ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 210, comma 4,
e  513  del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa
il  9 giugno  2000 dal tribunale di Firenze nel procedimento penale a
carico  di  A.B.  ed altri, iscritta al n. 589 del registro ordinanze
2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, 1a
serie speciale, dell'anno 2000.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella camera di consiglio del 26 settembre 2001 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto  che con ordinanza emessa il 9 giugno 2000, il tribunale
di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 101 e 112 della
Costituzione,   questione   di   legittimita'   costituzionale  degli
artt. 210,  comma  4,  e  513  cod.  proc.  pen., "nella parte in cui
consentono  all'imputato  -  che rivesta anche la qualita' di persona
offesa,  nell'ambito  dello  stesso  procedimento, in relazione ad un
distinto  capo  di imputazione - di non rispondere alle domande sulle
circostanze relative al reato di cui e' persona offesa";
        che  il rimettente premette, in punto di fatto, che due degli
imputati  nel  giudizio  a quo, dei quali era stato richiesto l'esame
dibattimentale,  si erano avvalsi della facolta' di non rispondere: e
cio'  anche con riguardo alle domande concernenti il reato di tentata
estorsione   aggravata   in   loro   danno,   per  cui  si  procedeva
congiuntamente  e  relativamente  al  quale, nel corso delle indagini
preliminari,  essi  avevano  reso  dichiarazioni  a  carico  di altro
coimputato;
        che,  ad  avviso  del  giudice  a  quo,  le nome denunciate -
riconoscendo  all'imputato la facolta' di non rispondere anche quando
egli  sia  parte offesa di un reato connesso o collegato per il quale
si   procede   congiuntamente  nei  confronti  di  altro  imputato  -
accomunerebbero  irragionevolmente  in un medesimo regime processuale
situazioni  del  tutto differenti: posto, infatti, che la ragione del
riconoscimento  del  "diritto  al  silenzio" risiede nell'esigenza di
evitare  che  l'imputato  debba  "autoaccusarsi",  tale  esigenza non
ricorrerebbe  nell'ipotesi  considerata,  nella  quale  l'imputato e'
chiamato  a  rispondere  soltanto sulle circostanze relative al reato
dal quale e' stato offeso;
        che  sarebbero  altresi' compromessi i principi di soggezione
del  giudice  soltanto  alla  legge  e di obbligatorieta' dell'azione
penale,  di  cui  agli artt. 101 e 112 Cost., in quanto l'esito della
decisione  del  giudice  e  la  stessa attuazione della giurisdizione
verrebbero   fatti   sostanzialmente   dipendere   dall'atteggiamento
processuale dell'imputato;
        che  nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile o infondata.
    Considerato  che  successivamente  all'ordinanza di rimessione e'
intervenuta  la legge 1 marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale
e   al  codice  di  procedura  penale  in  materia  di  formazione  e
valutazione  della  prova in attuazione della legge costituzionale di
riforma  dell'art. 111 della Costituzione), la quale ha profondamente
innovato  la  disciplina  del  diritto al silenzio e della formazione
della  prova  in  dibattimento,  incidendo, tra l'altro, sul campo di
applicazione  delle  disposizioni  che  formano  oggetto dell'odierna
impugnativa;
        che a fronte di tali modifiche normative, che investono anche
il  contesto  complessivo  della  disciplina di riferimento, gli atti
devono   quindi  essere  restituiti  al  giudice  rimettente  perche'
verifichi se la questione sia tuttora rilevante nel giudizio a quo.