ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel   giudizio   di   legittimita'  costituzionale  dell'art. 14  del
decreto-legge  8 luglio  2002,  n. 138 (Interventi urgenti in materia
tributaria,   di   privatizzazioni,   di   contenimento  della  spesa
farmaceutica  e  per  il  sostegno  dell'economia  anche  nelle  aree
svantaggiate),  convertito,  con  modificazioni, nella legge 8 agosto
2002,  n. 178, promosso con ordinanza del 16 gennaio 2006 dalla Corte
di  cassazione  nel  procedimento  penale a carico di R. U. ed altro,
iscritta  al  n. 80  del  registro  ordinanze 2006 e pubblicata nella
Gazzetta   Ufficiale  della  Repubblica  n. 13,  1ª  serie  speciale,
dell'anno 2006;
    Udito  nella  Camera  di consiglio del 6 dicembre 2006 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick;
    Ritenuto  che  con l'ordinanza in epigrafe la Corte di cassazione
ha  sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117 della Costituzione,
questione    di    legittimita'   costituzionale   dell'art. 14   del
decreto-legge  8 luglio  2002,  n. 138 (Interventi urgenti in materia
tributaria,   di   privatizzazioni,   di   contenimento  della  spesa
farmaceutica  e  per  il  sostegno  dell'economia  anche  nelle  aree
svantaggiate),  convertito,  con  modificazioni, nella legge 8 agosto
2002, n. 178, che reca l'«interpretazione autentica» della nozione di
«rifiuto»  di cui all'art. 6 del decreto legislativo 5 febbraio 1997,
n. 22  (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE
sui  rifiuti  pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di
imballaggio);
        che  la  Corte  rimettente  riferisce di essere investita del
ricorso  per cassazione proposto da due imputati, avverso la sentenza
del  Tribunale  di  S.  Maria  Capua  Vetere  che li aveva dichiarati
colpevoli  del  reato  continuato  di  cui  all'art. 51, comma 1, del
d.lgs.  n. 22  del  1997  e  condannati  alla  pena, condizionalmente
sospesa,  di  euro 5.000 di ammenda, per aver smaltito e trasportato,
in   tempi  diversi,  rifiuti  non  pericolosi  senza  la  prescritta
autorizzazione;
        che  i  fatti,  commessi  sino  al  14 novembre  2000,  erano
consistiti  segnatamente  nella  vendita,  da  parte  del  primo  dei
ricorrenti, del siero di latte derivante dall'attivita' produttiva di
un  caseificio  -  sostanza  qualificabile  come  rifiuto,  in quanto
residuo del processo di lavorazione - all'altro imputato, titolare di
azienda zootecnica, che lo aveva destinato ad alimento per bovini;
        che il Tribunale era pervenuto alla condanna sull'assunto che
la  norma  interpretativa  sopravvenuta  di  cui all'art. 14 del d.l.
n. 138  del  2002  -  la  quale  aveva espunto dal novero dei rifiuti
residui  di  produzione  quali  quelli  oggetto  del giudizio a quo -
doveva   essere   disapplicata   in  quanto  contraria  alla  nozione
comunitaria  di  rifiuto,  recepita  nell'art. 6 del d.lgs. n. 22 del
1997,  come  interpretata  dalla  Corte  di giustizia delle comunita'
europee con la sentenza 11 novembre 2004, in causa C--457/2002;
        che,  ad  avviso della Corte rimettente, la norma impugnata -
pur  autoqualificandosi  come  interpretativa - avrebbe modificato in
senso  restrittivo la nozione di rifiuto di cui all'art. 6 del d.lgs.
n. 22  del  1997,  riproduttiva di quella stabilita dall'art. 1 della
direttiva 75/442/CEE (come modificata dalla direttiva 91/156/CEE);
        che  alla  stregua  di  tali  ultime  disposizioni,  infatti,
costituisce  rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto, rientrante in una
delle  categorie  elencate  in apposito allegato, di cui il detentore
«si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi»;
        che   l'elencazione  dell'allegato  ha,  peraltro,  carattere
«aperto»: la prima categoria di esso (Q1) comprende, infatti, tutti i
residui di produzione o di consumo di seguito non specificati; mentre
l'ultima  (Q16)  abbraccia qualunque sostanza, materia o prodotto non
incluso nelle altre categorie;
        che  l'anzidetta  nozione  sarebbe  stata  circoscritta dalla
norma impugnata sotto un duplice profilo;
        che  da  un lato, infatti - secondo detta norma - il concetto
di  «disfarsi»  dovrebbe  essere  inteso  come avvio o sottoposizione
della  sostanza  ad  attivita'  di smaltimento o recupero, espungendo
cosi' dal novero dei rifiuti i materiali di cui il detentore si disfi
mediante puro e semplice «abbandono»;
        che  dall'altro  lato,  e  soprattutto,  la  sedicente  norma
interpretativa  avrebbe escluso la configurabilita' delle fattispecie
della  decisione  e  dell'obbligo  di  «disfarsi»,  ove  si tratti di
residui  di  produzione  o  di  consumo  che  «possono  essere e sono
effettivamente  e  oggettivamente  riutilizzati  nel  medesimo  o  in
analogo  o  diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun
intervento  preventivo  di  trattamento  e  senza  recare pregiudizio
all'ambiente»,  ovvero  «dopo  aver  subito un trattamento preventivo
senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero»;
        che, in tal modo, il legislatore italiano sarebbe venuto meno
agli obblighi di leale collaborazione di cui all'art. 10 del Trattato
CE,   pregiudicando   gli   obiettivi   di   salvaguardia,  tutela  e
miglioramento  della  qualita'  dell'ambiente  e  di protezione della
salute umana, previsti dall'art. 174 dello stesso Trattato;
        che  di  questo  avviso  si  e'  mostrata  anche  la Corte di
giustizia  delle  comunita'  europee,  investita in via pregiudiziale
della questione relativa alla compatibilita' comunitaria dell'art. 14
del  d.l. n. 138 del 2002; con la sentenza 11 novembre 2004, in causa
C--457/2002,  essa  ha  infatti  negato che la nozione comunitaria di
rifiuto possa essere interpretata nel senso di ricomprendere soltanto
le  sostanze  e  i  materiali  destinati  o soggetti ad operazioni di
smaltimento  o  recupero,  e  di  escludere  l'insieme dei residui di
produzione  o  di  consumo  riutilizzati  in un ciclo di produzione o
consumo,   senza   trattamento   preventivo  o  con  trattamento  non
recuperatorio;
        che  dalla  nozione  comunitaria  di  rifiuto  puo' esulare -
secondo  la  Corte  europea - unicamente il materiale derivante da un
processo   di   fabbricazione   o   di   estrazione,   non  destinato
principalmente   a   produrlo,   riutilizzato  dal  produttore  senza
trasformazione   preliminare,   nel   corso   dello  stesso  processo
produttivo:  trattandosi,  in  tal  caso, non di un residuo, ma di un
«sottoprodotto»,  di cui il produttore non intende «disfarsi», ma che
vuole invece reimpiegare nel medesimo ciclo di produzione;
        che  tale ultima ipotesi non ricorrerebbe, peraltro, nel caso
oggetto  del giudizio a quo, concernente siero di latte, residuato da
una  produzione  casearia, che veniva ceduto dal produttore affinche'
fosse  riutilizzato  da  un'azienda  zootecnica, e dunque in un ciclo
produttivo diverso;
        che  -  contrariamente  a  quanto  si  afferma nella sentenza
impugnata  -  la  norma  denunciata  non  potrebbe  essere, tuttavia,
direttamente   disapplicata   dal   giudice   nazionale   in   quanto
incompatibile  con  il diritto comunitario, giacche' la direttiva sui
rifiuti   non  e'  «autoapplicativa»,  necessitando  di  un  atto  di
recepimento da parte dei singoli Stati membri;
        che,  in senso contrario, non varrebbe addurre che la nozione
di  rifiuto  di  cui  alla  direttiva  75/442/CEE  risulta richiamata
dall'art. 2,   lettera a),  del  regolamento  CEE  1° febbraio  1993,
n. 259/1993  (Regolamento  del Consiglio relativo alla sorveglianza e
al  controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno della comunita'
europea,  nonche'  in  entrata  e  in  uscita dal suo territorio), di
diretta   applicazione   nell'ordinamento   italiano:  giacche'  tale
richiamo  ha  valenza  limitata alla sola materia delle spedizioni di
rifiuti,  disciplinata  dal  regolamento  stesso,  e  non  e'  dunque
riferibile  ne'  all'abbandono,  ne'  alle  attivita' di gestione dei
rifiuti  diverse  dalla  spedizione  (raccolta,  trasporto, recupero,
smaltimento);
        che  neppure,  poi,  si  potrebbe  sostenere - in ossequio al
principio  della  prevalenza  del diritto comunitario, sia originario
che   derivato  -  che  il  giudice  nazionale  debba  dare  comunque
applicazione   alla   sentenza  della  Corte  di  giustizia,  che  ha
espressamente statuito l'incompatibilita' comunitaria dell'art. 14;
        che le pronunce della Corte europea che precisano o integrano
il  significato  di  una  norma comunitaria hanno, difatti, la stessa
efficacia della norma interpretata;
        che,  di  conseguenza,  mentre  nel caso di norma comunitaria
direttamente  efficace nell'ordinamento dei singoli Stati, il giudice
nazionale   non  deve  piu'  applicare  la  norma  interna  con  essa
contrastante  alla  luce  dell'interpretazione offerta dalla Corte di
giustizia; nel caso in cui, invece - come nella specie - si tratti di
norma  comunitaria  priva  di  efficacia diretta, il giudice italiano
rimarrebbe comunque vincolato dalla norma interna;
        che  l'unico modo per rimediare al vulnus da questa recato ad
una  direttiva  comunitaria  non  direttamente  applicabile  sarebbe,
dunque,  quello di sollevare questione di legittimita' costituzionale
della  norma  interna  per violazione degli obblighi di conformazione
all'ordinamento  comunitario,  sanciti  dall'art. 11 Cost. e, in modo
ancor piu' esplicito, dal primo comma del novellato art. 117 Cost.;
        che   nella   specie,   d'altro  lato,  la  violazione  della
disciplina  comunitaria  e,  con  essa,  dei parametri costituzionali
evocati,  sarebbe  resa  ancor piu' grave dal fatto che, all'indomani
della  ricordata  pronuncia  della Corte di giustizia, il legislatore
nazionale - nel conferire una delega al Governo per il riordino della
legislazione in materia ambientale con legge 15 dicembre 2004, n. 308
(Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione
della   legislazione  in  materia  ambientale  e  misure  di  diretta
applicazione) - abbia mantenuto espressamente fermo il disposto della
norma censurata (art. 1, comma 26, della legge citata);
        che  la  questione  sarebbe  inoltre rilevante nel giudizio a
quo,  giacche' se la norma resistesse al vaglio di costituzionalita',
la sentenza impugnata dovrebbe essere annullata senza rinvio, perche'
il  fatto  non  e'  piu' previsto dalla legge come reato; mentre, nel
caso  in  cui  fosse  dichiarata  costituzionalmente illegittima, «si
aprirebbe  la  duplice  possibilita'  di rigettare il ricorso, con la
conferma  della  condanna degli imputati, o di annullare senza rinvio
la  sentenza  impugnata  per  difetto  dell'elemento soggettivo della
contravvenzione  contestata,  avendo  gli  imputati fatto affidamento
incolpevole  sulla  portata normativa di una disposizione (l'art. 14)
successivamente caducata»;
        che all'ammissibilita' della questione non sarebbe, per altro
verso,  di  ostacolo  la  circostanza che la sentenza di accoglimento
avrebbe comunque «un effetto in malam partem»;
        che   l'art. 14  del  d.l.  n. 308  del  2002  costituirebbe,
infatti,  una  «norma  penale di favore», trattandosi di disposizione
extrapenale integratrice della fattispecie penale di cui agli artt. 6
e  51  del  d.lgs.  n. 22  del  1997  che  -  restringendo l'ampiezza
dell'oggetto  materiale  del  reato  (i  rifiuti)  -  deroga o abroga
parzialmente,   ovvero  modifica  in  senso  favorevole  al  reo,  la
precedente norma incriminatrice;
        che, nella specie, il fatto contestato e' stato d'altro canto
commesso   sotto  l'impero  della  norma  precedente  piu'  rigorosa,
sicuramente conforme al diritto comunitario;
        che,  conseguentemente  - ove la norma di favore sopravvenuta
fosse  dichiarata  costituzionalmente illegittima - la conferma della
responsabilita'  degli  imputati  in  base ai citati artt. 6 e 51 del
d.lgs.   n. 22   del   1997   non  violerebbe  ne'  il  principio  di
irretroattivita'  della  legge  penale,  di  cui all'art. 25, secondo
comma,  Cost.,  dato  che  la  norma  piu' sfavorevole era entrata in
vigore prima del fatto contestato; ne' il principio di retroattivita'
dell'abolitio  criminis, di cui all'art. 2, secondo comma, del codice
penale,   giacche'   la   retroattivita'   della  norma  parzialmente
abrogatrice verrebbe meno a fronte della sua caducazione;
        che,  in  ogni  caso, il problema risulterebbe superato dalla
sentenza  n. 148  del 1983, con la quale questa Corte ha riconosciuto
la  rilevanza  e  l'ammissibilita'  delle  questioni  di legittimita'
costituzionale delle norme penali di favore, sulla base della duplice
considerazione  che  l'accoglimento della questione verrebbe comunque
ad  incidere sulle formule di proscioglimento o sul dispositivo della
sentenza  penale,  nonche'  sullo schema argomentativo della relativa
motivazione;  ed  avrebbe,  inoltre,  un  «effetto di sistema» la cui
valutazione spetta ai giudici ordinari.
    Considerato  che  successivamente  all'ordinanza di rimessione e'
intervenuto  il  decreto  legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in
materia  ambientale),  pubblicato  nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del
14 aprile  2006, supplemento ordinario, il quale, in attuazione della
delega conferita dall'art. 1 della legge n. 308 del 2004, reca, nella
parte quarta (Norme in tema di gestione dei rifiuti e di bonifica dei
siti  inquinati),  una  nuova  disciplina della gestione dei rifiuti,
integralmente  sostitutiva  di quella gia' contenuta nel d.lgs. n. 22
del 1997;
        che,  per  quanto  in  questa  sede piu' interessa, il citato
d.lgs.  n. 152  del  2006  ha  espressamente  abrogato, all'art. 264,
comma 1,  lettera l),  la  norma  di interpretazione autentica di cui
all'art. 14  del  d.l.  n. 138  del  2002,  sottoposta a scrutinio di
costituzionalita' dalla Corte rimettente;
        che  in  luogo  delle previsioni di cui al comma 2 del citato
art. 14  -  contro  le quali si rivolgono, in particolare, le censure
del  giudice  a  quo - il medesimo decreto legislativo ha introdotto,
all'art. 183,   comma 1,   lettera n),   una   nuova  definizione  di
«sottoprodotto»,  sottratto a determinate condizioni all'applicazione
della  disciplina  sui  rifiuti:  definizione  che,  peraltro  -  pur
ponendosi,  quanto  a  ratio,  in  linea di ideale continuita' con la
disposizione  censurata  - si discosta da essa sotto plurimi profili,
sul piano della formulazione e dei contenuti precettivi;
        che,  pertanto  -  a  prescindere  dalle  ulteriori modifiche
sopravvenute, inerenti al quadro normativo comunitario di riferimento
(abrogazione   della   direttiva  75/442/CEE  ad  opera  della  nuova
direttiva  in  materia  di  rifiuti  2006/12/CE del 5 aprile 2006 del
Parlamento  europeo  e del Consiglio; abrogazione del regolamento CEE
n. 259/1993  ad  opera  del  nuovo  regolamento  CE  14  giugno 2006,
n. 1013/2006  del  Parlamento  europeo e del Consiglio, relativo alle
spedizioni  di  rifiuti),  non  foriere, in parte qua, di innovazioni
sostanziali  -  gli  atti  vanno restituiti alla Corte rimettente, ai
fini  di  una nuova valutazione circa la rilevanza e la non manifesta
infondatezza   della   questione   sollevata,  alla  luce  dello  ius
superveniens.