ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nei  giudizi  di legittimita' costituzionale dell'art. 443 del codice
di   procedura   penale,  come  modificato  dall'art. 2  della  legge
20 febbraio  2006  n. 46  (Modifiche al codice di procedura penale in
materia  di  inappellabilita'  delle  sentenze di proscioglimento), e
dell'art. 10  della stessa legge, promossi con ordinanze del 21 marzo
2006  dalla  Corte  militare d'appello, sezione distaccata di Verona,
del  6 aprile  e del 28 aprile 2006 dalla Corte di appello di Milano,
rispettivamente iscritte ai nn. 275 e 589 del registro ordinanze 2006
ed  al n. 115 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 36, 1ª serie speciale, dell'anno 2006 e
nn. 1 e 12, 1ª serie speciale, dell'anno 2007.
    Udito  nella  Camera  di  consiglio  del 4 luglio 2007 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con l'ordinanza in epigrafe, la Corte militare di appello,
sezione  distaccata  di  Verona,  ha  sollevato,  in riferimento agli
artt. 3,  primo  comma,  111,  secondo  e  settimo comma, e 112 della
Costituzione,  questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 2
della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura
penale   in   materia   di   inappellabilita'   delle   sentenze   di
proscioglimento),  nella  parte  in  cui,  modificando l'art. 443 del
codice di procedura penale, priva il pubblico ministero del potere di
proporre  appello  avverso  le  sentenze  di proscioglimento emesse a
seguito  di  giudizio abbreviato; nonche' dell'art. 10 della medesima
legge,  nella parte in cui rende applicabile tale nuova disciplina ai
procedimenti  in  corso  alla  data  della  sua  entrata  in  vigore,
stabilendo,   altresi',  che  l'appello  anteriormente  proposto  dal
pubblico  ministero  contro  una  sentenza  di  proscioglimento viene
dichiarato  inammissibile  con  ordinanza  non  impugnabile, salva la
facolta'  dell'appellante  di  proporre  ricorso per cassazione entro
quarantacinque   giorni   dalla   notifica   del   provvedimento   di
inammissibilita'.
    Il  giudice  a  quo, investito dell'appello proposto dal pubblico
ministero  avverso  una  sentenza  assolutoria  emessa  a  seguito di
giudizio  abbreviato,  ritiene  che  le  norme  impugnate  - le quali
imporrebbero, nel caso di specie, la declaratoria di inammissibilita'
del  gravame - ledano, anzitutto, il principio di parita' delle parti
nel processo, sancito dall'art. 111, secondo comma, Cost.
    A  seguito  della novella, infatti, il pubblico ministero - ormai
privo  di ogni possibilita' di contrastare l'accesso dell'imputato al
giudizio  abbreviato - verrebbe a perdere in modo pressoche' completo
la  facolta'  di  appellare  la  sentenza emessa dal giudice di primo
grado:  potendo  tale  facolta'  esercitarsi,  da  parte  dell'organo
dell'accusa,   solo  nella  «marginale»  ipotesi  della  sentenza  di
condanna  che  modifica  il titolo del reato (art. 443, comma 3, cod.
proc.  pen.). Il dubbio di costituzionalita' assumerebbe consistenza,
d'altra  parte, proprio alla luce di quanto affermato da questa Corte
con  riguardo  alla  precedente limitazione del potere di appello del
pubblico ministero nel giudizio abbreviato, relativa alle sentenze di
condanna  che  lascino  inalterato  il  titolo del reato: limitazione
ritenuta  legittima  sia perche' costituente - assieme alla riduzione
della  pena  -  il «corrispettivo» per la rinuncia al dibattimento da
parte  dell'imputato,  con  opzione  che  favorisce  una  piu' rapida
definizione  dei  processi;  sia perche' concernente situazioni nelle
quali la pretesa punitiva ha trovato comunque realizzazione (sentenza
n. 363  del  1991 e ordinanza n. 421 del 2001). Quest'ultima decisiva
condizione  viene, per contro, a mancare nel nuovo assetto normativo,
che  -  col  rendere  inappellabili  le sentenze di proscioglimento -
«mutila  le  prerogative della parte pubblica in modo generalizzato e
proprio nell'aspetto piu' saliente del suo interesse ad impugnare».
    Ne  deriverebbe,  quindi, una asimmetria che oltrepassa la soglia
della   compatibilita'   con  il  parametro  costituzionale  evocato:
giacche',  e'  ben  vero  che il principio di parita' delle parti non
implica  necessariamente  l'identita'  tra  i  poteri processuali del
pubblico  ministero  e  dell'imputato;  ma  e' altrettanto vero che -
sempre  alla  stregua  della  citata  sentenza  n. 363  del 1991 - la
diversita'  di  trattamento  potrebbe  essere giustificata unicamente
dalla  peculiare  posizione  istituzionale  del pubblico ministero, o
dalla funzione allo stesso affidata, ovvero da esigenze connesse alla
corretta   amministrazione  della  giustizia.  Ipotesi,  queste,  non
ravvisabili nella specie.
    Ad  avviso  del  rimettente,  le  norme  impugnate  si porrebbero
altresi'  in  contrasto  con  l'art. 112 Cost.: e cio' avuto riguardo
segnatamente al dictum della sentenza n. 98 del 1994 di questa Corte,
secondo  cui  la  configurazione  dei poteri del pubblico ministero -
ancorche'  affidata  alla legge ordinaria - potrebbe essere censurata
per   irragionevolezza  se  i  poteri  stessi,  nel  loro  complesso,
dovessero  risultare inidonei all'assolvimento dei compiti funzionali
all'esercizio dell'azione penale. Tale «situazione-limite» si sarebbe
puntualmente realizzata per effetto dell'art. 2 della legge n. 46 del
2006: giacche' - introducendo un limite «generale ed indifferenziato»
al  potere  del pubblico ministero di chiedere il riesame nel merito,
da parte di un giudice superiore, delle sentenze che abbiano respinto
la  pretesa punitiva - la disposizione censurata avrebbe pregiudicato
il  «nucleo  essenziale» delle attribuzioni prefigurate dal parametro
costituzionale in parola.
    Il  giudice  a  quo  reputa  inoltre  compromesso l'art. 3 Cost.,
rilevando   come   sia   del  tutto  irrazionale  che,  nel  giudizio
abbreviato,  la  parte  pubblica  risulti  abilitata  ad appellare in
situazioni  nelle  quali la pretesa punitiva e' stata accolta solo in
parte (sentenze di condanna modificative del titolo del reato); e non
fruisca, invece, di analogo potere nella «piu' significativa» ipotesi
in cui la pretesa punitiva e' stata totalmente disattesa (sentenze di
proscioglimento).
    Al  riguardo,  non  gioverebbe  obiettare  - sempre ad avviso del
rimettente  -  che  il  pubblico ministero puo' comunque impugnare le
sentenze  di  proscioglimento  con ricorso per cassazione, e nei piu'
ampi  termini  conseguenti alla riformulazione delle lettere d) ed e)
dell'art. 606,  comma 1,  cod.  proc. pen. ad opera dell'art. 8 della
stessa  legge  n. 46  del  2006.  Anche dopo l'ampliamento dei motivi
deducibili,  il  ricorso  per  cassazione resta, infatti, un mezzo di
impugnazione  «a  critica vincolata»: mentre l'appello e' un mezzo di
gravame «a critica libera», che consente di censurare la sentenza per
la  sua  «eventuale intrinseca ingiustizia». Non solo: per tal verso,
il nuovo assetto delle impugnazioni genererebbe ulteriori sospetti di
incostituzionalita',   giacche'   -   trasformando   il   giudice  di
legittimita'  «in  un  sostanziale  giudice  di merito con competenza
estesa   all'intero   territorio   nazionale»   -   comporterebbe  un
ineluttabile  aumento  dei  processi  pendenti  dinanzi alla Corte di
cassazione,  con  altrettanto  ineluttabile allungamento dei relativi
tempi  di  definizione.  Nel  caso,  infatti,  di  annullamento della
sentenza  di  proscioglimento  di primo grado da parte del giudice di
legittimita',  potrebbero  occorrere  non  meno  di  cinque  gradi di
giudizio  per  pervenire  ad  una  pronuncia definitiva (primo grado;
giudizio  di  cassazione promosso dal pubblico ministero; nuovo primo
grado;   appello   e  ricorso  per  cassazione  dell'imputato  contro
l'eventuale  sentenza di condanna): con conseguente lesione anche del
principio  di ragionevole durata del processo, sancito dall'art. 111,
secondo comma, ultima parte, Cost.
    In  pari  tempo,  la  possibilita'  che  la Corte di cassazione -
divenuta  «giudice  unico delle sentenze di proscioglimento» emesse a
seguito  di  giudizio  abbreviato  -  sia  chiamata a «rivalutare» le
risultanze  probatorie,  o ad integrare la motivazione della sentenza
«anche  con  riguardo a specifici atti», porrebbe le norme denunciate
in  «stridente  contrasto» con il ruolo che, alla luce dell'art. 111,
settimo comma, Cost., caratterizza detto giudice: il ruolo, cioe', di
«ultima  e  suprema  istanza giurisdizionale» contro le violazioni di
legge  ascrivibili  alle  sentenze  e  ai provvedimenti in materia di
liberta'   personale   emessi  dai  giudici  di  merito.  Tale  ruolo
costituzionale  non esclude, in effetti, che alla Corte di cassazione
possano essere attribuite anche funzioni diverse, le quali comportino
la  necessita' di esaminare parte degli atti del procedimento; ma una
simile   «deviazione»  dovrebbe  comunque  risultare  ragionevolmente
contenuta   e   tale   da  non  alterare  in  modo  significativo  le
caratteristiche    dell'istituto   del   ricorso   di   legittimita':
condizioni, queste, non riscontrabili nel caso in esame.
    2.   -   Analoga   questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 443  cod.  proc.  pen.,  come  modificato dall'art. 2 della
legge  n. 46 del 2006, e dell'art. 10, commi 1, 2 e 3, della medesima
legge,  e'  sollevata,  con  ordinanza  emessa il 6 aprile 2006 (r.o.
n. 589  del  2006),  dalla  Corte di appello di Milano in riferimento
agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost.
    La  Corte  rimettente  -  investita  degli  appelli  proposti dal
pubblico  ministero  e  dalla  parte  civile  avverso una sentenza di
assoluzione  resa  a  seguito di giudizio abbreviato - rileva come il
nuovo  testo  dell'art. 443  cod.  proc.  pen., nell'escludere che il
pubblico  ministero  e  l'imputato possano proporre appello contro le
sentenze  di  proscioglimento, ponga le parti sullo stesso piano solo
formalmente:  introducendo,  in  realta', un trattamento marcatamente
diseguale,  da  ritenere  incompatibile  tanto  con  il  principio di
ragionevolezza che con quello di parita' delle parti nel processo.
    A seguito della riforma, infatti, l'imputato verrebbe privato del
diritto  di  appellare  la  sentenza  emessa  in  esito  al  giudizio
abbreviato  solo  «su  aspetti [...] secondari» (quale, in specie, la
diversa  formula  assolutoria),  conservando  comunque la facolta' di
dolersi  nel  merito della pronuncia che affermi la sua colpevolezza.
All'esatto  opposto,  la  parte  pubblica  resterebbe  legittimata  a
proporre    appello    esclusivamente   «su   questioni   secondarie»
(qualificazione  del  fatto  o quantificazione della pena): perdendo,
viceversa,  il  potere  di appellare nei casi in cui «piu' penetrante
dovrebbe  essere  la  vigilanza  sulla corretta amministrazione della
giustizia».
    In  proposito,  il  rimettente  ricorda  come  questa Corte abbia
ritenuto  legittima,  proprio con riferimento al giudizio abbreviato,
una  «limitata asimmetria» dei poteri di impugnazione delle parti, in
considerazione delle peculiarita' del rito speciale e delle finalita'
deflattive  ad  esso  sottese.  Nella  specie,  tuttavia, non sarebbe
possibile  individuare alcun valore costituzionale atto a «bilanciare
e  legittimare»  la disposta «mutilazione» del potere di impugnazione
della  parte  pubblica.  Dai  lavori  preparatori  della  riforma  si
desumerebbe,  infatti, che la disciplina censurata e' stata suggerita
non  gia' dalle finalita' deflattive proprie del giudizio abbreviato,
o  comunque  da  obiettivi  di  semplificazione  processuale;  quanto
piuttosto  dalla convinzione che all'imputato - diversamente che alla
parte pubblica - vada comunque assicurata, nel caso di condanna, «una
"seconda chance'' di merito»: e cio' anche al fine di dare attuazione
all'art. 2  del  Protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione europea
per   la   salvaguardia   dei  diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e
reso  esecutivo  con  legge 9 aprile 1990, n. 98, il quale prevede il
diritto   dell'imputato   a  far  riesaminare  da  una  giurisdizione
superiore l'affermazione della propria colpevolezza.
    Tale  giustificazione - ad avviso del rimettente - si rivelerebbe
peraltro  fallace,  in  quanto  il comma 2 dell'art. 2 del Protocollo
addizionale prevede espressamente che possa derogarsi al principio in
esso affermato, allorche' l'imputato sia stato dichiarato colpevole e
condannato  a  seguito  di un ricorso avverso il suo proscioglimento:
eccezione,  questa,  da  ritenere  evidentemente riferita all'ipotesi
dell'impugnazione della sentenza di proscioglimento di primo grado ad
opera  della  parte  pubblica. Ma, anche a voler diversamente opinare
sul punto, la previsione del diritto dell'imputato ad un doppio grado
di giurisdizione di merito non comporterebbe, comunque, la necessaria
ablazione  dell'analogo  diritto  delle  altre  parti: ben potendo la
statuizione del Protocollo essere realizzata con una riforma organica
del  sistema  delle  impugnazioni,  piuttosto  che con la sottrazione
totale  al  pubblico ministero del potere di appellare le sentenze di
proscioglimento.
    La soluzione normativa censurata non potrebbe essere giustificata
neppure  con  l'ulteriore argomento - desumibile anch'esso dai lavori
preparatori  -  stando  al  quale  sarebbe «incongruo» che il giudice
dell'appello,  che  ha  una cognizione essenzialmente "cartolare" del
materiale  probatorio, possa ribaltare la sentenza di proscioglimento
emessa da altro giudice - quale quello di primo grado - che ha invece
assistito  alla  formazione  della  prova  nel contraddittorio tra le
parti.  Tale  argomento  -  rileva  il rimettente - oltre a non poter
valere per il giudizio abbreviato (che ha carattere "cartolare" anche
in primo grado), non spiegherebbe comunque perche' un «giudizio sulle
carte» di proscioglimento «abbia maggior dignita' di analogo giudizio
di  condanna»:  con  la  conseguenza  che  l'esito  logico della tesi
avversata  dovrebbe  essere,  semmai, l'inappellabilita' «di tutte le
sentenze per chiunque».
    Un ulteriore e conclusivo profilo di irragionevolezza delle norme
denunciate  sarebbe  insito nel fatto che esse consentono al pubblico
ministero  di  appellare  le  sentenze  di  condanna - onde ottenere,
evidentemente, una sanzione piu' grave - a fronte di una affermazione
di  responsabilita' che pure in parte soddisfa la pretesa della parte
pubblica;  mentre  gli  negano  il  potere  appellare  le sentenze di
proscioglimento,   che   vedono,   invece,  detta  parte  «totalmente
soccombente».
    3.   -  Le  disposizioni  dell'art. 443  cod.  proc.  pen.,  come
modificato  dall'art. 2  della  legge n. 46 del 2006, e dell'art. 10,
comma 1,  2,  e  3,  della  legge  ora  citata, sono censurate, nelle
medesime  articolazioni  precettive, dalla Corte di appello di Milano
con  ulteriore  ordinanza  emessa  il 28 aprile 2006 (r.o. n. 115 del
2007), in relazione agli artt. 3 e 111 Cost.
    Il giudice a quo - chiamato anch'esso a pronunciarsi sull'appello
proposto  dal  pubblico  ministero  avverso  una sentenza assolutoria
emessa a seguito di giudizio abbreviato - ritiene che le disposizioni
censurate  ledano  in  modo  evidente  il principio di parita' tra le
parti del processo, sancito dall'art. 111 Cost.
    Premesso  che  la  condizione  di  parita',  evocata  dalla norma
costituzionale,  non  puo'  intendersi  limitata  alla  sola  fase di
acquisizione  della  prova,  ma deve permanere lungo tutto l'arco del
processo, fino alla sentenza definitiva, il rimettente rileva come la
riforma  crei  un  palese,  quanto  irragionevole  squilibrio  tra  i
contendenti,  sottraendo ad uno solo di essi lo strumento processuale
necessario  per  vedere  affermata  la pretesa fondamentale di cui e'
portatore.  Rendendo  inappellabili  le  sentenze  di proscioglimento
pronunziate  in  esito  al  giudizio  abbreviato, la riforma avrebbe,
infatti,  privato  totalmente il pubblico ministero del potere di far
valere  la  pretesa punitiva nei confronti di soggetti contro i quali
e'  stata  promossa  l'azione  penale;  lasciando integro, invece, il
potere   dell'imputato   di   impugnare  la  decisione  che  lo  vede
«soccombente»,   rispetto   alla   pretesa  di  vedersi  riconosciuto
innocente.
    Si  tratterebbe  di  un'asimmetria talmente radicale da non poter
trovare   giustificazione   neppure  nell'esigenza  di  garantire  la
ragionevole  durata  del  processo,  avuto  riguardo  alle  finalita'
«acceleratorie»   proprie   del  giudizio  abbreviato:  finalita'  in
relazione   alle   quali   questa  Corte  ha  ritenuto,  per  contro,
costituzionalmente legittima la preclusione dell'appello del pubblico
ministero  contro  le  sentenze  di  condanna  che non modifichino il
titolo del reato (art. 443, comma 3, cod. proc. pen.).
    A  cio'  si  aggiungerebbe  l'intrinseca  irragionevolezza  di un
assetto   nel  quale  il  pubblico  ministero  resta  legittimato  ad
appellare   talune  delle  sentenze  di  condanna,  mentre  non  puo'
appellare le sentenze di proscioglimento.
    Le  norme  censurate  determinerebbero, infine, una irragionevole
disparita'  di  trattamento  tra  il  pubblico  ministero  e la parte
civile.  Quest'ultima  -  secondo  il giudice a quo - avrebbe infatti
conservato,  anche  dopo  la riforma, la facolta' di proporre appello
avverso  le  sentenze  di  proscioglimento:  con  la  conseguenza che
l'interesse  della  parte privata al risarcimento dei danni verrebbe,
contro  ogni  logica,  a  godere  di una tutela piu' ampia rispetto a
quella  accordata  alla  pretesa  punitiva  dello Stato, fatta valere
dalla pubblica accusa.

                       Considerato in diritto

    1.  -  La Corte militare d'appello, sezione distaccata di Verona,
dubita  della  legittimita'  costituzionale  dell'art. 2  della legge
20 febbraio  2006,  n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale in
materia di inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento), nella
parte  in  cui, novellando l'art. 443 del codice di procedura penale,
esclude  che  il  pubblico  ministero  possa appellare le sentenze di
proscioglimento  emesse  a  seguito  di  giudizio abbreviato; nonche'
della  disposizione  transitoria  di  cui  all'art. 10 della medesima
legge n. 46 del 2006, nella parte in cui rende applicabile tale nuova
disciplina  ai  procedimenti  in corso alla data della sua entrata in
vigore,  stabilendo,  altresi',  che l'appello anteriormente proposto
dal  pubblico  ministero contro una sentenza di proscioglimento viene
dichiarato   inammissibile,  salva  la  facolta'  dell'appellante  di
proporre  ricorso  per  cassazione  entro quarantacinque giorni dalla
notifica del provvedimento di inammissibilita'.
    Le   disposizioni  impugnate  violerebbero,  in  particolare,  il
principio   di   parita'   delle   parti   nel   processo,  enunciato
dall'art. 111,  secondo  comma,  della  Costituzione.  Per effetto di
esse,  infatti, il pubblico ministero - gia' privo della possibilita'
di  contrastare  l'accesso  dell'imputato al giudizio abbreviato - si
vedrebbe  sottratto  quasi completamente il potere di appello avverso
le  sentenze  pronunciate  a conclusione di tale rito speciale, anche
quando - come, appunto, nei casi di proscioglimento - emerga con piu'
forza il suo interesse ad impugnare.
    Tale limitazione impedirebbe, altresi', all'organo della pubblica
accusa  di assolvere i compiti previsti dall'art. 112 Cost. in ordine
all'effettivo  e  funzionale  esercizio dell'azione penale, violando,
cosi', anche quest'ultimo precetto fondamentale.
    Ad  avviso  della  Corte  rimettente, sarebbe inoltre compromesso
l'art. 3  Cost.,  dovendosi ritenere del tutto irragionevole che, nel
giudizio  abbreviato,  la  parte  pubblica  sia  abilitata a proporre
appello  contro  la  sentenza  di condanna che modifica il titolo del
reato  (art. 443,  comma 3,  cod. proc. pen.), e dunque in situazioni
nelle  quali  la  pretesa  punitiva  e'  stata accolta solo in parte;
mentre  non goda di analogo potere nella «piu' significativa» ipotesi
in  cui  la  pretesa punitiva e' stata completamente respinta (com'e'
nel caso della sentenza di proscioglimento).
    Da  ultimo,  la  possibilita',  per  l'accusa, di proporre, quale
unico rimedio impugnatorio avverso la sentenza di proscioglimento, il
ricorso  per  cassazione  - sia pure nei piu' ampi limiti conseguenti
alla   modifica   apportata   dalla   stessa  legge  n. 46  del  2006
all'art. 606  cod.  proc.  pen. - non solo non escluderebbe i vulnera
denunciati,  ma  farebbe emergere ulteriori profili di illegittimita'
costituzionale.  Il  nuovo  assetto  normativo,  infatti,  da un lato
determinerebbe  -  in  contrasto  con  il principio della ragionevole
durata  del  processo,  di  cui  all'art. 111,  secondo comma, ultima
parte,  Cost.  -  un  ineluttabile  aumento dei procedimenti pendenti
dinanzi  alla  Corte  di cassazione e, conseguentemente, dei relativi
tempi  di  definizione;  dall'altro lato, snaturerebbe il ruolo della
Corte di legittimita' - quale delineato dall'art. 111, settimo comma,
Cost.  - trasformandola, nella sostanza, in un «giudice di merito con
competenza estesa all'intero territorio nazionale».
    2.  -  Le  disposizioni di cui all'art. 443 cod. proc. pen., come
modificato  dall'art. 2  della  legge  n. 46 del 2006, e all'art. 10,
commi 1, 2 e 3, di tale legge, vengono censurate anche dalla Corte di
appello  di  Milano,  con  due  ordinanze  di  tenore  in larga parte
analogo.
    Anche  secondo  tale  giudice  rimettente,  la  previsione  della
inappellabilita'  delle  sentenze di proscioglimento emesse a seguito
di giudizio abbreviato risulterebbe incompatibile con il principio di
parita'  delle  parti  nel processo, stabilito dall'art. 111, secondo
comma,   Cost.   In  conseguenza  delle  norme  denunciate,  infatti,
l'imputato  perderebbe  il  diritto  di appellare solo in rapporto ad
aspetti   «secondari»,   quale   la   diversa   formula  assolutoria:
conservando,  comunque,  la  facolta'  di  dolersi  nel  merito della
decisione   che   lo   veda   «soccombente»,  rispetto  alla  propria
affermazione  di  innocenza. Tutt'al contrario, il pubblico ministero
potrebbe  proporre  appello  solo  su  «questioni  secondarie»,  come
nell'ipotesi  di  sentenza di condanna che qualifichi diversamente il
fatto  (art. 443, comma 3, cod. proc. pen.); mentre non fruirebbe del
potere di appello nei casi - quelli, appunto, di proscioglimento - in
cui  «piu'  penetrante  dovrebbe  essere  la vigilanza sulla corretta
amministrazione della giustizia».
    La Corte ambrosiana ravvisa, altresi', un vulnus del principio di
ragionevolezza  (art. 3  Cost.)  nel  fatto che il pubblico ministero
resti  legittimato  ad appellare le sentenze di condanna modificative
del  titolo  del  reato,  le quali pure contengono un'affermazione di
responsabilita'   dell'imputato;   e  non,  invece,  le  sentenze  di
proscioglimento, che disattendono del tutto la pretesa punitiva.
    La sola ordinanza r.o. n. 115 del 2007 denuncia, infine, anche la
irragionevole  disparita'  di  trattamento indotta dalle disposizioni
censurate  tra  il pubblico ministero e la parte civile. Quest'ultima
parte  - secondo il giudice a quo - avrebbe infatti conservato, anche
dopo   la   riforma,   il   potere   di   appellare  le  sentenze  di
proscioglimento:  con l'illogica conseguenza che - stante la maggiore
ampiezza  del  rimedio  impugnatorio accordato all'«accusa privata» -
l'interesse  al  risarcimento del danno, di cui questa e' portatrice,
verrebbe  a  fruire  di  una  maggiore  tutela  rispetto alla pretesa
punitiva azionata dalla parte pubblica.
    3.  -  Le  ordinanze  di  rimessione hanno ad oggetto le medesime
norme e sollevano questioni in larga misura analoghe, onde i relativi
giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
    4.  -  In  riferimento  all'art. 111,  secondo  comma,  Cost., la
questione e' fondata.
    Giova  premettere  che,  per  costante  giurisprudenza  di questa
Corte,  il  principio  di parita' delle parti processuali - enunciato
attualmente  in forma autonoma dal secondo comma dell'art. 111 Cost.,
aggiunto  dalla  legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, ma gia'
pacificamente  insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali
-  non comporta necessariamente, nel processo penale, l'identita' tra
i  poteri  del  pubblico  ministero e quelli dell'imputato. Stanti le
fisiologiche  differenze  che  connotano le posizioni delle due parti
necessarie  del  processo penale, ripartizioni asimmetriche di poteri
tra  le parti stesse sono compatibili con il principio di parita', ad
una  duplice condizione: e, cioe', che tali asimmetrie, per un verso,
trovino un'adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del
pubblico  ministero,  ovvero  in  esigenze  di  funzionale e corretta
esplicazione  della  giustizia  penale,  anche  in vista del completo
sviluppo  di finalita' esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per
un  altro verso, risultino comunque contenute - anche in un'ottica di
complessivo riequilibrio delle posizioni delle parti - entro i limiti
della  ragionevolezza (da ultimo, sentenza n. 26 del 2007; si vedano,
altresi',  ex plurimis, le sentenze n. 98 del 1994 e n. 432 del 1992;
e le ordinanze n. 46 del 2004 e n. 165 del 2003).
    5.  -  Cio' premesso, va rilevato come la disciplina del giudizio
abbreviato  contemplasse, sin dall'origine, limiti all'appellabilita'
della  sentenza,  volti  segnatamente  ad  evitare  che  il  giudizio
svoltosi  in  primo  grado  con  tale  rito vedesse ritardata «la sua
completa  definizione»  per  effetto dell'applicazione dell'ordinario
regime  delle  impugnazioni;  con il rischio di compromettere il fine
deflattivo  del procedimento speciale (cosi' la relazione al progetto
preliminare  del  codice  di  procedura  penale  del  1988).  In base
all'originario  art. 443 cod. proc. pen., tali limiti erano ripartiti
in  modo  sostanzialmente  paritario  fra  le  parti: ad entrambe era
infatti  inibito l'appello contro le sentenze di proscioglimento, ove
diretto  ad  ottenere  una  diversa formula, e contro le sentenze che
applichino   sanzioni   sostitutive  (comma  1);  al  solo  imputato,
l'appello contro le sentenze di condanna a pena che comunque non deve
essere  eseguita,  o  alla  sola  pena  pecuniaria (comma 2); al solo
pubblico  ministero,  l'appello contro le sentenze di condanna, salvo
che modifichino il titolo del reato (comma 3).
    Successivi  interventi, dapprima di questa Corte (sentenza n. 363
del  1991)  e  poi  del  legislatore (art. 31 della legge 16 dicembre
1999,  n. 479),  determinarono,  tuttavia,  la  totale  rimozione dei
limiti  all'impugnazione relativi al solo imputato e la soppressione,
altresi',  di  quello  -  comune ad ambedue le parti - concernente le
sentenze  che applicano sanzioni sostitutive; a fronte, invece, della
permanenza  del  limite  relativo  al  solo  pubblico  ministero.  La
preclusione  dell'appello  della parte pubblica contro le sentenze di
condanna  non  modificative  del  titolo  del  reato  fu ritenuta, in
particolare,  dalla  Corte  non  lesiva  del principio di parita' tra
accusa   e   difesa,   in   quanto   giustificata,   per   un  verso,
dall'«obiettivo  primario  di  una  rapida e completa definizione dei
processi  svoltisi in primo grado secondo il rito abbreviato»; e, per
un   altro   verso,  dalla  circostanza  che  le  sentenze  sottratte
all'appello   segnavano  comunque  «la  realizzazione  della  pretesa
punitiva» fatta valere con l'azione intrapresa: avendo il legislatore
privilegiato   -   con   scelta   «incensurabile   sul   piano  della
ragionevolezza,  in  quanto  proporzionata  al  fine preminente della
speditezza  del processo» - «l'effettiva irrogazione della pena [...]
rispetto  alla  sua  piena aderenza alla natura del reato contestato»
(sentenza n. 363 del 1991 e ordinanza n. 305 del 1992).
    6.  - In pari tempo, peraltro, anche la struttura complessiva del
giudizio   abbreviato   -   caratterizzata   inizialmente  dalle  tre
condizioni  della  rinuncia  dell'imputato  al  contraddittorio nella
formazione della prova, in cambio di una riduzione di pena in caso di
condanna;  del  consenso del pubblico ministero; e della possibilita'
di  decidere il processo sulla base dei soli atti del fascicolo delle
indagini - subiva profondi mutamenti.
    Pronunce  di  questa Corte introdussero, anzitutto, l'obbligo del
pubblico  ministero di enunciare le ragioni del proprio dissenso e il
controllo  del  giudice, a dibattimento concluso, sulla fondatezza di
tali  ragioni  (sentenze  n. 81  del  1991, n. 183 e n. 66 del 1990).
Avuto  riguardo,  poi,  all'eventualita'  in  cui  il  dissenso fosse
motivato  con  l'impossibilita'  di  definire  il processo allo stato
degli  atti  per carenze investigative addebitabili alla stessa parte
pubblica,   questa   Corte  auspico'  l'introduzione,  da  parte  del
legislatore,  di  un  meccanismo di integrazione probatoria (sentenza
n. 92  del 1992); negando, per contro, che il problema potesse essere
risolto  con  la semplice soppressione del requisito del consenso. Si
osservo', infatti, che tale ultima operazione avrebbe reso necessaria
-  a fini di «riequilibrio "interno" dell'istituto» - tanto una nuova
disciplina  sul diritto alla prova del pubblico ministero; quanto una
revisione  dei  limiti  all'appello del medesimo: essendo tali limiti
razionalmente  giustificabili,  «in  linea  di  principio»,  «solo se
collegati  al  [...]  consenso»  della  parte che li subiva (sentenza
n. 442 del 1994 e ordinanza n. 33 del 1998).
    Gli  auspici  formulati  dalla Corte furono recepiti - ma solo in
parte  -  dalla  legge n. 479 del 1999. Privato il pubblico ministero
del  potere  di  interloquire  sulla  scelta  del rito, la novella ha
configurato  l'accesso  al giudizio abbreviato come un vero e proprio
«diritto» dell'imputato che ne faccia richiesta, non piu' subordinato
ad un vaglio giudiziale circa la possibilita' di decidere il processo
«allo  stato  degli  atti»:  essendosi  previsto  - come rimedio alle
eventuali  carenze  degli  atti  investigativi  -  un ampio potere di
integrazione  probatoria  officiosa  da  parte  del  giudice.  Si  e'
stabilito,  inoltre,  che  lo  stesso  imputato possa condizionare la
propria  richiesta  ad una specifica integrazione probatoria, purche'
compatibile  con  le  finalita'  di  economia processuale proprie del
procedimento. Quanto ai poteri probatori del pubblico ministero, essi
risultano  circoscritti alla facolta' di prova contraria, nel caso di
richiesta  di  giudizio  abbreviato «condizionata»; mentre e' rimasta
ferma  la  preclusione  all'appello  della  pubblica  accusa,  di cui
all'art. 443, comma 3, cod. proc. pen.
    Anche  dopo  la  novella  del  1999,  la  Corte  ha  continuato a
ritenere,  peraltro,  che  detta preclusione possa conciliarsi con il
principio  di  parita'  delle  parti, in quanto tuttora razionalmente
giustificabile  dall'obiettivo  di  speditezza processuale (ordinanze
n. 165  del  2003,  n. 347  del  2002  e n. 421 del 2001): e cio' sul
presupposto che - come ribadito dalla recente sentenza n. 26 del 2007
- la preclusione seguita ad afferire a sentenze che, sia pure con uno
scarto  «quantitativo»  rispetto  alle  richieste dell'accusa, vedono
comunque realizzata «la pretesa punitiva».
    7. - Si innesta su tale panorama l'intervento attuato dalla legge
n. 46  del  2006,  il  cui  art. 2  - oggetto delle odierne censure -
sopprimendo l'inciso finale del comma 1 dell'art. 443 cod. proc. pen.
(«quando  l'appello  tende  ad  ottenere  una  diversa  formula»), ha
precluso   in   via   generale,   tanto  al  pubblico  ministero  che
all'imputato,  l'appello contro le sentenze di proscioglimento emesse
a seguito di giudizio abbreviato.
    La  modifica  rappresenta  un  tassello  del piu' ampio disegno -
evocato  dallo  stesso  titolo  della  legge  -  volto  a configurare
l'inappellabilita'  delle  sentenze  di  proscioglimento  come regola
valevole nell'intero ordinamento processuale penale: e dunque anche -
e  prima  di  tutto  - nell'ambito del rito ordinario. Secondo quanto
puo'  desumersi  dai  lavori  parlamentari, il coinvolgimento in tale
disegno  del  giudizio  abbreviato  non  risponde - negli intenti del
legislatore  -  a  finalita'  "proprie", distinte da quelle addotte a
sostegno  dell'intervento  nella  sua  globalita': quali, in ipotesi,
quelle di incrementare la componente "premiale" del rito alternativo,
o  la  sua attitudine "acceleratoria" della definizione dei processi.
La  disposizione  oggi  censurata viene infatti qualificata, in detti
lavori,  come  semplice  norma  «di  raccordo»  o «di coordinamento»,
rispetto all'intervento attuato nell'ambito del rito ordinario (cosi'
la  relazione  alla  proposta  di  legge n. 4604/C e l'intervento del
relatore alla Camera dei deputati nella seduta del 25 luglio 2005).
    Con  la  sentenza  n. 26  del  2007,  questa Corte ha dichiarato,
peraltro,  costituzionalmente  illegittima  -  per  contrasto  con il
principio di parita' delle parti - la rimozione del potere di appello
del   pubblico   ministero  contro  le  sentenze  di  proscioglimento
pronunciate  nel  giudizio  ordinario  (rimozione sancita dall'art. 1
della  legge  n. 46 del 2006, tramite sostituzione dell'art. 593 cod.
proc. pen.): rilevando come l'asimmetria di poteri fra parte pubblica
e  imputato  che  ne  conseguiva  -  per  il  suo carattere radicale,
generalizzato   e   unilaterale   -   non  potesse  trovare  adeguata
giustificazione   nelle   rationes   che,  alla  stregua  dei  lavori
parlamentari,  si  collocano  alla radice della riforma (vale a dire:
l'asserita impossibilita' di considerare colpevole «al di la' di ogni
ragionevole  dubbio» l'imputato prosciolto in primo grado; l'esigenza
di    dare   attuazione   alle   previsioni   di   determinati   atti
internazionali;   l'opportunita'   di  evitare  che  la  sentenza  di
proscioglimento,  emessa  da  un  giudice  che - come quello di primo
grado  - ha assistito alla formazione della prova nel contraddittorio
fra  le  parti, venga ribaltata da altro giudice che - come quello di
appello  -  basa invece la sua decisione su una prova prevalentemente
scritta).
    8. - L'esito dello scrutinio di costituzionalita' non puo' essere
diverso  in  rapporto  all'omologa previsione ablativa concernente il
giudizio  abbreviato: previsione alla quale, tra l'altro, non sarebbe
comunque  riferibile  l'ultima  delle rationes appena sopra indicate,
stante  il  carattere  prevalentemente  "cartolare",  anche  in primo
grado, dei processi svoltisi con detto rito.
    8.1.  -  Vale  evidentemente,  anche  in rapporto alla norma oggi
censurata,  quanto  preliminarmente  osservato  dalla citata sentenza
n. 26  del 2007: e, cioe', che al di sotto dell'assimilazione formale
delle  parti  -  «l'imputato  e  il  pubblico  ministero  non possono
proporre  appello  contro  le  sentenze di proscioglimento» (cosi' il
novellato art. 443, comma 1, cod. proc. pen.) - detta norma racchiude
«una  dissimmetria  radicale».  A differenza dell'imputato - il quale
resta  abilitato  ad  appellare  le  sentenze  che  affermino  la sua
responsabilita'  -  il  pubblico ministero viene, infatti, totalmente
privato del simmetrico potere di proporre doglianze di merito avverso
la  pronuncia  che  disattenda in modo integrale la pretesa punitiva.
Menomazione,    questa,    che    non   puo'   ritenersi   compensata
dall'ampliamento    dei    motivi   del   ricorso   per   cassazione,
parallelamente  operato  -  peraltro  a favore di entrambe le parti -
dall'art. 8   della   stessa   legge  n. 46  del  2006  (modificativo
dell'art. 606,  comma 1,  cod.  proc. pen.): giacche' - quale che sia
l'effettiva  portata  dei  nuovi  e  piu'  ampi casi del ricorso - il
rimedio  non  attinge  comunque  alla pienezza del riesame di merito,
consentito dall'appello.
    E'  altrettanto  evidente,  d'altronde,  come  le considerazioni,
sulla   cui  scorta  questa  Corte  ha  reiteratamente  affermato  la
legittimita'  dell'originario limite all'appello della parte pubblica
nel  giudizio  abbreviato, di cui al comma 3 dell'art. 443 cod. proc.
pen.,  non  possano  valere  con  riguardo  alla  preclusione  che al
presente  interessa.  Come  gia'  ricordato, difatti, la dissimmetria
conseguente  all'inappellabilita',  da  parte del pubblico ministero,
delle  sentenze  di condanna che non modifichino il titolo del reato,
e'  stata  ritenuta  «incensurabile sul piano della ragionevolezza in
quanto   proporzionata   al  fine  preminente  della  speditezza  del
processo»,  sotteso  al giudizio abbreviato: e cio' perche' si tratta
di   sentenze   che   -  sia  pure  con  una  difformita'  di  ordine
«quantitativo»   rispetto  alle  richieste  dell'accusa  -  implicano
comunque  la  realizzazione  della pretesa punitiva azionata. Analoga
valutazione  non  potrebbe  essere  ovviamente  operata rispetto alla
radicale   ablazione   del   potere   di  appellare  le  sentenze  di
proscioglimento,  che  quella pretesa punitiva disattendono viceversa
in toto.
    Ma,  anche a voler prescindere dalle indicazioni ricavabili dalla
pregressa  giurisprudenza costituzionale ora ricordata, deve comunque
escludersi   che  la  suddetta  ablazione  possa  venir  giustificata
dall'obiettivo di assicurare una maggiore celerita' nella definizione
dei processi svoltisi in primo grado con il rito abbreviato. Maggiore
celerita' che peraltro - come gia' rimarcato - non risulta evocata, a
fondamento  della  norma  impugnata,  nei  lavori parlamentari; e che
neppure  e' detto si verifichi, stante la possibilita' che la natura,
di  regola  solo  rescindente, del giudizio di cassazione determini -
nel caso di impugnazione di una sentenza di proscioglimento viziata -
un  incremento  dei  gradi  di giudizio occorrenti per pervenire alla
sentenza definitiva.
    In  proposito,  resta  infatti  assorbente  il  rilievo  che, per
costante affermazione di questa Corte, il valore costituzionale della
ragionevole  durata  del  processo (art. 111, secondo comma, Cost.) -
cui  si  raccordano  le  previsioni  normative  intese  a  realizzare
economie  di  tempi e di energie processuali - va contemperato con il
complesso  delle altre garanzie costituzionali (ex plurimis, sentenza
n. 219  del  2004;  ordinanze  n. 420  e  n. 418 del 2004) e non puo'
essere  comunque  perseguito  «attraverso  la  totale soppressione di
rilevanti  facolta'  di  una  sola  delle  parti» (sentenza n. 26 del
2007).
    Tale   conclusione  appare  tanto  piu'  valida  a  fronte  della
fisionomia,  gia' per il resto sensibilmente sbilanciata sul versante
della   parte  pubblica,  che  -  a  seguito  dell'evoluzione  dianzi
ripercorsa   -   ha   attualmente  assunto  l'istituto  del  giudizio
abbreviato:  con  conseguente  significativa  attenuazione - rispetto
all'assetto  d'origine  - della valenza del «sacrificio» insito nella
rinuncia  al  contraddittorio  nella formazione della prova, ad opera
dell'imputato.
    Al  riguardo,  l'accento  cade, anzitutto, sulla soppressione del
requisito  del consenso della pubblica accusa ai fini dell'accesso al
rito:  consenso  nel quale pure questa Corte ebbe ad identificare uno
dei presupposti per la valutazione di ragionevolezza delle previsioni
limitative della facolta' di impugnazione (sentenza n. 442 del 1994 e
ordinanza  n. 33  del  1998); e che vale tuttora a giustificare - nel
quadro  della  disciplina  dei  riti  alternativi  - la previsione di
inappellabilita' della sentenza in caso di applicazione della pena su
richiesta   delle   parti   (art. 448,  comma 2,  cod.  proc.  pen.).
Trovandosi,   di   conseguenza,  a  "subire"  una  scelta  del  tutto
unilaterale   dell'imputato,   da   cui   deriva   la  perdita  della
possibilita' di coltivare le prospettive dell'accusa in dibattimento,
il  pubblico  ministero  vede  attualmente circoscritto il suo ruolo,
quale  parte  processuale  nel  giudizio abbreviato - ove si eccettui
l'eventuale  diritto  alla prova contraria rispetto alle integrazioni
probatorie   richieste   dall'imputato   -   al  semplice  contributo
dialettico  in  sede  di discussione; mentre la decisione del giudice
puo'  ormai  approdare  a  ricostruzioni  del  fatto anche totalmente
alternative  rispetto  a  quelle  desumibili  dagli  atti di indagine
raccolti dallo stesso pubblico ministero: e cio' per effetto tanto di
integrazioni  probatorie  officiose o richieste dall'imputato, quanto
di apporti da parte di quest'ultimo, realizzati - in particolare dopo
la legge 7 dicembre 2000, n. 397 (Disposizioni in materia di indagini
difensive)  - attraverso lo strumento delle investigazioni difensive,
i  cui  risultati sono anch'essi utilizzabili nel giudizio abbreviato
(ordinanza n. 57 del 2005).
    Ne   deriva,  in  conclusione,  un  quadro  d'assieme  antitetico
rispetto  alla possibilita' di giustificare l'integrale ablazione del
potere  di  appello  del  pubblico  ministero, avverso le sentenze di
proscioglimento,  in  una prospettiva di riequilibrio complessivo dei
poteri accordati alle parti nell'ambito del rito de quo.
    8.2.  -  A  cio'  va  aggiunto  che la disposizione denunciata ha
determinato  anche  una  intrinseca incoerenza nella disciplina delle
impugnazioni  del pubblico ministero, similare a quella indotta - con
riferimento  al  rito  ordinario - dall'art. 1 della stessa n. 46 del
2006 e gia' censurata da questa Corte (sentenza n. 26 del 2007).
    A seguito della modifica normativa in esame, infatti, il pubblico
ministero  resta  privo  del  potere  di  proporre appello avverso le
sentenze   di  proscioglimento,  che  disattendono  completamente  le
istanze  dell'accusa;  mentre  mantiene  il  potere  di  appellare le
sentenze  di condanna che mutino il titolo del reato, le quali invece
recepiscono,  sia  pure parzialmente, le predette istanze, affermando
la responsabilita' dell'imputato.
    8.3.  - Alla luce delle considerazioni che precedono, deve quindi
concludersi  che  la  disciplina censurata integra una violazione del
principio  di  parita'  delle  parti  non  sorretta da adeguata ratio
giustificativa,  ponendosi cosi' in contrasto con l'art. 111, secondo
comma, Cost.
    Le  residue censure dei giudici rimettenti restano di conseguenza
assorbite.
    9. - L'art. 2 della legge n. 46 del 2006 va dichiarato, pertanto,
costituzionalmente   illegittimo  nella  parte  in  cui,  modificando
l'art. 443,  comma 1,  cod.  proc.  pen.,  esclude  che  il  pubblico
ministero  possa  appellare  contro  le  sentenze  di proscioglimento
emesse a seguito di giudizio abbreviato.
    Correlativamente,  va  dichiarata l'illegittimita' costituzionale
anche dell'art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella
parte  in  cui prevede che l'appello proposto dal pubblico ministero,
prima  dell'entrata  in  vigore  della  medesima  legge,  contro  una
sentenza  di proscioglimento emessa a seguito di giudizio abbreviato,
e' dichiarato inammissibile. Tale declaratoria di incostituzionalita'
risulta  satisfattiva  del  petitum dei giudici rimettenti, senza che
sia  necessario  un  intervento sui commi 1 e 3 dello stesso art. 10,
pure  specificamente coinvolti nello scrutinio dalla Corte di appello
di  Milano. Il comma 1, infatti - nello stabilire che le disposizioni
della  legge  n. 46  del  2006 si applicano «ai procedimenti in corso
alla  data  di  entrata in vigore della medesima» - si limita, di per
se', a ribadire il generale principio tempus regit actum, valevole in
materia  processuale; mentre il comma 3 - che consente alla parte, il
cui  appello sia stato dichiarato inammissibile ai sensi del comma 2,
di  impugnare  la  sentenza  di  proscioglimento  di  primo grado con
ricorso per cassazione - resta automaticamente inapplicabile nei casi
di   specie,  venendo  meno  il  presupposto  della  declaratoria  di
inammissibilita' dell'appello del pubblico ministero.