ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 295 del codice
di procedura civile promosso con ordinanza del 28 dicembre 2001 dalla
Corte  di  appello  di  Venezia  nel procedimento civile vertente tra
Bastoni Giuliano e De Carlo Loredana, iscritta al n. 307 del registro
ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 22, 1ª serie speciale, dell'anno 2003.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 28 aprile 2004 il giudice
relatore Alfio Finocchiaro.
    Ritenuto  che  la  Corte  d'appello di Venezia, nell'ambito di un
giudizio  di separazione con richiesta di addebito, con ordinanza del
28 dicembre  2001  (pervenuta  alla Corte costituzionale il 15 aprile
2003)  ha  sollevato,  in riferimento all'art. 24 della Costituzione,
questione  di costituzionalita' dell'art. 295 del codice di procedura
civile,  nella parte in cui non prevede la sospensione necessaria del
processo  civile  in  attesa  della  definizione del processo penale,
quando il giudice civile deve giudicare di un fatto-reato;
        che  il giudice a quo -- premesso che il Tribunale ha fondato
l'addebito  della separazione al marito, ora motivo di appello, su un
unico  fatto  storico di atti libidinosi nei confronti di una nipote,
in base alle deposizioni di testi di parte della moglie, e che per il
reato  pende  procedimento  penale  -  espone  che,  secondo costante
giurisprudenza  di  legittimita', nell'ordinamento non esiste piu' la
cosiddetta  pregiudiziale  penale,  la quale prevedeva la sospensione
necessaria  del  processo  civile  nelle  more  del  processo  penale
influente,  stante l'abrogazione dell'art. 3 cod. proc. pen. del 1930
e  la  nuova  formulazione  dell'art. 295  cod. proc. civ., avendo il
legislatore  abbandonato  il  principio della prevalenza del giudizio
penale  su quello civile in favore di quello della completa autonomia
dei due giudizi;
        che  il  remittente  ravvisa il contrasto con l'art. 24 della
Costituzione  ogniqualvolta  il giudice deve giudicare ai fini civili
di  un  fatto penale senza le garanzie proprie del processo penale; a
tal  fine  sottolinea,  nel  contesto  delle  differenze  tra  i  due
processi,  che  la  contestazione  civile e' generica e non specifica
come  nel  capo d'imputazione; che il giudice civile non ha poteri di
approfondire le indagini, essendo vincolato alle allegazioni di parte
e dovendo decidere in base alle presunzioni, ben diverse dagli indizi
univoci  e  concordanti rilevanti nel diritto penale; che l'eventuale
rifiuto  di  rispondere  all'interrogatorio  nel  processo  civile e'
valutato  ai sensi dell'art. 232 cod. proc. civ., mentre nel giudizio
penale  l'imputato  puo'  avvalersi della facolta' di non rispondere;
che  nell'eventualita'  di un'assoluzione sussisterebbe un insanabile
conflitto  di  giudicati, non risolvibile neppure con la revocazione,
senza  contare  le  conseguenze  morali  non piu' risarcibili, e che,
infine,  allo scopo e' inidoneo l'istituto della sospensione regolato
dall'art. 296  cod.  proc.  civ.,  stante  il  periodo limitato ed il
presupposto dell'accordo delle parti;
        che  e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato   e   difeso   dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,
chiedendo  che  la questione sia dichiarata infondata, sulla base del
rilievo  che  la  scelta  del legislatore di abbandonare il principio
dell'unita' della giurisdizione a favore di quello dell'autonomia del
giudizio civile da quello penale - di cui la mancata previsione della
sospensione  necessaria  per  pregiudizialita'  penale costituisce un
corollario  - e' stata il frutto di un lungo processo di elaborazione
dottrinale  e  giurisprudenziale,  volto  ad  assicurare  alla  parte
privata  il  soddisfacimento  dei  propri  diritti  in  sede penale o
civile,  evitando  che la scelta della seconda strada comportasse una
compressione del diritto di azione;
        che,  secondo  la difesa erariale, con riferimento ai casi di
contemporanea  pendenza  di un giudizio civile, diverso da quello per
il  risarcimento  del  danno, non sussiste alcuna pregiudizialita' in
senso  tecnico,  quale  relazione di antecedenza logico-giuridica tra
l'uno  e  l'altro accertamento, atteso che in entrambi i giudizi sono
in discussione solo gli stessi fatti materiali, i quali devono essere
accertati con finalita' diverse;
        che,  aggiunge  l'Avvocatura,  nel  processo  civile esistono
adeguati   strumenti   di   difesa  per  contrastare  le  allegazioni
avversarie,  in  ossequio  al  principio  di  disponibilita'  che  lo
caratterizza,  mentre  la possibile contraddittorieta' delle pronunce
e'  stata stimata sopportabile dal legislatore della riforma a fronte
di  altre priorita', quali l'esigenza della sollecita definizione dei
giudizi.
    Considerato  che la Corte d'appello di Venezia - nel giudicare in
sede  di appello avverso una pronuncia di separazione con addebito al
marito  per  avere  commesso  atti  libidinosi  nei  confronti di una
nipote,  in  relazione  ai  quali  pende processo penale - dubita che
l'art. 295  cod.  proc.  civ.,  nella  parte  in  cui  non prevede la
sospensione   necessaria   del   processo   civile  in  attesa  della
definizione  del  processo  penale  quando  il  giudice  civile  deve
giudicare   di   un   fatto-reato,   contrasti  con  l'art. 24  della
Costituzione,  risultando  leso  il  diritto  di difesa a causa della
mancanza  nel  processo  civile  delle  garanzie proprie del processo
penale;
        che, secondo quanto il giudice a quo mostra di conoscere, con
la  riforma  del  codice  di  procedura  penale,  non  esiste piu' la
cosiddetta  pregiudizialita'  penale  e  che,  nel nuovo contesto, la
giurisprudenza  ha  espresso,  piu'  in  generale,  il  disfavore nei
confronti  del  fenomeno  sospensivo  in  quanto  tale,  cosi' che la
sospensione   necessaria   del   giudizio  civile  non  di  danno  e'
subordinata,  oltre  che  all'avvenuto  esercizio dell'azione penale,
all'esistenza  di  una  espressa  previsione  di  legge,  ovvero alla
condizione  che  la previa definizione della controversia penale, per
il suo carattere pregiudiziale, costituisca l'inevitabile antecedente
logico-giuridico   dal   quale   dipende  la  decisione  della  causa
pregiudicata  ed  il  cui accertamento sia richiesto con efficacia di
giudicato;
        che   il   giudice  rimettente,  pur  avendo  l'obiettivo  di
reintrodurre  il  vecchio  principio  della  prevalenza  del giudizio
penale  su  quello civile, si limita ad enunciare la duplice pendenza
dei   giudizi  senza  motivare  sul  rapporto  tra  i  due  processi,
quantomeno  in  termini  di  «influenza»  (per  usare il criterio del
vecchio codice di procedura penale) dell'uno sull'altro;
        che,  conseguentemente,  la  questione  proposta  difetta  di
motivazione sulla rilevanza, atteso che l'ordinanza di rimessione non
spiega come l'eventuale accoglimento sia destinato a spiegare effetto
sulla  causa  pendente  in  sede  civile,  data,  appunto, la mancata
dimostrazione di una «influenza» fra le controversie;
        che  l'ordinanza  non e' quindi idonea a dare valido ingresso
al  giudizio  di  legittimita' costituzionale (ex plurimis: ordinanze
n. 149  del 2004; n. 366 del 2003; n. 452 del 2002) e che la relativa
questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.
    Visti  gli  art. 26,  secondo  comma,  della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.