IL TRIBUNALE All'udienza del 19 giugno 2001 ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 69770 del ruolo generale affari contenziosi dell'anno 1999, vertente tra E.G.A. - Esercizi Grandi Alberghi S.r.l. - in persona del legale rappresentante pro tempore - elettivamente domiciliata in Roma, alla via Boezio, n. 6, presso lo studio degli avv.ti Ettore Paparazzo e Marco Bignardi, che la rappresentano e difendono in virtu' di mandato a margine dell'atto di appello, appellante e Campana Anna, elettivamente domiciliata in Roma, alla via Carlo Poma, n. 2, presso lo studio dell'avv. G. Sante Assennato che la rappresenta e difende in virtu' di mandato a margine del ricorso introduttivo di primo grado, appellata. Con ricorso al pretore di Roma, depositato il 10 luglio 1998, Campana Anna esponeva che aveva lavorato alle dipendenze della E.G.A. S.r.l. dal 1 marzo 1982 al 30 giugno 1997; che, in tale data, era stata licenziata per raggiunti limiti di eta', essendo ella nata il 30 giugno 1937 e non avendo presentato alcuna istanza di prosecuzione del rapporto; che aveva impugnato il licenziamento ed esperito invano il tentativo di conciliazione. Tanto premesso in fatto, la Campana deduceva che il recesso era illegittimo siccome privo di giusta causa o giustificato motivo non avendo alcun rilievo la circostanza che ella avesse compiuto il sessantesimo anno di eta' e non avesse presentato domanda di prosecuzione del rapporto. Con sentenza n. 498/1988 la Corte costituzionale - deduceva la ricorrente - aveva dichiarato illegittimo l'art. 4 della legge n. 903/1977 nella parte in cui subordinava all'esercizio di un'opzione il diritto delle donne, in possesso dei requisiti per il diritto alla pensione di vecchiaia, di continuare il rapporto fino al raggiungimento degli stessi limiti di eta' previsti per gli uomini. Poiche' all'epoca del licenziamento il limite di eta' per il pensionamento di vecchiaia per gli uomini era stabilito al sessantatreesimo anno di eta', non essendo necessaria alcuna opzione, in virtu' del principio affermato dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 498/1977 - sosteneva la ricorrente - ella aveva diritto alla prosecuzione del rapporto fino al sessantatreesimo anno di eta'. Chiedeva, quindi, che, accertata l'illegittimita' del licenziamento perche' privo di giusta causa o giustificato motivo, venisse ordinata alla Societa' la reintegrazione nel posto di lavoro con le ulteriori conseguenze di legge, ovvero, in subordine, venisse condannata la E.G.A. a riassumerla o a corrisponderle l'indennita' prevista dalla legge. La E.G.A., costituitasi in giudizio, deduceva che il richiamo alla disposizione di cui all'art. 4 della legge n. 903/1977 era improprio, giacche' l'art. 4 della successiva legge n. 108/1990 consentiva al datore di lavoro di recedere liberamente dal rapporto ove il lavoratore avesse comunque superato il sessantesimo anno di eta', a meno che questi non avesse presentato domanda per la prosecuzione del servizio ai sensi dell'art. 6 del d.l. n. 791/1981, convertito in legge n. 54/1982. A seguito della riforma del sistema pensionistico, attuata con legge n. 335/1995, elevato il limite di pensionabilita' per gli uomini a sessantacinque anni e per le donne a sessanta,solo a decorrere dall'anno 2000, la disposizione sull'opzione per la prosecuzione del rapporto avrebbe perso parte del suo significato, rimanendo appunto in vigore soltanto per le donne, in quanto gli uomini ultrasessantenni avrebbero dovuto continuare comunque a lavorare fino al sessantacinquesimo anno prima di poter acquistare il diritto alla pensione. La convenuta contestava poi l'applicabilita' della tutela reale per difetto del c.d. requisito dimensionale. Depositate note difensive, il Pretore, con sentenza 12 marzo - 23 marzo 1999, n. 4038/1999, annullava il licenziamento ordinando la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e condannando la Societa' al pagamento di tutte le retribuzioni dalla data del licenziamento fino a quella della reintegra. Con atto depositato il 6 settembre 1999, la E.G.A. ha proposto appello formulando tre motivi di gravame. La Campana, costituitasi in giudizio, ha chiesto il rigetto dell'appello. Rileva il Collegio che con il secondo motivo di gravame l'appellante contesta la motivazione addotta dal giudice di prime cure laddove ha affermato che l'interpretazione accolta, favorevole alla lavoratrice, e' quella piu' corretta poiche' una diversa interpretazione avrebbe dovuto condurre a sollevare questione di legittimita' costituzionale. Ad avviso della Societa' il giudice di primo grado avrebbe dovuto appunto rimettere gli atti alla Corte costituzionale proprio potendosi profilare il dubbio - che nei propri scritti difensivi aveva gia' prospettato - sulla legittimita' della disposizione di cui all'art. 4 della legge n. 108/1990. Il tribunale ritiene rilevante e non manifestamente infondata la detta questione di costituzionalita' ed osserva in proposito che la Corte costituzionale, con la sentenza 27 aprile 1988, n. 498, ha dichiarato l'illegittimita', per violazione degli artt. 3 e 37 cost., dell'art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, nella parte in cui subordinava il diritto delle lavoratrici, in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia, di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di eta' previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, all'esercizio di un'opzione in tal senso, da comunicare al datore di lavoro non oltre la data di maturazione di detti requisiti. La Corte ha quindi ribadito il principio, gia' enunciato nella sentenza 17 giugno 1986, n. 137, che l'eta' lavorativa deve essere uguale per la donna e per l'uomo, pur rimanendo fermo il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia ad un'eta' inferiore a quella stabilita per l'uomo, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima. L'art. 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ha poi stabilito, nel rispetto del detto principio, che il datore di lavoro riacquista la facolta' di recedere dal rapporto di lavoro ad nutum nei confronti dei lavoratori ultrasessantenni - senza, quindi, alcuna distinzione tra uomini e donne - in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che non sia stato esercitato il diritto di opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi dell'art. 6 del d.l. 22 dicembre 1981, n. 791, convertita in legge 26 febbraio 1982, n. 54. Sia gli uomini che le donne, secondo la citata disposizione, hanno pertanto le medesime garanzie di stabilita' del rapporto di lavoro ed il medesimo onere di optare per la prosecuzione del rapporto oltre il limite di eta' pensionabile. L'art. 7 della legge 29 dicembre 1990, n. 407, ha esteso la facolta' di opzione fino al compimento del sessantaduesimo anno di eta' anche per coloro che abbiano gia' raggiunto l'anzianita' contributiva massima. Il limite di sessantadue anni e' stato successivamente elevato a sessantacinque dall'art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503 in concomitanza con la modifica dei limiti di pensionabilita', fissati da una tabella allegata al decreto legislativo (poi modificata da analoga tabella allegata alla legge 23 dicembre 1994, n. 724). A norma di detta tabella, nella fattispecie in esame, l'eta' pensionabile per la lavoratrice era fissata (giugno 1997) al cinquantottesimo anno, mentre per gli uomini il limite era allora stabilito al sessantatreesimo anno. Se, dunque, nel 1990, l'eta' pensionabile dell'uomo coincideva con quella della vita lavorativa e - come si e' detto - l'onere di opzione era uguale per gli uomini e per le donne, a seguito dell'elevazione dell'eta' pensionabile, con specifico riferimento all'anno 1997 - nel quale si colloca il licenziamento per cui e' causa - gli uomini non avevano, fino al compimento del sessantatreesimo anno di eta', alcun onere di opzione, poiche' essi prima di tale eta', non avevano ancora raggiunto il limite stabilito dalla legge, con la conseguenza che continuavano a godere del regime di stabilita', facendo riferimento l'art. 4 della legge n. 108/1990 comunque alla sussistenza dei requisiti pensionistici come condizione per la cessazione del detto regime di stabilita'. Fino al compimento del sessanta-treesimo anno, pertanto, non potendo gli uomini essere ammessi a godere del trattamento pensionistico di vecchiaia, neppure si poteva ipotizzare una opzione, tenuto conto che essi non potevano non continuare a lavorare, con la protezione della garanzia di stabilita', se volevano evitare un "vuoto" tra la cessazione del rapporto e l'inizio del godimento della prestazione previdenziale. Per contro, le donne, continuando a poter beneficiare della pensione da un'eta' inferiore a quella lavorativa, si sono trovate nuovamente in una condizione del tutto analoga a quella prevista dalla disposizione di cui all'art. 4 della legge n. 903/1977, dichiarata illegittima, avendo l'onere di presentare domanda di prosecuzione, nei termini perentori previsti dalla legge, al fine di poter fruire ancora del medesimo regime di stabilita' del rapporto di lavoro garantito agli uomini per effetto dell'innalzamento dell'eta' pensionabile oltre il limite formale della vita lavorativa. Tale situazione, quindi, sembra rendere non manifestamente infondata la questione di costituzionalita', per contrasto con gli artt. 3 e 37, primo comma Cost., del combinato disposto degli artt. 4, comma 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, 6 del d.l. 22 dicembre 1981, n. 791, convertito in legge 26 febbraio 1982, n. 54, 6, comma 1 della legge 29 dicembre 1990, n. 407, modificato dall'art. 1, comma 2 del d.lgs. 29 dicembre 1992, n. 503, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 1, comma 1o del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, come modificato dall'art. 11, comma 1 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, disposizioni che conservano efficacia in via transitoria, secondo quanto stabilito dall'art. 1, comma 23 della legge 8 agosto 1995, n. 335. In particolare, appare non irragionevole ritenere che l'art. 4, della legge n. 108/1990, in combinato disposto con le altre norme sopra indicate, debba essere interpretato nel senso che esso impone alle lavoratrici l'onere di optare per la prosecuzione del rapporto di lavoro, al fine di godere delle medesime garanzie di stabilita' riconosciute agli uomini fino al raggiungimento di limiti di eta' crescenti nell'arco degli anni tra il 1995 ed il 2000, con la conseguenza che la vita lavorativa degli uomini viene ad essere piu' lunga di quella delle donne, a meno che esse non provvedano ad un adempimento entro un termine perentorio, di cui, invece, gli uomini non sono gravati. La rilevanza della questione di costituzionalita' emerge dalla considerazione che la presente controversia non puo' essere decisa se non mediante l'applicazione della disposizione di cui al citato art. 41, n. 108/1990, tenendo conto degli ulteriori interventi legislativi i quali, pur modificando solo l'individuazione dell'eta' pensionabile, hanno inciso, sotto il profilo sopra detto, anche sull'eta' lavorativa.