ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nei giudizi per conflitti di attribuzione sorti a seguito del decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri del 24 maggio 2001, recante
«Linee  guida  concernenti  i  protocolli  di intesa da stipulare tra
regioni   e   universita'   per   lo   svolgimento   delle  attivita'
assistenziali  delle  universita'  nel  quadro  della  programmazione
nazionale  e  regionale  ai  sensi  dell'art. 1, comma 2, del decreto
legislativo  21 dicembre  1999,  n. 517.  Intesa ai sensi dell'art. 8
della legge 15 marzo 1997, n. 59», promossi con ricorsi delle Regioni
Lombardia   e  Lazio,  notificati  l'8 ottobre  2001,  depositati  in
cancelleria  il 18 successivo ed iscritti ai nn. 35 e 36 del registro
conflitti 2001.
    Visti  gli  atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito   nell'udienza  pubblica  del  1° luglio  2003  il  giudice
relatore Ugo De Siervo;
    Udito  l'avvocato  Beniamino  Caravita  di Toritto per le Regioni
Lombardia e Lazio.

                          Ritenuto in fatto

    1. - La  Regione  Lombardia, con ricorso depositato il 18 ottobre
2001,  e  la  Regione  Lazio,  con  ricorso  di  identico  contenuto,
depositato   nella   medesima  data,  hanno  sollevato  conflitto  di
attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri,
in  relazione  al  decreto  del Presidente del Consiglio dei ministri
24 maggio  2001  (Linee  guida  concernenti i protocolli di intesa da
stipulare   tra  Regioni  e  Universita'  per  lo  svolgimento  delle
attivita'   assistenziali   delle   Universita'   nel   quadro  della
programmazione  nazionale  e regionale ai sensi dell'art. 1, comma 2,
del  d.lgs.  21 dicembre  1999,  n. 517. Intesa, ai sensi dell'art. 8
della   legge   15 marzo  1997,  n. 59),  pubblicato  nella  Gazzetta
Ufficiale, serie generale, 9 agosto 2001, n. 184.
    2. - Le  ricorrenti  evidenziano  preliminarmente che il Governo,
nel  deliberare  in  data  17 maggio  2001  il  d.P.C.m.  emanato  il
successivo 24 maggio, avrebbe violato - «non concedendo concretamente
alle  Regioni  la  possibilita'  di  pervenire  ad  un  accordo» - il
principio di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni.
    Per  l'adozione  di  tale  d.P.C.m.,  sarebbe  stata  seguita  la
procedura  prevista  dall'art. 8, comma 2, della legge 15 marzo 1997,
n. 59  (Delega  al  Governo per il conferimento di funzioni e compiti
alle   regioni   ed  enti  locali,  per  la  riforma  della  Pubblica
Amministrazione   e   per  la  semplificazione  amministrativa),  che
disciplina  le  ipotesi  nelle  quali  non  venga raggiunta la previa
intesa  con  la  Conferenza  Stato-Regioni.  L'art. 8, comma 2, della
citata  legge  stabilisce,  infatti,  che per gli atti di indirizzo e
coordinamento    (art. 8,    comma 1)   «qualora   nel   termine   di
quarantacinque  giorni  dalla  prima  consultazione  l'intesa non sia
stata  raggiunta,  gli  atti  sono  adottati  con  deliberazione  del
Consiglio  dei ministri, previo parere della Commissione parlamentare
per  le  questioni  regionali  da esprimere entro trenta giorni dalla
richiesta».
    Con  cio',  ad avviso delle ricorrenti, il Governo sarebbe venuto
meno ad una prassi in base alla quale il termine previsto dall'art. 8
della  legge n. 59 del 1997 decorrerebbe dalla seduta in cui e' stata
constatata  la  mancata  intesa  (nel caso, il 19 aprile 2001), e non
gia'  da  quella in cui e' stato intrapreso l'esame del provvedimento
(nel  caso, l'8 marzo 2001). La procedura adottata dall'esecutivo, ad
avviso  delle  Regioni  Lombardia  e  Lazio,  denoterebbe chiaramente
«l'assenza  del  minimo  intento  di  quest'ultimo  di  esplorare  la
possibilita'  di  un accordo»; e cio' contrasterebbe con il principio
di  leale  collaborazione,  ai  sensi  del  quale  -  come piu' volte
affermato da questa stessa Corte - il Governo non potrebbe utilizzare
la  facolta' di decidere unilateralmente al fine di svuotare di senso
la  prescrizione  dell'intesa,  senza  verificare  effettivamente  la
possibilita' che quest'ultima venga raggiunta.
    La  stessa  Commissione  parlamentare per le questioni regionali,
nel   parere   reso  in  data  17 maggio  2001,  avrebbe  manifestato
perplessita'  proprio  su alcune delle norme che non avevano ricevuto
il consenso delle Regioni.
    3. - Le  ricorrenti rappresentano, peraltro, che in data 8 agosto
2001,  prima  quindi  della  pubblicazione  in Gazzetta Ufficiale del
d.P.C.m.  oggetto  di  ricorso,  sarebbe  intervenuto  l'«Accordo tra
Governo,  regioni  e le province autonome di Trento e Bolzano recante
integrazioni  e  modifiche  agli  accordi  sanciti  il  3 agosto 2000
(repertorio  atti  1004) e il 22 marzo 2001 (repertorio atti 1210) in
materia   sanitaria»,  pubblicato  nella  Gazzetta  Ufficiale,  serie
generale,  del  6 settembre  2001,  n. 207, i cui contenuti sarebbero
stati   recepiti   dal   decreto-legge   18 settembre   2001,  n. 347
(Interventi  urgenti in materia di spesa sanitaria), pubblicato nella
Gazzetta  Ufficiale,  serie  generale del 19 settembre 2001, n. 218 e
successivamente  convertito  in legge, con modificazioni, dall'art. 1
della  legge  16 novembre  2001, n. 405. Le ricorrenti sostengono che
sia   l'Accordo  che  il  decreto-legge  interverrebbero  su  aspetti
disciplinati  dal d.P.C.m. 24 maggio 2001 «operando, tuttavia, in una
direzione  opposta». Il d.P.C.m., inoltre, sarebbe una fonte di grado
inferiore  e,  dal  punto  di vista sostanziale, sarebbe superata dai
contenuti del decreto-legge» n. 347 del 2001.
    4. - Nell'Accordo  dell'8 agosto  2001 il Governo avrebbe assunto
l'impegno   ad   emanare,   entro   il  31 dicembre  2001,  «tutti  i
provvedimenti  necessari  a  confermare  la  piena riconduzione delle
attivita'    assistenziali    svolte    dalle   aziende   ospedaliere
universitarie  (miste  e/o policlinici) alla programmazione regionale
prevedendo  una  adeguata  corresponsabilizzazione  finanziaria delle
Universita' per la loro parte».
    In  attuazione  di tale Accordo, il decreto-legge n. 347 del 2001
avrebbe,  tra  l'altro,  previsto  sia  un intervento dello Stato nel
finanziamento  del  Servizio sanitario nazionale per l'anno 2001, sia
un impegno delle Regioni ad assumere, «per le ipotesi di disavanzi, a
proprio  carico la copertura dei relativi oneri», sia una definizione
del quadro finanziario complessivo ed esaustivo delle risorse statali
da utilizzare per il triennio 2002-2004.
    5. - Nei   ricorsi  si  sottolinea,  inoltre,  che  le  modifiche
apportate  dal  decreto-legge  n. 347  del 2001 all'art.19 del d.lgs.
30 dicembre  1992,  n. 502  (Riordino  della  disciplina  in  materia
sanitaria  a  norma dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421),
nella  parte  in  cui  si  stabilisce che «non costituiscono principi
fondamentali,  ai  sensi dell'art. 117 della Costituzione, le materie
di  cui  agli articoli 4, comma 1-bis, e 9-bis» avrebbero prodotto un
«considerevole ampliamento della potesta' organizzativa delle Regioni
anche     con     riguardo     all'organizzazione    delle    aziende
ospedaliero-universitarie».
    Le  Regioni  Lombardia  e  Lazio, pur non volendo disconoscere la
necessita'  che  vi  sia  coerenza  e  funzionalita' tra le attivita'
assistenziali  e  quelle  di  ricerca e di didattica svolte presso le
aziende    ospedaliero-universitarie,   contestano,   tuttavia,   «la
rigidita'  con  la quale viene configurato il rapporto tra i due tipi
di  attivita'  e la totale estromissione delle Regioni, vere titolari
della   programmazione   e   della   organizzazione   dell'assistenza
ospedaliera regionale nonche' responsabili dei costi della stessa».
    6. - Le  ricorrenti  evidenziano  ancora come vi sarebbe stato in
piu'   casi   un  contrasto  con  i  principi  espressi  dalla  Corte
costituzionale,  la quale, in numerose decisioni, avrebbe ribadito la
competenza  delle  Regioni in ordine alla organizzazione del servizio
sanitario, precisando, in particolare, che «ferma la possibilita' per
lo  Stato  di  delineare il modello organizzativo con disposizioni di
principio, deve residuare alla Regione uno spazio di libera scelta in
ordine  alla  disciplina  dell'organizzazione,  che  non  puo' essere
compresso  senza pregiudicare lo statuto costituzionale di autonomia»
(sentenza n. 74 del 2001).
    7. - Quanto  alle singole disposizioni del d.P.C.m. impugnato, le
Regioni   ricorrenti   lamentano   innanzi   tutto   la   previsione,
nell'art. 1,   comma 2,   della   obbligatorieta'  del  parere  delle
Universita'  sedi  di  facolta'  di  medicina  e  chirurgia in ordine
all'adozione o all'adeguamento del piano sanitario regionale, nonche'
la  previsione,  contenuta  nella  medesima  disposizione, secondo la
quale  «il parere si intende espresso in senso favorevole qualora non
pervenga  entro  sessanta  giorni  dal  ricevimento della richiesta».
Sempre  a  proposito  della  partecipazione  delle  Universita'  alla
programmazione  sanitaria,  l'art. 1,  comma 4,  stabilisce  che «per
materie  che  implicano  l'integrazione  tra attivita' assistenziali,
didattiche  e  di ricerca, i protocolli di intesa tra la regione o la
provincia autonoma e le Universita' prevedono forme di collaborazione
nell'elaborazione e nella stesura di proposte per la formulazione del
piano sanitario regionale o di altri documenti o progetti concernenti
la  programmazione  attuativa  regionale  e locale, tenendo conto dei
programmi  di  sviluppo  delle  facolta'  di  medicina  e  chirurgia,
deliberati dalle stesse e approvati dagli organi dell'ateneo».
    Tali  disposizioni  sarebbero  «chiaramente lesive dell'autonomia
regionale  in  materia  di  programmazione e indirizzo» relativamente
all'assistenza  sanitaria,  ai  sensi  degli  artt. 117  e  118 della
Costituzione,   dal   momento  che  lo  Stato  non  potrebbe  imporre
specifiche  forme di collaborazione, ne' tanto meno dettare i termini
entro  i  quali  esse  devono  essere  attuate. La compressione delle
prerogative regionali sarebbe provata, del resto, dal contrasto delle
disposizioni   impugnate  con  il  d.lgs.  21 dicembre  1999,  n. 517
(Disciplina   dei   rapporti  fra  Servizio  sanitario  nazionale  ed
Universita',  a  norma  dell'art. 6  della  legge  30 novembre  1998,
n. 419),  ed  in  particolare  con  il  suo art. 1, comma 2, il quale
prevede  che  l'atto  governativo  di  indirizzo e coordinamento deve
curare  la  definizione  «delle  linee  generali della partecipazione
delle   Universita'   alla   programmazione   sanitaria   regionale».
Determinante  sarebbe,  inoltre, l'impegno assunto dal Governo con il
citato  Accordo  dell'8 agosto  2001,  a  ricondurre  interamente  le
attivita' assistenziali delle aziende ospedaliere alla programmazione
regionale.
    8. - Anche gli artt. 2, comma 3, lettera b) e 3, comma 1, primo e
terzo  periodo,  determinerebbero  una illegittima compressione della
autonomia   regionale   in   relazione  alle  competenze  concernenti
l'assistenza sanitaria e ospedaliera. La prima delle due disposizioni
citate sarebbe lesiva delle competenze regionali «in quanto subordina
l'individuazione,  da  parte dei protocolli d'intesa, delle attivita'
assistenziali  e dei relativi parametri alle esigenze delle attivita'
istituzionali  delle  facolta'  di  medicina  e chirurgia», mentre la
seconda    sarebbe    costituzionalmente   illegittima,   in   quanto
individuerebbe,  in  modo  diretto  e dettagliato, il numero di posti
letto  messi a disposizione delle facolta' di medicina e chirurgia da
parte  delle  strutture di degenza. Gli artt. 2 e 3, comma 1, citati,
contrasterebbero  con  l'art. 1  del  d.lgs.  n. 517 del 1999, di cui
costituiscono  attuazione,  dal  momento  che  la disposizione appena
menzionata  si  limiterebbe  ad  indicare al Governo di «promuovere e
disciplinare l'integrazione dell'attivita' assistenziale, formativa e
di ricerca del S.S.N. e Universita». Viceversa, il d.P.C.m. impugnato
non  integrerebbe tra loro i due tipi di attivita', ma subordinerebbe
la  prima  alle  seconde.  Da  ultimo,  le  ricorrenti notano come le
modifiche apportate dal decreto-legge n. 347 del 2001 all'art. 19 del
d.lgs.  n. 502  del 1992 avrebbero consistentemente ampliato i poteri
delle    Regioni   in   ordine   all'organizzazione   delle   aziende
ospedaliero-universitarie.
    9. - Vengono prospettate censure anche avverso l'art. 3, comma 8,
e  l'articolo 4,  comma 3,  e  comma 7,  lettera  f). In particolare,
l'art. 3  comma 8,  a  giudizio  delle  due  ricorrenti, lederebbe le
attribuzioni   costituzionali  delle  Regioni,  nella  parte  in  cui
individua  «direttamente  e  dettagliatamente  i  livelli  minimi  di
attivita',  sia  con  riguardo alle strutture assistenziali complesse
funzionali  alle esigenze di didattica e di ricerca, sia con riguardo
alle  esigenze di didattica e di ricerca»; l'art. 4, comma 3, sarebbe
lesivo    delle    competenze   regionali,   in   quanto   imporrebbe
l'individuazione,  da  parte dei protocolli d'intesa, delle strutture
assistenziali  complesse  essenziali  alle esigenze di didattica e di
ricerca  dei  corsi  di  laurea  di  medicina  e chirurgia, definendo
criteri  molto  dettagliati.  L'art. 4,  comma 7, lettera f), invece,
violerebbe  la  potesta'  legislativa  regionale,  nella parte in cui
prevede l'intesa con il rettore per la nomina, da parte del direttore
generale,  del  direttore  del  dipartimento  ad attivita' integrata;
inoltre il direttore dei dipartimenti individuati come essenziali per
l'espletamento   delle   funzioni  assistenziali  della  facolta'  di
medicina, dovrebbe essere scelto tra i professori universitari.
    Tali  norme  determinerebbero  una  incostituzionale compressione
delle  prerogative  regionali,  in  quanto  definirebbero  un  rigido
modello  organizzativo,  unico  su tutto il territorio nazionale, non
lasciando  spazio  alle  scelte  proprie  delle Regioni, ne' a quelle
delle   stesse  aziende  ospedaliere;  cio',  peraltro,  in  asserito
contrasto  con  le  previsioni  del  d.lgs.  n. 502  del  1992,  come
modificato   dal   d.lgs.   19  giugno 1999,  n. 229  (Norme  per  la
razionalizzazione   del   Servizio   sanitario   nazionale,  a  norma
dell'articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419). Nel ricorso si
osserva,   inoltre,   come  le  prescrizioni  delle  disposizioni  in
questione  violerebbero  l'Accordo  dell'8 agosto  2001  gia' citato,
nell'ambito  del  quale  lo  Stato  si  era impegnato a ricondurre le
attivita' delle aziende ospedaliero-universitarie alla programmazione
regionale.
    Ancora,  le  Regioni  ricorrenti evidenziano come in relazione ai
profili   concernenti   l'art. 4,  comma 7,  lettera  f),  la  stessa
Commissione parlamentare per le questioni regionali aveva manifestato
perplessita' non dissimili da quelle illustrate nel ricorso.
    10. - Da  ultimo,  ad  essere  ritenuto  lesivo delle prerogative
regionali  e'  anche l'art. 10 del d.P.C.m. impugnato, in particolare
nei  suoi commi 2 e 6, concernenti la compartecipazione delle Regioni
e   delle   Universita'   ai  risultati  di  gestione  delle  aziende
ospedaliero-universitarie.  Le disposizioni citate, prevedendo che il
contributo  delle  Universita'  sia  limitato  al  personale e a beni
mobili  e immobili, nonche' l'obbligo delle Regioni di concordare con
le Universita', in caso di disavanzo, il piano poliennale di rientro,
definirebbero   una   partecipazione   delle   Universita'  ai  costi
decisamente   inadeguata,   a   fronte   peraltro  di  una  eccessiva
compressione della autonomia organizzativa regionale.
    Ancora  una  volta,  si  ritiene che le disposizioni censurate si
pongano   in  contrasto  con  l'Accordo  dell'8 agosto  2001,  ed  in
particolare  con  l'impegno  assunto  dallo Stato a prevedere, previa
intesa   con   le   Regioni,   adeguate  forme  di  compartecipazione
finanziaria   delle   Universita'.  Sarebbe  inoltre  ravvisabile  un
contrasto  puntuale dell'art. 10, commi 2 e 6, con l'art. 3, comma 2,
del  decreto-legge  n. 347  del 2001, ai sensi del quale alle regioni
sarebbe  attribuito  il  potere  di  adottare  tutte  le disposizioni
necessarie:
        «a)  per  stabilire  l'obbligo  delle  aziende  sanitarie  ed
ospedaliere  di  garantire l'equilibrio economico dei singoli presidi
ospedalieri;
        b) per individuare le tipologie degli eventuali provvedimenti
di riequilibrio;
        c)  per determinare le misure a carico dei direttori generali
nell'ipotesi di mancato raggiungimento dell'equilibrio economico».
    Anche  il  disposto  del  comma 3,  dell'art. 4 del decreto-legge
citato sarebbe particolarmente probante sul punto.
    Tale  disposizione  infatti attribuirebbe alle Regioni l'onere di
coprire  i  disavanzi di gestione, nonche' il potere di dettare norme
volte  a  regolare  le  modalita'  tramite  le  quali  effettuare  la
copertura,  eventualmente  anche  mediante la previsione di misure di
compartecipazione  alla  spesa  sanitaria dei principali soggetti che
concorrono alla determinazione di quest'ultima.
    11. - Si  e' costituito il Presidente del Consiglio dei ministri,
per  mezzo  dell'Avvocatura  generale  dello  Stato, chiedendo che il
ricorso sia dichiarato inammissibile o comunque infondato, poiche' il
d.P.C.m.  oggetto  dei  ricorsi  non violerebbe le norme e i principi
costituzionali.
    12. - Il  18  giugno 2003  la Regione Lombardia ha depositato una
memoria  nella  quale  evidenzia,  preliminarmente,  come  l'atto  di
costituzione  della difesa erariale, datato 28 ottobre 2001, dovrebbe
considerarsi tardivo, e quindi inammissibile.
    13. - Nel  merito,  la  ricorrente ribadisce come successivamente
alla  pubblicazione  del  d.P.C.m.  impugnato  sarebbe intervenuto il
decreto-legge  n. 347  del  2001,  col  quale  sarebbe stato recepito
l'Accordo intervenuto tra Stato e Regioni l'8 agosto 2001.
    La  Regione  Lombardia  illustra peraltro la propria normativa in
tema di rapporti con le istituzioni universitarie, evidenziando come,
gia' precedentemente all'entrata in vigore dell'atto impugnato, aveva
proceduto  all'adozione  di  proprie  linee  guida  per la stipula di
convenzioni con le Universita' nel campo della formazione pre-laurea,
post-laurea e del diploma per il personale dell'area sanitaria. Sulla
base  di  tali  linee  guida  -  afferma  la  ricorrente - sono state
stipulate diverse convenzioni tra la stessa Regione e le Universita',
«prescindendo  pertanto  dalle  linee  guida  statali,  nel frattempo
dettate dal d.P.C.m. 24 maggio 2001».
    Tale  circostanza  sarebbe estremamente significativa ai fini del
presente   giudizio,   dal  momento  che  «l'auspicata  pronuncia  di
annullamento» dell'atto impugnato «scongiurerebbe (...) il rischio di
eventuali declaratorie di illegittimita', per violazione del d.P.C.m.
medesimo,  delle convenzioni stipulate dalla Regione Lombardia con le
Universita'  lombarde non in conformita' alle linee guida dettate dal
d.P.C.m. 24 maggio del 2001». Da tali argomenti sarebbe desumibile la
perduranza   dell'interesse  al  ricorso,  potendo  l'atto  impugnato
infatti   -   in  virtu'  del  principio  di  continuita'  -  «essere
considerato  operante  nei  confronti  delle  Regioni,  anche dopo la
riforma  del Titolo V, fino a quando le stesse Regioni non detteranno
criteri diversi da quelli ivi contenuti».
    Sostiene   inoltre   la  ricorrente  che,  se  la  Corte  non  si
pronunciasse  sull'atto impugnato, il Governo, fino alla introduzione
della  disciplina  regionale in materia, potrebbe esercitare i poteri
sostitutivi  che  l'art. 9  del d.P.C.m. gli riconosce per il caso di
mancata  stipulazione  dei  protocolli  d'intesa.  Il Governo infatti
potrebbe  sentirsi  legittimato  ad  esercitare  tali  poteri  «anche
nell'ipotesi  in  cui, come nel caso di specie, la Regione non avesse
stipulato  i  protocolli  d'intesa secondo le modalita' stabilite dal
d.P.C.m.  24 maggio  2001»,  considerando,  cioe',  equivalente  alla
mancata  stipula  delle  intese  la sottoscrizione di convenzioni non
conformi alle linee guida contenute nell'atto impugnato.
    14. - Da   ultimo,  la  Regione  Lombardia  evidenzia  come,  nel
contesto  del  nuovo Titolo V della Costituzione, il d.P.C.m. oggetto
di  contestazione  intervenga  in  materie nell'ambito delle quali la
competenza  regionale  e'  stata  accresciuta  rispetto al previgente
sistema.  Cosi'  sarebbe, ad esempio, per la «tutela della salute», a
fronte  della «assistenza sanitaria ed ospedaliera», o per la materia
della  «ricerca  scientifica».  A  cio'  si aggiunga che - secondo la
ricorrente  -  gli atti di indirizzo e coordinamento, quale e' l'atto
impugnato,  «nel  mutato  quadro  costituzionale (...) non dovrebbero
trovare  piu'  alcuna  giustificazione  nell'ambito  delle materie di
competenza concorrente».
    15. - Nelle  more  dell'udienza pubblica, e' entrata in vigore la
legge  5  giugno 2003,  n. 131  (Disposizioni per l'adeguamento della
Repubblica  alla  legge  costituzionale  18 ottobre 2001, n. 3), che,
all'art. 9,  comma 6,  dispone  che  «nei  ricorsi  per  conflitto di
attribuzione  tra  Stato  e  Regione  e  tra Regione e Regione, (...)
proposti  anteriormente alla data dell'8 novembre 2001, il ricorrente
deve  chiedere  la  trattazione del ricorso, con istanza diretta alla
Corte  costituzionale  e  notificata  alle  parti  costituite,  entro
quattro  mesi  dal  ricevimento  della  comunicazione di pendenza del
procedimento   effettuata   a  cura  della  cancelleria  della  Corte
costituzionale;  in  difetto di tale istanza, il ricorso si considera
abbandonato ed e' dichiarato estinto con decreto del Presidente».
    La  Regione  Lombardia  e  la Regione Lazio, successivamente alla
comunicazione  della Corte effettuata in data 18 giugno 2003 ai sensi
della  disposizione  sopra  riportata,  hanno  depositato  istanza di
trattazione  del ricorso, chiedendo di mantenere a tal fine l'udienza
gia' fissata per il 1° luglio 2003.

                       Considerato in diritto

    1. - Preliminarmente,   deve  essere  disposta  la  riunione  dei
giudizi  promossi  dalla  Regione Lombardia e dalla Regione Lazio, in
considerazione  dell'identita',  tanto  del  contenuto  dei  ricorsi,
quanto della posizione costituzionale delle due ricorrenti.
    2. - Le Regioni Lombardia e Lazio impugnano il d.P.C.m. 24 maggio
2001 (Linee guida concernenti i protocolli di intesa da stipulare tra
Regioni   e   Universita'   per   lo   svolgimento   delle  attivita'
assistenziali  delle  Universita'  nel  quadro  della  programmazione
nazionale  e  regionale  ai  sensi  dell'art. 1,  comma 2, del d.lgs.
21 dicembre  1999,  n. 517.  Intesa, ai sensi dell'art. 8 della legge
15 marzo  1997,  n. 59),  lamentando  la  violazione del principio di
leale  collaborazione, nonche', piu' specificamente, la lesione delle
proprie   competenze  costituzionalmente  garantite,  in  materia  di
assistenza  sanitaria  e  ospedaliera,  da  parte  degli  articoli 1,
commi 2  e 4; 2, comma 3, lettera b); 3, commi 1 e 8; 4, commi 3 e 7,
lettera f); 10, commi 2 e 6, del medesimo d.P.C.m.
    3. - La soluzione dei due conflitti oggetto del presente giudizio
puo'  prescindere  dalla valutazione delle censure di merito proposte
dalle  ricorrenti. Ne' appare necessaria una specifica valutazione in
ordine al rapporto tra l'atto impugnato e il d.lgs. 21 dicembre 1999,
n. 517  (Disciplina  dei rapporti fra Servizio sanitario nazionale ed
Universita',  a  norma  dell'art. 6  della  legge  30 novembre  1998,
n. 419), che ne costituisce il fondamento.
    I  ricorsi,  infatti, devono essere dichiarati inammissibili, per
sopravvenuta carenza di interesse.
    Le   stesse  ricorrenti  danno  conto  che  successivamente  alla
adozione  del d.P.C.m. in questa sede impugnato, e' stato adottato il
decreto-legge   18 settembre  2001,  n. 347  (Interventi  urgenti  in
materia di spesa sanitaria), convertito con modificazioni dall'art. 1
della  legge  16 novembre  2001,  n. 405.  L'art. 3, comma 1, di tale
decreto,  aggiunge  il comma 2-bis all'art. 19 del d.lgs. 30 dicembre
1992,  n.502  (Riordino della disciplina in materia sanitaria a norma
dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), il quale stabilisce
che  «non costituiscono principi fondamentali, ai sensi dell'art. 117
della Costituzione, le materie di cui agli articoli 4, comma 1-bis, e
9-bis»  dello  stesso  d.lgs.  n. 502  del  1992.  La  prima  di tali
disposizioni   individua   i   requisiti  cui  viene  subordinata  la
costituzione  o  la  conferma  in  azienda  ospedaliera  dei  presidi
ospedalieri  da  parte  delle Regioni, mentre la seconda disposizione
concerne  i  poteri  delle  Regioni  in  materia  di  sperimentazioni
gestionali. Dunque, l'effetto dell'art. 3, comma 1, del decreto-legge
piu'  sopra  richiamato  e'  innegabilmente  quello di una espansione
delle potesta' organizzative riconosciute alle Regioni nella suddetta
materia.
    Nelle   more   del  giudizio  e'  inoltre  intervenuta  la  legge
costituzionale  n. 3  del  2001,  che  ha profondamente modificato il
riparto delle competenze costituzionali tra lo Stato e le Regioni.
    4. - Il  nuovo  articolo 117,  terzo  comma,  della Costituzione,
affida alla potesta' legislativa concorrente delle Regioni la materia
della  tutela  della  salute,  nell'ambito  della  quale  si  colloca
senz'altro   la   disciplina  dettata  dal  decreto  in  questa  sede
impugnato. Pertanto, in tale materia le Regioni possono esercitare le
proprie  competenze  legislative  approvando una propria disciplina -
anche  sostitutiva  di  quella  statale  -  sia pure nel rispetto del
limite  dei  principi  fondamentali  posti  dalle  leggi dello Stato.
D'altra  parte,  deve  escludersi  la  possibilita'  per  lo Stato di
intervenire   in   tale   materia   con   atti   normativi  di  rango
sublegislativo,  in  considerazione di quanto disposto dall'art. 117,
sesto  comma,  della  Costituzione;  e  parimenti, e' da escludere la
permanenza in capo allo Stato del potere di emanare atti di indirizzo
e  coordinamento in relazione alla materia de qua, anche alla luce di
quanto  espressamente  disposto  dall'art. 8,  comma 6, della legge 5
giugno 2003,  n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento
della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), il
quale  stabilisce  che  «nelle  materie  di cui all'art. 117, terzo e
quarto  comma,  della  Costituzione,  non possono essere adottati gli
atti  di  indirizzo  e di coordinamento di cui all'art. 8 della legge
15 marzo  1997,  n. 59, e all'art. 4 del decreto legislativo 31 marzo
1998,  n. 112».  E'  pertanto  evidente  che  lo Stato non ha piu' il
potere di emanare un atto quale quello oggetto del presente giudizio.
    5. - In  definitiva,  nella  vicenda  in  esame  - come del resto
questa  Corte  ha  gia'  riconosciuto nei casi analoghi decisi con le
sentenze  n. 197  del  2003  e  n. 510  del  2002,  sia  pure rese in
occasione  di  giudizi di legittimita' costituzionale promossi in via
principale  -  risulta manifesta la sopravvenuta carenza di interesse
delle  ricorrenti,  poiche', da un lato, fino alla data di entrata in
vigore  della  legge  di modifica del Titolo V della Costituzione, le
norme   statali   impugnate   non   risultano   aver   alcun  effetto
concretamente  invasivo della sfera di attribuzioni regionali, stante
la   mancata   attuazione   della   disciplina   posta  dall'atto  in
contestazione, mentre, dall'altro lato, almeno a partire da tale data
le  medesime  norme  possono  essere  sostituite,  nei  limiti  delle
competenze regionali, da una apposita normazione regionale.
    Ne',  d'altronde,  risultano  addotti dalle ricorrenti - che pure
riconoscono  esplicitamente  gli  effetti  di  ampliamento delle loro
prerogative  dovuti  al  mutamento  del  quadro  costituzionale delle
competenze  -  argomenti  decisivi  a  sostegno dell'attualita' della
lesione  delle  loro  attribuzioni  costituzionali  a  seguito  della
richiamata riforma del Titolo V.
    E'  proprio  la  possibilita'  per  le  Regioni  di sostituire la
disciplina  dettata  dall'atto  impugnato,  infatti, a determinare il
venir  meno dell'interesse a ricorrere, pur dovendosi riconoscere che
in  forza  del principio di continuita' tale atto mantiene la propria
vigenza  nell'ordinamento,  sia  pure  con  carattere  di cedevolezza
rispetto all'eventuale intervento normativo regionale.