ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale degli artt. 1, 10 e 25
del   regio  decreto  legge  21 febbraio  1938,  n. 246,  recante  la
"Disciplina  degli abbonamenti alle radioaudizioni", convertito dalla
legge  4 giugno  1938,  n. 880;  e  degli  artt. 15  e 16 della legge
14 aprile 1975, n. 103, recante "Nuove norme in materia di diffusione
radiofonica  e  televisiva",  "e  norme  ivi  citate",  promosso  con
ordinanza  emessa  l'11 maggio 2001 dal Tribunale di Milano, iscritta
al  n. 780  del  registro  ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 40, 1a serie speciale, dell'anno 2001.
    Visti  gli atti di intervento della RAI-Radiotelevisione Italiana
S.p.a. e del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito nell'udienza pubblica del 7 maggio 2002 il giudice relatore
Valerio Onida;
    Uditi  gli  avvocati  Massimo  Luciani  e  Filippo  Satta  per la
RAI-Radiotelevisione  italiana S.p.a. e l'avvocato dello Stato Ivo M.
Braguglia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Nel corso del giudizio di opposizione a ingiunzione emessa
dall'Ufficio  registro abbonamenti radio (URAR) e TV di Torino per il
mancato  pagamento  del  canone, il Tribunale di Milano, su eccezione
della   parte,  con  ordinanza  emessa  l'11 maggio  e  pervenuta  il
5 settembre    2001,   ha   sollevato   questione   di   legittimita'
costituzionale,  in  riferimento  agli  artt. 2,  3,  9  e  21  della
Costituzione,  degli  artt. 1,  10  e  25  del  regio  decreto  legge
21 febbraio  1938,  n. 246, recante Disciplina degli abbonamenti alle
radioaudizioni",   convertito  dalla  legge  4 giugno  1938,  n. 880,
nonche'  degli  artt. 15  e  16  della  legge 14 aprile 1975, n. 103,
recante   "Nuove   norme  in  materia  di  diffusione  radiofonica  e
televisiva", "e norme ivi citate".
    Il  remittente  muove dal rilievo che l'art. 1 della legge n. 103
del  1975,  fissando un principio di grande importanza programmatica,
stabilisce  che  la  diffusione  circolare di programmi radiofonici e
televisivi  via  etere,  via  filo  o via cavo, e con qualsiasi altro
mezzo,   costituisce,  ai  sensi  dell'art. 43  Cost.,  "un  servizio
pubblico  essenziale ed a carattere di preminente interesse generale,
in  quanto  volto  ad  ampliare  la  partecipazione  dei  cittadini e
concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese in conformita'
dei  principi  sanciti  nella  Costituzione",  e che "l'indipendenza,
l'obbiettivita' e l'apertura alle diverse tendenze politiche, sociali
e   culturali,   nel   rispetto   delle   liberta'   garantite  dalla
Costituzione,   sono   principi  fondamentali  della  disciplina  del
servizio  pubblico radiotelevisivo". Con tali principi, ad avviso del
giudice  a  quo,  e  con  gli  stessi  articoli  2,  3, 9 e 21 Cost.,
sembrerebbero  in contrasto, sotto il profilo della ragionevolezza, i
successivi  artt. 15  e  16 della stessa legge, che, rispettivamente,
dispongono  che  il  fabbisogno finanziario per la gestione dei detti
servizi  "e'  coperto con i canoni di abbonamento alle radioaudizioni
ed alla televisione di cui al r.d.l. 21 febbraio 1938, n. 246", e che
"la   riscossione   dei   canoni   di   abbonamento   ordinario  alle
radioaudizioni  e alla televisione, nonche' la devoluzione dei canoni
stessi  restano  regolati  dalle  vigenti  disposizioni",  mentre "la
misura del canone dovuto dalla concessionaria allo Stato e' stabilita
dalla  convenzione"  disciplinata dall'art. 46 della stessa legge. Se
infatti  la  finalita' del servizio pubblico e' di realizzare i detti
diritti  fondamentali  dei  cittadini,  costituzionalmente garantiti,
susciterebbe  perplessita' l'imposizione di un onere economico per la
realizzazione  di  cio'  che,  rientrando  nei  compiti primari della
Repubblica, rappresenterebbe "per il cittadino un diritto di cui egli
deve usufruire liberamente".
    Dopo aver richiamato i termini delle convenzioni, approvate con i
d.P.R.  28 marzo 1994 e 29 ottobre 1997, tra il Ministero delle poste
e  telecomunicazioni e la RAI-Radiotelevisione italiana S.p.a. per la
concessione  a  quest'ultima  "in  esclusiva  sull'intero  territorio
nazionale   del   servizio   pubblico   di  diffusione  di  programmi
radiofonici  e  televisivi", concessioni in forza delle quali essa e'
deputata  a  provvedere  "nell'ambito degli indirizzi impartiti dalla
Commissione  parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei
servizi  radiotelevisivi,  ad  organizzare  ed a svolgere il servizio
pubblico  in  modo  da  garantire  la piu' ampia rappresentanza delle
istanze  politiche sociali e culturali presenti a livello nazionale e
locale,  nel Paese", l'autorita' remittente osserva che tale funzione
assegnata  alla  RAI,  che  di fatto non differirebbe da quella delle
emittenti   private,   non   sarebbe   mai   assunta   come   ragione
giustificatrice  del  canone  posto a carico del potenziale utente, e
anzi  creerebbe in capo alla RAI una posizione dominante in contrasto
con  la  legge.  Nessuna  disposizione  di  legge darebbe ragione del
motivo  per  cui,  per  il  solo  fatto  di  possedere un apparecchio
potenzialmente  atto  a  captare le trasmissioni, ed anche qualora la
ricezione   risulti   di   fatto  impossibile,  il  cittadino  utente
potenziale  dovrebbe corrispondere una tassa alla sola concessionaria
del  servizio  pubblico,  mentre  numerose  disposizioni giustificano
l'assoggettamento   ad   una   tassa   delle  societa'  emittenti  di
trasmissioni radiotelevisive.
    Secondo  il  giudice  a  quo,  il presupposto della tassa pretesa
dall'URAR-TV  sarebbe  stato  individuato  dalla  giurisprudenza "nel
dominio dell'etere da parte dello Stato, con il conseguente potere di
imposizione   fiscale",   dominio   in  forza  del  quale  verrebbero
discrezionalmente  assegnate  alle  emittenti le licenze e le diverse
bande   di  frequenza.  Sotto  tale  profilo,  la  detenzione  di  un
apparecchio  atto  a  captare  le trasmissioni via etere non potrebbe
piu'  costituire  il  presupposto  per  l'imposizione  di  una  tassa
"prevista  e  dovuta  a favore di un solo concessionario in esclusiva
per  l'utilizzo  dell'etere", anzitutto "perche' una simile esclusiva
di  fatto  non  esiste ed in secondo luogo perche' ... creerebbe oggi
una  disparita'  evidentissima  di  trattamento  tra  chi  riceve  le
trasmissioni  televisive  attraverso  la normale televisione e chi le
ricevesse  (addirittura migliori), attraverso l'utilizzo della scheda
adattata al computer, ovvero chi non le ricevesse affatto (pur avendo
l'apparecchio   per   vedere   films  videoregistrati)".  Il  governo
dell'etere,  poi, riguarderebbe le emittenti che pagano, per ottenere
la  concessione  governativa,  una  tassa  che non sono autorizzati a
riversare  sul  cittadino,  mentre  il  canone  di  abbonamento  alle
radioaudizioni  non  e'  mai  stato  giustificato con la finalita' di
recuperare dall'utente il costo del tributo pagato dall'emittente per
ottenere  la concessione. In tale ultima ipotesi, sarebbe ravvisabile
la  violazione  degli artt. 3 e 21 Cost., ove si consideri che con le
trasmissioni  via  internet l'uso dell'etere e' gratuito, e l'utente,
talvolta,  corrisponde  un  prezzo  al  provider  anzitutto  in  modo
volontario,  e  poi  per  il  solo  periodo  di  utilizzazione  della
trasmissione.
    In   un  contesto  di  trasmissioni  via  etere  tecnologicamente
avanzato,  quindi, sarebbe irragionevole e darebbe luogo a disparita'
di   trattamento   l'obbligo  per  il  detentore  di  un  apparecchio
televisivo  di  corrispondere  una  tassa  ad una societa' di diritto
privato  come  la  RAI,  sulla  base di una normativa, dettata per un
sistema di monopolio, priva del carattere di generalita' che la norma
di  legge  deve avere, nell'imporre un determinato precetto a tutti i
soggetti che si trovino nella medesima situazione.
    Ad  avviso  del giudice a quo, la previsione del canone - tassa a
carico  del  cittadino  -  aveva un fondamento quando era l'EIAR, poi
RAI,  "l'unica  concessionaria  di un servizio pubblico". Oggi la RAI
avrebbe natura di "semplice concessionaria governativa (al pari delle
altre  emittenti)  del  servizio  in  questione",  in  un  regime  di
"concessioni  governative  all'utilizzo  dell'etere  da parte di ogni
emittente  che  voglia diffondere le proprie trasmissioni", emittenti
che  "si  trovano nella sua [della RAI] stessa situazione e non hanno
diritto  ne'  potere  per  poter  imporre un canone". Ne' puo' essere
considerata  di  preminente  interesse pubblico l'attivita' della RAI
per  il solo limite alla diffusione di messaggi pubblicitari, perche'
tutte   le   emittenti  soggiacciono  alla  stessa  "regolamentazione
allorche'  le trasmissioni riguardino il pubblico interesse", come ad
esempio  quanto  al  "rispetto della par condicio durante la campagne
elettorali".
    Il  panorama  del settore, secondo il giudice a quo, e' quello di
una  pluralita'  di emittenti che si distinguono tra loro per la sola
matrice  locale  o  nazionale,  nell'ambito  della  quale i programmi
mandati  in  onda  dalla  RAI  non differiscono da quelli delle altre
emittenti   nazionali   che  per  il  logo  che  le  contraddistingue
sull'angolo  del  teleschermo.  Non  sussisterebbe  differenza tra il
"servizio  pubblico"  della  RAI ed il servizio "offerto al pubblico"
dalle   altre   emittenti.  Di  conseguenza,  non  avrebbe  razionale
giustificazione  una  tassa  da  corrispondere  alla  sola "emittente
pubblica"  sul  solo  presupposto  della detenzione di un apparecchio
"atto  a ricevere un servizio "pubblico dal contenuto uguale a quello
offerto  dal "servizio privato e indipendentemente dal fatto che [si]
usufruisca sia dell'uno che dell'altro".
    La   fruizione   del   "servizio   pubblico"  delle  trasmissioni
radiotelevisive,    "finalizzato   alla   pluralistica   obiettivita'
dell'informazione  e  al  soddisfacimento  culturale dell'utente" non
puo',  osserva infine il giudice a quo, giustificare la soggezione di
quest'ultimo   ad   una   tassa,   perche'  il  carattere  "pubblico"
dell'informazione  dovrebbe  semmai  costituire  la  causa  della sua
gratuita', per la funzione riservata alla concessionaria.
    2.  - La RAI, Radio Televisione Italiana S.p.a., ha depositato un
atto difensivo, chiedendo di dichiarare ammissibile il suo intervento
nel  giudizio  incidentale, in quanto, pur non essendo essa parte nel
giudizio  principale,  sarebbe  tuttavia  titolare  di  un  interesse
giuridicamente  qualificato  e  differenziato,  che  potrebbe  essere
compromesso  o  soddisfatto dall'esito dell'incidente di legittimita'
costituzionale.
    In proposito la RAI ricorda innanzitutto le considerazioni svolte
nella  sentenza  n. 31  del  2000,  che  superavano l'interpretazione
letterale  del  dato  normativo, in ordine all'accesso al giudizio di
ammissibilita'   del  referendum  abrogativo  di  soggetti  ulteriori
rispetto  ai  promotori, ed osserva che anche il giudizio incidentale
di  legittimita'  costituzionale,  pur  essendo  sovente destinato ad
incidere  sulle situazioni soggettive dei singoli, si connota come un
controllo  di  diritto  oggettivo sulla costituzionalita' delle norme
censurate, sicche', anche se nel giudizio possono esservi parti, esso
non  concerne le situazioni giuridiche delle parti, ma le norme nella
loro  oggettivita'.  Richiama  poi  le  decisioni di questa Corte che
hanno  "aperto"  l'accesso al giudizio incidentale a soggetti diversi
dalle  parti nel giudizio principale, nei casi in cui l'interesse che
si  vuol  far  valere sia giuridicamente qualificato, differenziato e
protetto  (viene  citata,  tra le altre decisioni, la sentenza n. 178
del  1996,  che ammise l'intervento della Congregazione cristiana dei
Testimoni  di  Geova  nel  giudizio  relativo  alla  previsione della
indeducibilita' ai fini IRPEF delle elargizioni liberali da parte dei
fedeli,  in quanto, pur essendo estranea al giudizio tributario a quo
"essa  e'  portatrice  di  un  interesse  specificatamente  proprio e
qualificato  per  il  fatto  di essere destinataria della elargizione
liberale  della  cui  deducibilita'  si discute nel giudizio a quo").
Nella  specie,  infatti,  la  societa' interveniente assume di essere
titolare  di  un  interesse  diretto  ed  individualizzato  - che non
potrebbe far valere in sede diversa - perche' principale destinataria
delle  somme  ricavate  dai  versamenti del canone di abbonamento, ai
sensi  dell'art. 27,  comma  8,  della legge 23 dicembre 1999, n. 488
("Il  canone  di  abbonamento  alle  radioaudizioni  circolari e alla
televisione e' attribuito per intero alla concessionaria del servizio
pubblico  radiotelevisivo,  ad  eccezione  della quota gia' spettante
all'Accademia  di  Santa  Cecilia"), e di un interesse specificamente
proprio,  in  quanto  l'esito  del  presente giudizio avrebbe effetti
diretti sui suoi diritti patrimoniali. L'Amministrazione finanziaria,
competente   alla   riscossione   coattiva  del  canone,  provvede  a
corrispondere  "le  quote  dei  canoni  di abbonamento spettanti alla
concessionaria ... sulla base delle previsioni complessive di entrata
del  bilancio  dello  Stato  e delle riscossioni effettuate, mediante
acconti  trimestrali  posticipati  e  salvo  conguaglio  alla fine di
ciascun  anno  finanziario"  (art. 31  del  d.P.R.  8 febbraio  2001,
recante  l'approvazione  del  contratto  di servizio tra il Ministero
delle  comunicazioni e la RAI), mentre la RAI si limita a formare gli
elenchi    dei   soggetti   tenuti   a   corrispondere   il   canone.
L'interveniente,  quindi,  pur essendo rimasta estranea al giudizio a
quo vedrebbe gravemente incisa la propria posizione dall'accoglimento
dell'opposizione   proposta  in  detto  giudizio,  che  conseguirebbe
all'accoglimento  della presente questione, sicche' - sostiene - deve
far   valere   le   proprie  ragioni  nel  giudizio  di  legittimita'
costituzionale.
    Passando  all'esame  della  questione,  la  difesa  della  RAI ne
eccepisce   l'inammissibilita'   per  difetto  di  motivazione  sulla
rilevanza e, nel merito, l'infondatezza.
    In  ordine  alla  rilevanza, l'ordinanza di rimessione, oltre che
essere priva di motivazione, non descriverebbe la fattispecie oggetto
del  giudizio,  ed in particolare non consentirebbe di comprendere se
alla  base  dell'opposizione  all'ingiunzione  di  pagamento  fossero
censure  relative  alla  procedura  per sottrarsi all'obbligo, ovvero
alla stessa previsione dell'obbligo di corrispondere il canone. Nella
prospettazione  della  questione sarebbe, comunque, ambiguo l'oggetto
del  dubbio  di  costituzionalita', se cioe' esso sia la legittimita'
del  canone  in se' - e quindi gli artt. 1 e 25 del r.d.l. n. 246 del
1938  e  gli  artt. 15  e  16  della  legge n. 103 del 1975 -, ovvero
l'eccessiva  onerosita' della procedura da seguire da chi non intende
piu'  fruire delle radioaudizioni e continui a detenere l'apparecchio
- art. 10 del r.d.l. n. 246 del 1938.
    La questione e', secondo la difesa della RAI, comunque infondata.
Anzitutto,    fi'    giudice   remittente   muoverebbe   dall'erronea
qualificazione  del  canone  come  tassa, e cioe' una sorta di prezzo
pagato   dall'utente   per   la   fruizione   del  servizio,  laddove
l'imposizione  tributaria  sarebbe  definibile piuttosto - secondo la
giurisprudenza,  anche  di  questa  Corte  -  come  imposta,  il  cui
presupposto  e' il possesso di "uno o piu' apparecchi adattabili alla
ricezione  delle  radioaudizioni",  considerato  indice  di capacita'
contributiva.    Le   relative   disposizioni   potrebbero,   semmai,
indubbiarsi  di  incostituzionalita'  quanto  alla adeguatezza e alla
ragionevolezza  di  un  siffatto  indice  di  capacita'  contributiva
individuato  dal  legislatore, ma l'ordinanza di rimessione argomenta
invece  intorno ad un (inesistente) legame tra esazione del tributo e
destinazione  dei  proventi del medesimo, pretendendo di far derivare
da  tale  inesistente  nesso  l'illegittimita'  costituzionale  delle
disposizioni  impugnate.  La destinazione delle somme percepite dallo
Stato  in forza del tributo de quo agitur sarebbe questione del tutto
diversa,  essendo tenuto il possessore dell'apparecchio per cio' solo
al  pagamento dell'imposta, a nulla rilevando che l'oggetto della sua
obbligazione  venga  destinato  (peraltro solo pro quota) dallo Stato
alla  RAI  per  finanziare  il servizio pubblico televisivo; in altri
termini,  in  base  alla legislazione vigente, i possessori dei detti
apparecchi  sarebbero  comunque tenuti al pagamento del canone, anche
qualora,  per  ipotesi,  non  vi  fosse  piu'  un  concessionario del
servizio pubblico radiotelevisivo (cfr. art. 15, secondo comma, della
legge n. 103 del 1975).
    Non   vi   sarebbe   dunque   spazio  per  una  dichiarazione  di
illegittimita'  costituzionale  fondata  sulla irragionevolezza della
attribuzione   alla  RAI  dei  proventi  del  canone,  in  quanto  le
disposizioni  costitutive  della  obbligazione  non  assumono a causa
giustificatrice    il    finanziamento    del    servizio    pubblico
radiotelevisivo, ma la polizia e l'amministrazione dell'etere, su cui
lo  Stato  e' sovrano (viene richiamata, in proposito, la sentenza di
questa  Corte n. 535 del 1988). Nell'ordinanza di rimessione, precisa
la  RAI, si sovrapporrebbero i due piani dell'imposizione del tributo
e  delle  sue  ragioni  giustificatrici,  e  della  destinazione  dei
relativi proventi, mentre le censure, di sapore prettamente politico,
riferite   al   secondo   profilo,  area  di  piena  discrezionalita'
amministrativa, verrebbero utilizzate per colpire il primo di essi.
    Nel  giudizio  a quo, in ogni caso, non troverebbero applicazione
le  norme  sulla  ripartizione  dei  proventi  del canone, sicche' la
relativa questione, adombrata in apertura dell'ordinanza - l'asserita
discriminazione  dei  soggetti  tenuti  al  pagamento  del  canone in
ragione  della corresponsione dei proventi alla sola RAI e non gia' a
tutti  i concessionari esercenti attivita' radiotelevisiva -, sarebbe
inammissibile per irrilevanza.
    Quanto  all'argomento,  invero  non  formulato  come  profilo  di
incostituzionalita', relativo alla disparita' di trattamento rispetto
ai  possessori  di altro apparecchio, come un elaboratore elettronico
munito  di  apposita  scheda,  esso  sarebbe  privo di fondamento, in
quanto    anche    tali    apparecchi    integrano   il   presupposto
dell'obbligazione  tributaria  in  discorso,  a norma dell'art. 1 del
r.d.l.  n. 246  del  1938,  formulato  in  modo conforme al canone di
eguaglianza e di non discriminazione.
    Nella  seconda  parte dell'atto, la difesa della RAI replica alle
argomentazioni  dell'ordinanza  di rimessione intese ad equiparare la
stessa RAI agli altri concessionari radiotelevisivi per destituire di
fondamento  il  canone,  compiendo  un  ampio  excursus  sulla storia
giuridica  delle  radioaudizioni  nel  nostro  Paese, a partire dalla
legge  30 giugno  1910,  n. 395,  con la quale lo Stato riservo' a se
medesimo  l'impiego  delle  onde  hertziane  ai fini, tra l'altro, di
radiodiffusione, con facolta' di accordare l'esercizio delle relative
attivita'  a  soggetti  pubblici  o  privati  mediante  concessioni o
licenze,  e  poi  dal  r.d. 14 dicembre 1924, n. 2191, istitutivo del
servizio,  affidato in concessione alla societa' URI, concessione cui
accedeva   una   convenzione   contenente  prescrizioni  relative  al
contenuto   dei  programmi  e  agli  altri  obblighi  gravanti  sulla
concessionaria: gia' allora il fondamento del servizio pubblico delle
radioaudizioni  si  rinveniva nel "suo carattere di pubblica utilita'
in  relazione  agli  scopi,  cui  esso risponde, di ordine educativo,
artistico  e culturale che interessino la generalita' dei cittadini".
Con  l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il servizio
pubblico  radiotelevisivo avrebbe trovato in essa diretto fondamento,
e  quel  che  prima era frutto di scelta legislativa sarebbe divenuto
"atto necessario", come avvertito da questa Corte gia' dalla sentenza
n. 59 del 1960, e quindi, dopo l'apertura del settore radiotelevisivo
ai  soggetti  privati  (infine  con la legge n. 223 del 1990), con la
sentenza n. 826 del 1998.
    Nell'atto  di intervento vengono precisati, anche con riferimento
alle  successive  pronunce  di  questa Corte, i caratteri del sistema
radiotelevisivo  disegnato dalla legge n. 223 del 1990, il fondamento
costituzionale  dell'attivita'  dei  concessionari  privati  e quello
dell'attivita'  svolta  dal concessionario del servizio pubblico, del
quale   viene   ricostruito  il  complessivo  regime  giuridico,  con
analitica disamina del quadro normativo.
    Si  sottolinea,  all'esito  di  tale  esame,  come l'attivita' di
servizio  pubblico  debba essere remunerata dallo Stato concedente, e
come,   diversamente   da   quanto   affermato   dal  remittente,  la
destinazione   dei   proventi   del   canone   a  tale  finalita'  di
remunerazione  trovi  giustificazione  piena e perfettamente conforme
alla Costituzione.
    L'infondatezza  della  questione,  prosegue  la  RAI  S.p.a.,  si
evincerebbe,  per altro verso, dalla disciplina del canone, alla luce
della  quale  e'  chiara, da una parte, la sua natura tributaria e la
ragionevolezza della sua imposizione; dall'altra, la netta cesura fra
il  momento  fiscale  e  quello  di  attribuzione  patrimoniale  alla
societa' concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo.
    Vengono  quindi esaminati i vari atti normativi che nel corso del
tempo,   a   partire   dal  r.d.  8  febbraio  1923,  n. 1067,  hanno
disciplinato   l'esercizio  di  "stazioni  semplicemente  riceventi",
prevedendo  la corresponsione allo Stato, e in un primo periodo anche
al  concessionario,  di tasse di licenza, di concessione governativa,
di  diritti,  e  cosi'  via, dal sistema di cd. concessione plurima a
quello  di  concessione  esclusiva, sino a che l'obbligazione, con il
r.d.l.  n. 2207  del  1927,  acquisi  la sua definitiva fisionomia di
canone,  con  il  superamento della doppia voce - una per lo Stato ed
una per il concessionario - e l'unificazione della sua misura in lire
72   per  anno,  canone  versato  al  Ministero  delle  finanze,  che
provvedeva  al  termine  dell'esercizio  finanziario "al versamento a
favore  del  concessionario  delle  somme ad esso dovute sui proventi
alle  tasse  e  dei  contributi, dedotta, anche su questi ultimi, una
quota del 10 per cento che resta devoluta allo Stato" (art. 16).
    Si  da' quindi conto della successiva normativa avente ad oggetto
il  canone per il servizio pubblico radiotelevisivo, quanto a misura,
competenza  e  procedimento  per  la sua variazione, destinazione dei
proventi, riscossione.
    Infine,  in  ordine alla censura relativa alla assenta onerosita'
del procedimento da seguire per sottrarsi al pagamento del canone, la
RAI ne eccepisce la inammissibilita', non essendo la norma denunciata
applicabile  in un giudizio di opposizione come e' quello principale;
nel   merito,  osserva  come  appartenga  alla  discrezionalita'  del
legislatore   l'identificazione   delle   modalita'  da  seguire  per
dimostrare  la non assoggettabilita' ad un obbligo tributario, ove si
sia  precedentemente  manifestato  il  necessario indice di capacita'
contributiva. Tali modalita', poi, non sono in concreto cosi' onerose
da rendere impossibile per il contribuente detta dimostrazione.
    3.  - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, che ha concluso per l'infondatezza della questione.
    Dopo  aver premesso che il canone di abbonamento alla televisione
e'  -  secondo  la  giurisprudenza  di legittimita', ma anche secondo
l'orientamento  di  questa  Corte  (sentenza  n. 81  del  1963  e poi
sentenza  n. 535  del 1988) - un tributo (imposta) il cui presupposto
e'  "ancorato  all'attitudine  o  all'adattabilita' di un apparecchio
alla  ricezione  di  qualsiasi  emittente  radiofonica  o televisiva,
italiana o straniera, pubblica o privata", la difesa erariale osserva
che,    per   quel   che   attiene   alle   modalita'   di   disdetta
dall'abbonamento,  previste  dall'art. 10 del r.d.l. n. 246 del 1938,
esse  sono  dirette ad evitare la facile evasione del tributo, e che,
tuttavia,  non  viene evocato come parametro nell'ordinanza l'art. 53
Cost.  Rileva poi che, essendo l'imposizione tributaria svincolata da
qualunque rapporto di corrispettivita', anche rispetto alla fruizione
del   servizio   pubblico,   sarebbe   infondato   ogni   dubbio   di
irragionevolezza  degli  artt. 15  e  16 della legge n. 103 del 1975.
Neppure  sarebbero,  percio',  pertinenti gli argomenti del giudice a
quo che pongono a raffronto la concessionaria del servizio pubblico e
le  emittenti  private, adombrando una posizione di dominanza assunta
dalla  prima,  essendo  dovuto  il  canone  perche' si e' in grado di
ricevere  trasmissioni  televisive  dell'una  e  delle altre, nonche'
delle  emittenti  straniere. La capacita' contributiva sussisterebbe,
secondo  l'ordinanza  n. 219  del 1989 di questa Corte, anche se zone
d'ombra di fatto impedissero la ricezione.
    Considerato che l'individuazione del presupposto dell'imposizione
e'  nel possesso dell'apparecchio atto a ricevere, e non nel "dominio
dell'etere"  da parte dello Stato, non sarebbero pertinenti i rilievi
del  giudice  a  quo in ordine alla diversita' dei mezzi attraverso i
quali si possono ricevere le trasmissioni televisive, ivi compresa la
via  Internet,  atteso  che  l'imposta in discorso deve essere pagata
allo  Stato,  e  non  al  concessionario del servizio, e che le norme
sospettate  di  illegittimita' costituzionale presentano carattere di
generalita',  essendo  applicabili  a  tutti  coloro che detengono un
apparecchio  atto  a  ricevere  trasmissioni televisive, da emittenti
pubbliche o private, nazionali o estere.
    4.  -  In prossimita' dell'udienza pubblica ha depositato memoria
la  RAI  Radiotelevisione  italiana  S.p.a., insistendo nelle domande
gia' proposte.
    Dopo  aver  illustrato  le ragioni a sostegno dell'ammissibilita'
del   suo   intervento,   la   RAI   si  sofferma  sui  motivi  della
inammissibilita'  della  questione  sollevata (carenza di motivazione
sulla  rilevanza,  mancata  compiuta  descrizione  della fattispecie,
contraddittorieta' e perplessita' dell'ordinanza).
    Nel merito, rilevato il tenore confuso dell'atto introduttivo del
presente  giudizio,  richiama  la  natura  del canone di abbonamento,
concludendo per l'infondatezza della questione.
    Inammissibile,   poi,   sarebbe   il   dubbio  di  disparita'  di
trattamento  fra  la  concessionaria del servizio pubblico e le altre
emittenti,  in  quanto  non  si controverte sulle norme relative alla
ripartizione  dei  proventi del canone; oltretutto, le situazioni non
sarebbero confrontabili, atteso che solo sulla RAI grava l'obbligo di
assicurare il servizio pubblico, il quale ha funzione di riequilibrio
nel contesto di un sistema fondato sul doppio pilastro del pluralismo
esterno e del pluralismo interno.
    Infine,  sarebbe inesistente la questione relativa alle modalita'
di  disdetta  del  canone,  di  cui all'art. 10 del r.d.l. n. 246 del
1938,   essendo  menzionata  la  disposizione,  non  applicabile  nel
giudizio  a  quo,  solo  nell'incipit  dell'ordinanza,  cui non segue
alcuna  motivazione. Tale questione, in ogni caso, sarebbe infondata,
considerata  la  non  onerosita'  delle  formalita'  prescritte dalla
norma.
    5. - Con ordinanza allegata, letta in udienza, l'intervento della
RAI-Radiotelevisione Italiana S.p.a. e' stato dichiarato ammissibile.

                       Considerato in diritto

    1.  -  Il  Tribunale  di Milano solleva questione di legittimita'
costituzionale,  in  riferimento  agli  articoli  2,  3, 9 e 21 della
Costituzione,  degli  articoli  1,  10  e  25 del regio decreto legge
21 febbraio   1938,   n. 246   (Disciplina   degli  abbonamenti  alle
radioaudizioni),  convertito  dalla  legge  4 giugno 1938, n. 880, "e
successive integrazioni e modificazioni", nonche' degli articoli 15 e
16  della  legge  14 aprile  1975,  n. 103 (Nuove norme in materia di
diffusione radiofonica e televisiva), "e norme ivi citate".
    Il  r.d.l.  n. 246  del  1938  contiene la disciplina, tuttora in
vigore,   del  canone  di  abbonamento  alle  radioaudizioni  e  alla
televisione. In particolare, l'art. 1, primo comma, del decreto detta
la norma fondamentale in materia, secondo cui "chiunque detenga uno o
piu' apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni
e' obbligato al pagamento del canone di abbonamento". L'art. 10 detta
le  condizioni  e  le procedure attraverso le quali chi non intenda o
non   possa   piu'   usufruire  delle  radioaudizioni  circolari  pur
continuando   a   detenere   l'apparecchio,   ovvero  intenda  cedere
l'apparecchio,  puo'  ottenere di essere dispensato dal pagamento del
canone.  L'art. 25  disciplina  la  riscossione  e  il versamento dei
canoni  e  delle  relative  sopratasse  e  pene  pecuniarie.  Le  tre
disposizioni  impugnate  sono  vigenti nel loro testo originario, non
avendo subito alcuna modificazione o integrazione.
    A sua volta, l'art. 15 della legge n. 103 del 1975 stabilisce fra
l'altro   che  "il  fabbisogno  finanziario  per  una  efficiente  ed
economica  gestione  dei servizi di cui all'articolo 1" - vale a dire
il   servizio   pubblico   di   "diffusione  circolare  di  programmi
radiofonici  via etere o, su scala nazionale, via filo e di programmi
televisivi via etere, o, su scala nazionale, via cavo e con qualsiasi
altro  mezzo"  -  "e'  coperto  con  i  canoni  di  abbonamento  alle
radioaudizioni ed alla televisione di cui al r.d.l. 21 febbraio 1938,
n. 246", nonche' con i proventi della pubblicita' e con altre entrate
(primo  comma); e precisa che "il canone di abbonamento e la tassa di
concessione  governativa,  di  cui al n. 125 della tariffa annessa al
d.P.R.  26 ottobre  1972,  n. 641, sono dovuti anche dai detentori di
apparecchi  atti o adattabili alla ricezione di trasmissioni sonore o
televisive via cavo o provenienti dall'estero" (secondo comma), e che
"la misura dei canoni e' determinata secondo le norme dell'articolo 4
del d.lgs.lgt. 19 ottobre 1944, n. 347" (terzo comma: vale a dire dal
Comitato interministeriale dei prezzi, con provvedimento emanato "dai
ministri competenti").
    Questo  complesso normativo e' ritenuto dal giudice remittente in
contrasto  con i citati principi costituzionali, essenzialmente sotto
il   profilo   che,   essendo   -   a   suo  giudizio  -  presupposto
dell'imposizione  del  canone  il  cosiddetto "dominio dell'etere" da
parte  dello  Stato,  il  quale  assegna  alle  emittenti le bande di
frequenza,  non  sarebbe  oggi  piu'  giustificabile,  e risulterebbe
irragionevole,  tale  imposizione,  collegata  al  semplice  possesso
dell'apparecchio,  indipendentemente  dalla  effettiva  fruizione dei
servizi,  e a favore del solo concessionario del "servizio pubblico",
cioe'  della  RAI-Radiotelevisione  italiana:  cio'  sia  perche'  si
imporrebbe  ai  cittadini  un  onere economico per la fruizione di un
diritto  la cui realizzazione rientrerebbe per dettato costituzionale
fra  i  compiti  primari  della  Repubblica,  sia  perche', caduto il
monopolio  statale  delle  trasmissioni  radiotelevisive, il servizio
reso  dalla  RAI  non  si  differenzierebbe  da  quello  "offerto  al
pubblico" dalle emittenti radiotelevisive private. Il sistema vigente
creerebbe  poi  una  disparita'  di  trattamento  fra  chi  riceve le
trasmissioni  televisive attraverso l'apparecchio televisivo e chi le
ricevesse   invece  con  altri  mezzi  tecnici  (scheda  adattata  al
computer) o non le ricevesse affatto.
    2. - La questione non e' fondata.
    Il  cosiddetto  canone  di abbonamento alle radioaudizioni e alla
televisione,   benche'   all'origine   apparisse   configurato   come
corrispettivo  dovuto  dagli utenti del servizio riservato allo Stato
ed  esercitato  in  regime di concessione, ha da tempo assunto, nella
legislazione,  natura di prestazione tributaria, fondata sulla legge,
come  questa  Corte riconobbe quando dichiaro' non fondati i dubbi di
legittimita'   costituzionale  prospettati  sotto  il  profilo  della
pretesa  incompatibilita'  della  tutela penale, allora apprestata in
relazione all'adempimento del relativo obbligo, con l'asserita natura
contrattuale  del rapporto fra l'utente e la concessionaria (sentenza
n. 81  del  1963).  E  se  in  un  primo  tempo sembrava prevalere la
configurazione  del canone come "tassa", collegata alla fruizione del
servizio,  in  seguito  lo si e' piuttosto riconosciuto come imposta,
facendo  leva  sulla  previsione  legislativa  dell'art. 15,  secondo
comma,  della  legge n. 103 del 1975, secondo cui il canone e' dovuto
anche  per  la  detenzione  di  apparecchi  atti  alla  ricezione  di
programmi  via  cavo  o  provenienti dall'estero (sentenza n. 535 del
1988).
    Sul  piano  costituzionale,  cio'  comporta  che  la legittimita'
dell'imposizione   debba   misurarsi   non  piu'  in  relazione  alla
possibilita'  effettiva  per  il  singolo  utente  di  usufruire  del
servizio  pubblico radiotelevisivo, al cui finanziamento il canone e'
destinato,  ma  sul  presupposto  della  sua  riconducibilita' ad una
manifestazione,    ragionevolmente    individuata,    di    capacita'
contributiva.  Ed  e' sotto tale profilo che questa Corte, chiamata a
pronunciarsi in riferimento all'art. 53 della Costituzione, dichiaro'
non  fondate le relative questioni, aventi ad oggetto gli articoli 1,
10  e  25  del  r.d.l.  n. 246  del  1938,  ritenendo che l'indice di
capacita'  contributiva  consistente  nella  mera  detenzione  di  un
apparecchio  radiotelevisivo  non  potesse considerarsi irragionevole
(ordinanze n. 219 e n. 499 del 1989).
    3.  -  L'odierno  remittente,  nell'impugnare ancora una volta le
stesse  norme,  non  ripropone  pero'  questo  profilo  schiettamente
tributario  della  questione,  ma  piuttosto contesta la legittimita'
dell'imposizione  ritenendola  irragionevole,  e  in  contrasto con i
principi  costituzionali  in  tema di promozione dello sviluppo della
cultura  e  di  liberta'  di  manifestazione  del pensiero, in quanto
destinata  quasi per intero al finanziamento della concessionaria del
servizio  pubblico radiotelevisivo, la cui attivita' non sarebbe piu'
dato  di distinguere da quella degli altri concessionari, privati, di
reti   ed   emittenti  televisive.  Se  la  diffusione  di  programmi
radiotelevisivi  -  cosi'  ragiona  il giudice a quo - costituisce un
servizio  pubblico  essenziale  a  carattere  di preminente interesse
generale,  avente  la  finalita'  di  ampliare  la partecipazione dei
cittadini  e  concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese,
come  si  esprime  l'art. 1  della  legge  n. 103  del  1975,  non si
giustificherebbe  l'imposizione  di un onere economico a carico degli
utenti, e comunque non si giustificherebbe l'obbligo di corrispondere
il  canone  a  favore della sola concessionaria del servizio pubblico
radiotelevisivo,  poiche'  questa, oggi, non svolgerebbe una funzione
diversa  da quella di tutti gli altri concessionari, una volta venuta
meno l'esclusiva del servizio a favore della RAI medesima.
    E'  pero'  evidente,  in  primo  luogo,  come  non  vi sia alcuna
incompatibilita'  fra il carattere di interesse generale del servizio
pubblico   radiotelevisivo   e   l'imposizione   di  una  prestazione
economica,  nella  specie  collegata alla detenzione degli apparecchi
radiotelevisivi,  diretta  a finanziare detto servizio. Al contrario,
proprio  l'interesse  generale che sorregge l'erogazione del servizio
pubblico  puo'  richiedere  una  forma  di  finanziamento fondata sul
ricorso allo strumento fiscale. Il canone radiotelevisivo costituisce
in  sostanza  un'imposta  di scopo, destinato come esso e', quasi per
intero  (a  parte  la  modesta  quota  ancora assegnata all'Accademia
nazionale   di  Santa  Cecilia),  alla  concessionaria  del  servizio
pubblico  radiotelevisivo  (art. 27, comma 8, della legge 23 dicembre
1999, n. 488).
    4.  -  La  censura  mossa  nell'ordinanza  di rimessione si regge
dunque,  in  definitiva,  essenzialmente  sull'assunto  secondo  cui,
venuto   meno   il  regime  di  monopolio  pubblico  delle  emissioni
televisive  anche  a  carattere  nazionale,  sarebbe irragionevole la
imposizione di un canone destinato alla sola concessionaria RAI.
    Ma  questo  assunto  muove  da  un  equivoco.  Il  venir meno del
monopolio statale delle emissioni televisive - dapprima, a seguito di
pronunce  di questa Corte, con riguardo alle trasmissioni provenienti
dall'estero   (sentenza   n. 225   del  1974)  e  con  riguardo  alle
trasmissioni  in ambito locale (sentenze n. 226 del 1974 e n. 202 del
1976),  quindi,  per  scelta del legislatore, anche con riguardo alle
trasmissioni  via etere in ambito nazionale, prima in via transitoria
(d.l. 6 dicembre 1984, n. 807), poi in via definitiva (legge 6 agosto
1990,   n. 223)   -   non  ha  fatto  venir  meno  l'esistenza  e  la
giustificazione  costituzionale  dello  specifico  "servizio pubblico
radiotelevisivo" esercitato da un apposito concessionario rientrante,
per  struttura  e  modo  di formazione degli organi di indirizzo e di
gestione, nella sfera pubblica.
    Il  remittente  cita  l'art. 1  della  legge n. 103 del 1975, che
definiva  la  diffusione  circolare di programmi televisivi via etere
come  un  "servizio  pubblico essenziale ed a carattere di preminente
interesse generale, in quanto volta ad ampliare la partecipazione dei
cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese in
conformita'   ai   principi  sanciti  dalla  Costituzione",  servizio
riservato   per   questo   allo  Stato;  e  indicava  l'indipendenza,
l'obiettivita'  e l'apertura alle diverse tendenze politiche, sociali
e   culturali,   nel   rispetto   delle   liberta'   garantite  dalla
Costituzione,   come  "principi  fondamentali  della  disciplina  del
servizio  pubblico  radiotelevisivo". Ma quella legge disciplinava un
sistema  che,  all'epoca,  era  ancora  di  monopolio  statale  delle
emissioni   televisive   di  ambito  nazionale.  Oggi  si  deve  fare
riferimento  all'art. 1  della  legge n. 223 del 1990, che da un lato
conferma  il  "carattere  di  preminente  interesse  generale"  della
diffusione  di  programmi  radiofonici  o  televisivi  (comma  1),  e
conferma   che   il  pluralismo,  l'obiettivita',  la  completezza  e
l'imparzialita'  dell'informazione,  nonche'  l'apertura alle diverse
opinioni  e  tendenze  politiche, sociali, culturali e religiose, nel
rispetto  delle  liberta' e dei diritti garantiti dalla Costituzione,
rappresentano  "i  principi fondamentali del sistema radiotelevisivo"
(comma  2);  ma  dall'altro  lato  stabilisce  che  tale  sistema "si
realizza  con  il  concorso  di  soggetti pubblici e privati" (ancora
comma 2).
    Fermi  dunque i principi comuni che debbono informare il sistema,
la  legge del 1990 fa una netta distinzione fra il "servizio pubblico
radiotelevisivo",  che  e'  "affidato  mediante  concessione  ad  una
Societa'   per   azioni"  (oggi  non  piu'  a  totale  partecipazione
pubblica:"  art. 2,  comma  2),  e  la  radiodiffusione  di programmi
radiofonici   e   televisivi   che  "puo'  essere  affidata  mediante
concessione"   a   soggetti  privati  "diversi  dalla  concessionaria
pubblica"  (art. 2,  comma  1, e art. 16, comma 1), realizzando cosi'
quel  "concorso  di  soggetti  pubblici  e  privati" di cui e' parola
nell'art. 1, comma 2, della legge.
    L'esistenza   di  un  servizio  radiotelevisivo  pubblico,  cioe'
promosso  e organizzato dallo Stato, non piu' a titolo di monopolista
legale della diffusione di programmi televisivi, ma nell'ambito di un
sistema misto pubblicoprivato, si giustifica pero' solo in quanto chi
esercita  tale  servizio sia tenuto ad operare non come uno qualsiasi
dei  soggetti  del limitato pluralismo di emittenti, nel rispetto, da
tutti  dovuto, dei principi generali del sistema (cfr., in proposito,
la sentenza n. 155 del 2002), bensi' svolgendo una funzione specifica
per   il   miglior   soddisfacimento   del   diritto   dei  cittadini
all'informazione  e  per  la  diffusione  della  cultura, col fine di
"ampliare  la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo
sociale  e  culturale  del  Paese",  come si esprime il citato art. 1
della  legge n. 103 del 1975. Di qui la necessita' che la concessione
preveda  specifici obblighi di servizio pubblico (si vedano, oggi, la
convenzione  approvata con il d.P.R. 28 marzo 1994, e il contratto di
servizio per il triennio 2000-2002 approvato con il d.P.R. 8 febbraio
2001)  e  imponga  alla  concessionaria  l'obbligo  di assicurare una
informazione   completa,   di   adeguato   livello   professionale  e
rigorosamente  imparziale  nel  riflettere il dibattito fra i diversi
orientamenti politici che si confrontano nel Paese, nonche' di curare
la  specifica  funzione  di  promozione  culturale ad essa affidata e
l'apertura dei programmi alle piu' significative realta' culturali.
    In  questa  prospettiva si giustifica l'esistenza di una forma di
finanziamento, sia pure non esclusiva, del servizio pubblico mediante
ricorso  all'imposizione  tributaria,  e nella specie all'imposizione
del  canone. L'altra maggiore fonte di finanziamento della diffusione
di  programmi  radiotelevisivi  liberamente  accessibili (al di fuori
dunque delle forme di televisione a pagamento) e' infatti la raccolta
pubblicitaria,  la  quale  a  sua volta, oltre che dai limiti imposti
dalla   legge   a   tutela  degli  utenti  e  degli  altri  mezzi  di
comunicazione,  e  dalle  libere scelte degli operatori del settore e
degli  inserzionisti,  e' di fatto condizionata dalla quantita' degli
ascolti. Il finanziamento parziale mediante il canone consente, e per
altro  verso  impone,  al soggetto che svolge il servizio pubblico di
adempiere  agli  obblighi  particolari ad esso connessi, sostenendo i
relativi  oneri,  e,  piu' in generale, di adeguare la tipologia e la
qualita'  della  propria  programmazione alle specifiche finalita' di
tale   servizio,  non  piegandole  alle  sole  esigenze  quantitative
dell'ascolto  e  della  raccolta  pubblicitaria,  e non omologando le
proprie  scelte  di  programmazione  a  quelle  proprie  dei soggetti
privati   che   operano   nel   ristretto   e   imperfetto  "mercato"
radiotelevisivo.
    E'  questa  caratteristica del servizio pubblico radiotelevisivo,
chiaramente ricavabile dal sistema normativo, che offre fondamento di
ragionevolezza  alla  scelta  legislativa  di  imposizione del canone
destinato  a finanziare tale servizio: mentre esulano, evidentemente,
dall'ambito   della   questione   proposta   le   valutazioni   circa
l'adeguatezza  in  concreto  dell'attivita'  svolta  alla  natura dei
compiti affidati al servizio pubblico.
    5.  -  Il  giudice  a  quo,  pur  ricordando  che  l'eccezione di
legittimita'   costituzionale   sollevata   dalla   parte  ricorrente
concerneva  inizialmente le modalita' imposte dall'art. 10 del r.d.l.
n. 246  del  1938  al possessore di apparecchio che intenda liberarsi
dall'obbligo di pagare il canone, non sviluppa poi specifiche censure
a questo proSposito.
    Egli  lamenta bensi' il fatto che l'obbligo colpisca l'utente per
il  solo  fatto  di  possedere  un  apparecchio potenzialmente atto a
ricevere  le trasmissioni della concessionaria del servizio pubblico,
"e,  per  assurdo, anche nel caso che la ricezione risulti, di fatto,
impossibile".  Ma  il  collegamento  dell'obbligo di pagare il canone
alla  semplice  detenzione  dell'apparecchio,  atto o adattabile alla
ricezione   anche   solo  di  trasmissioni  via  cavo  o  provenienti
dall'estero  (art. 15,  secondo comma, della legge n. 103 del 1975: e
cfr.,  per la sottolineatura del rilievo di questa norma, la sentenza
n. 535  del  1988),  indipendentemente  dalla  possibilita'  e  dalla
volonta'  di  fruire  dei programmi della concessionaria del servizio
pubblico,  discende  dalla  natura di imposta impressa al canone, che
esclude  ogni  nesso  di  necessaria corrispettivita' in concreto fra
obbligo  tributario  e  fruizione  effettiva del servizio pubblico. E
dunque  anche  sotto questo profilo la questione, riferita all'art. 3
della  Costituzione,  si palesa infondata, per le stesse ragioni gia'
enunciate  da  questa  Corte,  sia pure con riguardo ad una questione
allora  sollevata  in riferimento al solo art. 53 della Costituzione,
nelle citate ordinanze n. 219 e n. 499 del 1989.
    Parimenti  non e' fondata la censura di disparita' di trattamento
tra  chi  riceva  le  trasmissioni  televisive  attraverso la normale
televisione  e  chi eventualmente le riceva con altri mezzi, o non le
riceva  affatto.  Ancora  una  volta, cio' che viene in rilievo, come
presupposto  dell'imposizione,  e' la detenzione degli apparecchi (ed
e'  questione  di  mera  interpretazione  della legge stabilire quali
siano    tali    apparecchi),    non   rilevando,   ai   fini   della
costituzionalita'  di  tale  imposizione, la circostanza che l'utente
riceva  o  meno  le  trasmissioni  del servizio pubblico. E la scelta
legislativa  discrezionale  di  fondare l'imposizione (genericamente)
sulla  detenzione  di  apparecchi atti o adattabili alla ricezione di
trasmissioni radiotelevisive non appare irragionevole.