ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di legittimita' costituzionale degli artt. 9, comma 2,
della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze,
sospensione  condizionale  della  pena  e  destituzione  dei pubblici
dipendenti) e 31 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 411
(recte: 511) (Guarentigie della magistratura), promosso con ordinanza
del 12 luglio 2002 dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore
della  magistratura, iscritta al n. 396 del registro ordinanze 2002 e
pubblicata  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, 1ª serie
speciale, dell'anno 2002.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 9 aprile 2003 il giudice
relatore Valerio Onida.

                          Ritenuto in fatto

    1. - Con  ordinanza  pronunciata  il 12 luglio 2002 e pervenuta a
questa  Corte il 6 agosto 2002, la sezione disciplinare del Consiglio
superiore  della  magistratura  ha sollevato questione incidentale di
legittimita'  costituzionale  degli  articoli 9, comma 2, della legge
7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione
condizionale  della pena e destituzione dei pubblici dipendenti) e 31
del regio decreto legislativo del 31 maggio 1946, n. 411 (recte: 511)
(Guarentigie  della  magistratura),  in  relazione  all'art. 3  della
Costituzione,  nella  parte in cui tali disposizioni non prevedono un
termine  di  durata  massima della misura cautelare della sospensione
dalle funzioni e dallo stipendio del magistrato ordinario, sottoposto
a  procedimento penale (art. 31, terzo comma, del r.d.lgs. n. 511 del
1946).
    Espone  il  remittente di doversi pronunciare, in un procedimento
disciplinare,  sull'istanza  di  revoca  della misura cautelare sopra
indicata, proposta da un magistrato ordinario.
    Premette   la   sezione   disciplinare   che   tale   magistrato,
destinatario  di  ordinanza  applicativa della misura cautelare della
custodia  in  carcere  in  relazione  al delitto di partecipazione ad
associazione  a  delinquere di stampo camorristico (art. 416-bis cod.
pen., commi primo, terzo, quarto e quinto), fu sospeso dalle funzioni
dalla  stessa  sezione  remittente  con  collocamento fuori dal ruolo
organico della magistratura e con attribuzione di assegno alimentare,
in  applicazione  dell'art. 31,  primo comma, del r.d.lgs. n. 511 del
1946, che prevede, in caso di «ordine di cattura», la sospensione «di
diritto» del magistrato.
    A  seguito di annullamento in sede giurisdizionale dell'ordinanza
che  aveva  disposto  la  misura della custodia in carcere (stante la
ritenuta   insussistenza   di   esigenze   cautelari),   la   sezione
disciplinare  revoco'  il  provvedimento sospensivo, ricollocando nel
ruolo il magistrato.
    Successivamente   questi   fu  rinviato  a  giudizio  innanzi  al
Tribunale  di  Salerno,  in relazione all'imputazione originariamente
formulata e al delitto di corruzione.
    La  sezione  disciplinare  adotto', quindi, su conforme richiesta
del  Ministro della giustizia, nuovo provvedimento di sospensione, ai
sensi  dell'art. 31,  terzo  comma,  del  r.d.lgs.  n. 511  del 1946,
rigettando poi un'istanza di revoca di tale misura.
    Il provvedimento cautelare fu annullato con rinvio dalla Corte di
cassazione  a  sezioni  unite,  che,  superando il proprio precedente
orientamento,   ritenne   necessario   che  la  sezione  disciplinare
valutasse  non  la  gravita'  in  astratto  dell'imputazione,  ma  la
consistenza  e  la  serieta'  dei  fatti  contestati nel procedimento
penale,  sia pure nei limiti di una mera delibazione allo stato degli
atti.
    La  sezione  disciplinare,  sulla  base dei predetti presupposti,
sospese   nuovamente   il   magistrato   dalle   funzioni   ai  sensi
dell'art. 31,  terzo  comma, del r.d.lgs. n. 511 del 1946; il ricorso
avverso tale provvedimento fu rigettato dalle sezioni unite.
    Successivamente  il  magistrato  fu  giudicato colpevole in primo
grado  dal  Tribunale  di  Salerno dei reati ascrittigli e condannato
alla  pena  di  anni 6  di  reclusione, con interdizione perpetua dai
pubblici uffici.
    Il  3 gennaio  2002 il magistrato, premesso che l'efficacia della
misura cautelare di sospensione dalle funzioni si era protratta oltre
il  periodo  quinquennale  previsto dall'art. 9, secondo comma, della
legge   n. 19   del  1990  (che  impone,  in  relazione  al  pubblico
dipendente,  la  revoca  di diritto della misura assunta «a causa del
procedimento  penale»,  ove  compiutosi  tale termine), ha chiesto di
essere reintegrato nelle funzioni.
    La   sezione  disciplinare  ha  rigettato  tale  ultima  istanza,
osservando in primo luogo che la misura cautelare era stata disposta,
in  applicazione  del  principio  di  diritto enunciato dalle sezioni
unite,   a   seguito  di  una  ponderata  valutazione  del  fumus  di
commissione  del  delitto, cio' che, in armonia con la giurisprudenza
costituzionale  (sentenze  n. 447  del 1995, n. 206 del 1999 e n. 454
del  2000),  consentirebbe  di  sottrarla ad un prefissato termine di
decadenza;  in  secondo  luogo,  che,  quand'anche  si fosse ritenuto
applicabile  al  magistrato  ordinario l'art. 9 della legge n. 19 del
1990,  tuttavia  l'art. 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul
rapporto  tra  procedimento  penale  e  procedimento  disciplinare ed
effetti  del  giudicato  penale  nei  confronti  dei dipendenti delle
amministrazioni  pubbliche)  avrebbe  dovuto  condurre alla reiezione
della domanda.
    Tale disposizione, infatti, stabiliva, al tempo in cui la sezione
disciplinare  si  e'  pronunciata,  che  la  sospensione del pubblico
dipendente  dal servizio, seguita di diritto alla condanna, anche non
definitiva,  per  il delitto, tra gli altri, di cui all'art. 319 cod.
pen.,  perdesse  efficacia «decorso un periodo di tempo pari a quello
di prescrizione del reato».
    In  seguito,  ricorda  la  sezione remittente, e' sopraggiunta la
sentenza   n. 145  del  2002  di  questa  Corte,  che  ha  dichiarato
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 4  della  legge n. 97 del
2001,  nella  parte  in  cui  disponeva  che  la sospensione perdesse
efficacia  decorso  un periodo di tempo pari a quello di prescrizione
del  reato,  ed  ha  individuato  nel  termine  di cinque anni di cui
all'art. 9  della  legge  n.19  del 1990 l'espressione di «una vera e
propria  clausola  di  garanzia,  avente  portata  generale  e dunque
comprensiva,  in difetto di diversa disciplina legislativa, di ogni e
qualsiasi  ipotesi di «sospensione cautelare dal servizio a causa del
procedimento penale», sia facoltativa che obbligatoria».
    Alla  luce  di  tale  pronuncia,  il  magistrato  ha reiterato la
propria   istanza   di   revoca  della  misura  cautelare  di  natura
disciplinare   per   decorrenza  del  termine,  originando  cosi'  il
procedimento a quo.
    Evidenzia  il  remittente  che, con la decisione n. 145 del 2002,
questa   Corte   avrebbe   affermato   che  compete  al  legislatore,
nell'esercizio    di    una   non   irragionevole   discrezionalita',
identificare  ipotesi  circoscritte  nelle quali l'esigenza cautelare
che  fonda  la  sospensione e' apprezzata in via generale ed astratta
dalla   stessa   legge  e  che,  tuttavia,  nel  caso  di  specie  il
collegamento  della  durata  della  misura  cautelare  al  termine di
prescrizione del reato si palesava irragionevole e lesivo dell'art. 3
della Costituzione.
    Tale giurisprudenza, prosegue la sezione disciplinare, ha percio'
per oggetto le ipotesi di sospensione dal servizio applicata «a causa
del  procedimento  penale», nelle quali, vale a dire, e' direttamente
la  legge  a  porre  l'obbligo  per  l'amministrazione di disporre la
misura  in  ragione  della  pendenza  del  procedimento  penale (c.d.
sospensione  automatica),  ovvero  nelle quali l'amministrazione, pur
chiamata ad esprimere un giudizio, tuttavia opera una «valutazione in
astratto  della  gravita'  dell'imputazione»,  incentrata  sulla sola
«pendenza del procedimento (penale) in se' e per se' considerata».
    La  pronuncia  da  ultimo  intervenuta  si  porrebbe, prosegue la
sezione  remittente,  nel  solco di un consolidato orientamento della
Corte,  maturato fin dalla sentenza n. 447 del 1995, e proseguito con
le decisioni n. 206 del 1999 e n. 454 del 2000.
    Nel  sistema normativo vigente, conclude il remittente sulla base
di  tali  precedenti,  non  e'  previsto un termine massimo di durata
della  misura  cautelare,  legato  al  mero  decorso  del  tempo, con
riguardo    all'ipotesi    di    sospensione    cautelare    disposta
dall'amministrazione  in  relazione  alla pendenza di un procedimento
penale,  ma in base ad un'autonoma (sia pur sommaria) delibazione nel
merito dei fatti contestati.
    La  sezione disciplinare non intende negare che esista diversita'
di  situazione  tra tale ultima ipotesi ed il caso in cui, viceversa,
la  misura  cautelare  sia  applicata  solo «a causa del procedimento
penale»,  nell'accezione  gia'  descritta  di questa espressione. Ne'
ignora  la sentenza n. 454 del 2000 di questa Corte, con cui e' stata
rigettata questione di costituzionalita' concernente l'art. 140 della
legge  notarile, posto che l'inabilitazione prevista da tale norma in
via  cautelare  segue  ad un procedimento fondato su una valutazione,
seppur   sommaria,   dei   fatti,   viene   applicata  da  un  organo
giurisdizionale  con  garanzia  del contraddittorio, e resta comunque
revocabile.
    Tuttavia  il  remittente  ritiene  che  la  predetta  diversita',
dapprima  stimata costituzionalmente ammissibile dalla stessa sezione
disciplinare, abbia cessato di essere «razionalmente giustificata», a
seguito della sentenza n. 145 del 2002 di questa Corte.
    Premesso  infatti  che l'art. 9, secondo comma, della legge n. 19
del  1990  si  rende  applicabile ai magistrati, in virtu' del rinvio
disposto  dall'art. 276  del  regio  decreto  30 gennaio  1941, n. 12
(Ordinamento  giudiziario)  alle  disposizioni generali relative agli
impiegati  civili  dello  Stato, ne seguirebbe che la sospensione del
magistrato  disposta  «automaticamente» a seguito di condanna penale,
pur non definitiva (in forza dell'art. 4 della legge n. 97 del 2001),
sarebbe   destinata   a   perdere   efficacia,   decorso  il  termine
quinquennale,  mentre  la  sospensione  applicata  sulla  base di una
valutazione  sommaria  dei  fatti  non  incontrerebbe alcun limite di
durata.   Cio',  prosegue  la  sezione  disciplinare,  nonostante  il
bilanciamento  tra  l'esigenza cautelare e l'interesse del dipendente
sia  stato  operato  dal  legislatore,  fissando un limite massimo di
durata   della   sospensione  dal  servizio,  che  resterebbe  invece
inapplicabile alla misura disposta ai sensi dell'art. 31 del r.d.lgs.
n. 411   del   1946,   sia   pure  sulla  base  di  un  apprezzamento
discrezionale  in  ordine alla sussistenza del fumus degli addebiti e
delle  esigenze  cautelari, ma «pur sempre in relazione alla pendenza
di  un  procedimento  penale  ed  ai  fatti  per  i  quali in esso si
procede».
    Nel  caso  di  specie,  aggiunge  il remittente, il magistrato e'
stato  sospeso  dalle  funzioni a seguito di una valutazione sommaria
dei fatti addebitatigli nel procedimento penale.
    Inoltre, essendo difficile immaginare mutamenti delle circostanze
poste  a fondamento della contestazione, suscettibili di giustificare
una  revoca  della  misura cautelare, non riconducibili agli sviluppi
del  procedimento  penale,  la  misura stessa finirebbe per avere una
«durata indefinita».
    Pertanto,  conclude  la sezione remittente, la mancata previsione
nelle  disposizioni  censurate  di un termine di durata massima della
misura  cautelare  applicata  a  seguito  di  delibazione  dei  fatti
apparirebbe  in  contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto
introdurrebbe   una  disparita'  di  trattamento  non  giustificabile
rispetto  al  modo in cui e' disciplinata l'ipotesi della sospensione
applicata «a causa del procedimento penale».
    2. - E'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che
la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
    Con  memoria depositata in prossimita' della camera di consiglio,
l'Avvocatura,   ripercorse   le   tappe  del  procedimento  penale  e
disciplinare  a  carico  del magistrato, ha osservato che il giudizio
demandato  alla  sezione disciplinare del CSM e' autonomo rispetto al
processo  penale  per  i  medesimi  fatti, posto che tende a «rendere
concreto il diritto all'autotutela dell'amministrazione giudiziaria»,
garantendo l'immagine e la credibilita' dell'ordine giudiziario.
    Pertanto, conclude l'Avvocatura, benche' la mancata previsione di
un  termine  massimo  di  durata  della misura cautelare comporti una
«discriminazione»  tra  i magistrati e gli altri pubblici dipendenti,
tuttavia quest'ultima e' da ritenersi non irragionevole.
    Vi  sarebbe,  infatti, la necessita' di precludere il rientro del
magistrato  nell'esercizio  delle  funzioni,  fino a quando sia stato
fugato ogni dubbio sull'«irreprensibilita» del suo comportamento.

                       Considerato in diritto

    1. - La   sezione  disciplinare  del  Consiglio  superiore  della
magistratura,  chiamata  a  pronunciarsi sull'istanza di revoca di un
provvedimento  di sospensione di un magistrato dalle funzioni e dallo
stipendio,  disposto a seguito del rinvio a giudizio del medesimo con
l'imputazione  di  partecipazione  ad  associazione  a  delinquere di
stampo  camorristico  e  di  corruzione,  ha  sollevato  questione di
legittimita'   costituzionale,   in   riferimento   all'art. 3  della
Costituzione,  dell'art. 9,  secondo  comma,  della  legge 7 febbraio
1990,   n. 19   (Modifiche   in   tema  di  circostanze,  sospensione
condizionale  della  pena  e destituzione dei pubblici dipendenti), e
dell'art. 31  del  regio  decreto  legislativo 31 maggio 1946, n. 511
(Guarentigie  della  magistratura),  nella parte in cui non prevedono
«un   termine   di   durata  massima  della  misura  cautelare  della
sospensione discrezionalmente disposta in base a valutazione sommaria
nel merito dei fatti dedotti nel procedimento penale».
    La  sezione  remittente  premette  che il magistrato imputato era
stato  sospeso,  ai  sensi  dell'art. 31,  terzo  comma, del r.d.lgs.
n. 511  del  1946  (secondo  il  quale  «il  magistrato  sottoposto a
procedimento   penale   per  delitto  non  colposo  puo'  ...  essere
provvisoriamente  sospeso  dalle  funzioni  e  dallo stipendio»), con
un'ordinanza  che  -  a  seguito  dell'annullamento  di un precedente
analogo  provvedimento,  e  in  conformita'  al  principio di diritto
enunciato dalla Corte di cassazione - era stata adottata non gia' sul
mero  presupposto  della  pendenza  del  procedimento penale e di una
valutazione  in  astratto  della  gravita'  dell'imputazione, ma alla
stregua di una autonoma valutazione, sia pure contenuta nei limiti di
una  delibazione  sommaria, del merito in ordine alla responsabilita'
del  magistrato, al rilievo disciplinare della condotta attribuitagli
e  alla sussistenza di esigenze che in concreto rendevano inopportuna
la sua permanenza in servizio.
    La  sezione  richiama  la  giurisprudenza  di questa Corte, dalla
quale  ricava il principio secondo cui la regola della durata massima
quinquennale    della    misura   cautelare   sospensiva,   stabilita
dall'art. 9,  comma 2,  della  legge  n. 19  del 1990 in relazione ai
pubblici  dipendenti  sospesi «a causa del procedimento penale», vale
come  clausola  di garanzia di portata generale applicabile sia nelle
ipotesi  in  cui  la sospensione e' disposta in base ad un obbligo di
legge  (c.d.  sospensione  «automatica»),  sia  in quelle in cui, pur
essendo  rimesso  all'amministrazione il potere di disporre la misura
cautelare,  l'applicazione  di  questa consegua ad una valutazione in
cui  e'  la  pendenza  del  procedimento  penale  in  se'  e  per se'
considerata,  in  ragione  della  gravita'  dei  fatti  contestati, a
costituire  la ragione giustificatrice sufficiente dell'esercizio del
potere   discrezionale  da  parte  dell'amministrazione  medesima;  e
sottolinea   la   differenza   tra  l'ipotesi  di  misura  sospensiva
applicabile    automaticamente   e   quella   di   sospensione   c.d.
«discrezionale»  conseguente ad una valutazione nel merito dei fatti,
sia pure contenuta nei limiti di una delibazione sommaria.
    Tuttavia  la  sezione, alla luce della recente sentenza di questa
Corte   n. 145   del   2002,  che  ha  dichiarato  la  illegittimita'
costituzionale  dell'art. 4,  comma 2,  della  legge n. 97 del 2001 -
relativo   alla  sospensione  obbligatoria  dei  dipendenti  pubblici
condannati,  anche non definitivamente, per determinati reati - nella
parte  in  cui  disponeva  che la sospensione perdesse efficacia solo
decorso  un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato,
rendendo  cosi'  applicabile  alla fattispecie la regola della durata
massima  quinquennale  di  cui all'art. 9, comma 2, della legge n. 19
del  1990,  reputa  che non sia razionalmente giustificata, alla luce
dell'art. 3 della Costituzione, una diversita' di disciplina per cui,
mentre la sospensione cautelare dal servizio disposta automaticamente
per  effetto  di  una  sentenza  penale  di  condanna perde efficacia
decorsi  cinque anni, e' invece suscettibile di protrarsi anche oltre
tale    termine    la    sospensione    disposta    discrezionalmente
dall'amministrazione  in  base  ad un'autonoma e sommaria valutazione
dei  fatti  dedotti  nel  procedimento penale, e quindi pur sempre in
relazione  alla  pendenza  del  procedimento penale ed ai fatti per i
quali in esso si procede. E aggiunge che, nel caso concreto, restando
lo   sviluppo   del   procedimento  disciplinare  condizionato  dallo
svolgimento del procedimento penale, apparirebbe difficile ipotizzare
mutamenti  di  circostanze  suscettibili  di  giustificare una revoca
della  misura  cautelare,  che  non  siano sopravvenuti nel corso del
procedimento penale e non si riconducano agli sviluppi di esso.
    2. - La questione non e' fondata.
    Come  la  stessa sezione remittente ricorda, la giurisprudenza di
questa  Corte  ha  affermato  da  tempo  la  necessita' che le misure
cautelari  sospensive  nei  confronti  di  pubblici  impiegati  o  di
esercenti  funzioni  pubbliche siano adottate, in linea di principio,
dall'amministrazione  competente in base ad un apprezzamento concreto
sia  degli  addebiti,  sia delle esigenze cautelari; ha precisato che
non  puo'  pero'  negarsi al legislatore, in circoscritte ipotesi, la
possibilita'  di  effettuare  direttamente  l'apprezzamento  di  tali
esigenze   cautelari   in   relazione   alla   pendenza,   a   carico
dell'interessato,  di  procedimenti  penali per fatti suscettibili di
avere  anche rilievo disciplinare, e comunque per accuse suscettibili
di   rendere   inopportuna,   per  l'amministrazione,  la  permanenza
dell'interessato nell'esercizio delle funzioni; ha affermato che, ove
la   misura   cautelare  si  colleghi  esclusivamente,  come  effetto
«automatico»,  alla  pendenza  di un procedimento penale, un corretto
contemperamento  degli  interessi  di rilievo costituzionale in gioco
esige  che  sia  fissata  una  ragionevole durata massima alla misura
cautelare (cfr. sentenze n. 766 del 1988, n. 595 del 1990, n. 239 del
1996,  n. 447  del 1995, n. 206 del 1999, n. 454 del 2000, n. 145 del
2002).
    L'esigenza di tale limitazione temporale e' connessa al carattere
«automatico»  della  misura  o  quanto  meno  alla circostanza che la
sospensione  sia  disposta  sulla  base  del  mero dato formale della
pendenza  del  procedimento  penale,  cioe'  e' connessa al fatto che
l'apprezzamento  dell'esistenza  delle  esigenze  cautelari, anziche'
essere  frutto  di  una autonoma valutazione dell'amministrazione, e'
compiuto «in astratto» dal legislatore, e collegato all'accusa penale
«solo  in  quanto e' la pendenza dell'accusa, come tale, che mette in
pericolo interessi» dell'amministrazione (sentenza n. 206 del 1999).
    Quando   invece   la   misura   cautelare   sia  di  applicazione
discrezionale,  nel  senso  che  «in  tanto  puo' essere adottata, in
quanto  l'autorita'  competente  riscontri in concreto la sussistenza
delle  esigenze  cautelari  che  la motivano, e puo' essere mantenuta
solo  fino  a  quando  tali  esigenze  permangano»,  allora  «si deve
escludere  che sia costituzionalmente necessaria la determinazione di
un  limite  massimo  di  durata,  oltre  il quale la misura non possa
essere  mantenuta, pur permanendo, in ipotesi, le esigenze cautelari»
(sentenza n. 454 del 2000).
    Da  questi  principi non si discosta la sentenza n. 145 del 2002,
invocata  dalla  sezione  remittente:  in  essa  si  ribadisce che la
clausola di garanzia della durata massima della misura comprende ogni
«ipotesi di sospensione dal servizio a causa del procedimento penale,
sia  facoltativa che obbligatoria», con riferimento ai casi in cui e'
la sola pendenza del procedimento penale, in quanto tale, che conduce
alla  sospensione,  indipendentemente  da  un  autonomo apprezzamento
delle esigenze cautelari in concreto ad opera dell'amministrazione: e
infatti  l'applicazione  del principio fatta dalla Corte in quel caso
riguarda  proprio  una  ipotesi  - quella di cui all'art. 4, comma 2,
della  legge n. 97 del 2000 - che prevede la sospensione obbligatoria
(c.d.  «automatica») a seguito di condanna, anche non definitiva, per
determinati delitti.
    In  coerenza  con questa impostazione, la stessa Corte, quando ha
giustificato  costituzionalmente  la  durata limitata nel tempo della
sospensione  del  dipendente  a  causa  del  mero  dato formale della
pendenza  del  procedimento  penale,  o ha fornito un'interpretazione
costituzionalmente conforme di norme che prevedevano siffatte ipotesi
di  sospensione, ritenendole vincolate ad una durata massima limitata
nel  tempo, ha sottolineato che, scaduto il termine massimo di durata
della    sospensione    «a    causa    del    procedimento   penale»,
all'amministrazione  resta  il  potere  di ricorrere, sussistendone i
presupposti, alla sospensione facoltativa o discrezionale, per motivi
non  piu' consistenti nella mera pendenza del procedimento penale, ma
fondati  sulla  cognizione  sia  pure  sommaria dei fatti costituenti
illecito disciplinare e sull'apprezzamento in concreto delle esigenze
cautelari  (sentenza  n. 447  del  1995  e n. 206 del 1999; ordinanza
n. 278 del 1999, e cfr. anche sentenza n. 454 del 2000).
    3. - La   normativa   tuttora  vigente,  relativa  ai  magistrati
ordinari,  prevede  che  all'inizio  o  nel  corso  del  procedimento
disciplinare  l'organo  competente  (oggi la sezione disciplinare del
CSM),  su  richiesta  del  Ministro  o del pubblico ministero, possa,
sentito  l'incolpato,  «disporne  la  sospensione  provvisoria  dalle
funzioni  e  dallo  stipendio»  (art. 30,  primo  comma, del r.d.lgs.
n. 511  del 1946); che il magistrato sottoposto a procedimento penale
sia  sospeso  di diritto dalle funzioni e dallo stipendio «dal giorno
in  cui  e'  stato  emesso contro di lui mandato o ordine di cattura»
(art. 31, primo comma); e che il magistrato sottoposto a procedimento
penale per delitto non colposo possa «essere provvisoriamente sospeso
dalle funzioni e dallo stipendio» (art. 31, terzo comma).
    Non  sembra dubbio che, nell'impostazione originaria della legge,
tale  ultima  sospensione,  pur  facoltativa,  si  configurasse  come
conseguenza del semplice dato formale della pendenza del procedimento
penale,  comportando  per  l'amministrazione solo il potere-dovere di
apprezzare  in  astratto  la  gravita'  dell'accusa. E dunque, fino a
quando  questo  era il senso attribuito a tale norma - in conformita'
anche  alla  meno  recente  giurisprudenza di legittimita' -, ad essa
avrebbe  dovuto  assegnarsi  portata  analoga a quella di altre norme
simili  che  prevedono  la  sospensione  «a  causa  del  procedimento
penale»,  con  conseguente  applicabilita' della garanzia relativa al
termine di durata massima.
    Ma  non  e'  questo  il  significato  che  alla  norma  impugnata
attribuisce  la  sezione remittente: la quale, fondandosi su una piu'
recente   giurisprudenza   di  legittimita',  formatasi  proprio  con
riguardo al caso concreto davanti ad essa in esame, e che ha corretto
il  precedente  orientamento  (Cass.,  sez.  un. civ., 3 giugno 1997,
n. 4965;  8 luglio  1998, n. 6631), intende la norma in questione nel
senso  che la misura cautelare puo' essere disposta non gia' sul mero
presupposto della pendenza del procedimento penale e sulla base di un
esame solo formale dell'accusa contestata in quel procedimento, ma in
base  ad  una  autonoma  delibazione  «del  merito ... in ordine alla
responsabilita'   del   magistrato,  al  rilievo  disciplinare  della
condotta   attribuitagli  e  alla  sussistenza  di  esigenze  che  in
concreto» renderebbero «inopportuna la sua permanenza in servizio», e
dunque  in  base  ad un apprezzamento «in ordine alla sussistenza del
fumus  degli  addebiti  e  delle  esigenze  cautelari», ancorche' pur
sempre in relazione alla pendenza del procedimento penale ed ai fatti
per i quali in esso si procede.
    In   tale  contesto,  la  misura  cautelare  non  ha  piu'  nulla
dell'«automatismo»  che  secondo  la  giurisprudenza  di questa Corte
comporta,    per   ragioni   di   contemperamento   degli   interessi
costituzionali  in  gioco,  la  necessita'  di una durata rigidamente
limitata  nel  tempo:  essa  puo' dunque legittimamente durare fino a
quando  permangano le esigenze cautelari discrezionalmente apprezzate
dall'amministrazione.
    D'altra parte possono ipotizzarsi anche mutamenti di circostanze,
tali  da  poter  comportare  una  revoca  della  misura,  che  non si
riconducano  alle  vicende  del  procedimento  penale;  e  l'esigenza
cautelare  puo'  e deve sempre essere rivalutata dall'amministrazione
anche  in  relazione  al  tempo trascorso e ad eventuali sviluppi del
procedimento penale che possano avere specifico rilievo a tali fini.
    4. - E'  pur  vero  che, interpretato l'art. 31, terzo comma, del
r.d.lgs.  n. 511  del  1946  nel  senso  fatto  proprio dalla sezione
remittente  e  dalla  piu'  recente  giurisprudenza  di legittimita',
vengono  a  sfumare  considerevolmente  i  confini fra questa ipotesi
normativa  e  quella  della  sospensione  per  gravi  motivi adottata
all'inizio  o  nel  corso  del  procedimento  disciplinare,  prevista
dall'art. 30,  primo  comma, dello stesso r.d.lgs. n. 511 del 1946. E
tuttavia  tale circostanza, se puo' fondare l'auspicio di un riordino
legislativo    dell'intera    materia,   non   muta   i   presupposti
costituzionali  su  cui  si  fonda la giurisprudenza di questa Corte,
secondo  i quali la necessita' di un termine rigido di durata massima
della  misura  cautelare  vale  solo  nei  casi  in  cui essa non sia
adottata   in   base   ad   una  autonoma  valutazione  discrezionale
dell'amministrazione  in  ordine  ai  presupposti  di  fatto  e  alla
sussistenza delle esigenze cautelari.
    Nella  specie,  cio'  conduce a ritenere non fondata la questione
nei  riguardi  delle  norme  impugnate, interpretate nel senso dianzi
visto e fatto proprio dalla sezione remittente.