ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 7, comma 1,
lettera a)   del  decreto-legge  29 marzo  2004  n. 80  (Disposizioni
urgenti  in  materia  di enti locali), convertito, con modificazioni,
dalla   legge   28 maggio  2004,  n. 140,  promosso  dalla  Corte  di
cassazione, sul ricorso proposto da G. B. ed altri contro R. A. P. ed
altri,  con  ordinanza  del  6 aprile  2005,  iscritta  al n. 321 del
registro  ordinanze  2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 26, 1ª serie speciale, dell'anno 2005.
    Visti gli atti di costituzione di R. A. P. ed altri, di A. B., di
G.  R.,  di A.N. ed altri nonche' l'atto di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  6 febbraio  2007  il  giudice
relatore Francesco Amirante;
    Uditi  gli  avvocati  Graziella  Colaiacomo  per  A.  B., Carmelo
Matafu'  per  A. n. ed altri e l'avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo
per il Presidente del Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.  - La Corte di cassazione, prima sezione civile, con ordinanza
del  6 aprile 2005, ha sollevato, in riferimento all'art. 77, secondo
comma,  della  Costituzione, questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 7,  comma 1,  lettera a),  del decreto-legge 29 marzo 2004,
n. 80  (Disposizioni  urgenti in materia di enti locali), convertito,
con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140.
    Premette il giudice a quo che, con sentenza del 13 dicembre 2002,
il  ricorrente era stato condannato dalla Corte di appello di Messina
alla  pena  di mesi sei di reclusione ed alla temporanea interdizione
dai  pubblici  uffici,  con i benefici di legge, per i delitti di cui
agli  artt. 81, 314, secondo comma, e 323 del codice penale, e che la
Corte  di cassazione, con sentenza del 5 giugno 2003, aveva rigettato
il ricorso proposto dall'imputato avverso detta sentenza di condanna.
Nel  frattempo,  il  ricorrente  si  era  candidato alle elezioni del
25--26 maggio  2003  ed il 29 maggio era stato proclamato sindaco del
Comune  di  Messina.  Erano  state,  quindi,  proposte diverse azioni
popolari  per ottenere la declaratoria di decadenza dell'eletto dalla
carica  di  sindaco,  a  seguito della sopravvenuta suddetta sentenza
penale  irrevocabile  di  condanna.  I relativi ricorsi riuniti erano
stati  respinti  dal Tribunale di Messina, con sentenza del 21 luglio
2003, sull'assunto che le norme di cui agli artt. 58, 59, 68 e 70 del
decreto  legislativo  18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull'ordinamento  degli  enti locali), non consentissero di affermare
che  la  condanna  definitiva  per il delitto di peculato d'uso - con
irrevocabilita'  acquisita  dopo  la nomina a sindaco del candidato -
costituisse causa di decadenza dell'eletto e che, per converso, detta
decadenza  non  potesse  conseguire  alla  interdizione  dai pubblici
uffici, con sospensione della pena.
    Tale  decisione  era  stata,  tuttavia,  riformata dalla Corte di
appello  di Messina che aveva dichiarato la decadenza dalla carica di
sindaco, con sentenza del 3 dicembre 2003.
    Avverso  detta sentenza era stato proposto ricorso per cassazione
ma,  prima  dell'udienza  di  discussione, era stato pubblicato nella
Gazzetta  Ufficiale del 30 marzo 2004, il d.l. n. 80 del 2004, il cui
art. 7,   comma 1,  lettere a)  e  b),  aveva  modificato  l'art. 58,
comma 1,  lettera b),  del d.lgs. n. 267 del 2000 (nel senso che dopo
il  numero «314» erano inserite le parole «primo comma») e l'art. 59,
comma 6,  dello  stesso  decreto  legislativo  (nel senso che dopo le
parole  «sentenza  di condanna» erano inserite le parole «per uno dei
reati  previsti dal medesimo comma»). Con il decreto-legge era stato,
quindi,  escluso  che  la  condanna per il peculato d'uso costituisse
causa di incandidabilita' alla carica di sindaco e, poi, di decadenza
dalla stessa.
    La  Corte  di  cassazione,  con  ordinanza del 17 aprile 2004, ha
sollevato,   in   riferimento   all'art. 77,  secondo  comma,  Cost.,
questione  di  legittimita'  costituzionale  del  citato  art. 7, per
palese   insussistenza  del  requisito  del  «caso  straordinario  di
necessita' e urgenza».
    Questa  Corte,  con  ordinanza  n. 2  del  2005,  ha  disposto la
restituzione  degli  atti  al  giudice a quo, essendo, medio tempore,
intervenuta  la legge di conversione n. 140 del 2004 che ha apportato
modifiche  al  testo  del  decreto-legge  ed  ha enunciato le ragioni
dell'emanazione della norma censurata.
    La  Corte  di cassazione ritiene di dover nuovamente sollevare la
questione - nell'anzidetta formulazione - assumendo che il denunciato
vizio  si  e' trasferito sulla legge che, pur nella manifesta carenza
dell'anzidetto  requisito,  ha ugualmente provveduto alla conversione
del decreto-legge.
    In  punto  di  rilevanza,  la  Corte  remittente,  richiamando la
propria  precedente  ordinanza,  dopo aver affermato l'applicabilita'
nella  Regione  siciliana  degli  artt. 58 e 59 del d.lgs. n. 267 del
2000,  osserva  che il secondo, terzo e quarto motivo del ricorso per
cassazione     hanno     carattere    assorbente    nella    disamina
dell'impugnazione  principale  e  che le suddette disposizioni devono
essere  applicate per la decisione dei motivi stessi. In particolare,
con  il  secondo  motivo  si  fa  questione  della  latitudine  della
previsione   inabilitante   dell'art. 314  cod.  pen.  contenuta  nel
menzionato  art. 58,  comma 1,  lettera b), sostenendosi, in antitesi
con  la decisione della Corte territoriale, che il peculato d'uso non
sarebbe  da  comprendere  nella previsione inabilitante del peculato.
Con  il  terzo  e  quarto  motivo, dato per ammesso che la previsione
inabilitante   includa  l'ipotesi  del  peculato  d'uso,  si  censura
l'opzione  interpretativa adottata dalla Corte di appello di Messina,
per  la  quale  vi  sarebbe  perfetta  corrispondenza  tra previsioni
inabilitanti  (in  termini  di  ostativita' alla carica e di nullita'
della  elezione  avvenuta)  e previsioni disabilitanti (in termini di
decadenza dell'eletto per la sopravvenienza del giudicato ostativo).
    Da  quanto  si e' detto deriva, ad avviso della Corte remittente,
la necessaria e ineludibile applicazione delle norme sopravvenute nel
giudizio  di  cui  si  tratta,  in quanto l'art. 7 del d.l. n. 80 del
2004, alla lettera a), modificando l'art. 58, comma 1, lettera b), ha
escluso  dal novero delle cause ostative alla candidatura la condanna
definitiva   per  il  delitto  di  peculato  d'uso  (salva  l'ipotesi
contemplata  dall'art. 58, comma 1, lettera c, non modificato, in cui
la  pena  irrogata  superi i sei mesi), mentre lo stesso art. 7, alla
lettera b)  -  modificando  l'art. 59,  comma 6,  del testo unico nel
senso  di  prevedere  esplicitamente  che  la decadenza dalle cariche
elencate al comma 1 dell'art. 58, per effetto di sentenza di condanna
definitiva,  operi  soltanto ove la condanna sia intervenuta «per uno
dei   reati  previsti  dal  medesimo  comma»  -  ha  escluso  che  la
sopravvenuta  condanna  definitiva a pena non superiore a sei mesi di
reclusione  per  il delitto di peculato d'uso possa valere come causa
di   decadenza   dalla  carica.  Conseguentemente,  per  effetto  del
censurato  art. 7  si  e'  escluso  che  l'indicato  tipo di condanna
definitiva  -  corrispondente  a quella irrogata nel caso di specie -
possa  operare tanto come causa ostativa alla candidatura quanto come
causa di decadenza dalla stessa.
    Dopo  aver negato il carattere di interpretazione autentica delle
norme  in  argomento  -  posto  che in esse non e' dato rinvenire ne'
riferimenti  a  pregresse alternative ermeneutiche, ne' la imperativa
opzione  per  una  di  esse,  ma soltanto la volonta' (esplicitata in
rubrica  e  nel  testo)  di modificare le norme previgenti - la Corte
remittente  osserva che l'applicabilita' della censurata normativa al
caso di specie come ius superveniens deriva dal fatto che essa incide
sul regime dei requisiti legali di mantenimento della carica pubblica
elettiva  «e  quindi  sulla  sua  idoneita'  a  mutarlo con immediata
efficacia tanto in malam quanto, come nella specie, in bonam partem».
    A  sostegno  di  tale  argomento,  il  giudice  a quo richiama la
giurisprudenza  di legittimita' circa la sopravvenienza di condizioni
«disabilitanti»  (sentenze  irrevocabili  di condanna) all'elezione o
nomina  alla  carica  elettiva,  secondo  cui  le  nuove disposizioni
debbono  essere applicate anche ove le situazioni sanzionate si siano
verificate prima della entrata in vigore della legge sopravvenuta. Il
principio  formulato  in tale giurisprudenza appare al remittente del
tutto  condivisibile  ove  evidenzia la ragionevolezza dell'immediata
applicazione   della   nuova   disciplina,   perche'  riguardante  le
condizioni  di  mantenimento  della  carica: ne consegue che di detto
principio  deve  farsi  applicazione  anche  in  riferimento  a norme
sopravvenute  che - al pari di quella di cui si tratta - rimuovono un
pregresso   giudizio  di  indegnita',  confinando  nell'ambito  della
«irrilevanza  giuridica»  una condanna penale che, in base alle norme
preesistenti, aveva valore di condizione inabilitante.
    Quanto  osservato  con  riguardo  alla  disciplina introdotta dal
decreto-legge  vale,  secondo  il  giudice  a quo, anche per il testo
risultante  dalla  legge di conversione, visto che la modifica che ne
risulta  all'art. 58, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 267 del 2000
e'   stata   riprodotta,   mentre   la  soppressione  della  modifica
dell'art. 59,  comma 6, dello stesso decreto legislativo e' del tutto
indifferente rispetto alla fattispecie sub iudice.
    Cio'  posto, al giudice remittente sembra che la norma denunciata
difetti in modo evidente del necessario requisito per la sua adozione
con  decreto-legge  -  la  sussistenza  del  «caso  straordinario  di
necessita'  ed  urgenza»  - e che il vizio di violazione del disposto
dell'art. 77,  secondo  comma,  Cost., attinente al decreto n. 80 del
2004,  «dovra'  coinvolgere  -  come  vizio in procedendo - la stessa
legge  di  conversione  che  abbia  provveduto  in  difetto del [...]
requisito»  stesso  (secondo  quanto  affermato da questa Corte nella
sentenza n. 29 del 1995).
    Come   evidenziato  in  occasione  del  precedente  incidente  di
costituzionalita',  la  carenza  del  detto  requisito  risulterebbe,
anzitutto,  dal  fatto  che  il  decreto  e'  stato  adottato non per
regolare   -   con  lo  strumento  imposto  dall'approssimarsi  delle
consultazioni  elettorali - la materia delle condizioni ostative alle
candidature,   in  un'ottica  (insindacabile)  di  adeguamento  delle
previsioni  normative  al  mutamento  delle  condizioni politiche, ma
soltanto  per  escludere  dal  novero  delle  cause  ostative  di cui
all'art. 58,   comma 1,   lettera a),  del  d.lgs.  n. 267  del  2000
l'ipotesi  di  condanna  per  peculato d'uso, senza che dal testo del
provvedimento  sia  desumibile  la ragione per la quale l'urgenza del
provvedere abbia riguardato solo la prescelta ipotesi.
    Sarebbe,  inoltre, indicativo anche il preambolo del decreto, ove
si  collega  esplicitamente  l'adozione delle disposizioni urgenti in
materia  di enti locali «al fine di assicurarne la funzionalita', con
particolare riferimento alle procedure di approvazione dei bilanci di
previsione,  alle  difficolta'  finanziarie  dei  comuni  di  ridotta
dimensione demografica ed al risanamento di particolari situazioni di
dissesto  finanziario»,  senza  dichiarare  nulla  con  riguardo alla
straordinaria  necessita'  ed  urgenza di modificare i soli artt. 58,
comma 1,  lettera b), e 59, comma 6, nel senso di escludere l'ipotesi
di  cui all'art. 314, secondo comma, cod. pen. dal novero dei delitti
di per se' ostativi alla candidatura.
    Infine,   sarebbe   altrettanto   sintomatico   il  silenzio  del
provvedimento con riguardo alla deroga che l'art. 7 del d.l. in esame
ha  apportato all'art. 15, comma 2, lettera b), della legge 23 agosto
1988, n. 400, la' dove fa divieto al Governo di adottare lo strumento
del decreto-legge per provvedere nelle materie indicate nell'art. 72,
quarto comma, Cost. (tra le quali e' compresa la materia elettorale e
nelle  quali  la  citata norma costituzionale prescrive la riserva di
delibera assembleare). D'altra parte, se il Governo ha, nella specie,
ritenuto   di  far  doveroso  omaggio  all'obbligo  di  indicare  nel
preambolo  del  decreto le circostanze straordinarie di necessita' ed
urgenza  che  ne  giustificavano l'adozione (art. 15, comma 1, cit.),
tacendo  poi del tutto sulle circostanze che tale adozione imponevano
in  una  materia  nella  quale  quella  stessa  legge  fa  divieto di
adottarlo,  sarebbe  avvalorato in modo evidente «il dubbio che dette
circostanze non potevano essere portate ad emersione essendo esse del
tutto  estranee  dall'ambito  di  legittimo  esercizio della potesta'
normativa del Governo».
    Il  sommario esame del testo e dei lavori preparatori della legge
di  conversione renderebbero, poi, palese la consapevolezza, da parte
del  Parlamento, dell'originaria assenza del requisito costituzionale
per la decretazione di urgenza, riguardo alla disposizione censurata.
Infatti,  in  primo  luogo,  non  vi  sarebbe  alcuna coerenza tra la
disciplina  definitiva  adottata  in  merito alle modifiche apportate
agli artt. 59, comma 3, 61, 64, 254, 256 del d.lgs. n. 267 del 2000 e
quella  di  cui  si  discute.  Inoltre,  l'inserimento  delle ragioni
giustificatrici    dell'intervento    con   l'esplicito   riferimento
all'ordine  e  alla  sicurezza  pubblica  attesterebbe  non  gia'  la
consapevolezza  dell'esistenza  di  gravi  e indifferibili ragioni di
urgenza,  quanto piuttosto la scelta di sottrarre il provvedimento al
divieto di cui agli artt. 15, comma 2, lettera b), della legge n. 400
del  1988  e  72, quarto comma, Cost. Del resto, nel corso dei lavori
preparatori,  in diversi interventi e' stata denunciata l'assenza del
requisito  di  cui si tratta, sicche' e' da escludere che la legge di
conversione   abbia   sanato  il  vizio  originario,  secondo  quanto
affermato da questa Corte nella sentenza n. 341 del 2003.
    2.  -  E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,   che   ha   concluso   per   l'inammissibilita',  ovvero  per
l'infondatezza della questione.
    L'Avvocatura sostiene che la disposizione censurata sarebbe volta
a  superare alcune difficolta' interpretative ed applicative relative
all'art. 58  del d.lgs. n. 267 del 2000, derivanti dalla non perfetta
corrispondenza  esistente  tra  le  ipotesi  delittuose ostative alla
candidatura  (art. 58)  e  quelle  ostative alla permanenza in carica
presso  gli  organi  degli enti locali (art. 59). Tale corrispondenza
sussisteva,  invece,  prima  della modifica normativa apportata dalla
legge  13 dicembre  1999,  n. 475,  all'art. 15  della legge 19 marzo
1990,  n. 55,  poi  trasfuso  negli artt. 58 e 59 del testo unico del
2000.  La  modifica,  pertanto,  avrebbe  soddisfatto  l'esigenza  di
allineare   la   previsione   sulla  ineleggibilita'  a  quella  gia'
stabilita,  per  l'identica  fattispecie  penale  del peculato, dalla
norma sulla decadenza dalla carica (art. 59 t.u.), la quale limita la
sanzione  della  decadenza  dell'eletto alla sola ipotesi di condanna
per  il  delitto  di  peculato  proprio,  previsto  nel  primo  comma
dell'art. 314  cod.  pen.  Cosi',  anche  la causa di ineleggibilita'
collegata  alla condanna definitiva per il reato di peculato e' stata
limitata  alla  sola  ipotesi  di  peculato  proprio, con esclusione,
quindi,  della  condanna  per  peculato  d'uso,  di cui all'art. 314,
secondo comma, del codice penale.
    Parimenti  la  seconda  modifica  -  ora soppressa dalla legge di
conversione  -  si  era proposta di eliminare alcune «discrasie» e di
rimuovere  i dubbi interpretativi suscitati, in materia di decadenza,
dalla  constatazione  che la norma di cui al primo comma dell'art. 59
del  testo  unico  non  prevede la sospensione dell'amministratore in
caso  di  condanna  non  definitiva  per uno dei reati previsti dalla
lettera c)  del  comma 1  dell'art. 58  (quindi anche per il peculato
d'uso, in caso di condanna superiore ai sei mesi di reclusione).
    Dopo  avere  escluso,  anche  alla  stregua  della giurisprudenza
costituzionale  sul  punto,  che nel caso di specie possa parlarsi di
«evidente  mancanza»  dei  presupposti  di  cui  all'art. 77, secondo
comma, Cost., l'Avvocatura afferma che la motivazione che sorregge il
decreto-legge,   resa   esplicita   nella  relazione  governativa  di
accompagnamento  al disegno di legge di conversione, rende plausibile
(o   meglio   «non   manifestamente   implausibile»)  la  valutazione
governativa  posta  a  base  del ricorso alla decretazione d'urgenza.
Essa  si  sarebbe  resa  necessaria  per  l'esigenza di approntare un
organico  intervento  normativo volto ad assicurare le indispensabili
condizioni  di  funzionalita'  a tutti gli enti locali «attraverso la
soluzione  di  alcune  significative  problematiche  emerse ad inizio
dell'anno 2004,  in  parte  riconducibili  alla  ancora  non compiuta
attuazione   della   riforma  del  Titolo  V,  parte  seconda,  della
Costituzione».  In tale contesto, sebbene la mancata approvazione del
bilancio  di  previsione  costituisse la piu' evidente manifestazione
dei  gravi  problemi di funzionalita' degli enti locali, nondimeno la
decretazione d'urgenza in materia tendeva anche a rendere coerenti le
norme  sulle  cause  ostative  all'assunzione  delle cariche elettive
presso  gli  enti  stessi  con  quelle  sulla decadenza dalle cariche
medesime.
    Ne' in senso contrario depongono le aggiunte apportate in sede di
conversione  al comma 1 dell'art. 7 in oggetto. Con esse, infatti, il
legislatore   ha  solo  esplicitato  le  finalita'  perseguite  dalle
disposizioni  (escludendone  l'attinenza  alla  materia elettorale e,
quindi,  all'ambito  di applicabilita' dell'art. 15, comma 2, lettera
b,  della legge n. 400 del 1988) e le ragioni di necessita' e urgenza
che ne hanno imposto l'adozione con decreto-legge.
    Del  resto,  gli istituti delle cause ostative alla candidatura e
delle  cause  di  decadenza dalle cariche presso gli enti locali, pur
essendo   connessi   alla  materia  elettorale,  in  quanto  ad  essa
funzionalmente  collegati,  restano,  nei loro contenuti, distinti da
tale  materia,  il  cui  oggetto  va  identificato  nel  voto  e  nel
procedimento referendario.
    Dagli    stessi    estratti   dei   lavori   preparatori   citati
nell'ordinanza  di  rimessione  emerge come gia' nella sede referente
sia   stato   posto   l'accento   sull'attinenza  delle  disposizioni
all'ordine   e   alla   sicurezza  pubblica  e  le  diverse  opinioni
manifestate  al  riguardo dimostrano solo che la questione ha formato
oggetto  di  ampio dibattito, ma non incidono sulla costituzionalita'
della  scelta  della  decretazione d'urgenza, per la cui adozione non
occorre un consenso unanime.
    3.  -  Nel  giudizio  davanti  alla Corte si sono costituite, con
diversi  atti, alcune delle parti del giudizio principale, formulando
richieste analoghe.
    In    particolare,   alcuni   ricorrenti   hanno   concluso   per
l'inammissibilita'  della  questione per irrilevanza o, in subordine,
per   la  dichiarazione  di  incostituzionalita'  della  disposizione
censurata  per violazione degli artt. 77, secondo comma, e 72, quarto
comma, della Costituzione.
    L'irrilevanza  sarebbe  desumibile dalle seguenti considerazioni:
a) inapplicabilita' della norma impugnata nella Regione siciliana; b)
inqualificabilita' della stessa come ius superveniens applicabile, in
quanto tale, nel caso di specie.
    Per quel che riguarda il merito della questione, le parti private
aderiscono,   nella   sostanza,   alla   prospettazione  della  Corte
remittente,   ponendo   l'accento   sul   fatto   che   la  norma  in
contestazione,  oltre  ad  essere  palesemente priva dei requisiti di
straordinarieta'  ed  urgenza,  incidendo  sul  diritto di elettorato
passivo, e' univocamente riconducibile alla materia elettorale, nella
quale  e' da escludere l'utilizzazione di strumenti normativi diversi
dalla  legge  formale  e, in particolare, il ricorso al decreto-legge
(viene  richiamata  la  sentenza di questa Corte n. 161 del 1995), ai
sensi dell'art. 72, quarto comma, della Costituzione.
    4.  -  Alle  medesime conclusioni pervengono altri ricorrenti del
giudizio principale.
    Nel  relativo  atto  di  costituzione  si  pone,  in particolare,
l'accento,    quanto   all'inammissibilita'   della   questione   per
irrilevanza,  sulla  contrarieta' della tesi della Corte remittente -
favorevole  alla applicabilita' della disposizione denunciata al caso
di  specie,  quale  ius superveniens - rispetto alla teoria del fatto
compiuto,  la  quale, secondo la costante giurisprudenza della stessa
Corte  di  cassazione, deve governare la verifica dell'applicabilita'
ai  giudizi  in  corso  delle  sopravvenute modifiche legislative non
aventi  efficacia  retroattiva.  Nella  specie,  infatti,  al momento
dell'entrata  in  vigore  del  d.l. n. 80 del 2004 la decadenza dalla
carica  si  era  gia'  verificata con il passaggio in giudicato della
sentenza  penale  di  condanna  avvenuto  nel giugno 2003, sicche' la
disposizione  impugnata  non  e' sicuramente applicabile, non potendo
essa influire su un fatto interamente consumatosi, insieme con i suoi
effetti, sotto il vigore della precedente disciplina.
    Per quel che riguarda il merito della questione, le parti private
considerano  esaustive le argomentazioni dell'ordinanza di rimessione
e  sottolineano  che  nella  disposizione  censurata  si  ravvisa una
mancanza  dei  presupposti  dell'urgenza di evidenza tale da refluire
sulla  intervenuta  legge  di  conversione  sotto  forma  di vizio in
procedendo.
    5. - Con analoghe motivazioni pervengono alle stesse conclusioni,
nei  rispettivi  atti  di costituzione in giudizio, anche altre parti
ricorrenti.

                       Considerato in diritto

    1.  -  La  Corte  di  cassazione  ha  sollevato,  in  riferimento
all'art. 77,   secondo   comma,   della  Costituzione,  questione  di
legittimita'  costituzionale,  dell'art. 7,  comma 1, lettera a), del
decreto-legge  29 marzo  2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia
di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio
2004, n. 140, recante modifiche all'art. 58, comma 1, lettera b), del
decreto  legislativo  18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull'ordinamento  degli  enti locali), per «evidente carenza del caso
straordinario di necessita' ed urgenza».
    La  disposizione  censurata  e'  cosi' formulata: «Al testo unico
delle  leggi  sull'ordinamento  degli  enti locali, di cui al decreto
legislativo  18 agosto  2000,  n. 267,  per  chiarire  e  definire  i
presupposti  e  le  condizioni  rilevanti  per  il mantenimento delle
cariche  pubbliche  ai  fini  dell'ordine e della sicurezza pubblica,
sono  apportate  le  seguenti modificazioni: a) all'art. 58, comma 1,
lettera b),  dopo  il  numero «314» sono inserite le seguenti parole:
«primo comma»».
    La   questione  viene  proposta  nel  corso  di  un  giudizio  di
impugnazione  avverso la sentenza con la quale la Corte di appello di
Messina,  pronunciando su ricorsi proposti da alcuni cittadini, aveva
dichiarato decaduto dalla carica il sindaco di quella citta' dopo che
era  divenuta  definitiva  la  sentenza  di  condanna emessa nei suoi
confronti  per  il  reato  previsto dall'art. 314, secondo comma, del
codice penale (peculato d'uso).
    In punto di rilevanza, la Corte di cassazione osserva, anzitutto,
che  il  rinvio  alla  legge  statale  operato  in materia elettorale
dall'art. 36  della  legge della Regione siciliana 1° settembre 1993,
n. 26    (recte:    dall'art. 6    della    legge    della    Regione
siciliana 26 agosto  1992, n. 7, come sostituito dal citato art. 36),
ha  carattere  aperto,  rendendo  quindi applicabile anche a elezione
avvenuta,  nella suddetta Regione, la disposizione del testo unico il
quale, comunque, ha carattere meramente ricognitivo e compilativo. In
secondo  luogo, la remittente osserva che il principio dell'immediata
applicabilita'  di  una  nuova  disciplina  in  materia  di  cause di
incandidabilita' e di incompatibilita', affermato costantemente dalla
giurisprudenza in malam partem, cioe' nella ipotesi dell'introduzione
di  nuove  cause  determinanti le suindicate conseguenze, deve essere
applicato  anche  in bonam partem, qualora, come nel caso in oggetto,
venga soppressa una causa di incandidabilita'.
    Nel  merito,  la  Corte  remittente  rileva  che  la disposizione
censurata  e'  stata inserita in un decreto che ha ad oggetto materia
diversa e, in particolare, aspetti della disciplina di finanza locale
e  che  la  valutazione  sulla  necessita'  e  urgenza  di provvedere
contenuta  nel preambolo del decreto si riferisce a tale disciplina e
non anche al comma e all'alinea dell'art. 7 impugnato.
    La   questione   era  stata  gia'  sollevata  con  riguardo  alla
disposizione  del  decreto  prima  della  sua  conversione, ma questa
Corte,    essendo   intervenuta   in   pendenza   del   giudizio   di
costituzionalita'  la  legge  n. 140 del 2004, con la quale sarebbero
state   anche   esplicitate  le  ragioni  delle  modifiche  apportate
all'art. 58,  comma 1,  lettera b), del d.lgs. n. 267 del 2000, aveva
restituito  gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della
disposizione  e  quindi  della  permanenza degli eventuali profili di
illegittimita' in precedenza denunciati (ordinanza n. 2 del 2005).
    Secondo  la Corte remittente, tali profili sussistono perche' ne'
la  modifica  introdotta  in  sede  di  conversione alla disposizione
censurata,  ne'  la  relazione  che accompagna il disegno di legge di
conversione    danno    adeguato   conto   della   ricorrenza   della
straordinarieta' del caso di necessita' e di urgenza.
    2.  -  La  questione  e' ammissibile, essendo non implausibile la
motivazione  che  sorregge  in  punto  di rilevanza il giudizio della
remittente.
    3. - Nel merito, la questione e' fondata.
    E'  opinione  largamente  condivisa  che  l'assetto  delle  fonti
normative sia uno dei principali elementi che caratterizzano la forma
di  governo nel sistema costituzionale. Esso e' correlato alla tutela
dei  valori  e  diritti  fondamentali.  Negli Stati che s'ispirano al
principio  della  separazione  dei  poteri  e  della soggezione della
giurisdizione  e  dell'amministrazione  alla  legge, l'adozione delle
norme  primarie  spetta agli organi o all'organo il cui potere deriva
direttamente dal popolo.
    A  questi  principi  si  conforma  la nostra Costituzione laddove
stabilisce che «la funzione legislativa e' esercitata collettivamente
dalle due Camere» (art. 70).
    In  determinate  situazioni  o  per particolari materie, attesi i
tempi  tecnici  che il normale svolgimento della funzione legislativa
comporta,  o in considerazione della complessita' della disciplina di
alcuni   settori,   l'intervento   del   legislatore   puo'   essere,
rispettivamente,  posticipato  oppure  attuato  attraverso l'istituto
della  delega  al  Governo,  caratterizzata  da  limiti  oggettivi  e
temporali  e  dalla  prescrizione di conformita' a principi e criteri
direttivi indicati nella legge di delegazione.
    Lasciando da parte tale ultima ipotesi, che qui non interessa, e'
significativo che l'art. 77 Cost., al primo comma, stabilisca che «il
Governo non puo', senza delegazione delle Camere, emanare decreti che
abbiano valore di legge ordinaria».
    Tenuto  conto  del  tenore  dell'art. 70 Cost., la norma suddetta
potrebbe  apparire  superflua  se  non  le  si attribuisse il fine di
sottolineare che le disposizioni dei commi successivi - nel prevedere
e  regolare  l'ipotesi  che  il  Governo,  in  casi  straordinari  di
necessita'   e   d'urgenza,  sotto  la  sua  responsabilita',  adotti
provvedimenti provvisori con forza di legge, che perdono efficacia se
non  convertiti  in  legge  entro  sessanta  giorni - hanno carattere
derogatorio  rispetto all'essenziale attribuzione al Parlamento della
funzione  di  porre  le  norme  primarie nell'ambito delle competenze
dello Stato centrale.
    4.  - E' sulla base di siffatti presupposti che questa Corte, con
giurisprudenza  costante  dal  1995  (sentenza  n. 29  del  1995), ha
affermato  che  l'esistenza  dei requisiti della straordinarieta' del
caso  di  necessita'  e d'urgenza puo' essere oggetto di scrutinio di
costituzionalita'.
    La  Corte  tuttavia,  nell'affermare  l'esistenza  del suindicato
proprio  compito, e' stata ed e' consapevole che il suo esercizio non
sostituisce  e  non  si  sovrappone a quello iniziale del Governo e a
quello  successivo  del Parlamento in sede di conversione - in cui le
valutazioni   politiche   potrebbero  essere  prevalenti  -  ma  deve
svolgersi  su  un  piano  diverso,  con  la  funzione  di  preservare
l'assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei valori a
tutela dei quali detto compito e' predisposto.
    L'espressione usata dalla Costituzione per indicare i presupposti
alla  cui  ricorrenza e' subordinato il potere del Governo di emanare
norme  primarie  ancorche' provvisorie - ossia i casi straordinari di
necessita' ed urgenza - se da un lato, come si e' detto, evidenzia il
carattere  singolare  di  detto potere rispetto alla disciplina delle
fonti  di  una  Repubblica  parlamentare, dall'altro, pero', comporta
l'inevitabile  conseguenza di dare alla disposizione un largo margine
di  elasticita'.  Infatti,  la  straordinarieta'  del  caso,  tale da
imporre  la  necessita'  di  dettare  con  urgenza  una disciplina in
proposito, puo' essere dovuta ad una pluralita' di situazioni (eventi
naturali,  comportamenti  umani  e  anche  atti  e  provvedimenti  di
pubblici  poteri)  in  relazione  alle  quali  non sono configurabili
rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi.
    Cio'  spiega  perche'  questa Corte abbia ritenuto che il difetto
dei presupposti di legittimita' della decretazione d'urgenza, in sede
di scrutinio di costituzionalita', debba risultare evidente e perche'
sia  intervenuta  positivamente  soltanto una volta in presenza dello
specifico   fenomeno,   divenuto   cronico,  della  reiterazione  dei
decreti-legge non convertiti (sentenza n. 360 del 1996).
    5.  -  Prima  di  procedere  allo  scrutinio  in concreto occorre
risolvere   la  questione,  logicamente  prioritaria,  dell'eventuale
efficacia  sanante  della legge di conversione, dal momento che, come
si  e'  detto, dopo che era stata rimessa a questa Corte la questione
di  legittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 1, lettera a), del
d.l. n. 80 del 2004, il medesimo e' stato convertito, con modifiche -
non  concernenti,  pero',  la  disposizione  censurata  - dalla legge
n. 140 del 2004.
    Sul  punto  la Corte ha affermato, nella sentenza n. 29 del 1995,
il   principio  secondo  cui  il  difetto  dei  requisiti  del  «caso
straordinario  di  necessita'  e d'urgenza», una volta intervenuta la
conversione,  si  traduce  in  un  vizio in procedendo della relativa
legge.
    Il  suddetto  principio  e' stato ribadito con la sentenza n. 341
del  2003,  mentre  con  altre la Corte ha ritenuto di prescindere da
tale  questione  perche'  era  da  escludere  l'evidente  carenza dei
suindicati presupposti (sentenze n. 196 del 2004 e n. 178 del 2004).
    Diverso  orientamento  e'  stato invece adottato, senza specifica
motivazione  sul  punto,  con le sentenze n. 330 del 1996, n. 419 del
2000  e  n. 29  del  2002  e,  sotto  un  particolare profilo, con la
sentenza n. 360 del 1996.
    La  Corte  ritiene  di  dover  ribadire  il  principio  per primo
ricordato.
    Le ragioni che sorreggono siffatto indirizzo sono molteplici.
    Se,   anzitutto,   nella  disciplina  costituzionale  che  regola
l'emanazione  di  norme  primarie  (leggi  e atti aventi efficacia di
legge)  viene  in  primo  piano  il rapporto tra gli organi - sicche'
potrebbe ritenersi che, una volta intervenuto l'avallo del Parlamento
con  la  conversione  del  decreto, non restino margini per ulteriori
controlli  -  non  si  puo'  trascurare  di  rilevare che la suddetta
disciplina e' anche funzionale alla tutela dei diritti e caratterizza
la  configurazione  del  sistema  costituzionale  nel  suo complesso.
Affermare  che  la  legge di conversione sana in ogni caso i vizi del
decreto   significherebbe   attribuire  in  concreto  al  legislatore
ordinario  il  potere  di  alterare  il  riparto costituzionale delle
competenze  del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle
fonti primarie.
    Inoltre,  se  si  ha  riguardo  al  fatto  che  in una Repubblica
parlamentare,  quale  quella  italiana,  il Governo deve godere della
fiducia delle Camere e si considera che il decreto-legge comporta una
sua particolare assunzione di responsabilita', si deve concludere che
le  disposizioni  della  legge  di  conversione  in quanto tali - nei
limiti,  cioe', in cui non incidano in modo sostanziale sul contenuto
normativo  delle  disposizioni  del decreto, come nel caso in esame -
non  possono  essere  valutate,  sotto  il profilo della legittimita'
costituzionale,  autonomamente da quelle del decreto stesso. Infatti,
l'immediata  efficacia  di  questo,  che  lo  rende idoneo a produrre
modificazioni  anche  irreversibili  sia della realta' materiale, sia
dell'ordinamento,  mentre rende evidente la ragione dell'inciso della
norma  costituzionale  che  attribuisce al Governo la responsabilita'
dell'emanazione  del decreto, condiziona nel contempo l'attivita' del
Parlamento  in  sede di conversione in modo particolare rispetto alla
ordinaria attivita' legislativa. Il Parlamento si trova a compiere le
proprie  valutazioni  e  a  deliberare con riguardo ad una situazione
modificata  da norme poste da un organo cui di regola, quale titolare
del   potere   esecutivo,  non  spetta  emanare  disposizioni  aventi
efficacia di legge.
    Del  resto,  a  conferma  di cio', si puo' notare che la legge di
conversione  e'  caratterizzata  nel suo percorso parlamentare da una
situazione  tutta  particolare,  al  punto  che  la presentazione del
decreto  per  la conversione comporta che le Camere vengano convocate
ancorche'  sciolte (art. 77, secondo comma, Cost.), e il suo percorso
di  formazione  ha una disciplina diversa da quella che regola l'iter
dei   disegni   di   legge  proposti  dal  Governo  (art. 96-bis  del
regolamento  della  Camera e art. 78, comma 4, di quello del Senato).
Il  testo  di  quest'ultimo  e'  cosi' formulato: « Se l'Assemblea si
pronunzia   per   la   non   sussistenza  dei  presupposti  richiesti
dall'articolo 77,  secondo  comma, della Costituzione o dei requisiti
stabiliti   dalla  legislazione  vigente,  il  disegno  di  legge  di
conversione  si intende respinto. Qualora tale deliberazione riguardi
parti o singole disposizioni del decreto-legge o del disegno di legge
di conversione, i suoi effetti operano limitatamente a quelle parti o
disposizioni, che si intendono soppresse».
    6.  -  Tutto  cio'  premesso, occorre verificare, alla stregua di
indici  intrinseci  ed  estrinseci  alla  disposizione  impugnata, se
risulti   evidente   o   meno   la   carenza   del   requisito  della
straordinarieta' del caso di necessita' e d'urgenza di provvedere.
    Sul  punto, e' opportuno anzitutto rilevare che la determinazione
delle  cause  di  incandidabilita' e di incompatibilita' attiene alla
materia  elettorale  e  non  alla materia della disciplina degli enti
locali (v. sentenze n. 104 del 1973, n. 118 e n. 295 del 1994, n. 161
del 1995, n. 141 del 1996, n. 132 del 2001 e n. 25 del 2002).
    Ora,   mentre   l'epigrafe   del   decreto   reca  l'intestazione
«Disposizioni  urgenti  in  materia  di enti locali», il preambolo e'
cosi'  testualmente  formulato: «Ritenuta la straordinaria necessita'
ed urgenza di emanare disposizioni in materia di enti locali, al fine
di  assicurarne  la  funzionalita',  con particolare riferimento alle
procedure di approvazione dei bilanci di previsione, alle difficolta'
finanziarie  dei  comuni  di  ridotta  dimensione  demografica  ed al
risanamento di particolari situazioni di dissesto finanziario».
    E,  infatti,  gli  artt. 1,  4,  5  e 6 attengono ai bilanci e in
genere  alla finanza comunale, l'art. 2 concerne le conseguenze della
mancata  redazione  degli  strumenti  urbanistici generali e l'art. 3
disciplina   le  modalita'  di  presentazione  delle  dimissioni  dei
consiglieri  comunali  e  provinciali.  Nulla quindi risulta, ne' dal
preambolo ne' dal contenuto degli articoli, che abbia attinenza con i
requisiti per concorrere alla carica di sindaco.
    La  norma  censurata  si  connota,  pertanto, per la sua evidente
estraneita'   rispetto   alla   materia   disciplinata   dalle  altre
disposizioni del decreto-legge in cui e' inserita.
    A  sua volta, la relazione al disegno di legge di conversione del
decreto n. 80 del 2004, nella parte relativa all'art. 7, enuncia come
ragione della modifica apportata agli artt. 58 e 59 del d.lgs. n. 267
del  2000 l'eliminazione della discrasia che esisteva tra le cause di
sospensione  previste dall'art. 58 e quelle di decadenza dalla carica
previste dall'art. 59, discrasia che, peraltro, si era verificata fin
dal 1999.
    Questa  affermazione giustifica la modifica, ma non rende ragione
dell'esistenza  della  necessita'  ed  urgenza  di  intervenire sulla
norma.
    L'utilizzazione   del   decreto-legge   -   e   l'assunzione   di
responsabilita'  che  ne  consegue  per  il Governo secondo l'art. 77
Cost.  -  non  puo'  essere  sostenuta  dall'apodittica  enunciazione
dell'esistenza  delle  ragioni  di  necessita' e di urgenza, ne' puo'
esaurirsi  nella  constatazione della ragionevolezza della disciplina
che e' stata introdotta.
    Oltre    alla    non    riferibilita'   al   contesto   normativo
dell'eliminazione  di  una  causa  di incandidabilita' alla carica di
sindaco,  non  si  comprende  come  la  medesima  attenga  all'ordine
pubblico  e  alla sicurezza. Non e', quindi, pertinente, al riguardo,
il  richiamo  -  fatto dall'Avvocatura dello Stato con riferimento ai
lavori  parlamentari  - alle sentenze di questa Corte con le quali si
affermava  l'inerenza  all'ordine  pubblico  e  alla sicurezza di una
normativa   prevedente   nuove   cause   di   incandidabilita'  o  di
incompatibilita'    nell'ambito   della   lotta   alla   criminalita'
organizzata  (sentenze  n. 118  e  n. 295  del 1994, n. 141 del 1996,
n. 132 del 2001 e n. 25 del 2002, gia' citate).
    Va,    pertanto,   dichiarata   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 7,  comma 1,  lettera a), del decreto-legge n. 80 del 2004,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 140 del 2004.