non possono richiedere al giudice che il
verbalizzante    deponga   in   dibattimento   -   e,   quindi,   nel
contraddittorio  delle  parti - sul contenuto di dichiarazioni da lui
acquisite  dai  testimoni  in  sede  di  indagini preliminari, mentre
possono,  invece,  accordarsi  ex  art.  493,  comma  3,  c.p.p.  per
acquisire  l'informativa  di reato redatta in precedenza dallo stesso
verbalizzante e nel corpo della quale sono contenute le dichiarazioni
testimoniali da questi acquisite durante le indagini.
    Reputa,  quindi,  questo collegio che il divieto di testimonianza
indiretta,  cosi' come configurato dal rinovellato art. 195, comma 4,
c.p.p,  contrasti  anche  con  il principio del contraddittorio nella
formazione  della  prova  di  cui  all'art.  111  della Costituzione,
laddove  e'  consentita  processualmente l'acquisizione di un atto di
indagine  preliminare  -  qual'e'  l'informativa  di reato contenente
certe dichiarazioni assunte dal verbalizzante durante la fase segreta
delle indagini preliminari - mentre e' vietata l'esposizione pubblica
da   parte   di   quest'ultimo   del  contenuto  di  quelle  medesime
dichiarazioni,  che  sarebbe,  quindi,  piu'  congruo  e  ragionevole
acquisire  al dibattimento a seguito di un pubblico confronto; il che
non  e',  invece,  ammissibile,  per come si diceva, anche se cio' se
fosse  coralmente  richiesto al giudice da tutte le parti processuali
ed anche laddove questa escussione potesse rivelare elementi preziosi
ai   fin   dell'accusa  e,  soprattutto,  della  stessa  difesa,  non
altrimenti  acquisibii  con  la  mera  produzione dell'informativa di
reato:  si  pensi solo al fatto che, a mente del vigente quarto comma
di  cui  all'art.  195 c.p.p., e' vietato al verbalizzante rendere in
dibattimento qualsiasi dichiarazione che lo stesso abbia acquisito in
sede  di  indagini  preliminari  da  testimoni,  anche se trattasi di
persone che, successivamente, siano decedute, siano divenute incapaci
o  si  siano  rese  irreperibili;  col  che  potrebbero  disperdersi,
soprattutto  a  danno dell'imputato, profili chiarificatori attinenti
al contenuto dei verbali di quelle persone di cui si e' appena detto,
prodotti al dibattimento ex art. 512 c.p.p., specie ove detti profili
siano  connessi ad una succinta o imprecisa verbalizzazione di quelle
medesime  dichiarazioni,  non  piu'  assumibili  in  forma diretta in
dibattimento  a  cagione,  appunto,  della  morte,  irreperibilita' o
sopravvenuta incapacita' delle persone che le hanno rese.
    Cosi'  come  irreversibile  sarebbe  la  dispersione dei mezzi di
prova,  stante la vigenza del suddetto divieto di deporre, laddove il
verbalizzante  avesse  appreso  notizie  utili  per  le  indagini dal
testimone in punto di morte, con impossibilita' materiale, quindi, di
tradurre   quelle   stesse   dichiarazioni  in  un  verbale,  neppure
producibile al dibattimento ex art. 512 c.p.p. perche' mai redatto.
    Il  divieto  di  deporre  in commento, inoltre, appare ancor piu'
irragionevole  ed  ingiustificato  ove  il teste di riferimento e dal
quale  il  verbalizzante  abbia acquisito la dichiarazione in sede di
indagini abbia gia' deposto al dibattimento e non si sia rifiutato di
rispondere,   con   cio'  comprimendosi,  senza  alcuna  apprezzabile
ragione,  lo  stesso  diritto  alla prova di cui dispongono le parti:
sarebbe  stato, infatti, piu' semplice e coerente, nonche' rispettoso
dei principi costituzionali di uguaglianza, del contraddittorio nella
formazione  della  prova  e della conservazione delle stesse fonti di
prova al fine della ricerca della verita', prevedere espressamente la
sanzione  di  inutilizzabilita'  della  testimonianza  indiretta  del
verbalizzante   (che  peraltro  discende  direttamente  dalla  stessa
Costituzione) ove il teste di riferimento, per qualunque ragione, non
avesse deposto o si fosse rifiutato di rispondere.
    Per i complessi risvolti che discendono da un siffatto divieto di
rendere   testimonianza,  reputa,  quindi,  questo  collegio  che  il
suddetto  comma  4  dell'art. 195 c.p.p., violi anche l'art. 24 della
Costituzione,  ravvisandosi  rilevanti  profili di compromissione dei
diritti  della pubblica e privata difesa (che comprende, cioe', anche
gli interessi della parte civile).
    Si  aggiunga, infine, che la questione oggi proposta assume ancor
piu' rilievo laddove i fatti su cui i verbalizzanti devono deporre, e
che  hanno  formato  oggetto delle loro investigazioni - come avviene
nel   caso di specie -   siano   direttamente  interconnessi  con  le
dichiarazioni  dei  testimoni  o  denuncianti  sui  quali  gli stessi
inquirenti  non  possono deporre. Tutto cio' si risolve in un divieto
riflesso   a   carico   del  giudice  di  effettuare  approfondimenti
istruttori su circostanze che, se non adeguatamente chiarite gia' nel
corso  della  deposizione  dei  verbalizzanti, potrebbero alterare la
corretta  percezione  dei fatti di causa, con la conseguenza che, ove
il  suddetto  giudice dovesse accorgersi a seguito dell'audizione dei
testimoni  e denuncianti di non aver approfondito con i verbalizzanti
alcune  questioni,  che dal loro esame erano sfuggite, e' costretto a
richiamarli - come sicuramente dovra' avvenire nel processo di cui ci
si   occupa   -   con   compromissione  del  principio  di  rilevanza
costituzionale  che  impone  al  processo una durata ragionevole, che
certamente  non  e'  assicurabile  in  via  generale, soprattutto nei
processi dove vi sono parti civili costituite e dove esse non possono
essere  escusse  se  non "appena terminata l'assunzione delle prove a
carico  dell'imputato",  in  quanto parti private, ai sensi dell'art.
150 disp. att. c.p.p.
    Del    resto    si    rammenta    che    analoga   questione   di
incostituzionalita',    sollevata    in    relazione   all'originaria
formulazione   codicistica   dello  stesso  art.  195  c.p.p.,  venne
affrontata  dalla  stessa  Corte  costituzionale con la nota sentenza
n. 24  del  31  gennaio  1992,  con  la  quale  si dichiarava appunto
l'incostituzionalita' dell'art. 195, comma 4 c.p.p, per contrasto con
l'art.  3 della Costituzione, laddove in quell'articolo ed in termini
piu'  assoluti  degli  odierni, si vietava la testimonianza indiretta
degli  ufficiali  ed  agenti di polizia giudiziaria: vero e', quindi,
che  quella  sentenza,  fu pronunciata in un contesto normativo ancor
piu'  rigido dell'attuale, pero' e' pur vero che le linee di fondo di
quel  ragionamento condotte allora dalla suprema Corte appaiono ancor
oggi  valide ed attuali, specie alla luce dei nuovi precetti relativi
al  giusto  processo  di  cui all'art. 111 della Costituzione e prima
citati.
    Ritiene  conclusivamente  questo  collegio  che  la  questione di
legittimita'  costituzionale  cosi'  come  sopra  formulata  e per le
ragioni prima prospettate sia, quindi, rilevante ai fini del decidere
e  non  manifestamente infondata e, per l'effetto, ai sensi dell'art.
23  della legge dell'11 maggio 1953, n. 87, si dispone la sospensione
dell'odierno  giudizio,  nonche' la trasmissione di quest'ordinanza e
di   tutti  gli  atti  processuali  alla  Corte  costituzionale,  con
notifica,  altresi',  del  presente  provvedimento  -  di  cui si da'
lettura  alle parti in pubblica udienza - al Presidente del consiglio
dei ministri ed ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.