ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 6, commi 2, 3,
4,   5  e  6,  e  dell'art. 7  della  legge  20  giugno 2003,  n. 140
(Disposizioni  per  l'attuazione  dell'articolo 68 della Costituzione
nonche'  in  materia  di  processi  penali  nei  confronti delle alte
cariche  dello  Stato), promosso con ordinanza del 9 marzo 2004 dalla
Corte di cassazione sul ricorso proposto da S. D., iscritta al n. 695
del  registro  ordinanze  2004  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 35, 1ª serie speciale, dell'anno 2004.
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  S.  D.  nonche'  gli atti di
intervento del Senato della Repubblica e del Presidente del Consiglio
dei ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  dell'8 febbraio  2005  il  giudice
relatore Giovanni Maria Flick;
    Uditi  gli  avvocati  Aldo  Guagliani  per  S.  D.,  Giuseppe  de
Vergottini  per  il  Senato  della  Repubblica  e  l'avv. dello Stato
Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con  l'ordinanza  in  epigrafe  la  Corte di cassazione ha
sollevato  questione  di  legittimita' costituzionale, in riferimento
agli  artt. 3,  24 e 112 della Costituzione, dell'art. 6, commi 2, 3,
4,   5  e  6,  e  dell'art. 7  della  legge  20  giugno 2003,  n. 140
(Disposizioni  per  l'attuazione  dell'articolo 68 della Costituzione
nonche'  in  materia  di  processi  penali  nei  confronti delle alte
cariche  dello  Stato),  recanti  la disciplina - rispettivamente, «a
regime»  e  transitoria - dell'utilizzabilita' delle intercettazioni,
effettuate   nel   corso   di   procedimenti  riguardanti  terzi,  di
conversazioni o comunicazioni alle quali hanno preso parte membri del
Parlamento.
    La  Corte  rimettente  riferisce  di essere investita del ricorso
diretto  per  cassazione  proposto,  ai sensi dell'art. 311, comma 2,
cod.  proc.  pen.,  contro  l'ordinanza  del  giudice per le indagini
preliminari  del  Tribunale  di  Roma  che aveva disposto la custodia
cautelare  in carcere del ricorrente e di numerose altre persone, per
il  delitto  di  cui  all'art. 73  del  d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309
(Testo  unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti
e   sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura  e  riabilitazione  dei
relativi  stati  di  tossicodipendenza).  Alla luce del provvedimento
impugnato,   la   misura   faceva  seguito  ad  indagini  di  polizia
giudiziaria che avevano portato all'accertamento di un vasto traffico
organizzato  di  sostanze  stupefacenti (in particolare, cocaina) nel
territorio  della capitale: indagini dalle quali era emerso che tra i
destinatari  dello  stupefacente figurava anche un senatore, il quale
effettuava gli acquisti prevalentemente tramite due appartenenti alla
Guardia  di  finanza  addetti alla sua scorta, tra cui il ricorrente.
Quest'ultimo,   in  particolare,  nel  corso  delle  indagini,  aveva
contattato telefonicamente in cinque occasioni il soggetto di vertice
dell'organizzazione   di   trafficanti,   al   fine  di  ordinare  lo
stupefacente per conto del senatore.
    Tra   i   motivi  di  ricorso,  l'interessato  aveva  dedotto  la
violazione  dell'art. 6  della  legge  n. 140  del 2003, in quanto le
telefonate  in  questione  -  poste a fondamento della valutazione di
gravita'  degli  indizi  di  colpevolezza  a suo carico - erano state
effettuate  da  due  utenze  (una  fissa  e  una cellulare) in uso al
senatore  e  su suo incarico; con conseguente inutilizzabilita' delle
relative  intercettazioni,  per non essere stata seguita la procedura
prevista dalla citata disposizione in rapporto alle conversazioni cui
prendano parte membri del Parlamento.
    Al  riguardo, la Corte di cassazione osserva come l'art. 68 Cost.
-  nel  nuovo testo introdotto dall'art. 1 della legge costituzionale
29 ottobre  1993, n. 3 (Modifica dell'articolo 68 della Costituzione)
-  stabilisca  che,  senza  l'autorizzazione  della Camera alla quale
appartengono,  i  membri del Parlamento non possono essere sottoposti
«ad   intercettazioni,   in   qualsiasi  forma,  di  conversazioni  o
comunicazioni».
    La  Corte  rimettente  premette  che alla norma costituzionale e'
stata  data  attuazione dalla legge n. 140 del 2003, il cui art. 4 ha
disciplinato  le  modalita'  di  esecuzione  -  tra  l'altro  - delle
intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni
«nei   confronti   di   un   membro   del  Parlamento»:  ossia  delle
intercettazioni  c.d. «dirette», cui il parlamentare venga sottoposto
-  non soltanto quale indagato, ma anche (si dovrebbe ritenere) quale
persona  offesa  o  semplice persona informata sui fatti - tramite la
captazione di conversazioni effettuate su utenze a lui intestate o da
lui utilizzate, ovvero con l'esecuzione di intercettazioni ambientali
in  luoghi  nella sua disponibilita' o nei quali si reputa egli possa
trovarsi.
    Trattandosi  della  norma  regolativa  dei  casi  in  cui debbano
eseguirsi  nei  confronti  del  parlamentare  provvedimenti idonei ad
interferire  sullo  svolgimento  delle sue funzioni, il citato art. 4
dovrebbe  considerarsi applicabile - ad avviso della Corte rimettente
-  anche  quando,  nell'ambito di indagini riguardanti terze persone,
vengano  intercettate conversazioni o altre comunicazioni dalle quali
possa   evincersi   una   partecipazione  al  reato  del  membro  del
Parlamento.  Nel  caso  di  specie,  peraltro, la possibilita' che il
senatore  assuma  la  qualita'  di  persona  sottoposta alle indagini
resterebbe  esclusa,  in  quanto  -  come accertato dal giudice della
cautela  -  la  sostanza  stupefacente acquistata era destinata a suo
esclusivo  uso  personale:  e  tale destinazione - alla luce dei piu'
recenti  orientamenti  della  giurisprudenza  di  legittimita'  - non
costituisce  una  semplice  causa  di  non punibilita', posto che, al
contrario,  e'  la  destinazione  ad  uso  di  terzi  ad integrare un
elemento  costitutivo  del delitto di detenzione illecita di sostanze
stupefacenti.
    La   fattispecie  concreta  andrebbe  ricondotta  piuttosto  alle
previsioni dell'art. 6 della legge n. 140 del 2003, che disciplina le
«conversazioni  o  comunicazioni  intercettate in qualsiasi forma nel
corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali hanno preso parte
membri   del   Parlamento»:  vale  a  dire  le  intercettazioni  c.d.
«indirette»  o  «casuali»,  cosi'  denominate in quanto non aventi ad
oggetto  l'utenza intestata o in uso al parlamentare, ne' (in caso di
intercettazione ambientale) luoghi nella sua disponibilita'.
    Riguardo  a  tali  intercettazioni,  il citato art. 6 prevede, al
comma 1,  la  distruzione  dei  verbali  e  delle registrazioni delle
conversazioni  o  comunicazioni  che appaiano irrilevanti ai fini del
procedimento,  prefigurando  -  sotto tale profilo - una disciplina a
tutela della riservatezza del parlamentare del tutto analoga a quella
dettata  per  le persone prive di tale qualita'. La norma stabilisce,
invece,  al  comma 2,  che  il  giudice  per le indagini preliminari,
qualora,  su  istanza  di  una  parte  processuale e sentite le altre
parti,  ritenga  necessario  utilizzare  le intercettazioni (ovvero i
tabulati  di  comunicazioni,  ipotesi  peraltro  non  rilevante nella
specie),  debba  richiedere  -  entro  i dieci giorni successivi alla
relativa  decisione,  adottata con ordinanza - l'autorizzazione della
Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene. Richiesta che,
nella fattispecie in esame, non era stata per contro formulata.
    A  parere  della  Corte  rimettente, d'altra parte, la nozione di
intercettazioni   «indirette»  o  «casuali»  non  andrebbe  intesa  -
contrariamente a quanto sostenuto dal Procuratore generale di udienza
-  in senso strettamente letterale, ossia come comprensiva delle sole
conversazioni  cui  prenda  parte,  direttamente  e personalmente, il
membro  del Parlamento: lettura, questa, che renderebbe inapplicabile
l'art. 6  della  legge n. 140 del 2003 alle conversazioni oggetto del
procedimento  a quo, avendo ad esse preso parte personalmente il solo
ricorrente,  e non anche il senatore. Si potrebbe, difatti, «prendere
parte»   ad   una   conversazione   o   comunicazione   non  soltanto
interloquendo  in  via  personale e diretta; ma anche trasmettendo il
proprio  pensiero  a  mezzo  di  altra  persona  che si limiti, quale
semplice  nuncius,  a  riferire  al terzo il messaggio di chi intende
comunicare.  Tale  diversa interpretazione - della quale non potrebbe
neppure affermarsi il carattere estensivo, apparendo consentita dalla
lettera  della legge - risulterebbe altresi' conforme alla sua ratio:
giacche',  se il legislatore ha voluto offrire una particolare tutela
alla  riservatezza  del  parlamentare, sarebbe incongruo ritenere che
tale  tutela  venga garantita solo quando egli parla direttamente con
la  persona  sottoposta  ad  intercettazione;  e  non anche quando il
colloquio  avviene  tramite  una persona incaricata esclusivamente di
trasmettere  all'interlocutore un messaggio, sul quale il nuncius non
attua alcun sindacato o intervento modificativo.
    Le    conversazioni   intercettate   nel   procedimento   a   quo
rientrerebbero  proprio  in  quest'ultima categoria, giacche', stando
alla  stessa  ordinanza  impugnata,  il  ricorrente si era limitato -
valendosi di utenze telefoniche nella disponibilita' del senatore - a
trasmettere al venditore l'«ordinazione» della sostanza stupefacente,
che  doveva  essere acquistata dal parlamentare, e a prendere accordi
per  la  sua  consegna.  Il  tutto sotto le «immediate direttive» del
parlamentare  medesimo,  che  -  almeno  in  un  caso (riferito pero'
all'altro dei due appartenenti alla Guardia di finanza di cui egli si
serviva) - «sembra» essere stato presente ai colloqui.
    Di  qui,  dunque,  la  rilevanza  della questione di legittimita'
costituzionale del citato art. 6, dalla cui decisione dipenderebbe la
legittimita'  della  misura  cautelare  applicata  al  ricorrente, in
quanto fondata esclusivamente sulle intercettazioni in discussione.
    Quanto  alla non manifesta infondatezza della questione, la Corte
rimettente  esclude  preliminarmente  che della norma impugnata possa
darsi  una  interpretazione  «costituzionalmente  orientata»,  atta a
rimuovere  i  dubbi di legittimita' costituzionale: quale sarebbe, in
specie, quella di ritenere che il comma 2 dell'art. 6 si riferisca ai
soli  casi  in  cui il parlamentare, a seguito delle intercettazioni,
assuma   la  qualita'  di  persona  sottoposta  alle  indagini.  Tale
interpretazione,  difatti,  oltre  ad apparire contraria alla lettera
della legge - che non contiene alcun riferimento alla possibilita' di
utilizzare  le  intercettazioni  nei  confronti  del  parlamentare  -
risulterebbe espressamente smentita dal comma 1 dello stesso articolo
(richiamato dal comma 2), allorche' identifica le intercettazioni ivi
regolate  in quelle effettuate «nel corso di procedimenti riguardanti
terzi».
    L'ipotesi in cui dall'intercettazione emerga una notizia di reato
nei   confronti   del  parlamentare  dovrebbe  ritenersi  in  realta'
disciplinata,  sia  pure implicitamente, dall'art. 4: giacche', se e'
necessaria   l'autorizzazione   della   Camera  di  appartenenza  per
sottoporre il parlamentare ad intercettazione, analoga autorizzazione
dovrebbe  considerarsi  richiesta  per  utilizzare nei suoi confronti
intercettazioni  «casuali»,  che,  per questa ragione, da «indirette»
diverrebbero «dirette». Inoltre, anche a voler contrariamente opinare
sul  punto,  il  riferimento dell'art. 6 ai «procedimenti riguardanti
terzi»  non  consentirebbe  comunque di ritenere che la norma attenga
esclusivamente  ai  casi  in  cui  emerga  una  notizia  di reato nei
confronti  del parlamentare; ma, tutt'al piu', che essa attenga sia a
tali  casi,  sia a quelli in cui il procedimento riguardi soltanto il
terzo:  prospettiva  nella  quale  i  dubbi  di costituzionalita' non
verrebbero meno.
    In tale ottica, infatti, la disposizione impugnata sarebbe andata
comunque  al  di  la' dei limiti della tutela accordata dall'art. 68,
terzo  comma,  Cost.  alla  funzione parlamentare: tutela da ritenere
circoscritta alle sole intercettazioni «dirette». Deporrebbero in tal
senso  tanto  il  tenore  letterale  della  norma costituzionale, che
richiede l'autorizzazione per «sottoporre» i membri del Parlamento ad
intercettazioni;  quanto  il  suo  «impianto  complessivo», dal quale
trasparirebbe  l'intento  del  legislatore costituente di fornire una
protezione  speciale  del  parlamentare  per atti da lui direttamente
compiuti o che lo riguardano personalmente. Ne' varrebbe far leva, in
direzione  contraria,  sulla  locuzione  «in  qualsiasi  forma»: tale
locuzione   -   lungi   dal   potersi  considerarsi  evocativa  delle
intercettazioni  «indirette»  -  si riferirebbe soltanto alle diverse
modalita'  di  captazione  dei  messaggi  e  ai  differenti  mezzi di
comunicazione  intercettati (intercettazioni telefoniche, ambientali,
di sistemi informatici e telematici, e cosi' via dicendo).
    Escluso,   pertanto,   che   l'estensione   della   tutela   alle
intercettazioni  «indirette»  possa  ritenersi prevista dall'art. 68,
terzo   comma,   Cost.,  la  disciplina  introdotta  dal  legislatore
ordinario  risulterebbe  costituzionalmente illegittima sotto plurimi
aspetti.
    Sarebbe  leso,  anzitutto,  il principio di uguaglianza. E' vero,
infatti,  che  la  previsione  di  un  trattamento  differenziato non
implica   la   violazione  dell'art. 3  Cost.,  quando  rispecchi  la
diversita' delle situazioni regolate; ma la disparita' di trattamento
dovrebbe  trovare  fondamento  nell'esigenza  di protezione di valori
sovraordinati  -  o,  quanto meno, di pari valore - rispetto a quelli
che   vengono   in  rilievo  nell'ambito  della  singola  disciplina.
Nell'ipotesi  in  esame,  si  tratterebbe  segnatamente del principio
della  parita'  di trattamento rispetto alla giurisdizione: principio
che  e'  alle  origini  della  formazione  dello  Stato di diritto ed
immanente  al  nostro  ordinamento,  il  che  spiegherebbe perche' il
Costituente  abbia  ritenuto  di dover disciplinare analiticamente il
sistema   delle   immunita'   e  delle  prerogative  dei  membri  del
Parlamento,  conscio della deroga che a detto principio veniva in tal
modo   introdotta.   Con   la   conseguenza   che  eventuali  «tutele
privilegiate»,  le  quali  trovino  giustificazione nella specialita'
delle funzioni svolte - e implichino, in specie, la subordinazione di
un  principio  fondante dell'ordinamento, come quello in parola, alla
tutela  della riservatezza - potrebbero essere previste solo da norme
costituzionali, e non gia' da una legge ordinaria.
    L'art. 6  della  legge  n. 140  del  2003  si porrebbe inoltre in
contrasto,  sotto  diverso  profilo,  con gli artt. 3 e 24 Cost. Esso
prevede,   infatti,   che   se   l'autorizzazione  viene  negata,  la
documentazione  delle intercettazioni «e' distrutta immediatamente, e
comunque  non  oltre  i dieci giorni dalla comunicazione del diniego»
(comma 5); e che, in ogni caso, tutti i verbali e le registrazioni di
comunicazioni acquisiti in violazione delle disposizioni dello stesso
articolo «devono essere dichiarati inutilizzabili dal giudice in ogni
stato e grado del procedimento» (comma 6). Poiche' la disposizione e'
destinata  ad operare in procedimenti riguardanti persone prive della
qualita' di parlamentare, il meccanismo cosi' delineato implicherebbe
che  le  predette persone possano andare esenti dalla giurisdizione -
e, dunque, evitare di essere perseguite e condannate, anche per reati
gravissimi  -  solo  perche' la prova del reato e' stata raccolta con
l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni cui ha preso parte
un   membro  del  Parlamento,  beneficiando,  in  pratica,  per  tale
circostanza  casuale, di una vera e propria immunita'. Si tratterebbe
di una conseguenza sproporzionata rispetto all'entita' dell'interesse
in gioco - la privacy del parlamentare - la cui tutela finirebbe «con
l'oscurare  completamente  il  diritto alla prova delle parti»: tanto
piu'  che  la  prevista distruzione della documentazione, entro dieci
giorni  dal  diniego  dell'autorizzazione,  non consentirebbe neppure
alla  Camera  di  rimeditare la propria decisione, alla luce di fatti
nuovi.
    Ne',  d'altra  parte,  potrebbe  ritenersi  che il problema trovi
soluzione  nella possibilita' che la Camera conceda l'autorizzazione.
A   differenza,   infatti,   dei  casi  previsti  dal  secondo  comma
dell'art. 68   Cost.   -   nei   quali  il  parametro  per  concedere
l'autorizzazione  dovrebbe  identificarsi  nel fumus persecutionis, e
dunque  in un parametro accertabile in concreto volta per volta - nei
casi   di   intercettazione  «indiretta»  la  lesione  dell'interesse
tutelato  (la  riservatezza  del  parlamentare)  sarebbe  in re ipsa,
potendosi  discutere soltanto della sua gravita'. Cio' renderebbe del
tutto  discrezionale la valutazione della Camera, con «ovvi riflessi»
sulla sua sindacabilita', anche in sede di conflitto di attribuzione,
da parte della Corte costituzionale.
    La  disciplina  censurata comprometterebbe, pertanto, non solo il
principio  di uguaglianza - sotto il duplice profilo della disparita'
di  trattamento  sia tra membro del Parlamento e chi non riveste tale
carica;   sia   tra   imputati  raggiunti  da  prove  consistenti  in
intercettazioni  di conversazioni cui ha preso parte un parlamentare,
e  soggetti  raggiunti  da  prove  diverse  -  ma anche il diritto di
difesa,   garantito   dall'art. 24   Cost.   L'inutilizzabilita'  dei
risultati  delle  intercettazioni  «indirette»,  in  caso  di mancata
richiesta   o   di   diniego  dell'autorizzazione,  potrebbe  infatti
risolversi  in  un  grave  ed  irreparabile danno non soltanto per la
parte  civile,  ma  anche  per lo stesso imputato: avuto riguardo, ad
esempio,  alle  ipotesi  -  tutt'altro  che  teoriche  -  in  cui  le
conversazioni  risultassero idonee a scagionare uno dei coimputati; o
alle  ipotesi in cui acquisizioni probatorie successive consentissero
di   «rileggere»   le   conversazioni   stesse  in  senso  favorevole
all'imputato.
    Risulterebbe  violato,  altresi',  di riflesso, l'art. 112 Cost.,
avuto  riguardo  all'esclusione  o alla compressione dell'obbligo del
pubblico  ministero  di  esercitare  l'azione penale, suscettibile di
derivare   dall'impossibilita'   di   utilizzare  i  risultati  delle
intercettazioni in questione.
    Il  dubbio  di  costituzionalita'  investirebbe,  d'altro canto -
oltre  al comma 2 dell'art. 6 della legge n. 140 del 2003 ed ai commi
successivi  dello stesso articolo, ad esso collegati - anche la norma
transitoria  di  cui all'art. 7 della legge, che rende applicabile la
disciplina  censurata alle intercettazioni effettuate prima della sua
entrata  in  vigore,  purche'  non  ancora utilizzate in giudizio. La
questione  sarebbe  rilevante,  per tal verso, in quanto alcune delle
intercettazioni  telefoniche,  di  cui  si discute nel procedimento a
quo, sono state effettuate prima dell'entrata in vigore della legge e
non  ancora  utilizzate  in  giudizio, essendo il procedimento stesso
nella fase delle indagini preliminari.
    2.   -  Nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto  il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il  quale ha chiesto che la
questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.
    Ad avviso della difesa erariale, la questione sarebbe irrilevante
a  fronte  dell'inapplicabilita'  dell'art. 6  della legge n. 140 del
2003  alla  vicenda oggetto del procedimento a quo, nel quale non era
stata  captata  alcuna conversazione che avesse come interlocutore un
parlamentare.  L'argomentazione  svolta  dalla  Corte rimettente onde
superare  siffatta  obiezione  -  dilatando  la  portata  della norma
all'ipotesi del «nuncius», di cui in essa non v'e' traccia - sarebbe,
d'altra  parte,  scarsamente  convincente:  trattandosi,  infatti, di
disciplina  eccezionale,  in  quanto derogatoria rispetto alle regole
dettate  per  la  generalita'  dei  cittadini,  essa  dovrebbe essere
interpretata  in senso restrittivo e strettamente letterale; inoltre,
per  il  principio  di  conservazione  delle  norme,  andrebbe sempre
privilegiata  la lettura che rende la disposizione compatibile con il
dettato costituzionale.
    Non  sarebbe  condivisibile  neppure  la  premessa  fondante  del
quesito   di  costituzionalita',  secondo  cui  la  norma  impugnata,
tutelando  soltanto il diritto alla riservatezza del parlamentare, si
porrebbe  al  di  fuori dell'alveo dell'art. 68 Cost. La tutela della
riservatezza  del  parlamentare  rientrerebbe  indubbiamente  tra  le
finalita' della norma; ma si tratterebbe di una protezione secondaria
e  riflessa,  venendo  in  rilievo  in  prima battuta e con carattere
assorbente  la  salvaguardia  delle  prerogative  parlamentari  e  la
liberta' di esplicazione della funzione connessa al mandato elettivo:
prospettiva  nella  quale  la  disposizione  censurata  risulterebbe,
viceversa,  compiutamente  riconducibile alla previsione dell'art. 68
Cost.,    la   quale   giustificherebbe,   dunque,   il   trattamento
differenziato.
    In  via  subordinata, la motivazione dell'ordinanza di rimessione
dovrebbe  essere  valutata con attenzione soprattutto con riguardo al
dedotto    vulnus   dell'inviolabilita'   del   diritto   di   difesa
dell'imputato;  mentre  risulterebbe  meno  problematico l'ipotizzato
contrasto  con  il  diritto di difesa delle altre parti private o con
l'obbligatorieta'  dell'azione penale, conoscendo l'ordinamento varie
ipotesi   nelle   quali   i   relativi  principi  subiscono  deroghe,
giustificate da altre esigenze di rango costituzionale.
    3.  -  Nel  giudizio di costituzionalita' si e' costituito S. D.,
persona sottoposta alle indagini e ricorrente nel procedimento a quo,
il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
    Ad  avviso  della  parte privata, anche ad ammettere che la norma
impugnata comporti una compressione dell'ambito di operativita' degli
artt. 3,  24  e  112  Cost., non per questo solo essa potrebbe essere
ritenuta  costituzionalmente  illegittima: tale compressione sarebbe,
infatti,  frutto  del  bilanciamento  con  altro  interesse  di rango
costituzionale,  quale  il  diritto  del parlamentare - riconducibile
alla  previsione dell'art. 68 Cost. - alla salvaguardia della propria
sfera  di  riservatezza.  Cio'  tanto  piu' a fronte del fatto che la
protezione  offerta  dalla norma stessa non ha carattere assoluto, ma
passa  attraverso  un  duplice  filtro:  la  valutazione iniziale del
giudice   per  le  indagini  preliminari  circa  la  rilevanza  delle
intercettazioni;   e   la   successiva   verifica   della  Camera  di
appartenenza   del  parlamentare,  in  sede  di  rilascio  o  diniego
dell'autorizzazione.
    4.  -  E' intervenuto, inoltre, nel giudizio di costituzionalita'
il   Senato   della   Repubblica,  il  quale  ha  sostenuto,  in  via
preliminare,  la propria legittimazione all'intervento: sia in quanto
titolare   del   potere  di  autorizzazione  all'utilizzazione  delle
intercettazioni «indirette» oggetto del quesito di costituzionalita',
destinato  ad essere immediatamente inciso da una eventuale pronuncia
di  accoglimento;  sia, e comunque, in forza dell'art. 20 della legge
11 marzo  1953,  n. 87  (Norme sulla costituzione e sul funzionamento
della  Corte  costituzionale),  che  riconosce  in  via generale agli
organi  dello  Stato  e  delle  Regioni il diritto di intervenire nei
giudizi davanti alla Corte.
    Nel   merito,  il  Senato  ha  chiesto  che  la  questione  venga
dichiarata  infondata,  dovendosi  ritenere  la  disciplina censurata
pienamente conforme al disposto del terzo comma dell'art. 68 Cost.
    4.1.  -  L'assunto  e'  stato  ribadito  nella  memoria difensiva
depositata  dal  Senato in prossimita' dell'udienza pubblica, facendo
leva   sia   sulla   ratio   della  tutela  prefigurata  dalla  norma
costituzionale;  sia  sui  lavori  parlamentari  relativi  alla legge
costituzionale  n. 3 del 1993, con cui essa e' stata introdotta; sia,
infine, sulla prassi attuativa instauratasi anteriormente all'entrata
in   vigore   della   legge  n. 140  del  2003.  Elementi  tutti  che
confermerebbero  come  il precetto costituzionale - nel richiedere il
vaglio  autorizzatorio per sottoporre ad intercettazione i membri del
Parlamento  «in qualsiasi forma» - abbracci anche l'ipotesi in cui la
captazione  abbia  luogo occasionalmente, nell'ambito di un'attivita'
investigativa che ha come destinatario un terzo.

                       Considerato in diritto

    1.   -   La   Corte   di  cassazione  dubita  della  legittimita'
costituzionale,   in   riferimento  agli  artt. 3,  24  e  112  della
Costituzione,  dell'art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, e dell'art. 7 della
legge   20   giugno 2003,   n. 140   (Disposizioni  per  l'attuazione
dell'articolo 68  della  Costituzione  nonche' in materia di processi
penali nei confronti delle alte cariche dello Stato).
    Il  primo  dei  due articoli oggetto di impugnativa disciplina le
intercettazioni,   effettuate   in   qualsiasi  forma  nel  corso  di
procedimenti  riguardanti  terzi,  di  conversazioni  o comunicazioni
«alle quali hanno preso parte membri del Parlamento»: intercettazioni
usualmente  qualificate  come  «indirette»  o «casuali», in quanto si
presuppone  che  la  captazione avvenga nella cornice di un'attivita'
investigativa   che   non   ha   ab   origine  come  destinatario  il
parlamentare.  La norma prevede, in specie - nella parte denunciata -
che  il  giudice  per le indagini preliminari, qualora, su istanza di
una  parte  processuale  e sentite le altre parti, ritenga necessario
utilizzare  le  intercettazioni  in  parola  (ovvero  i  tabulati  di
comunicazioni  acquisiti nel corso dei medesimi procedimenti: ipotesi
peraltro  non  rilevante  nel  giudizio a quo), debba richiedere, nei
dieci  giorni  successivi  alla  relativa decisione, l'autorizzazione
della  Camera  alla  quale  il  membro  del  Parlamento appartiene (o
apparteneva  al  momento in cui le conversazioni o comunicazioni sono
state  intercettate).  In  caso  di  diniego  dell'autorizzazione, la
documentazione    delle   intercettazioni   deve   essere   distrutta
immediatamente,   e   comunque   non   oltre  i  dieci  giorni  dalla
comunicazione   del   diniego;   inoltre,   tutti   i  verbali  e  le
registrazioni  di  comunicazioni acquisiti in violazione del disposto
dello  stesso  art. 6  devono  essere  dichiarati  inutilizzabili dal
giudice, in ogni stato e grado del processo.
    La Corte rimettente muove dalla premessa interpretativa per cui -
alla  luce  tanto  della  valenza  attribuibile  alla formula verbale
«prendere  parte»,  che  della ratio di tutela della riservatezza del
parlamentare  sottesa  alla disciplina considerata - la norma sarebbe
destinata  a trovare applicazione non soltanto nel caso di captazione
fortuita   di   conversazioni  o  comunicazioni  cui  il  membro  del
Parlamento   abbia   preso   parte  personalmente;  ma  anche  quando
l'intercettazione  abbia  ad oggetto conversazioni o comunicazioni di
altra  persona  che si sia limitata a riferire, quale mero «nuncius»,
un   messaggio   del   parlamentare.   Interpretazione,  questa,  che
renderebbe  il  quesito di costituzionalita' rilevante nel giudizio a
quo,  nel quale si discute della legittimita' di una misura cautelare
personale  fondata  esclusivamente  sui  risultati di intercettazioni
«casuali»  di  telefonate che il ricorrente - privo della qualita' di
parlamentare  -- avrebbe  effettuato  in  veste,  per  l'appunto,  di
semplice latore di messaggi provenienti da un senatore.
    Escluso,  per  altro  verso,  che  la sfera di operativita' della
disciplina  censurata  possa  essere  circoscritta  -  nell'ottica di
un'interpretazione  «costituzionalmente  orientata» - ai soli casi in
cui,  a  seguito  dell'intercettazione,  il  parlamentare  assuma  la
qualita'  di  persona  sottoposta  alle  indagini,  il  giudice a quo
ritiene  che  la  disciplina  stessa  ecceda  l'ambito  della  tutela
accordata  alla  funzione  parlamentare  dall'art. 68,  terzo  comma,
Cost.:   tutela   consistente   nella   previsione   per  cui,  senza
l'autorizzazione  della  Camera alla quale appartengono, i membri del
Parlamento  non  possono  essere  sottoposti  «ad intercettazioni, in
qualsiasi  forma, di conversazioni o comunicazioni». A fronte sia del
dato letterale (l'impiego del verbo «sottoporre»), che dell'«impianto
complessivo»  della  norma  costituzionale  -  da  cui  trasparirebbe
l'intento di offrire al parlamentare una speciale protezione per atti
da  lui  direttamente  compiuti  o  che lo riguardano personalmente -
l'anzidetta  tutela  dovrebbe  ritenersi  infatti  limitata alle sole
intercettazioni  «dirette»:  senza  che  possa  invocarsi,  in  senso
contrario,  l'inciso  «in  qualsiasi forma», trattandosi di locuzione
riferibile  esclusivamente  alle  diverse modalita' di captazione dei
messaggi e ai differenti mezzi di comunicazione intercettati.
    Non  potendo  trovare,  dunque,  una  base  di legittimazione nel
citato  art. 68, terzo comma, Cost., l'estensione della garanzia alle
intercettazioni «indirette», operata dalla norma denunciata, verrebbe
a   porsi  irrimediabilmente  in  contrasto  con  una  pluralita'  di
parametri costituzionali.
    Risulterebbe  compromesso,  anzitutto,  l'art. 3 Cost., essendosi
introdotte con legge ordinaria deroghe ad un principio fondante dello
Stato  di  diritto  -  quello di parita' di trattamento dei cittadini
rispetto   alla   giurisdizione   -   che   implicherebbero   la  sua
subordinazione  ad un interesse di minor rango, quale la riservatezza
del  parlamentare:  operazione  che  solo  una  norma  costituzionale
avrebbe potuto viceversa compiere.
    Il  principio  di uguaglianza sarebbe leso, peraltro, anche sotto
un   diverso  profilo.  Prevedendo  la  distruzione  immediata  della
documentazione    delle   intercettazioni   nel   caso   di   diniego
dell'autorizzazione,   e  l'inutilizzabilita'  dei  verbali  e  delle
registrazioni acquisiti in violazione dei divieti, la norma impugnata
farebbe  si' che persone prive della qualita' di parlamentare possano
evitare  di  essere  perseguite  e  condannate,  anche  per  reati di
particolare  gravita',  grazie  ad  una  circostanza casuale: quella,
cioe',  che  la  prova  del  reato  scaturisca,  nei  loro confronti,
dall'intercettazione  di  conversazioni  o comunicazioni cui ha preso
parte  un  membro  del  Parlamento;  conseguenza, questa, da ritenere
sproporzionata  rispetto  all'entita'  dell'interesse  in  gioco  (la
privacy del parlamentare).
    Sarebbe  violato,  in  pari  tempo,  l'art. 24  Cost., potendo le
previsioni  censurate  determinare  un  irreparabile  pregiudizio del
diritto  di  difesa  non  soltanto della parte civile, ma anche dello
stesso  imputato,  avuto riguardo all'ipotesi in cui le conversazioni
intercettate  risultassero  idonee  a  scagionarlo o potessero essere
comunque  «rilette», a seguito di successive acquisizioni, in senso a
lui favorevole.
    Di  riflesso,  si  riscontrerebbe anche una lesione dell'art. 112
Cost.,  per  la  compressione  dell'obbligo del pubblico ministero di
esercitare  l'azione  penale  che  deriverebbe dall'impossibilita' di
utilizzare i risultati del mezzo investigativo in oggetto.
    Il  dubbio  di costituzionalita' si estenderebbe anche all'art. 7
della  legge n. 140 del 2003, nella parte in cui rende applicabili le
disposizioni  dell'art. 6  ai  procedimenti  in  corso  alla  data di
entrata in vigore della suddetta legge, allorche' - come nel giudizio
a  quo  -  le  intercettazioni  non  siano  gia'  state utilizzate in
giudizio.
    2.  -  L'intervento  del  Senato della Repubblica nel giudizio di
legittimita' costituzionale non e' ammissibile.
    Il  Senato  ha sostenuto la propria legittimazione ad intervenire
sulla  base di un duplice rilievo: da un lato, la pronuncia di questa
Corte    inciderebbe   direttamente   sulla   propria   funzione   di
autorizzazione  all'utilizzazione  delle intercettazioni «indirette»,
che  trae titolo dall'art. 68, terzo comma, Cost. e dall'art. 6 della
legge   n. 140   del  2003,  oggetto,  appunto,  dello  scrutinio  di
costituzionalita';  dall'altro  lato, l'art. 20, secondo comma, della
legge  11 marzo  1953,  n. 87  prevede  espressamente che «gli organi
dello  Stato  e  delle  Regioni  hanno  il  diritto di intervenire in
giudizio»,   confermando,   cosi',   la   «naturale»   legittimazione
dell'organo,  che  sia  portatore  di  un  interesse  qualificato dal
collegamento alle proprie funzioni costituzionali, ad essere presente
nel giudizio stesso, a prescindere da ogni ulteriore considerazione.
    Riguardo  a  tale  ultimo  argomento,  questa Corte ha gia' avuto
peraltro  occasione  di  chiarire  come il secondo comma dell'art. 20
della  legge  n. 87  del  1953  detti una previsione generale volta a
regolare  esclusivamente  la  rappresentanza  e  difesa  nel giudizio
davanti  alla  Corte,  stabilendo  che  -  a  differenza di quanto e'
previsto  per  il Governo, rappresentato dall'Avvocato generale dello
Stato  (terzo  comma),  e per le altre parti, le cui rappresentanza e
difesa  possono  essere  affidate  soltanto  ad avvocati abilitati al
patrocinio  innanzi  alla Corte di cassazione (primo comma) - per gli
organi  dello  Stato  e  delle  Regioni  non  e' richiesta una difesa
professionale:   il   che,   peraltro,  «non  riguarda,  ne'  vale  a
modificare,  la  disciplina della legittimazione ad essere parte o ad
intervenire in giudizio» (cfr. sentenza n. 350 del 1998).
    Neppure  il  primo  argomento  addotto  dal  Senato  puo'  essere
tuttavia   condiviso.   Nel   giudizio  incidentale  di  legittimita'
costituzionale,  infatti,  cio'  che  forma  oggetto di scrutinio - e
dunque  di contraddittorio - e' la conformita' alla Costituzione o ad
una  legge  costituzionale  di  una  norma  avente forza di legge, in
correlazione,  peraltro, con le posizioni soggettive che quella norma
ha  coinvolto  nel  giudizio  principale,  o che in relazione ad esso
possono  venir  coinvolte.  Resta, invece, affidato al Presidente del
Consiglio  dei  ministri  o  al Presidente della Giunta regionale - a
seconda  che  si  tratti  di  legge statale o regionale - il ruolo di
interventori  ex  lege  (art. 25,  terzo comma, della legge n. 87 del
1953).
    La disciplina del giudizio incidentale non contempla, per contro,
ne'  esplicitamente  ne'  implicitamente, una concorrente facolta' di
intervento  di  ulteriori  organi  o poteri dello Stato, estranei per
definizione  al  giudizio a quo - come, nella specie, il Senato della
Repubblica  - quante volte il sindacato di costituzionalita' verta su
norme   che  riconoscano  loro  determinate  attribuzioni,  ancorche'
ricollegabili,   in  tesi,  a  previsioni  di  rango  costituzionale;
attribuzioni  alla  cui  tutela  e'  invero  predisposto  il distinto
strumento del conflitto. Detta facolta' di intervento non potrebbe in
effetti prescindere da una specifica previsione, che ne definisse gli
esatti  contorni  e  le  finalita'  nel  panorama  delle tutele e dei
meccanismi   di   contenzioso   costituzionale,   finendo  altrimenti
l'intervento  stesso  per  sovrapporsi  a  quello «istituzionale» del
Presidente del Consiglio dei ministri.
    Nell'assenza  di  una  simile previsione, l'intervento del Senato
non puo' pertanto essere ammesso.
    3. - La questione sollevata e' inammissibile.
    La  Corte  rimettente basa l'affermazione della rilevanza di essa
nel   giudizio   a   quo   sull'assunto   che   la  disciplina  delle
intercettazioni  «indirette», oggetto di censura, sarebbe applicabile
non  soltanto  alle  conversazioni  o comunicazioni cui il membro del
Parlamento partecipi personalmente; ma anche a quelle intrattenute da
altro  soggetto  «che  si  limiti  a  trasmettere  la  volonta'  e le
manifestazioni   del   pensiero»  del  parlamentare,  quale  semplice
«nuncius» di quest'ultimo.
    Tale  premessa  non  e'  condivisibile.  Contrariamente  a quanto
sostenuto  nell'ordinanza  di  rimessione,  alla  stregua  del comune
significato  dell'espressione,  «prende parte» ad una conversazione o
comunicazione  chi  interloquisce  in  essa: non colui su mandato del
quale  uno  degli  interlocutori  interviene, sia pure nella veste di
mero portavoce.
    La  Corte  rimettente  trascura  altresi'  un  argomento di segno
contrario   alla   soluzione   interpretativa   proposta,  ricavabile
dall'iter  parlamentare  della  legge  n. 140  del  2003: vale a dire
l'avvenuta  soppressione, ad opera del Parlamento, della previsione -
contenuta  nel testo originario dei progetti di legge - che estendeva
il  regime dell'autorizzazione anche alle intercettazioni, effettuate
nel  corso  di  procedimenti  riguardanti  terzi,  di conversazioni o
comunicazioni  nelle quali si fosse semplicemente «fatta menzione» di
membri del Parlamento. Ancorche' il «far menzione» di un parlamentare
sia  indubbiamente concetto piu' ampio e generico rispetto al fungere
da  portavoce  del medesimo, la caduta della previsione ora ricordata
potrebbe   essere   comunque   letta  come  indice  dell'intento  del
legislatore  ordinario  di escludere che il meccanismo autorizzatorio
sia  destinato a scattare anche a fronte della mera «riferibilita» al
membro del Parlamento dei contenuti della conversazione intercettata,
fuori dei casi di una sua partecipazione personale e diretta ad essa.
    Va  poi  osservato  come  il  percorso  interpretativo, dal quale
l'ordinanza  di  rimessione  deriva  il  giudizio  di  rilevanza,  si
presenti   intrinsecamente  contraddittorio  rispetto  a  quello  che
sorregge  la successiva affermazione della non manifesta infondatezza
della questione.
    La  Corte rimettente, difatti, dapprima motiva la rilevanza della
questione  facendo  leva  su  una  interpretazione  lata  della norma
impugnata  -  quanto  alla formula «prendere parte» - giustificandola
essenzialmente con l'esigenza di assicurare una garanzia piena, e non
dimidiata,  all'interesse  da  essa  protetto.  Subito  dopo,  pero',
sostiene la non manifesta infondatezza di tale questione sulla scorta
di  una  interpretazione  restrittiva  della  norma costituzionale di
riferimento  -  l'art. 68,  terzo  comma, Cost. - quanto all'asserita
inidoneita'  dell'inciso  «in  qualsiasi  forma»  ad  abbracciare  le
intercettazioni «indirette».
    Tale   contrastante   atteggiamento   interpretativo  non  appare
adeguatamente  giustificato  e  motivato, posto che anche in rapporto
alla   locuzione   «in   qualsiasi  forma»,  contenuta  nel  precetto
costituzionale,  sarebbe  astrattamente  proponibile - ed e' stata in
fatto  proposta  - una interpretazione ampiamente comprensiva, basata
sulla ratio del privilegio di cui si discute.
    A  tutto  cio'  si  aggiunga  che, in ogni caso, una volta che la
Corte  rimettente  reputi  costituzionalmente  illegittima  la  norma
impugnata,  in  ragione  della  asserita  radicale  estraneita' delle
intercettazioni   indirette  al  perimetro  di  protezione  tracciato
dall'art. 68,  terzo  comma,  Cost.,  essa avrebbe dovuto logicamente
privilegiare,  tra  le  diverse  letture possibili, quella che riduce
l'«area  di  incostituzionalita»,  in  ossequio  al  generale  canone
dell'interpretazione  secundum  constitutionem; e non gia' quella che
la  amplifica.  E'  lo  stesso  giudice  a  quo,  infatti, a dire che
l'estensione  all'ipotesi  del  «nuncius» sarebbe «consentita», e non
gia' rigidamente «imposta» dalla formula della legge.
    Risultando,  in conclusione, la premessa interpretativa che fonda
il giudizio di rilevanza non condivisibile e comunque sostanzialmente
contraddittoria,  rispetto  al  tenore  complessivo  del  quesito, la
questione va dichiarata inammissibile.