ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 5, comma 2,
della  legge  3 aprile  2001, n. 142 (Revisione della legislazione in
materia  cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione
del   socio   lavoratore),   come   sostituito  da  art. 9,  comma 1,
lettera d), della legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Delega al Governo in
materia  di  occupazione  e  mercato),  promossi  con  ordinanze  del
22 dicembre  2005  e dell'8 febbraio 2006 dal Tribunale di Genova nei
procedimenti  civili  vertenti  tra  Bellarte Guido e Bagliore s.c. a
r.l.  in liquidazione e tra Boni Ivana e «Gruppo l'Albero della Vita»
soc.  coop.  a  r.l.  Onlus,  iscritte  ai  nn. 68 e 113 del registro
ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn. 12 e 17, 1ª serie speciale, dell'anno 2006.
    Visti  gli  atti  di  intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  Camera  di consiglio del 6 dicembre 2006 il giudice
relatore Romano Vaccarella.
    Ritenuto che, con due ordinanze di contenuto pressoche' identico,
l'una   del  22 dicembre  2005  e  l'altra  dell'8 febbraio  2006  il
Tribunale di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 35
e  36  della  Costituzione,  questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 9, comma 1, lettera d), della legge 14 febbraio 2003, n. 30
(Delega  al Governo in materia di occupazione e mercato) «nella parte
in  cui  sottrae  al  giudice  del  lavoro le controversie tra soci e
cooperative  di  lavoro,  relative  a  prestazioni  rese  dai soci ed
attinenti all'oggetto sociale»;
        che  in  entrambi  i  casi il giudice a quo e' stato adito da
soci lavoratori che, con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ., avevano
rivendicato  differenze  retributive  asseritamene  maturate in forza
dell'attivita'   di  lavoro  subordinato  prestata  in  favore  della
cooperativa di lavoro;
        che,  in  punto  di  rilevanza,  osserva il rimettente che la
legge  3 aprile 2001, n. 142 (Revisione della legislazione in materia
cooperativistica,  con  particolare  riferimento  alla  posizione del
socio  lavoratore),  dopo aver previsto, all'art. 1, comma 3, che «il
socio  lavoratore  di  cooperativa  stabilisce»,  insieme al rapporto
associativo,  «un  ulteriore  e  distinto rapporto di lavoro in forma
autonoma  o  subordinata  o  in qualsiasi altra forma», espressamente
attributiva all'art. 5, comma 2, le controversie relative ai rapporti
di  lavoro  tra  soci  e  cooperativa  alla competenza funzionale del
giudice  del  lavoro,  devolvendo  invece al giudice ordinario quelle
inerenti al rapporto associativo;
        che,  conseguentemente,  in  forza  del disposto dell'art. 40
cod.  proc.  civ.,  la controversia di lavoro tra socio e cooperativa
finiva  per  attrarre nella competenza e nel rito del lavoro le cause
connesse,  pendenti  tra  le  stesse  parti  e  relative  al rapporto
associativo;
        che   essendo   stato   tale   assetto   normativo  capovolto
dall'art. 9,  comma 1,  lettera d),  della  legge n. 30 del 2003 - in
base  al quale «le controversie tra socio e cooperativa relative alla
prestazione  mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario»
-  tali  controversie,  se  instaurate  dopo il 1 gennaio 2004, vanno
trattate  con  il  cosiddetto  rito  societario  di  cui  al  decreto
legislativo   17 gennaio   2003,   n. 5,  dovendosi  per  prestazione
mutualistica  intendere  - a norma dell'art. 1 della legge n. 142 del
2001,  che  si  riferisce  alle  «cooperative nelle quali il rapporto
mutualistico  abbia ad oggetto la prestazione di attivita' lavorative
da   parte  del  socio»  -  l'attivita'  lavorativa  resa  dal  socio
lavoratore ed attinente all'oggetto sociale;
        che il rimettente, dato atto che e' stata prospettata da piu'
parti,  in  dottrina  e giurisprudenza, l'estraneita' alla nozione di
«prestazione  mutualistica»  dell'attivita' lavorativa resa dal socio
di  cooperativa  di  lavoro ed attinente all'oggetto sociale, osserva
che  tale  opzione  ermeneutica sarebbe smentita dalla chiara lettera
dell'art. 1  della  legge  n. 142  del  2001  nonche' dal rilievo, di
carattere  sistematico, che sarebbe difficilmente giustificabile, sul
piano razionale, un intervento del legislatore di novellazione di una
norma attraverso altra norma di contenuto sostanzialmente identico;
        che,  in punto di non manifesta infondatezza, il rimettente -
ricordato  che un risalente e consolidato indirizzo giurisprudenziale
escludeva  la  natura  subordinata  della  prestazione resa dal socio
d'opera,   purche'   inerente   all'oggetto  sociale,  a  prescindere
dall'accertamento  degli indici elaborati dalla giurisprudenza per la
qualificazione  di  un  rapporto  come  subordinato,  e  tale  natura
riconosceva solo nell'ipotesi di «sovvertimento dello schema tipico e
del  fine  mutualistico  della  societa»  - osserva che in seguito la
giurisprudenza  ha  sostituito al metodo cosiddetto sussuntivo quello
cosiddetto   tipologico,  al  fine  di  verificare  l'analogia  della
posizione del socio lavoratore con quella del lavoratore subordinato,
caratterizzate  entrambe  dall'alienita',  presupposto  indefettibile
della fattispecie delineata nell'art. 2094 cod. civ;
        che  tale  analogia  costituirebbe  il filo conduttore di una
massiccia  evoluzione  sia  giurisprudenziale  (con l'eccezione della
sentenza  n. 30  del  1996  di  questa  Corte,  «influenzata  da  una
esasperata ed astratta prospettiva contrattualistica») sia normativa,
volta  sempre piu' a parificare il socio delle cooperative di lavoro,
che  presti  la  sua  attivita'  in  posizione  di subordinazione, al
lavoratore  subordinato, essendo chiara al legislatore la sostanziale
contrapposizione di interessi tra le due parti del rapporto;
        che  la  legge  n. 142  del  2001  -  prevedendo  all'art. 5,
comma 2,  che  spettassero  al  giudice  del  lavoro  le controversie
attinenti  al rapporto di lavoro tra socio e cooperativa - si sarebbe
inserita  nel  trend  normativo e giurisprudenziale innanzi delineato
che, ispirato ai valori costituzionali, era volto a sancirne la piena
equiparazione al rapporto di lavoro subordinato, laddove la soluzione
adottata   dal   legislatore  del  2003  rappresenterebbe  una  netta
inversione  di  rotta,  produttiva  di effetti sul piano sostanziale,
oltre che su quello processuale;
        che,  in  particolare,  l'applicazione  alle controversie dei
soci lavoratori del cosiddetto rito societario - e cioe' di un modulo
basato  sull'assioma  della  parita'  delle  parti  e quindi privo di
attenzione  per  il  soggetto  debole  del  rapporto e nel quale, per
soprammercato, la comparsa del giudice e' rimessa alla volonta' delle
parti   e   trasposta,   in   teoria,   a   un   tempo  indefinito  -
rappresenterebbe  un  brusco  abbassamento  delle  garanzie,  essendo
connessa     all'adozione     delle     nuove    forme    processuali
l'inapplicabilita'  di  norme protettive, come quella che attribuisce
al  giudice  poteri  istruttori officiosi (art. 421 cod. proc. civ.),
quella  che  sancisce  la  rivalutazione  automatica  dei crediti del
lavoratore  (art. 429,  quarto  comma,  cod.  proc. civ.), quella che
sottopone a un particolare regime le rinunzie e le transazioni aventi
ad oggetto diritti del prestatore di lavoro (art. 2113 cod. civ.), e,
per   contro,   l'applicabilita'   della   nuova   disciplina   della
compromettibilita'  in  arbitri  in  materia societaria, (art. 34 del
decreto  legislativo  n. 5  del  2003)  con  conseguenze «devastanti»
(tenuto  anche  conto  della  possibilita'  che  gli  arbitri vengano
autorizzati  a decidere secondo equita), e in stridente contrasto con
tutto  il  sistema  normativo, volto a bilanciare, in ottemperanza ai
principi  di  cui  agli  artt, 3,  35  e  36  della  Costituzione, la
disparita' di fatto tra le parti del rapporto di lavoro;
        che,  inoltre,  il  contrasto con l'art. 3 della Costituzione
sussisterebbe  sotto  il  profilo  dell'ingiustificata  disparita' di
trattamento  tra  il  socio  di  cooperativa  e  gli altri lavoratori
subordinati  (in  particolare,  che  prestino  la  propria  attivita'
nell'ambito  di rapporti lato sensu associativi, quali l'associazione
in  partecipazione  o  l'impresa  familiare) e sotto il profilo della
irragionevolezza  di  una opzione normativa in stridente e insanabile
contrasto  con  la  «scelta di fondo» gia' operata dal legislatore in
parte qua;
        che,   in   entrambi   i   giudizi  e'  intervenuto,  con  la
rappresentanza  dell'Avvocatura  generale  dello Stato, il Presidente
del Consiglio dei ministri il quale ha in primo luogo evidenziato che
la  questione sollevata dal giudice genovese avrebbe natura meramente
interpretativa  perche',  seguendo l'interpretazione adeguatrice gia'
effettuata  dalla  Corte  di  cassazione,  con l'ordinanza 18 gennaio
2005,  n. 8650  -  la  quale  attribuisce alla locuzione «prestazione
mutualistica»  il  significato  di prestazione estranea all'attivita'
lavorativa  fornita  dal  socio  alla  cooperativa  -  la prestazione
oggetto del giudizio a quo rientrerebbe de plano nella competenza del
giudice  del  lavoro,  con  la conseguenza del venir meno di tutte le
censure articolate dal giudice rimettente;
        che,  osserva  il  deducente, proprio la Corte costituzionale
ebbe gia' a ritenere inammissibile, in quanto interpretativa, analoga
questione  con  cui  era  stato  denunciato  l'art. 409, primo comma,
n. 3),   cod.   proc.  civ.,  nella  parte  in  cui  tra  i  rapporti
assoggettati  al rito del lavoro non includeva anche quello del socio
con la cooperativa di produzione e lavoro;
        che,   comunque,   la   scelta   del   rito  appartiene  alla
discrezionalita'  del  legislatore  il  quale,  nel  caso  in  esame,
l'avrebbe  esercitata  in  modo  non arbitrario, assicurando al socio
lavoratore  una  tutela  giurisdizionale  effettiva,  secondo  quanto
prescritto dall'art. 24 Cost;
        che   sarebbe   irrilevante   ogni   censura   relativa  alla
devolvibilita'  in  arbitri  delle controversie in parola, attesa che
tale questione non e' stata posta nel giudizio a quo;
        che,  con  memorie  successivamente  depositate, l'Avvocatura
dello  Stato  - contestata l'asserita inidoneita' del cosiddetto rito
societario  a  governare  le  controversie  de quibus - sottolinea la
peculiarita'   del  rapporto  tra  socio  lavoratore  e  cooperativa,
peculiarita'   che   di   per   se'  sarebbe  idonea  a  giustificare
l'applicabilita'  del  rito  di  cui  al  d.lgs. n. 5 del 2003 e che,
peraltro,  la  sentenza  n. 30  del  1996  ha  riconosciuto  tale  da
giustificare una disciplina processuale diversa da quella applicabile
agli ordinari rapporti di lavoro.
    Considerato che il Tribunale di Genova, con due ordinanze, dubita
della  legittimita'  costituzionale,  in riferimento agli articoli 3,
24,  35  e  36  della  Costituzione, dell'art. 9, comma 1, lettera d)
della  legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Delega al Governo in materia di
occupazione  e  mercato),  nella  parte in cui, sostituendo l'art. 5,
comma 2,   della   legge   3 aprile  2001,  n. 142  (Revisione  della
legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento
alla  posizione del socio lavoratore), devolve al Tribunale ordinario
le  controversie  tra  socio  e cooperativa relative alla prestazione
mutualistica,  e in tal modo sottrae tali controversie al giudice del
lavoro al quale in precedenza erano attribuite;
        che,  essendo  identica  la  questione  sollevata  dalle  due
ordinanze di rimessione, i relativi giudizi devono essere riuniti;
        che  la  questione e' manifestamente inammissibile, in quanto
le  argomentazioni  poste  a  suo  fondamento sono espressione, da un
lato,   di   soggettivi   giudizi   di  valore  (quali,  ad  esempio,
«l'esasperata  ed  astratta  prospettiva  contrattualistica»  da  cui
sarebbe  «viziata»  la  sentenza  n. 30 del 1996 di questa Corte o il
carattere «non paritario» del rito del lavoro) ovvero, dall'altro, di
interpretazioni  talvolta  contraddittorie  (la  medesima  norma  che
definisce   la   «prestazione   mutualistica»  e  che  consentiva  la
distinzione  tra  controversia  associativa e controversie di lavoro,
impedirebbe  ora  tale  distinzione),  talvolta  prive  di  qualsiasi
capacita'   persuasiva   (l'applicabilita'   di   norme   sostanziali
inderogabili   verrebbe   meno  in  ragione  del  rito  al  quale  e'
assoggettata la controversia);
        che  siffatte  argomentazioni  sono  palesemente  inidonee  a
giustificare  un  sindacato  di  questa  Corte  su una materia, quale
quella processuale, nella quale il legislatore incontra, per costante
giurisprudenza   costituzionale,   il  solo  limite  della  manifesta
irragionevolezza  ed arbitrarieta' (ex multis, v. sentenza n. 155 del
1992).
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.