ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di legittimita' costituzionale degli artt. 47, 48 e 50
della   legge   26 luglio   1975,   n. 354   (Norme  sull'ordinamento
penitenziario  e  sull'esecuzione delle misure privative e limitative
della  liberta), nonche' degli artt. 5, 5-bis, 9, 13 e 22 del decreto
legislativo  25 luglio  1998,  n. 286 (Testo unico delle disposizioni
concernenti  la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione
dello  straniero), come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189
(Modifica  alla  normativa  in  materia  di immigrazione e di asilo),
promosso   con   ordinanza   del  24 maggio  2005  dal  Tribunale  di
sorveglianza  di  Cagliari  nel  procedimento  relativo  a  R. E. O.,
iscritta  al  n. 545  del  registro ordinanze 2005 e pubblicata nella
Gazzetta   Ufficiale  della  Repubblica  n. 46,  1ª  serie  speciale,
dell'anno 2005.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  Camera  di consiglio del 24 gennaio 2007 il giudice
relatore Maria Rita Saulle.

                          Ritenuto in fatto

    1. - Il Tribunale di sorveglianza di Cagliari, con l'ordinanza in
epigrafe specificata, ha sollevato, in riferimento all'art. 27, terzo
comma,  della  Costituzione, questione di legittimita' costituzionale
degli  artt. 47,  48  e  50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
sull'ordinamento   penitenziario   e   sull'esecuzione  delle  misure
privative  e limitative della liberta), nonche' degli artt. 5, 5-bis,
9,  13  e  22  del  decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo
unico  delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione
e  norme  sulla  condizione  dello  straniero), come modificato dalla
legge  30 luglio  2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di
immigrazione e di asilo).
    In  punto di fatto, il rimettente osserva che, dopo aver concesso
a  R.  E.  O,  condannato  per  il  reato  di cui agli artt. 73 e 80,
comma 2,  del  d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi
in  materia  di  disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,
prevenzione,   cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati  di
tossicodipendenza),  la  misura dell'affidamento in prova al servizio
sociale,  la  Corte di cassazione ha annullato con rinvio il suddetto
provvedimento    sul   presupposto   che   il   detenuto,   cittadino
extracomunitario, era illegalmente presente sul territorio nazionale.
    In  particolare,  la  Corte  di  cassazione,  in accoglimento del
ricorso  proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello
di   Cagliari,   ha  ritenuto  che  la  concedibilita'  delle  misure
alternative  alla detenzione e' subordinata - oltre che all'esistenza
delle  condizioni  per  ciascuna di esse specificamente previste - al
rispetto  del  limite  di  legalita'  estrinseca  dell'ordinanza  che
concede  il beneficio, costituito dall'assenza di contrasto con norme
imperative.  Da cio' consegue che, essendo contra legem la permanenza
nello  Stato  di  uno  straniero  che non ha rinnovato il permesso di
soggiorno,  l'esecuzione  della  pena in regime di misura alternativa
non  potrebbe  che  avvenire,  nel  caso di specie, con violazione o,
comunque,   elusione   delle   norme   che   regolano   il   fenomeno
dell'immigrazione.
    Il  rimettente  ritiene  che tale interpretazione, vincolante nel
giudizio  a  quo,  sia  in  contrasto con il principio costituzionale
della finalita' rieducativa della pena al quale si ispirano i diversi
benefici  penitenziari  extramurari,  giustificandosi  il trattamento
carcerario solo fino al limite del pieno ravvedimento del condannato,
limite  oltre  il  quale  non  e'  consentita  la  prosecuzione della
detenzione.
    Osserva,  infatti, il giudice a quo che, secondo quanto affermato
dalla  Corte di cassazione, per i detenuti stranieri non appartenenti
ad  uno  Stato  aderente  all'Unione  europea  che  si  trovano nelle
condizioni  previste  dall'art. 13,  comma 2,  del  d.lgs. n. 286 del
1998,  non  sarebbe  possibile  accedere ai suddetti benefici seppure
ritenuti,  nel  caso  concreto,  piu'  idonei a soddisfare l'esigenza
rieducativa   del   condannato,  in  tal  modo  creandosi  un  regime
penitenziario  speciale  per tali soggetti, individuati non gia' alla
stregua di indici rivelatori di una particolare pericolosita', quanto
piuttosto  di  un  dato  del  tutto  estrinseco  e formale, oltre che
tendenzialmente immodificabile, quale la loro presenza irregolare nel
territorio nazionale.
    Tale  disciplina,  sempre  secondo  il rimettente, si porrebbe in
contrasto con il principio affermato da questa Corte secondo cui ogni
misura  incidente  in  senso sfavorevole sul regime penitenziario del
detenuto,  come  la  revoca  di  un beneficio, deve conseguire ad una
condotta   addebitabile   al   condannato,  in  quanto  la  finalita'
rieducativa  della pena, seppure non puo' ritenersi in senso assoluto
prevalente  su  ogni altro valore costituzionale, non puo', comunque,
essere  compressa  fino  al  punto  di venire del tutto cancellata da
altri  valori  di  rango  costituzionale come, nel caso di specie, la
disciplina dei flussi dei fenomeni migratori.
    Conclude  il  rimettente  ritenendo  che  l'art. 47,  della legge
n. 354  del  1975,  che  disciplina  l'affidamento  in  prova,  e gli
artt. 5,  5-bis, 9, 13, del d.lgs. n. 286 del 1998, che prevedono, in
caso  di  assenza di un titolo abilitativo, l'obbligatoria espulsione
dello  straniero  irregolare,  cosi' come interpretati dalla Corte di
cassazione, violerebbero l'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
    Ad analogo esito ricostruttivo si deve pervenire, sempre a parere
del  giudice  a  quo,  con riferimento alla misura dell'ammissione al
regime  di  semiliberta',  misura che il Tribunale rimettente ritiene
applicabile  nel caso di specie, sia pure in via subordinata, qualora
non  dovesse  concedere  l'affidamento.  In  tal  caso,  peraltro, il
contrasto  con  l'art. 27, terzo comma, della Costituzione coinvolge,
oltre agli artt. 48 e 50 della legge n. 354 del 1975, anche l'art. 22
del  d.lgs.  n. 286  del  1998, poiche' lo svolgimento dell'attivita'
lavorativa  costituisce,  a  differenza  di  quanto  avviene nel caso
dell'affidamento,  uno  dei presupposti per l'ammissione al regime di
semiliberta';  per  cui  l'inderogabilita'  del divieto penale per il
datore di lavoro che impieghi lo straniero irregolare in attivita' di
lavoro  subordinato,  contenuta nel citato art. 22, configurerebbe un
limite alla possibilita' di accedere al beneficio in questione per il
detenuto.
    In  punto  di  rilevanza,  il rimettente osserva che la eventuale
sanzione  di  incostituzionalita' che dovesse colpire le disposizioni
censurate   sarebbe   suscettibile   di   riverberarsi  sul  giudizio
principale,  potendo  in  tale  caso  emettersi  un provvedimento che
consentirebbe al ricorrente, il quale ha nel frattempo portato avanti
la  misura  in modo del tutto impeccabile, di proseguire nel percorso
di reinserimento attraverso l'affidamento o la semiliberta'.
    2.  -  E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,   chiedendo   che   la   questione  sollevata  sia  dichiarata
inammissibile o infondata, senza motivare le suddette richieste.

                       Considerato in diritto

    1.  -  Il  Tribunale  di  sorveglianza  di  Cagliari  dubita,  in
riferimento  all'art. 27,  terzo  comma,  della  Costituzione,  della
legittimita'  costituzionale  degli  artt. 47,  48  e  50 della legge
26 luglio   1975,  n. 354  (Norme  sull'ordinamento  penitenziario  e
sull'esecuzione  delle  misure privative e limitative della liberta),
nonche'  degli  artt. 5,  5-bis,  9,  13 e 22 del decreto legislativo
25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina   dell'immigrazione   e   norme   sulla  condizione  dello
straniero),  come  modificato  dalla  legge  30 luglio  2002,  n. 189
(Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo).
    Il  rimettente,  investito  del  giudizio  di  rinvio  a  seguito
dell'annullamento,   ad   opera   della   Corte  di  cassazione,  del
provvedimento   con   il   quale   era   stata   concessa  la  misura
dell'affidamento  in  prova  al  servizio  sociale  ad  un  cittadino
extracomunitario  privo  del  permesso  di  soggiorno,  assume che il
principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, cui egli e'
vincolato,  implicherebbe il contrasto delle norme sopra indicate con
l'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
    Secondo  detto  principio  di  diritto, la permanenza nello Stato
dello  straniero privo di un valido ed efficace permesso di soggiorno
non  puo'  trovare titolo nella concessione dell'affidamento in prova
al   servizio   sociale.   L'applicazione   della   suddetta   misura
comporterebbe,  infatti,  una  deroga  al  d.lgs.  n. 286  del  1998,
ponendosi,  anzi, in contrasto con l'art. 13 dello stesso decreto che
disciplina,  limitandone  l'estensione  e  gli  effetti,  i  casi  di
interferenza  dei provvedimenti giurisdizionali sulla posizione dello
straniero illegalmente presente nel territorio dello Stato.
    A   parere  del  rimettente,  il  cennato  principio  di  diritto
determinerebbe,  in  violazione  del  precetto  costituzionale  della
finalita'  rieducativa della pena, un regime penitenziario speciale e
di  sfavore nei confronti di un insieme di persone condannate, vale a
dire  i  cittadini  stranieri  irregolarmente presenti nel territorio
dello Stato, individuati, non gia' sulla base di indici rivelatori di
una  particolare  pericolosita'  sociale  -  secondo  modalita'  gia'
sperimentate  nell'ambito  dell'ordinamento  penitenziario  -  quanto
sulla  scorta  di un dato «estrinseco e formale», quale il difetto di
titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato. In tal
modo  risulterebbe  eluso,  sempre  a  parere  del  giudice a quo, il
principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, in forza
del  quale ogni misura incidente in senso sfavorevole sul trattamento
penitenziario  deve conseguire ad una condotta colpevole addebitabile
al  condannato, non potendo le esigenze di difesa sociale - ancorche'
rilevanti    sul   piano   costituzionale,   perche'   sottese   alla
regolamentazione  dei  flussi  migratori  -  annullare  la  finalita'
rieducativa della pena.
    2.  -  In  via  preliminare,  va  affermata  la  rilevanza  della
questione di costituzionalita' sollevata.
    La consolidata giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 58 del
1995,  n. 257  del  1994,  n. 138  del 1993) ha, infatti, statuito la
piena  legittimazione  del  giudice  di  rinvio  a sollevare dubbi di
costituzionalita'  concernenti l'interpretazione normativa risultante
dal  principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, e cio'
in quanto il rimettente deve fare applicazione nel giudizio di rinvio
della  norma  nel  significato  in tal modo attribuitole e non si e',
dunque, al cospetto di rapporti «esauriti».
    Il vincolo di conformazione del giudice di rinvio al principio di
diritto,  peraltro,  non  viene  meno in caso di successivi mutamenti
degli  indirizzi interpretativi del medesimo giudice di legittimita',
si'  da  consentire  al  giudice  del  rinvio  l'adozione di approcci
ermeneutici  diversi  dai  contenuti  cristallizzati nel principio di
diritto  ed  eventualmente risolutivi del dubbio di costituzionalita'
(sentenza n. 130 del 1993).
    Stante,  dunque,  l'obbligatoria applicazione delle regulae iuris
enunciate  all'esito del giudizio rescindente da parte del giudice di
rinvio  e  la  facolta'  riconosciuta  a  quest'ultimo di revocare in
dubbio,  sotto  il  profilo  della  legittimita' costituzionale dette
regole,  oggetto  dello scrutinio di costituzionalita' risulta essere
la norma nella «lettura» fornita dalla Corte di cassazione (ordinanza
n. 501 del 2000), essendo ininfluenti, ai fini del presente giudizio,
eventuali diverse interpretazioni fornite dal giudice di legittimita'
delle norme impugnate.
    3. - Nel merito, la questione e' fondata.
    Il  dubbio  di costituzionalita' ha, alla sua radice, il problema
ermeneutico  legato  alla  possibile  interazione tra le disposizioni
della  legge  n. 354  del  1975,  che  prevedono  le  modalita'  e le
condizioni  per  l'accesso alle misure alternative alla detenzione, e
le  regole  contenute  nel  d.lgs.  n. 286 del 1998, che disciplinano
l'ingresso  e  la permanenza nel territorio dello Stato dei cittadini
extracomunitari.
    Al riguardo, si e' posto l'interrogativo se le misure alternative
-  ed,  in  specie,  con  riguardo al caso in esame, l'affidamento in
prova  al  servizio sociale o la semiliberta' - possano applicarsi al
cittadino  extracomunitario  che sia entrato illegalmente in Italia o
sia  privo di permesso di soggiorno, cioe' ad un soggetto che, se non
si trovasse a dover espiare una pena, andrebbe espulso dal territorio
nazionale.
    Il vaglio interpretativo della Corte di cassazione ha registrato,
in proposito, due contrastanti indirizzi.
    Per  il  primo  di  essi  - fatto proprio anche dalla sentenza di
annullamento  con la quale e' stato enunciato il principio di diritto
censurato  -  la  condizione  di clandestinita' o irregolarita' dello
straniero precluderebbe senz'altro l'accesso alle misure alternative.
Cio'  in  quanto, nel rigore della disciplina dettata dal testo unico
in  materia di immigrazione, non potrebbe ammettersi che l'esecuzione
della  pena,  nei confronti dello straniero presente contra legem nel
territorio  dello Stato, abbia luogo con modalita' tali da comportare
la  violazione  delle  regole  che  configurano  detta  condizione di
illegalita';  senza  considerare,  poi  -  si  aggiunge  -  che,  con
particolare   riferimento   all'affidamento  in  prova,  risulterebbe
impossibile   instaurare,   proprio  a  fronte  della  condizione  in
discorso,  la  necessaria interazione tra il condannato e il servizio
sociale.
    Per  contro,  alla  stregua  di  altra  corrente interpretativa -
confortata  da  una recente pronuncia delle sezioni unite della Corte
di  cassazione,  successiva  all'ordinanza  di  rimessione  (sentenza
n. 14500  del  28 marzo  2006)  - la presenza illegale nel territorio
dello    Stato,    pur    esponendo   lo   straniero   all'espulsione
amministrativa,   da  eseguire  dopo  l'espiazione  della  pena,  non
osterebbe  alla concessione delle misure alternative, quante volte il
giudice  -  sia pure in esito ad un vaglio adeguatamente rigoroso, in
correlazione  alla  particolare  situazione del richiedente - ravvisi
comunque  la  sussistenza  dei  presupposti  di  accesso  alle misure
medesime, quali stabiliti dalla legge sull'ordinamento penitenziario.
In   particolare,   secondo   tale  ultimo  orientamento,  le  misure
alternative  -  che costituiscono altrettante modalita' di esecuzione
della  pena  e  le  cui  prescrizioni  rivestono,  dunque,  carattere
«sanzionatorio-afflittivo»  -  mirano ad attuare i «preminenti valori
costituzionali  della  eguale dignita' delle persone e della funzione
rieducativa   della  pena  (artt. 2,  3  e  27,  terzo  comma,  della
Costituzione)»,  con la conseguenza che la loro applicazione non puo'
essere  esclusa a priori ed in ragione di una presunzione assoluta di
inidoneita'  legata alla condizione di clandestinita' o irregolarita'
della  presenza sul territorio nazionale del detenuto, dovendosi, per
contro,  formulare  in  concreto  il  richiesto  giudizio prognostico
attinente  alla  rieducazione  del condannato ed alla prevenzione del
pericolo di reiterazione dei reati.
    4.  -  A  fronte delle delineate diverse soluzioni interpretative
va,  preliminarmente,  rilevato  che,  conformemente a quanto sancito
dall'art. 27,  terzo  comma,  della Costituzione, la legge n. 354 del
1975,  nell'indicare  i principi direttivi ai quali deve ispirarsi il
trattamento penitenziario, statuisce, per un verso, che nei confronti
dei condannati ed internati debba essere attuato, secondo un criterio
di  individualizzazione  in  rapporto  alle specifiche condizioni dei
soggetti,  un  trattamento  rieducativo  che  tenda al «reinserimento
sociale»  degli  stessi;  e,  per  altro  verso,  che  il trattamento
penitenziario  debba  essere  «improntato  ad assoluta imparzialita',
senza  discriminazioni  in  ordine a nazionalita', razza e condizioni
economiche  e  sociali,  a opinioni politiche e a credenze religiose»
(art. 1).
    Questa  Corte,  nell'ambito  di  giudizi  aventi  ad  oggetto  le
disposizioni  contenute  nella legge n. 354 del 1975, con riferimento
alla   finalita'   rieducativa   della   pena,   ha,  d'altro  canto,
costantemente affermato che detta finalita' deve contemperarsi con le
altre funzioni che la Costituzione assegna alla pena medesima (vale a
dire:  prevenzione  generale,  difesa sociale, prevenzione speciale).
Tale  principio  di  armonica  coesistenza  deve ispirare l'esercizio
della  discrezionalita' che in materia compete al legislatore, le cui
scelte  risulteranno  non  irragionevoli  e  rispettose  del precetto
dell'art. 27,  terzo  comma,  della  Costituzione,  allorquando,  pur
privilegiando l'una o l'altra delle suddette finalita', il sacrificio
che  si arreca ad una di esse risulti assolutamente necessario per il
soddisfacimento  dell'altra  e,  comunque, purche' nessuna ne risulti
obliterata (sentenze n. 257 del 2006 e n. 306 del 1993).
    Su  siffatte premesse, questa Corte, tenuto conto dei principi di
proporzione  e  individualizzazione della pena propri del trattamento
penitenziario,   ha   ritenuto   che  contrastano  con  la  finalita'
rieducativa  della  stessa  quelle  norme che precludono l'accesso ai
benefici  penitenziari  in ragione del semplice nomen iuris del reato
per il quale e' stata pronunciata la condanna (si veda la gia' citata
sentenza   n. 306   del   1993).  La  Corte  ha,  altresi',  statuito
l'incompatibilita' costituzionale, rispetto all'art. 27, terzo comma,
della  Costituzione,  della  preclusione all'ottenimento di una nuova
liberazione  condizionale  da parte del condannato all'ergastolo, cui
tale  misura  sia  stata  in precedenza revocata in conseguenza della
commissione  di  un  delitto  o  di  una contravvenzione della stessa
indole  o  della  trasgressione degli obblighi inerenti alla liberta'
vigilata;  e  cio'  anche  quando  sussista il presupposto del sicuro
ravvedimento  (sentenza  n. 161  del  1997,  che  ha  dichiarato,  di
conseguenza,   costituzionalmente  illegittimo  l'art. 177,  comma 1,
ultimo  periodo,  del  codice penale). Una simile preclusione, per il
suo  carattere  assoluto  ed automatico, avrebbe, infatti, escluso il
condannato in modo permanente e definitivo dal processo rieducativo e
di reinserimento sociale.
    Tali   principi  risultano  pienamente  conferenti  in  relazione
all'odierno scrutinio di costituzionalita'.
    Invero,  l'incompatibilita'  rispetto  all'art. 27,  terzo comma,
della  Costituzione,  che  attinge  le  norme  censurate  in esito al
vincolante  principio  di diritto espresso dalla Corte di cassazione,
deriva   dal   fatto  che  quest'ultimo  si  risolve  nella  radicale
esclusione  dalle  misure  alternative  alla  detenzione di un'intera
categoria  di  soggetti,  individuata  sulla  base  di un indice - la
qualita'  di  cittadino  extracomunitario presente irregolarmente sul
territorio  dello  Stato  -  privo di univoco significato rispetto ai
valori rilevanti ai fini considerati.
    Detta   esclusione   assume,  cioe',  carattere  assoluto  quanto
all'oggetto, abbracciando indistintamente l'intera gamma delle misure
alternative  alla  detenzione  e,  dunque, un complesso di misure dai
connotati  profondamente  diversificati  e dai contenuti estremamente
variegati,  in  quanto  espressione  dell'esigenza  di realizzare una
progressione  del  trattamento.  Al  tempo  stesso,  tale preclusione
risulta  collegata  in modo automatico ad una condizione soggettiva -
il  mancato  possesso  di  un  titolo abilitativo alla permanenza nel
territorio  dello  Stato  -  che,  di  per  se',  non e' univocamente
sintomatica   ne'   di   una   particolare   pericolosita'   sociale,
incompatibile   con  il  perseguimento  di  un  percorso  rieducativo
attraverso  qualsiasi misura alternativa, ne' della sicura assenza di
un   collegamento   col   territorio,   che   impedisca  la  proficua
applicazione  della  misura  medesima.  In  conseguenza  di  siffatto
automatismo,  vengono  quindi  ad essere irragionevolmente accomunate
situazioni  soggettive  assai  eterogenee:  quali, ad esempio, quella
dello  straniero  entrato clandestinamente nel territorio dello Stato
in  violazione  del divieto di reingresso e detenuto proprio per tale
causa,  e  quella  dello  straniero che abbia semplicemente omesso di
chiedere  il rinnovo del permesso di soggiorno e che sia detenuto per
un reato non riguardante la disciplina dell'immigrazione.
    Quanto,  poi,  alla  incompatibilita' fra la disciplina del testo
unico   in   materia  di  immigrazione  e  l'applicazione  di  misure
alternative  alla detenzione, pure evocata a fondamento del principio
di  diritto  enunciato dalla Corte di cassazione, occorre considerare
che,  in  realta',  e'  proprio  la  condizione  di  persona soggetta
all'esecuzione  della  pena che abilita ex lege - ed anzi costringe -
lo straniero a permanere nel territorio dello Stato; e cio', tanto se
l'esecuzione  abbia  luogo  nella forma intramuraria, quanto se abbia
luogo,  invece  -  a  seguito  della  eventuale concessione di misure
alternative  -  in  forma  extramuraria. In altre parole, nel momento
stesso  in  cui  prevede  che  l'esecuzione  della  pena  «prevalga»,
sospendendone   l'attuazione,  sulla  espulsione  cui  il  condannato
extracomunitario   sarebbe   soggetto,   il  legislatore  adotta  una
soluzione  che implica l'accettazione della perdurante presenza dello
straniero  nel  territorio  nazionale  durante il tempo di espiazione
della  pena  stessa. Da cio' consegue l'impossibilita' di individuare
nella  esigenza  di  rispetto  delle  regole in materia di ingresso e
soggiorno  in  detto  territorio  una  ragione  giustificativa  della
radicale  discriminazione  dello  straniero sul piano dell'accesso al
percorso  rieducativo, cui la concessione delle misure alternative e'
funzionale.
    Il   legislatore  ben  puo',  ovviamente  -  tenuto  conto  della
particolare  situazione  del  detenuto cittadino extracomunitario che
sia  entrato  illegalmente  in  Italia  o  sia  privo  di permesso di
soggiorno  -  diversificare,  in  rapporto  ad essa, le condizioni di
accesso,   le   modalita'   esecutive  e  le  categorie  di  istituti
trattamentali  fruibili  dal  condannato  o,  addirittura, crearne di
specifici,  senza  pero' potersi spingere fino al punto di sancire un
divieto  assoluto  e generalizzato di accesso alle misure alternative
nei  termini dinanzi evidenziati. Un simile divieto contrasta con gli
stessi  principi ispiratori dell'ordinamento penitenziario che, sulla
scorta  dei  principi  costituzionali  della  uguale  dignita'  delle
persone  e  della  funzione  rieducativa della pena (artt. 2, 3 e 27,
terzo comma, della Costituzione), non opera alcuna discriminazione in
merito  al  trattamento  sulla base della liceita' della presenza del
soggetto nel territorio nazionale.
    L'assoluta  preclusione  all'accesso alle misure alternative alla
detenzione, nei casi in esame, prescinde, peraltro, dalla valutazione
prognostica   attinente   alla   rieducazione,   al   recupero  e  al
reinserimento  sociale del condannato e alla prevenzione del pericolo
di  reiterazione  di reati, cosicche' la finalita' repressiva finisce
per annullare quella rieducativa.
    Va,  pertanto,  dichiarata la illegittimita' costituzionale delle
disposizioni  di  cui  agli  artt. 47, 48 e 50 della legge n. 354 del
1975,   delle   quali  il  giudice  rimettente  e'  chiamato  a  fare
applicazione   ai   fini   della   richiesta  concessione  di  misure
alternative,  ed  alle  quali  va  quindi limitata la declaratoria di
incostituzionalita',  ove  interpretate  nel senso che allo straniero
extracomunitario,  entrato  illegalmente nel territorio dello Stato o
privo  del permesso di soggiorno, sia in ogni caso precluso l'accesso
alle   misure  alternative  alla  detenzione  previste  dai  medesimi
articoli.  Resta  ferma  la  evidenziata  facolta' del legislatore di
tenere  eventualmente  conto  -  in sede di modifica della disciplina
vigente  - della particolare situazione dello straniero clandestino o
irregolare,  nei  termini  e  nei  limiti  che  si sono in precedenza
indicati.