ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 197-bis, comma
2,  del  codice  di  procedura  penale  promosso  con  ordinanza  del
22 aprile  2002  dal  Tribunale  di  Milano nel procedimento penale a
carico  di  C.G.  ed altri, iscritta al n. 190 del registro ordinanze
2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, 1ª
serie speciale, dell'anno 2003.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 12 maggio 2004 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto   che  il  Tribunale  di  Milano  solleva  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 197-bis, comma 2, del codice di
procedura  penale,  «nella parte in cui non prevede che il coimputato
nel  medesimo  reato  o  l'imputato  di  un  reato  connesso ai sensi
dell'art. 12,  comma 1, lettera a), del medesimo codice, possa essere
sentito  come  testimone  nel  caso  previsto  dall'art. 64, comma 3,
lettera c), cod. proc. pen.»;
        che  il  giudice  a quo sottolinea - in fatto - che uno degli
imputati del procedimento in corso di celebrazione si e' rifiutato di
rendere  dichiarazioni,  non  soltanto  con  riferimento alla propria
posizione,  ma  anche  con  riguardo  alla  responsabilita'  dei suoi
coimputati;  sicche',  non  potendo  egli  assumere  la  qualita'  di
testimone,  atteso  il divieto sancito dall'art. 197 cod. proc. pen.,
non  risulta  nella  specie  applicabile  neppure  l'art. 197-bis del
codice  di rito, trattandosi di persona nei confronti della quale «si
procede,  nello stesso processo, per un reato connesso a quello degli
altri  imputati ai sensi dell'art. 12 lett. a), cod. proc. pen.»: con
la  conseguenza - osserva il rimettente - che, esaurita la fase della
assunzione  delle  prove  orali  richieste  dalle  parti,  il giudice
dovrebbe disporre il passaggio alla discussione finale sulla base del
materiale    probatorio   acquisito,   nell'ambito   del   quale   le
dichiarazioni   precedentemente   rese  da  quell'imputato  sarebbero
utilizzabili soltanto nei suoi confronti;
        che  il  censurato divieto di applicazione del nuovo istituto
della cosiddetta "testimonianza assistita" - di cui all'art. 197-bis,
cod.  proc.  pen.  - nei confronti dell'imputato di reato connesso ex
art. 12,  comma  1,  lettera a),  cod.  proc. pen., nell'ambito dello
stesso  processo  che  si  celebra anche a suo carico, si porrebbe in
contrasto  con  l'art. 3  della  Costituzione; risulterebbe, infatti,
irragionevole  sottoporre  ad  un diverso regime processuale la prova
orale dell'imputato dello stesso reato o di un reato connesso a norma
dell'art. 12,  comma  1,  lettera  a), cod. proc. pen., a seconda che
esso  sia stato gia' giudicato con sentenza irrevocabile di condanna,
o che venga giudicato nel medesimo processo;
        che  il  medesimo  parametro sarebbe vulnerato anche sotto il
profilo della ingiustificata disparita' di trattamento che verrebbe a
generarsi  fra le parti del procedimento: mentre all'accusa, infatti,
«l'utilizzazione  di  indagini svolte legittimamente, tali da rendere
possibile  l'applicazione  di  provvedimenti  cautelari e l'esercizio
dell'azione  penale»  risulterebbe  irragionevolmente preclusa per il
dibattimento,  alla  difesa  sarebbe  invece  conferito «il potere di
consentire   alla   acquisizione  di  dichiarazioni  rese  fuori  del
processo»;
        che  risulterebbe  compromesso  anche  il  principio  sancito
dall'art. 112  della  Costituzione,  in quanto sarebbe «irragionevole
consentire  ad  un imputato che ha gia' reso dichiarazioni erga alios
sulla cui base e' stato disposto il rinvio a giudizio degli accusati,
di  avvalersi  in  dibattimento  della  facolta'  di  non rispondere,
impedendo  ai  coimputati  di  difendersi  e  ponendo  nel  nulla  la
pregressa attivita' processuale»;
        che la previsione oggetto di impugnativa violerebbe - accanto
al  principio  di  ragionevolezza  - anche il diritto di difesa ed il
principio  del  contraddittorio  nella  formazione della prova di cui
all'art. 111  della Costituzione, poiche' si risolve nella «scelta di
sottrarre   totalmente   a   tale  contraddittorio  le  dichiarazioni
precedentemente  rese  da  soggetti  poi sottoposti ad esame ai sensi
dell'art. 210  cod.  proc.  pen. e che si avvalgano della facolta' di
non  rispondere,  senza  che  tale scelta sia imposta dal rispetto di
valide ragioni giustificatrici»;
        che  la  disciplina  censurata  -  ad avviso del rimettente -
sarebbe  altresi'  in  contrasto  con  il principio di soggezione del
giudice soltanto alla legge di cui all'art. 101, secondo comma, della
Costituzione,  in  quanto la decisione del giudice risulterebbe nella
specie «sostanzialmente condizionata dalla volonta' arbitraria di uno
dei  soggetti  del  processo,  di  partecipare o meno alla formazione
della prova»;
        che,  infine,  sarebbe  violato  pure  l'art. 27  della Carta
fondamentale,  giacche'  -  conclude  il  giudice a quo - «un sistema
processuale   che  prescindesse  dal  fine  preminente  di  procedere
all'accertamento  della  verita'  storica vanificherebbe il principio
della personalita' della responsabilita' penale»;
        che  nel  giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio
dei  ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
    Considerato  che il Tribunale di Milano dubita della legittimita'
costituzionale  dell'art. 197-bis,  comma  2,  cod. proc. pen., nella
parte  in  cui  non  prevede  che  il coimputato nel medesimo reato o
l'imputato  di  un  reato  connesso  a  norma  dell'art. 12, comma 1,
lettera a), cod. proc. pen., «possa essere sentito come testimone nel
caso previsto dall'art. 64, comma 3, lettera c)» del medesimo codice;
        che,  secondo  il  giudice  rimettente, il divieto di sentire
come  testimone  il  coimputato  nello  stesso processo, per un reato
connesso ai sensi dell'art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen.,
in relazione alla responsabilita' di altri, sarebbe in contrasto, per
i profili gia' accennati in parte narrativa, con gli artt. 3, 24, 27,
101, 111 e 112 della Costituzione;
        che,  in  particolare,  alla  stregua  del  quadro  normativo
coinvolto  dal  quesito  -  a  mente  del  quale  l'imputato di reato
connesso  a norma dell'art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen.,
non  puo'  assumere la qualita' di testimone se non dopo che nei suoi
confronti  sia  intervenuta sentenza irrevocabile di proscioglimento,
condanna  o  applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. - si
determinerebbe,   ad   avviso   del   rimettente,   la  irragionevole
conseguenza  per  la  quale  il  potere  del  giudice di sentire come
testimone  sul  fatto  altrui  l'imputato  nello stesso reato o in un
reato  connesso a norma dell'art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc.
pen.,  verrebbe  fatto  dipendere  da  una  circostanza  di carattere
«puramente   processuale»,   quale   e'  quella  rappresentata  dalla
celebrazione  di  un  unico  giudizio a carico di tutti i coimputati,
ovvero  dalla separazione delle diverse posizioni processuali, con la
conseguente  emanazione, in tempi diversi, di piu' sentenze; cio' che
potrebbe  offrire  esca anche a condotte «spregiudicate» dell'accusa,
incentivata  a  «stralciare  le  posizioni  processuali  a  lei  piu'
favorevoli, allo scopo di "dividere" i processi e cosi' accelerare la
decisione contro il dichiarante per poi poterlo citare come testimone
nei confronti dei "non dichiaranti"»;
        che   pertanto,   allo  scopo  di  ricondurre  la  disciplina
censurata  nel  quadro  dei  valori  costituzionali  che  si assumono
compromessi, occorrerebbe - ad avviso del giudice a quo - estendere i
casi  in cui l'imputato puo' assumere la qualifica di testimone anche
alla  ipotesi  del  coimputato  dello stesso reato o dell'imputato di
reato  connesso  ex art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen.; di
talche'  -  conclude  il Tribunale rimettente - «il coimputato che ha
reso  dichiarazioni contro altri, sarebbe obbligato a ripetere le sue
accuse  in  contraddittorio  con  tutti  i  soggetti processuali o ad
assumersi  pubblicamente  la  responsabilita' di smentire, integrare,
perfezionare  le  sue  dichiarazioni»,  ferme  restando  le  garanzie
previste dai commi 4 e 5 dello stesso art. 197-bis cod. proc. pen;
        che,  al  riguardo,  occorre  preliminarmente  rammentare che
questa   Corte,  nella  ordinanza  n. 485  del  2002,  ha  dichiarato
manifestamente infondata una questione di legittimita' costituzionale
degli  artt. 197,  197-bis  e  210  cod.  proc.  pen.,  sollevata  in
riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, nella parte in cui
garantiscono  il diritto al silenzio dell'imputato in un procedimento
connesso,  separatamente  giudicato  per lo stesso fatto con sentenza
non  ancora  irrevocabile,  che abbia reso dichiarazioni erga alios e
non  prevedono  che il rifiuto di sottoporsi all'esame sia penalmente
sanzionato, al pari del rifiuto di rispondere opposto dal testimone;
        che in detta pronuncia, in particolare, questa Corte ha avuto
modo  di  sottolineare  che la disciplina oggetto di impugnativa deve
ritenersi  in linea con i principi costituzionali evocati a parametro
dello  scrutinio  allora  operato,  poiche'  essa appare frutto delle
scelte  discrezionali,  non  irragionevolmente esercitate, con cui il
legislatore ha individuato - in ossequio al principio nemo tenetur se
detegere  -  situazioni  nelle  quali  il diritto al silenzio, inteso
nella  sua  dimensione  di «corollario essenziale dell'inviolabilita'
del diritto di difesa», va garantito malgrado dal suo esercizio possa
conseguire l'impossibilita' di formazione della prova testimoniale;
        che,  alla stregua di tali principi, il bilanciamento operato
dal  legislatore  si  rivela  tanto  piu' esente da censure ove venga
riferito ad una situazione - come quella devoluta dal giudice a quo -
in  cui  il  coimputato  nello  stesso reato o l'imputato in un reato
connesso  a norma dell'art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen.,
non  sia stato neppure ancora giudicato nel «suo» processo, e non sia
stata,   dunque,  ancora  pronunciata  una  sentenza,  ancorche'  non
definitiva,  che  abbia  delibato  la  relativa regiudicanda: il che,
evidentemente,   rafforza   l'esigenza   di   garantire   appieno  la
preclusione  verso  l'obbligo di dichiarazioni talmente «contigue» al
fatto   proprio   da   essere   sostanzialmente  lesive  del  proprio
inviolabile diritto di difesa e delle connesse libere scelte;
        che,   d'altra  parte,  l'obiettivo  che  il  giudice  a  quo
intenderebbe  perseguire  attraverso la pronuncia additiva richiesta,
lungi  dal presentarsi, per quel che si e' gia' detto, come soluzione
costituzionalmente  imposta,  si appalesa anche come scelta del tutto
eccentrica  rispetto  al  sistema:  giacche',  per un verso, anziche'
introdurre  un «caso ulteriore» di esame testimoniale del dichiarante
erga  alios  si  finisce  addirittura  per  costruire  una  figura di
dichiarante  del  tutto  nuova,  quale  sarebbe  quella dell'imputato
chiamato  a  rendere  «testimonianza» nel suo stesso processo; per un
altro   verso,   si   innesterebbe,   all'interno   di   un  medesimo
procedimento,  riguardante  un  fatto  «comune»  a piu' imputati, una
dicotomia  (strutturale  e funzionale) di fonti dichiarative, in capo
ai  medesimi  soggetti  dichiaranti,  a  seconda che gli stessi siano
chiamati  a  rendere l'esame quali imputati, o come «testi assistiti»
in ordine alla responsabilita' degli altri;
        che,  pertanto,  la questione proposta deve essere dichiarata
manifestamente infondata.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.