IL GIUDICE DI PACE Sciogliendo la riserva disposta all'udienza del 25 ottobre 2006, nel procedimento civile iscritto al N.R.G. 2199/06 promosso da Abate Carlo - attore, rappresentato e difeso dall'avv. Giuseppe Di Geronimo contro ENEL Distribuzione S.p.A. - convenuta, rappresentata e difesa dall'avv. Stefano Rosa. Ha emesso la seguente ordinanza. Premesso che con atto di citazione notificato il 15 giugno 2006, Abate Carlo conveniva in giudizio Enel Distribuzione S.p.A. per sentirla dichiarare responsabile dell'interruzione di energia elettrica avvenuta il 28 settembre 2003 e, conseguentemente, per ottenere contro la medesima societa' una pronuncia di condanna al risarcimento dei danni; che il valore della controversia era quantificato in Euro 1.033,00; che la domanda era proposta facendo valere un contratto di somministrazione di energia elettrica stipulato (ai sensi dell'art. 1342 cod. civ.) tramite un modulo predisposto da Enel Distribuzione S.p.A.; che, conseguentemente, il presente giudizio dovrebbe essere deciso secondo diritto, ai sensi dell'art. 1 del decreto-legge 8 febbraio 2003, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di giudizio necessario secondo equita), convertito, con modificazioni, nella legge 7 aprile 2003, n. 63, sostitutivo dell'art. 113, secondo comma, codice di procedura civile; che, tuttavia, il difensore di parte attrice sollevava eccezione pregiudiziale di legittimita' costituzionale, in relazione agli artt. 3 e 41 della Costituzione, della citata norma nella parte in cui esclude che il giudice di pace decida secondo equita' le cause derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalita' di cui all'articolo 1342 del codice civile; che il remittente, ritenendo la questione non manifestamente infondata, la solleva, a sua volta, innanzi a codesta Ill.ma Corte, nei termini e per i motivi sotto indicati. Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale ai fini della soluzione della presente controversia. Prima di passare agli aspetti sostanziali inerenti alla non manifesta infondatezza della questione, e' bene soffermarsi su quelli formali, altrettanto importanti, al fine di evitare una pronuncia di inammissibilita' che precluderebbe alla Corte di entrare nel merito della questione stessa. Occorre, pertanto, dimostrare, come vuole l'art. 23, secondo comma, legge costituzionale n. 87 del 1953, la rilevanza della questione ai fini della soluzione del presente giudizio, cioe' l'impossibilita' di definire quest'ultimo indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita'. Ebbene la questione e' rilevante, in quanto, in primo luogo, il contratto oggetto della lite rientra tra quelli previsti dall'art. 1342 c.c. Trattasi, infatti, di contratto di somministrazione di energia elettrica, stipulato sulla base di moduli o formulari predisposti da Enel Distribuzione S.p.A. Sempre in punto di rilevanza si precisa che l'eventuale dichiarazione di illegittimita' della norma in questione inciderebbe senza dubbio sulle regole che il giudicante deve seguire nella decisione del presente giudizio, essendo il valore della controversia quantificato in un importo inferiore ad Euro 1.100,00 (previsto dal primo periodo del secondo comma dell'art. 1, decreto-legge n. 18/2003 come limite di valore entro cui si applica il necessario giudizio secondo equita' da parte del giudice di pace), per cui la lite andrebbe decisa secondo diritto, se la questione di legittimita' costituzionale fosse ritenuta infondata, mentre andrebbe definita secondo equita', se la stessa fosse ritenuta fondata. Si evidenzia, inoltre, che l'atto di citazione e' stato notificato il 15 giugno 2006 e, quindi, dopo il 10 febbraio 2003, sicche' l'art. 1, decreto-legge n. 18/2003 e' pienamente applicabile al caso di specie, visto che tale norma si applica per i giudizi instaurati con citazione notificata dal 10 febbraio 2003, in virtu' di quanto dispone l'art. 1-bis del medesimo decreto. Non manifesta infondatezza della questione in relazione all'art. 3 della Costituzione. L'art. 113, secondo comma, c.p.c. - nella sua formulazione precedente alla riforma apportata dall'art. 1 del decreto-legge 8 febbraio 2003, n. 18, convertito, con modificazioni, nella legge 7 aprile 2003, n. 63 (riforma, peraltro, recepita integralmente dal nuovo codice di procedura civile) - recitava che: «Il giudice di pace decide secondo equita' le cause il cui valore non eccede millecento euro». A seguito del citato intervento modificativo del legislatore, tuttavia, la formulazione dell'art. 113, secondo comma, risulta essere la seguente: «Il giudice di pace decide secondo equita' le cause il cui valore non eccede millecento euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalita' di cui all'articolo 1342 del codice civile». Il secondo periodo del secondo comma dell'art. 113 del codice di procedura civile, contiene, quindi, una norma speciale, in virtu' della quale il giudice di pace decide secondo diritto le cause derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalita' di cui all'articolo 1342 c.c., derogando cosi' alla norma generale, contenuta nel primo periodo del secondo comma del citato art. 113, in base alla quale tutte le altre cause attribuite al giudice di pace, di valore inferiore ad Euro 1.100,00, sono decise secondo equita'. La motivazione posta a base della suddetta deroga e' espressa nel preambolo del decreto-legge 8 febbraio 2003, n. 18, che si riporta qui di seguito: «Ritenuta la straordinaria necessita' ed urgenza di modificare l'articolo 113 del codice di procedura civile escludendo il parametro equitativo per il giudice di pace nelle controversie derivanti da contratti di massa, allo scopo di evitare che il soggettivo apprezzamento, sulla base di tale parametro, possa comportare pronunce difformi riferite a identiche tipologie contrattuali ................ EMANA ....................». Il legislatore, quindi, ritiene che, imponendo ai singoli giudici di pace di decidere secondo diritto controversie molto probabilmente analoghe (in quanto derivanti da identiche tipologie contrattuali), si eviterebbe il rischio di una difformita' tra pronunce che, invece, ad avviso della legge, si potrebbe verificare laddove si desse la possibilita' ai citati giudici di deciderle secondo equita'. Al riguardo si osserva, tuttavia, che l'uniformita' delle pronunce riferite a questioni identiche non puo' essere affatto ottenuta obbligando i giudici a decidere secondo diritto, anziche' secondo equita'. Proprio in applicazione di un principio del nostro diritto, infatti, ogni giudice e' libero di dissentire dalla decisione emessa anteriormente da un altro giudice in un caso analogo. Si allude al principio di non vincolativita' del precedente giurisprudenziale, dettato, implicitamente dall'art. 1 delle disposizioni sulla legge in generale (approvate, preliminarmente al codice civile, con regio decreto n. 262/1942), nel quale articolo sono tassativamente elencate le fonti del diritto, tra cui non rientra il precedente giurisprudenziale, ma, in ordine di importanza, rientrano solo le leggi, i regolamenti ed, infine, gli usi. Ne consegue che, nel nostro ordinamento, a differenza dal sistema anglosassone, ogni giudice puo' anche non condividere eventuali pronunce emesse anteriormente, secondo diritto, da altri giudici in ordine a questioni identiche, senza che cio' costituisca un motivo autonomo di impugnazione, quand'anche i precedenti provengano, addirittura, da giudici di grado superiore. Pertanto, la norma contenuta nell'art. 1, decreto-legge n. 18/2003, non e' assolutamente idonea a raggiungere lo scopo che essa si prefigge, vale a dire quello di evitare la difformita' di pronunce riferite ad identiche tipologie contrattuali, in quanto, in virtu' del menzionato principio di non vincolativita' del precedente giurisprudenziale - non modificato dal citato decreto e non suscettibile di alcuna deroga -, i singoli giudici di pace, sebbene siano tenuti ad attenersi non all'equita', ma ai principi di diritto, possono comunque risolvere, in modo diverso l'uno dall'altro, le controversie derivanti da un'unica tipologia di contratto. E' pur vero che la Corte di cassazione svolge, tra l'atro, anche la funzione nomofilattica, diretta ad assicurare un'interpretazione uniforme del diritto, ma e' altrettanto vero che l'impugnato art. 1, decreto-legge n. 18/2003 e' volto a garantire l'uniformita' delle sentenze non soltanto in grado di Cassazione, ma gia' in primo grado, innanzi ai giudici di pace, il che, tuttavia, non puo' essere affatto conseguito nel modo previsto dalla citata norma, per i motivi esposti in precedenza. Ed, infatti, esaminando proprio le controversie sorte innanzi ai giudici di pace a seguito del black out del 28 settembre 2003, si osserva che tra le pronunce dei singoli giudici sussiste un'assoluta difformita' di orientamenti, talvolta anche all'interno dello stesso Ufficio giudiziario, alcuni ritenendo fondate le pretese degli utenti, altri ritenendo non responsabile Enel Distribuzione S.p.A., come il remittente ha avuto modo di riscontrare analizzando i fascicoli di entrambe le parti. In conclusione, l'art. 1 del decreto-legge 8 febbraio 2003, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di giudizio necessario secondo equita), convertito, con modificazioni, nella legge 7 aprile 2003, n. 63, sostitutivo dell'art. 113, secondo comma, codice di procedura civile, non essendo affatto idoneo a perseguire lo scopo per il quale e' stato introdotto, e' illegittimo per contrasto con il principio di ragionevolezza delle leggi sancito dall'art. 3 della Costituzione, con conseguente necessita' che codesta ill.ma Corte lo dichiari incostituzionale nella parte in cui esso esclude il necessario giudizio di equita' per il giudice di pace nelle controversie, di valore inferiore ad Euro 1.100,00, derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalita' di cui all'articolo 1342 del codice civile. Non manifesta infondatezza della questione in relazione all'art. 41 della Costituzione. L'art. 1 del decreto-legge 8 febbraio 2003, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di giudizio necessario secondo equita), convertito, con modificazioni, nella legge 7 aprile 2003, n. 63, sostitutivo dell'art. 113, secondo comma, codice di procedura civile, e' illegittimo, inoltre, anche perche' appare in contrasto con l'art. 41 della Costituzione. Il contrasto e' da vedersi nel fatto che, riservando tale norma il giudizio di diritto alle sole cause derivanti da contratti di massa, essa finisce per agevolare troppo la parte contrattuale forte, ossia il predisponente del modulo o formulario, il quale, essendo quasi sempre un imprenditore, ha piu' possibilita' di appellare le sentenze dei giudici di pace, soprattutto in virtu' della maggiore disponibilita' economica di cui egli gode rispetto all'aderente al modulo, il quale, invece, difficilmente potrebbe fare altrettanto. Ne deriva che l'art. 1, decreto-legge n. 18/2003, rendendo necessariamente non equitative, e quindi appellabili, le sentenze emesse dal giudice di pace in controversie derivanti da contratti di massa, rappresenta un ostacolo alla conclusione del contratto, il tutto in contrasto con il primo comma dell'art. 41, in virtu' del quale l'iniziativa economica, e quindi anche quella contrattuale, e' libera. Tale liberta' di iniziativa economica, in altri termini, risulta limitata dal timore che un'eventuale sentenza relativa ad una controversia nascente da quel contratto, eventualmente favorevole all'aderente al modulo, potrebbe essere piu' facilmente impugnata dal professionista, in virtu' della possibilita' di proporre appello avverso la sentenza stessa (ai sensi del combinato disposto dell'impugnato art. 1, decreto-legge n. 18/2003 e dell'art. 339, terzo comma, c.p.c.), il quale e' un mezzo di impugnazione che soggiace a minori preclusioni rispetto al ricorso in Cassazione. Il suddetto ostacolo alla contrattazione, inoltre, si pone in contrasto anche con l'utilita' sociale, in quanto la maggior parte delle volte i contratti di massa hanno ad oggetto servizi pubblici essenziali (erogazione di acqua, corrente elettrica, gas, servizio telefonico, ecc.), per cui un ostacolo alla stipula di contratti di massa si traduce in un limite per il cittadino alla fruizione di un pubblico servizio, il tutto in contrasto con il secondo comma del citato art. 41 Cost.