ha pronunciato la seguente:

                              Sentenza

nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 6, commi 2, 5 e
6,  della  legge 20 giugno 2003 n. 140 (Disposizioni per l'attuazione
dell'art. 68 della Costituzione nonche' in materia di processi penali
nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso con ordinanza
del  9 gennaio  2006  dal  giudice  per  le  indagini preliminari del
Tribunale  di  Torino  nel  procedimento penale a carico di M.U.G. ed
altri,  iscritta  al  n. 108 del registro ordinanze 2006 e pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale della Repubblica n. 16, 1ª serie speciale,
dell'anno 2006.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  Camera  di consiglio del 24 ottobre 2007 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con  l'ordinanza  indicata  in epigrafe, il Giudice per le
indagini  preliminari  del  Tribunale  di  Torino  ha  sollevato,  in
riferimento  agli  artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, questione di
legittimita'  costituzionale dell'art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge
20  giugno 2003,  n. 140  (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68
della   Costituzione  nonche'  in  materia  di  processi  penali  nei
confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui prevede
che    -    ove   la   Camera   competente   neghi   l'autorizzazione
all'utilizzazione  delle  intercettazioni  «indirette» o «casuali» di
conversazioni  cui  ha  preso  parte  un  membro  del Parlamento - la
relativa  documentazione debba essere immediatamente distrutta, e che
i  verbali, le registrazioni e i tabulati di comunicazioni, acquisiti
in  violazione  del  disposto  dello  stesso  art. 6,  debbano essere
dichiarati  inutilizzabili  in  ogni  stato e grado del procedimento;
anziche'   limitarsi   a   prevedere   l'inutilizzabilita'  di  detta
documentazione nei confronti del solo parlamentare indagato.
    Il  rimettente riferisce che, nel procedimento a quo, il pubblico
ministero  aveva  fatto istanza, ai sensi dell'art. 6, comma 2, della
legge  n. 140  del  2003,  affinche'  fosse richiesta alla Camera dei
deputati  l'autorizzazione  all'utilizzazione di alcune conversazioni
telefoniche,  intercettate su utenze in uso a terzi, alle quali aveva
preso  parte  un  membro di detta Camera, iscritto nel registro delle
notizie di reato per fatti di turbativa d'asta aggravata in concorso.
    I  difensori  del  parlamentare  si erano opposti alla richiesta,
osservando  che il citato art. 6 concerneva - per espressa previsione
del  comma 1  -  le  intercettazioni  di  conversazioni di membri del
Parlamento  eseguite  nel  corso di procedimenti «riguardanti terzi»:
ipotesi,   questa,   che  non  ricorreva  nella  specie,  essendo  il
parlamentare indagato nel medesimo procedimento. I medesimi difensori
avevano  quindi prospettato al giudice a quo la seguente alternativa:
o  ritenere  applicabile  l'art. 4  della  legge n. 140 del 2003 (che
richiede  l'autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza al
fine  di  eseguire  intercettazioni  nei  confronti  di un membro del
Parlamento),    dichiarando    di   conseguenza   inutilizzabili   le
conversazioni telefoniche; ovvero sollevare questione di legittimita'
costituzionale  dei  citati  artt. 4  e  6,  nella parte in cui - non
disciplinando   espressamente   il  caso  in  esame  -  sembrerebbero
consentire  all'autorita' inquirente di intercettare «indirettamente»
(ossia  tramite  utenze  in  uso  a  terzi) il parlamentare indagato,
rimettendo  successivamente  all'autorita'  giudiziaria  la scelta se
utilizzare le conversazioni intercettate senza alcuna autorizzazione,
ovvero  se  chiedere  una  autorizzazione  «postuma», in applicazione
analogica  dell'art. 6, comma 2. Ad avviso della difesa, anche questa
seconda  opzione  interpretativa  sarebbe  stata  irragionevole e non
rispettosa  della garanzia prevista dell'art. 68, terzo comma, Cost.,
il quale fa riferimento alle intercettazioni, «in qualsiasi forma, di
conversazioni   o  comunicazioni»:  e,  dunque  -  secondo  l'assunto
difensivo -  anche alle intercettazioni «indirette» del parlamentare,
eseguite nell'ambito del procedimento in cui risulta indagato.
    Il  giudice a quo dichiarava manifestamente infondata l'eccezione
di  legittimita' costituzionale sollevata dalla difesa, ritenendo che
la  norma applicabile nel caso di specie fosse proprio l'art. 6 della
legge   n. 140   del   2003,   e  non  l'art. 4,  che  disciplina  le
intercettazioni  su  utenze  in  uso al parlamentare. Di conseguenza,
richiedeva  l'autorizzazione  all'utilizzazione delle intercettazioni
alla Camera dei deputati, la quale, con delibera assunta nella seduta
del 20 dicembre 2005, la negava.
    Cio'  premesso, il rimettente osserva come - a fronte del diniego
della  Camera  -  l'art. 6,  comma 5,  della  legge  n. 140  del 2003
imporrebbe l'immediata distruzione della documentazione relativa alle
intercettazioni telefoniche delle conversazioni cui ha preso parte il
parlamentare.  Prima  di dar corso alla distruzione, il giudice a quo
ritiene,  tuttavia,  di  dover  sollevare  questione  di legittimita'
costituzionale  del  combinato disposto dei commi 2, 5 e 6 del citato
art. 6.
    Al  riguardo,  il rimettente muove dall'assunto che la disciplina
complessiva, risultante dalla norma impugnata, si sarebbe spinta «ben
oltre  il  raggio  di  operativita'  delle  guarentigie parlamentari,
previste dall'art. 68 Cost.». Tali guarentigie atterrebbero, infatti,
unicamente  alle  intercettazioni  «dirette»  delle conversazioni dei
parlamentari:  non  potendosi far leva, in contrario, sulla locuzione
«in  qualsiasi forma», impiegata nel terzo comma dello stesso art. 68
Cost.,   la  quale  si  riferirebbe  non  gia'  alle  intercettazioni
«indirette»  od  «occasionali», ma soltanto alle differenti modalita'
con  le  quali  la captazione delle conversazioni puo' avvenire ed ai
diversi   mezzi   di  comunicazione  intercettati.  Occorrerebbe,  di
conseguenza,  stabilire  se  l'estensione della guarentigia, ad opera
del  legislatore  ordinario, anche alle conversazioni e comunicazioni
contemplate  dall'art. 6  della  legge  n. 140  del  2003  esponga la
disciplina adottata a censure di illegittimita' costituzionale.
    A tale interrogativo il rimettente risponde in senso affermativo,
assumendo   che  le  previsioni  normative  censurate  risulterebbero
lesive, anzitutto, del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), sotto
lo  specifico  profilo  della  parita'  di  trattamento rispetto alla
giurisdizione.  In  rapporto  a  tale principio - il quale si colloca
alle  origini  della  formazione  dello Stato di diritto - il sistema
delle  immunita'  e  delle  prerogative  dei  membri  del  Parlamento
potrebbe,  difatti,  venire  in  rilievo solo come eccezione e valere
unicamente  per  i casi espressamente considerati, in quanto ritenuti
dal Costituente idonei ad interferire sulla libera esplicazione della
funzione parlamentare.
    L'esigenza  di  preservare  la  funzione parlamentare da indebite
interferenze   o   condizionamenti,  tuttavia,  non  giustificherebbe
affatto  la  distruzione  della  documentazione delle intercettazioni
«indirette»  od «occasionali», prevista dal comma 5 dell'art. 6 della
legge    n. 140   del   2003.   Detta   distruzione   -   come   pure
l'inutilizzabilita'  dei  verbali, delle registrazioni e dei tabulati
di  comunicazioni  acquisiti  in  violazione del disposto dell'art. 6
della  legge  n. 140  del  2003,  prevista  dal  comma 6 del medesimo
articolo  -  non avrebbe, infatti, nulla «a che vedere» con la libera
esplicazione  delle  funzioni parlamentari: discutendosi, da un lato,
di  intercettazioni  eseguite  su utenze o presso luoghi non in uso a
membri  del  Parlamento;  e, dall'altro lato, di conversazioni la cui
utilizzabilita'  processuale  nei  confronti del parlamentare risulta
comunque  preclusa  dalla  mancata  autorizzazione  della  Camera  di
appartenenza.   La   prevista  distruzione  della  documentazione  si
spiegherebbe,  pertanto,  unicamente con l'intento di tutelare «oltre
modo»  la  riservatezza  delle  comunicazioni  del  parlamentare, con
ingiustificata subordinazione a questa del principio di eguaglianza.
    La  disciplina  censurata  determinerebbe,  in  tale  ottica, una
irragionevole  disparita'  di trattamento fra gli indagati, a seconda
che  tra  i  loro  «interlocutori occasionali» vi sia stato o meno un
membro del Parlamento (sia esso, o no, indagato per lo stesso reato).
Infatti  -  in  caso  di  diniego dell'autorizzazione, da parte della
Camera  di  appartenenza  -  le  conversazioni  in questione, benche'
legittimamente   acquisite   dall'autorita'  giudiziaria,  dovrebbero
essere  immediatamente  distrutte,  anziche'  rimanere inutilizzabili
soltanto  nei confronti del parlamentare indagato; con la conseguenza
che  la tutela delle prerogative parlamentari finirebbe per tornare a
vantaggio anche degli indagati non parlamentari.
    In  secondo  luogo,  ad  avviso del rimettente, risulterebbe leso
l'art. 24    Cost.,   giacche'   la   distruzione   immediata   della
documentazione   -   con   conseguente  perdita  irrimediabile  delle
conversazioni  intercettate - potrebbe penalizzare o compromettere il
diritto  di  difesa degli indagati o di altre parti (prima fra tutte,
la persona offesa).
    Da  ultimo, la disciplina denunciata si rivelerebbe incompatibile
con  l'art. 112  Cost.,  giacche' l'obbligo del pubblico ministero di
esercitare  l'azione  penale  resterebbe  inevitabilmente compresso o
escluso  dalla  impossibilita'  di  utilizzare  le  conversazioni  in
parola,  allorche'  queste  costituiscano elemento di prova rilevante
nei  confronti  di  indagati che non beneficiano delle guarentigie di
cui all'art. 68 Cost.
    2.   -  E'  intervenuto  nel  giudizio  di  costituzionalita'  il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile.
    Ad   avviso   della  difesa  erariale,  l'avvenuta  richiesta  di
autorizzazione  all'utilizzazione delle intercettazioni ed il diniego
della  stessa  ad opera della Camera dei deputati non consentirebbero
di  denunciare la pretesa violazione del principio di obbligatorieta'
dell'azione  penale  tramite  questione  incidentale  di legittimita'
costituzionale:  dovendo  detta  denuncia  essere proposta sollevando
conflitto  di  attribuzioni  tra  poteri  dello  Stato. Solo con tale
strumento,  infatti,  sarebbe  possibile  sindacare  il  merito della
determinazione  parlamentare: mentre un'ipotetica censura riguardante
l'obbligo   di  richiedere  l'autorizzazione  avrebbe  dovuto  essere
formulata prima di ottemperare a tale obbligo, diversamente da quanto
e' accaduto nel giudizio a quo.
    Parimenti   inammissibili   risulterebbero  le  residue  censure,
riferite agli artt. 3 e 24 Cost., in quanto - una volta determinatasi
l'inutilizzabilita'  delle intercettazioni - l'obbligo di distruzione
resterebbe irrilevante nel giudizio principale.

                       Considerato in diritto

    1.  -  Il  Giudice  per  le indagini preliminari del Tribunale di
Torino   dubita,   in  riferimento  agli  artt. 3,  24  e  112  della
Costituzione, della legittimita' costituzionale dell'art. 6, commi 2,
5  e  6,  della  legge  20  giugno 2003,  n. 140,  nella parte in cui
stabilisce   che   -   nel   caso   di   diniego  dell'autorizzazione
all'utilizzazione  delle  intercettazioni  «indirette» o «casuali» di
conversazioni,  cui  ha  preso  parte  un  membro del Parlamento - la
relativa  documentazione debba essere immediatamente distrutta; e che
i  verbali, le registrazioni e i tabulati di comunicazioni, acquisiti
in  violazione  del  disposto  dello  stesso  art. 6,  debbano essere
dichiarati  inutilizzabili  in  ogni  stato e grado del procedimento,
anziche'  limitarsi  a  prevedere  l'inutilizzabilita' della predetta
documentazione nei confronti del solo parlamentare indagato.
    Ad  avviso  del  rimettente,  la disciplina delle intercettazioni
«indirette» o «casuali» dei parlamentari, delineata dall'art. 6 della
legge  n. 140  del  2003,  esorbiterebbe  dai  limiti  della garanzia
prevista  dall'art. 68,  terzo comma, Cost., la quale atterrebbe alle
sole  intercettazioni  «dirette».  Nella sua concreta configurazione,
detta  disciplina  verrebbe  quindi  a  ledere  l'art. 3  Cost.,  con
riguardo  al  basilare principio della parita' di trattamento davanti
alla giurisdizione. L'esigenza di preservare la funzione parlamentare
da  indebite  interferenze  o condizionamenti - che ispira il sistema
delle  immunita'  e delle prerogative dei membri del Parlamento - non
giustificherebbe,  difatti,  le previsioni oggetto di censura: e cio'
perche' si discute di intercettazioni che non incidono sulla predetta
funzione, in quanto sono state eseguite su utenze o presso luoghi non
in  uso  al  parlamentare  e  la loro utilizzabilita' processuale nei
confronti  di  quest'ultimo  resta  comunque  preclusa  dalla mancata
autorizzazione della Camera di appartenenza.
    Le  disposizioni  denunciate tutelerebbero, piuttosto, il diverso
interesse  alla  riservatezza  delle  comunicazioni del parlamentare,
subordinando ingiustificatamente ad esso il principio di eguaglianza.
In   conseguenza   delle   previsioni   normative   in  questione  si
determinerebbe,  infatti,  per un verso, una irragionevole disparita'
di   trattamento   fra  gli  indagati,  a  seconda  che  tra  i  loro
«interlocutori  occasionali»  vi sia o meno un membro del Parlamento;
e,  per  un  altro  verso,  l'estensione  di  fatto delle prerogative
parlamentari a soggetti privi di tale qualifica.
    Risulterebbe   leso,   altresi',  l'art. 24  Cost.,  giacche'  la
distruzione   immediata   della   documentazione  -  con  la  perdita
definitiva   delle   conversazioni  intercettate  -  rischierebbe  di
penalizzare il diritto di difesa degli indagati o di altre parti (tra
cui,  anzitutto,  la  persona  offesa);  nonche' l'art. 112 Cost., in
quanto  l'impossibilita'  di  utilizzare  le intercettazioni - quando
costituiscano  elemento  di  prova  nei confronti di indagati che non
beneficiano   delle   guarentigie   di   cui   all'art. 68   Cost.  -
comprimerebbe l'obbligo del pubblico ministero di esercitare l'azione
penale.
    2. - In via preliminare, l'interpretazione della norma censurata,
sulla cui base il rimettente afferma la rilevanza della questione nel
procedimento a quo, non puo' ritenersi implausibile.
    Il problema ermeneutico trae origine dall'apparente discrasia tra
i  campi  di  applicazione  degli  artt. 4 e 6 della legge n. 140 del
2003. La prima delle due disposizioni regola l'ipotesi in cui occorra
«eseguire»   intercettazioni   «nei   confronti»  di  un  membro  del
Parlamento  (cosiddette  intercettazioni «dirette»); e prevede che, a
tal  fine, l'«autorita' competente» debba richiedere l'autorizzazione
della  Camera  cui il parlamentare appartiene, in assenza della quale
l'atto  e'  ineseguibile.  Si tratta, dunque, di una autorizzazione a
carattere preventivo, concernente i casi nei quali il parlamentare si
presenta  -  non  necessariamente  in  quanto indagato, ma anche (per
diffuso  convincimento)  quale persona offesa o informata sui fatti -
come il destinatario dell'atto investigativo.
    Invece  -  come  si  desume  dalla  clausola  di riserva iniziale
(«fuori  delle  ipotesi  previste dall'art. 4») - l'art. 6 attiene ai
casi   in   cui  le  comunicazioni  dell'esponente  politico  vengano
intercettate  fortuitamente, nell'ambito di operazioni che hanno come
destinatarie  terze persone (cosiddette intercettazioni «indirette» o
«casuali»).   In   tale   evenienza,   il  giudice  per  le  indagini
preliminari,  se  ravvisa  la  necessita'  di  far  uso del materiale
probatorio  (comma  2)  -  dovendo,  per  contro, essere distrutte le
intercettazioni irrilevanti, per ordine del giudice stesso, «a tutela
della  riservatezza»  (comma  1)  - deve richiedere un'autorizzazione
successiva  alla  Camera cui il parlamentare appartiene o apparteneva
al  momento  dell'intercettazione  (si  veda,  sul punto, l'ordinanza
n. 389  del  2007): un'autorizzazione la quale condiziona, cioe', non
l'esecuzione   dell'atto   (ormai   avvenuta),   ma   l'utilizzazione
processuale  dei  suoi  risultati.  Qualora  l'assenso sia negato, la
documentazione  delle  intercettazioni va distrutta immediatamente, e
comunque  non  oltre  i  dieci giorni dalla comunicazione del diniego
(comma 5); inoltre, i verbali e le registrazioni delle comunicazioni,
acquisiti  in  violazione  dello  stesso  art. 6 (e, segnatamente, in
difetto   di  autorizzazione),  sono  dichiarati  inutilizzabili  dal
giudice, in ogni stato e grado del processo (comma 6).
    In  base  al  disposto  del  comma 1,  peraltro,  presupposto  di
operativita'  della disciplina ora descritta e' che l'intercettazione
occasionale  del  deputato  o  del  senatore  avvenga  «nel  corso di
procedimenti  riguardanti  terzi»:  donde  il  dubbio circa il regime
applicabile   allorche'   la   captazione  fortuita  abbia  luogo  in
procedimenti  che  -  come  quello  a  quo  -  coinvolgano  lo stesso
parlamentare, unitamente ad altri soggetti. Ad avviso del rimettente,
simili   intercettazioni   rimarrebbero   egualmente   soggette  alla
disciplina  dell'art. 6,  stante il carattere residuale che la stessa
assume,  negli  intenti  del  legislatore,  rispetto  alla previsione
dell'art. 4,  di  per  se' non riferibile alle captazioni considerate
(lex  minus  dixit  quam voluit). Questa lettura non e' implausibile:
non  solo  perche' conforme alla corrente prassi parlamentare in tema
di  autorizzazioni  e  recepita,  altresi',  dalla  giurisprudenza di
legittimita';  ma,  anche  e  soprattutto,  in  considerazione  della
oggettiva problematicita' delle possibili alternative esegetiche.
    Il  rilievo  vale,  innanzitutto,  per  l'opinione secondo cui la
fattispecie   in  discorso  non  ricadrebbe  nell'orbita  applicativa
dell'art. 6,   ma  in  quella  dell'art. 4.  In  base  a  tale  tesi,
l'autorizzazione preventiva - prescritta da quest'ultima disposizione
-  andrebbe  richiesta  chiunque  sia  la  persona  da  intercettare,
allorche'  un parlamentare figuri tra gli indagati: e cio' in ragione
della  elevata  probabilita'  che  le intercettazioni, disposte in un
procedimento che riguarda (anche) il parlamentare, finiscano comunque
per   captarne   le   comunicazioni,  ove  pure  il  controllo  venga
materialmente  effettuato su altri soggetti. Siffatta dilatazione del
perimetro   applicativo   dell'art. 4   si  basa,  peraltro,  su  una
presunzione  priva  di riscontro nella lettera della norma (la quale,
richiedendo  il  placet  della Camera, per eseguire l'intercettazione
«nei  confronti»  del  parlamentare,  evoca  una  concreta ed attuale
prospettiva di intrusione nella sua sfera comunicativa); e introduce,
al  tempo  stesso, una limitazione all'attivita' di indagine che puo'
apparire   di   dubbio   fondamento   razionale,   specie  quando  il
procedimento  concerna  numerosi fatti e soggetti (la circostanza che
uno  solo  fra  gli indagati abbia la qualita' di deputato o senatore
paralizzerebbe  il  mezzo  di  ricerca  della  prova nei confronti di
tutti).
    A  sua  volta, la tesi alternativa, secondo la quale l'ipotesi de
qua  non sarebbe regolata dalla legge - non essendo riconducibile ne'
alla  previsione  dell'art. 4  ne'  a  quella  dell'art. 6  - oltre a
risultare,  primo  visu, contraria all'intentio del legislatore della
legge  n. 140  del  2003 (di ampia protezione delle comunicazioni del
parlamentare),    determinerebbe    una   sperequazione   palesemente
irragionevole.  In tale prospettiva, infatti, il parlamentare sarebbe
tutelato  esclusivamente  rispetto  alle  intercettazioni occasionali
effettuate   in   procedimenti  che  riguardino  solo  terzi;  mentre
resterebbe  sfornito  di garanzia nei confronti delle intercettazioni
occasionali eseguite in procedimenti che riguardino anche lui stesso:
intercettazioni   i   cui   risultati,  pertanto,  potrebbero  essere
utilizzati senza necessita' di alcuna autorizzazione.
    3.  -  Sotto diverso profilo, va rilevato come il giudice a quo -
che  ha sollevato la questione dopo aver chiesto, con esito negativo,
l'autorizzazione  all'utilizzazione delle intercettazioni «indirette»
ai   sensi   dell'art. 6   -   non   censuri,   con   l'incidente  di
costituzionalita',  la  previsione  dell'obbligo  di richiedere detta
autorizzazione    (allorche'    l'indagine    coinvolga    anche   il
parlamentare),  ma soltanto la regolamentazione degli effetti del suo
diniego.
    Come  emerge  dalla  motivazione dell'ordinanza di rimessione, il
rimettente  si  duole  segnatamente  del  fatto  che  il  legislatore
ordinario   -   nell'estendere  il  regime  di  garanzia  al  di  la'
dell'ambito  stabilito  dall'art. 68,  terzo  comma,  Cost.  (che  si
riferirebbe, in assunto, alle sole intercettazioni «dirette») - abbia
adottato  una  disciplina  eccedente  la  finalita'  di preservare la
funzione  parlamentare  da  indebite  interferenze e condizionamenti;
mentre  solo  questa  finalita'  potrebbe  giustificare una deroga al
principio  della parita' di trattamento davanti alla giurisdizione. A
tale   scopo,   nel  caso  di  rifiuto  dell'autorizzazione,  sarebbe
sufficiente  -  secondo il rimettente - la semplice inutilizzabilita'
delle  intercettazioni  nei  confronti del parlamentare indagato. Per
contro,  prevedendo  la  distruzione  della  documentazione  e la sua
inutilizzabilita'  nei  confronti  di  qualunque  altro  soggetto, il
legislatore avrebbe inteso, in realta', tutelare un interesse diverso
-  quello  alla  riservatezza  delle comunicazioni del parlamentare -
inidoneo a legittimare deroghe al predetto principio fondamentale.
    A  fronte  di  tale petitum, le due eccezioni di inammissibilita'
della  questione,  sollevate dall'Avvocatura dello Stato, si rivelano
infondate.
    Quanto  alla prima, infatti - contrariamente a quanto sostiene la
difesa  erariale  - le censure del rimettente non investono il merito
della decisione di diniego dell'autorizzazione adottata dalla Camera;
cosi'  da  rendere  necessario,  in  assunto,  il  ricorso al diverso
strumento del conflitto di attribuzioni.
    Quanto alla seconda eccezione, la questione risulta rilevante nel
giudizio  a  quo  -  nella prospettiva del rimettente - anche dopo il
rifiuto   dell'autorizzazione,   proprio  perche'  mira  a  rimuovere
(parzialmente)  le  conseguenze  di detto rifiuto, che ancora debbono
prodursi nel procedimento principale.
    4.  -  Cio'  puntualizzato,  deve  escludersi  che  il  risultato
perseguito  dal  giudice  a  quo  -  ossia  la  limitazione del campo
applicativo  dell'art. 6,  commi 2,  5 e 6, ai casi in cui si debbano
utilizzare i risultati delle intercettazioni contro il parlamentare -
possa   essere   desunto   dalla  norma  impugnata  gia'  in  via  di
interpretazione.
    La   circostanza   che   il   presupposto  della  disciplina  sia
individuato  in  rapporto  ai  procedimenti  riguardanti  «terzi»; la
genericita'  del  riferimento  alla necessita' di utilizzazione delle
intercettazioni,  senza  alcuna specificazione limitativa rispetto ai
soggetti;  la  perentorieta'  delle previsioni in tema di distruzione
del  materiale  e  di  inutilizzabilita',  oggi censurate: sono tutti
argomenti  testuali  che  ostano  al  recepimento dell'esegesi dianzi
indicata.   Quest'ultima,   d'altra  parte,  non  rispecchierebbe  la
voluntas del legislatore, il quale - alla luce dei lavori preparatori
e del dibattito che ha preceduto la legge n. 140 del 2003 - intendeva
sicuramente  comprendere  nell'art. 6  i casi  di  utilizzazione  nei
confronti di terzi.
    5.  - Nel merito, la questione e' fondata, nei termini di seguito
specificati.
    5.1.  - La disciplina delle intercettazioni «indirette» - o, piu'
propriamente,  per quanto si dira', delle intercettazioni «casuali» -
quale  delineata  dall'art. 6  della  legge n. 140 del 2003, non puo'
ritenersi  in  effetti  riconducibile  alla  previsione dell'art. 68,
terzo comma, Cost.
    Al  riguardo,  giova  premettere  come,  nell'ambito  del sistema
costituzionale,   le   disposizioni   che   sanciscono   immunita'  e
prerogative  a  tutela  della  funzione  parlamentare,  in  deroga al
principio  di  parita'  di  trattamento  davanti alla giurisdizione -
principio  che  si pone «alle origini della formazione dello Stato di
diritto»  (sentenza n. 24 del 2004) - debbano essere interpretate nel
senso  piu'  aderente  al  testo  normativo.  Tale  esigenza  risulta
accentuata  dal  passaggio  -  avutosi  con  la  legge costituzionale
29 ottobre  1993, n. 3, di riforma dell'art. 68 Cost. - ad un sistema
basato  esclusivamente  su  specifiche  autorizzazioni  ad  acta:  un
sistema  nel quale ogni singola previsione costituzionale attribuisce
rilievo  ad uno specifico interesse legato alla funzione parlamentare
e  fissa,  in  pari  tempo,  i  limiti  entro  i  quali  esso  merita
protezione,   stabilendo   quali  connotazioni  debba  presentare  un
determinato   atto  processuale,  affinche'  si  giustifichi  il  suo
assoggettamento al nulla osta dell'organo politico.
    Nella   specie,   dal  testo  dell'art. 68,  terzo  comma,  Cost.
(«analoga  autorizzazione  e'  richiesta  per sottoporre i membri del
Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o
comunicazioni  e  a  sequestro di corrispondenza») non puo' ricavarsi
alcun  riferimento  ad  un  controllo parlamentare a posteriori sulle
intercettazioni  occasionali.  La  norma  costituzionale ha riguardo,
infatti,  alla «sottoposizione» di un parlamentare ad intercettazione
e  ad  una  autorizzazione  di  tipo  preventivo:  il  nulla  osta e'
richiesto per eseguire l'atto investigativo, e non per utilizzare nel
processo  i risultati di un atto precedentemente espletato. Il che e'
confermato,  ove ve ne fosse bisogno, dal fatto che la norma richiama
un'autorizzazione  «analoga» a quella - indubitabilmente preventiva -
prevista  dal  secondo  comma  dello stesso art. 68 Cost. in rapporto
alle perquisizioni personali o domiciliari, all'arresto e alle misure
privative della liberta' personale.
    Ne' giova, in senso contrario, l'inciso «in qualsiasi forma», che
nell'art. 68,   terzo   comma,  Cost.  qualifica  le  intercettazioni
soggette   ad   autorizzazione.  Come  emerge,  infatti,  dai  lavori
preparatori della legge costituzionale n. 3 del 1993, detto inciso fu
introdotto  dalla Camera dei deputati in sostituzione del riferimento
alle  «intercettazioni  telefoniche  e ambientali», che compariva nel
testo approvato dal Senato della Repubblica il 19 giugno 1993: e cio'
sia   a   fronte  delle  perplessita'  di  ordine  tecnico,  generate
dall'impiego   -  in  una  norma  costituzionale  -  della  locuzione
«intercettazioni  ambientali»,  estranea alla terminologia del codice
di rito; sia a fronte della opportunita' di adottare una formula piu'
generica, atta ad abbracciare ogni possibile mezzo comunicativo.
    Nell'intenzione    del    legislatore   costituzionale,   dunque,
l'espressione  «in  qualsiasi  forma»  si  riferiva  unicamente  alle
modalita'   tecniche   di  captazione  e  ai  tipi  di  comunicazione
intercettata;  non  gia'  al  carattere  «diretto»  o «casuale» della
captazione.  Di  cio' offre conferma la stessa legge n. 140 del 2003,
nella quale l'identica espressione «in qualsiasi forma» compare - col
significato  ora  indicato  -  a  proposito sia delle intercettazioni
«dirette»  (art. 4,  comma 1)  che  di  quelle  «indirette»  (art. 6,
comma 1).
    5.2.  -  La  ratio  della  garanzia  prevista dall'art. 68, terzo
comma, Cost. converge, d'altro canto, con la lettera della norma.
    L'art. 68  Cost.  mira  a  porre  a  riparo  il  parlamentare  da
illegittime  interferenze  giudiziarie sull'esercizio del suo mandato
rappresentativo;  a  proteggerlo,  cioe',  dal  rischio che strumenti
investigativi  di particolare invasivita' o atti coercitivi delle sue
liberta' fondamentali possano essere impiegati con scopi persecutori,
di condizionamento, o comunque estranei alle effettive esigenze della
giurisdizione. La necessita' dell'autorizzazione viene meno, infatti,
allorche'  la limitazione della liberta' del parlamentare si connetta
a titoli o situazioni - come l'esecuzione di una sentenza di condanna
irrevocabile  o  la  flagranza  di  un  delitto  per cui sia previsto
l'arresto   obbligatorio   -   che   escludono,   di   per   se',  la
configurabilita' delle accennate evenienze.
    Destinatari  della  tutela, in ogni caso, non sono i parlamentari
uti  singuli,  ma le assemblee nel loro complesso. Di esse si intende
preservare  la  funzionalita', l'integrita' di composizione (nel caso
delle misure de libertate) e la piena autonomia decisionale, rispetto
ad  indebite  invadenze del potere giudiziario (si veda, al riguardo,
con riferimento alla perquisizione domiciliare, la sentenza n. 58 del
2004):  il  che  spiega  l'irrinunciabilita' della garanzia (sentenza
n. 9 del 1970).
    In  tale  prospettiva,  l'autorizzazione preventiva - contemplata
dalla  norma costituzionale - postula un controllo sulla legittimita'
dell'atto  da  autorizzare,  a  prescindere  dalla considerazione dei
pregiudizi   che   la  sua  esecuzione  puo'  comportare  al  singolo
parlamentare. Il bene protetto si identifica, infatti, con l'esigenza
di  assicurare  il  corretto esercizio del potere giurisdizionale nei
confronti  dei  membri  del  Parlamento,  e  non  con  gli  interessi
sostanziali   di   questi   ultimi   (riservatezza,  onore,  liberta'
personale),  in  ipotesi  pregiudicati dal compimento dell'atto; tali
interessi  trovano  salvaguardia  nei  presidi, anche costituzionali,
stabiliti per la generalita' dei consociati.
    Questo  rilievo  vale  anche  in rapporto alle intercettazioni di
conversazioni  o  comunicazioni.  Richiedendo  il  preventivo assenso
della  Camera  di  appartenenza ai fini dell'esecuzione di tale mezzo
investigativo, l'art. 68, terzo comma, Cost. non mira a salvaguardare
la  riservatezza delle comunicazioni del parlamentare in quanto tale.
Quest'ultimo   diritto  trova  riconoscimento  e  tutela,  a  livello
costituzionale,  nell'art. 15  Cost., secondo il quale la limitazione
della  liberta'  e  segretezza delle comunicazioni puo' avvenire solo
per   atto  motivato  dell'autorita'  giudiziaria,  con  le  garanzie
stabilite dalla legge.
    L'ulteriore  garanzia  accordata dall'art. 68, terzo comma, Cost.
e'  strumentale,  per contro, anche in questo caso, alla salvaguardia
delle  funzioni  parlamentari:  volendosi  impedire  che l'ascolto di
colloqui  riservati  da parte dell'autorita' giudiziaria possa essere
indebitamente  finalizzato  ad incidere sullo svolgimento del mandato
elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera
esplicazione dell'attivita'. E cio' analogamente a quanto avviene per
l'autorizzazione  preventiva  alle  perquisizioni  ed ai sequestri di
corrispondenza, il cui oggetto ben puo' consistere anche in documenti
a carattere comunicativo.
    5.3.   -  Nel  caso  delle  intercettazioni  fortuite,  peraltro,
l'eventualita'  che  l'esecuzione  dell'atto  sia  espressione  di un
atteggiamento  persecutorio  -  o,  comunque,  di un uso distorto del
potere giurisdizionale nei confronti del membro del Parlamento, volto
ad  interferire indebitamente sul libero esercizio delle sue funzioni
-   resta   esclusa,   di   regola,   proprio   dalla  accidentalita'
dell'ingresso del parlamentare nell'area di ascolto.
    Ne', d'altra parte, si puo' ritenere che il nulla osta successivo
della  Camera  all'utilizzazione  del  mezzo  probatorio  sia imposto
dall'esigenza  di  evitare  una  surrettizia  elusione della garanzia
dell'autorizzazione   preventiva:   elusione   che  si  realizzerebbe
allorche',  attraverso la sottoposizione ad intercettazione di utenze
telefoniche  o  luoghi  appartenenti  formalmente  a  terzi  - ma che
possono  presumersi  frequentati  dal  parlamentare  -  si  intendano
captare,  in  realta', le comunicazioni di quest'ultimo. Al riguardo,
va  infatti osservato che la norma costituzionale vieta di sottoporre
ad   intercettazione,   senza   autorizzazione,  non  le  utenze  del
parlamentare,  ma  le  sue  comunicazioni: quello che conta - ai fini
dell'operativita' del regime dell'autorizzazione preventiva stabilito
dall'art. 68,  terzo  comma,  Cost.  -  non  e'  la  titolarita' o la
disponibilita'   dell'utenza   captata,  ma  la  direzione  dell'atto
d'indagine.  Se quest'ultimo e' volto, in concreto, ad accedere nella
sfera  delle  comunicazioni  del  parlamentare, l'intercettazione non
autorizzata   e'   illegittima,   a  prescindere  dal  fatto  che  il
procedimento  riguardi  terzi  o che le utenze sottoposte a controllo
appartengano a terzi.
    La  previsione - nella norma costituzionale - dell'autorizzazione
preventiva  al  compimento dell'atto, e non anche dell'autorizzazione
successiva   all'utilizzazione  dei  suoi  risultati,  e'  del  tutto
coerente   con  tale  prospettiva:  giacche',  nella  prima  ipotesi,
l'autorita'  giudiziaria e' comunque in grado di chiedere in anticipo
l'assenso  della  Camera  cui appartiene il parlamentare. Dall'ambito
della garanzia prevista dall'art. 68, terzo comma, Cost. non esulano,
dunque,  le intercettazioni «indirette», intese come captazioni delle
conversazioni  del  membro  del  Parlamento  effettuate ponendo sotto
controllo  le  utenze  dei  suoi  interlocutori  abituali;  ma,  piu'
propriamente,  le  intercettazioni  «casuali»  o «fortuite», rispetto
alle  quali - proprio per il carattere imprevisto dell'interlocuzione
del  parlamentare  -  l'autorita'  giudiziaria  non potrebbe, neanche
volendo,   munirsi   preventivamente   del  placet  della  Camera  di
appartenenza.
    Sotto  questo  profilo, si deve quindi ritenere che la previsione
dell'art. 68,  terzo  comma, Cost. risulti interamente soddisfatta, a
livello  di legge ordinaria, dall'art. 4 della legge n. 140 del 2003,
le  cui statuizioni debbono necessariamente interpretarsi in coerenza
con  quelle  del precetto costituzionale che esso mira ad attuare. La
disciplina  dell'autorizzazione preventiva, dettata dall'art. 4, deve
ritenersi  destinata, cioe', a trovare applicazione tutte le volte in
cui  il  parlamentare  sia individuato in anticipo quale destinatario
dell'attivita'   di   captazione,   ancorche'   questa   abbia  luogo
monitorando  utenze  di  diversi  soggetti.  In tal senso puo' e deve
intendersi  la  formula  «eseguire  nei  confronti  di  un membro del
Parlamento    [...]   intercettazioni,   in   qualsiasi   forma,   di
conversazioni o comunicazioni», che compare nella norma ordinaria.
    Per  contro,  l'autorizzazione  successiva  prevista  dall'art. 6
della  legge  n. 140  del  2003  -  ove configurata come strumento di
controllo  parlamentare  sulle  violazioni  surrettizie  della  norma
costituzionale - non solo non sarebbe indispensabile per realizzare i
fini dell'art. 68, terzo comma, Cost.; ma verrebbe a spostare in sede
parlamentare   -   in   una   situazione   nella  quale  risulterebbe
eventualmente   attivabile   anche   il   rimedio  del  conflitto  di
attribuzioni   -   un  sindacato  che  trova  la  sua  sede  naturale
nell'ambito  dei  rimedi  interni  al  processo.  Con il rischio - da
taluni paventato - che un siffatto meccanismo possa porsi addirittura
in  contrasto  con  la  stessa  norma costituzionale, attribuendo, di
fatto,   all'Assemblea   parlamentare   -  nel  caso  di  concessione
dell'autorizzazione   -   la   facolta'   di   «sanare»,   rendendoli
utilizzabili, mezzi di prova acquisiti contra constitutionem.
    5.4.  -  Al  regime autorizzatorio prefigurato dalla disposizione
denunciata si e' attribuita - oltre a quella di evitare le elusioni -
anche  una  diversa  ratio.  L'autorizzazione  all'utilizzazione  dei
risultati dell'atto mirerebbe, cioe', ad impedire che, immettendo nel
circuito  processuale  la documentazione dei colloqui accidentalmente
captati,  si  determini  una loro divulgazione strumentale: e cio' in
situazioni nelle quali quella documentazione dovrebbe essere, invece,
prontamente  distrutta  per  la  sua  irrilevanza,  secondo quanto e'
previsto  -  «a tutela della riservatezza» - dal comma 1 dell'art. 6,
in   sostanziale  assonanza  con  la  norma  generale  dell'art. 269,
comma 2, del codice di procedura penale. Tale documentazione potrebbe
essere cosi' impiegata, tramite la cassa di risonanza dei mass media,
a fini di pressione politica.
    A  prescindere,  peraltro,  dalla  reale  idoneita'  del  diniego
dell'assenso successivo, all'esito di dibattito in Assemblea, a porre
al    riparo    il   parlamentare   da   temute   strumentalizzazioni
giornalistiche, neppure l'anzidetta ratio puo' essere ricondotta alle
previsioni  dell'art. 68,  terzo comma, Cost.: giacche' essa comporta
un   evidente  mutamento  dell'oggetto  del  sindacato  parlamentare,
rispetto a quello prefigurato nella norma costituzionale.
    Nella   prospettiva   in   questione,   difatti,   la  Camera  di
appartenenza  del parlamentare non sarebbe piu' chiamata a vagliare i
presupposti di esecuzione dell'atto invasivo, per impedire intrusioni
indebite  dell'autorita'  giudiziaria nella sfera delle comunicazioni
riservate  dell'esponente  politico (nella specie, l'intrusione si e'
gia'  consumata);  ma  verrebbe  chiamata a verificare la correttezza
della   successiva   valutazione   giudiziale   circa   la  rilevanza
processuale   dei   risultati   dell'intercettazione  (legittimamente
eseguita). In altre parole, alla Camera verrebbe attribuito un potere
di  sindacato non sull'espletamento o meno del mezzo di ricerca della
prova  -  com'e'  nella  logica  generale  delle  immunita'  previste
dall'art. 68  Cost. - ma sulla gestione processuale di una prova gia'
formata.
    Tale  diversa  angolazione  del  sindacato  e'  stata, del resto,
affermata dalla stessa prassi parlamentare in tema di autorizzazioni.
In  essa  si e' espressamente affermato che il parametro - sulla base
del  quale  consentire o negare l'utilizzazione delle intercettazioni
«indirette»  -  non  possa  essere  quello  «del fumus persecutionis,
venendo  in  rilievo  il  risultato probatorio di un'istruttoria gia'
effettuata, ma piuttosto la rilevanza e l'utilizzabilita' processuale
di tale risultato rispetto all'oggetto dell'accusa» (in questo senso,
la  relazione  della  Giunta  per  le autorizzazioni della Camera dei
deputati  presentata  alla  Presidenza  il  19 marzo  2007,  doc. IV,
n. 6-A).
    5.5.  -  Escluso,  pertanto,  che  la  disciplina censurata possa
considerarsi  «costituzionalmente imposta» dall'art. 68, terzo comma,
Cost.,  resta  da  chiarire  se  la  stessa  possa ritenersi comunque
«costituzionalmente consentita». Si tratta di stabilire, cioe', se il
legislatore  ordinario  sia  abilitato  a prevedere - in un'ottica di
prevenzione  di  ipotizzabili  condizionamenti  sullo svolgimento del
mandato  elettivo  -  forme speciali di tutela della riservatezza del
parlamentare,   rispetto   ad   un   mezzo  di  ricerca  della  prova
particolarmente invasivo, come le intercettazioni. E cio' pur tenendo
conto   che   le   esigenze   di   protezione  in  materia  risultano
particolarmente  avvertite  in  conseguenza di un fenomeno patologico
che  incide,  di  per  se',  sulla generalita' dei cittadini: quello,
cioe',  della  disinvolta diffusione, anche a mezzo della stampa, dei
contenuti  dei  colloqui  intercettati,  spesso  anche  per  le parti
irrilevanti ai fini del processo.
    Al  suddetto  quesito,  la  Corte e' chiamata a dare risposta, in
questa  sede,  nei  limiti del petitum del giudice rimettente: ossia,
unicamente  per  quanto  attiene alla prevista inutilizzabilita' erga
omnes e alle radicali conseguenze del rifiuto di autorizzazione della
Camera (distruzione del materiale, con perdita irrimediabile dei dati
probatori  da esso offerti, anche quando vengano in rilievo posizioni
di  terzi);  non,  invece,  per quanto attiene al profilo - che resta
impregiudicato  -  della  disciplina  circa  l'utilizzabilita' o meno
delle intercettazioni casuali nei confronti dello stesso parlamentare
intercettato.
    Sotto  l'aspetto censurato, le disposizioni impugnate si rivelano
incompatibili con il fondamentale principio di parita' di trattamento
davanti alla giurisdizione. Dette disposizioni accordano, infatti, al
parlamentare   una   garanzia   ulteriore   rispetto   alla   griglia
dell'art. 68 Cost., che - per l'ampiezza della sua previsione e delle
sue  conseguenze  -  finisce per travolgere ogni interesse contrario:
giacche'  si  elimina,  ad ogni effetto, dal panorama processuale una
prova  legittimamente  formata, anche quando coinvolga terzi che solo
occasionalmente hanno interloquito con il parlamentare.
    In  questo  modo,  viene  quindi  introdotta  una  disparita'  di
trattamento  non  soltanto  tra  il titolare del mandato elettivo e i
terzi  -  tema,  quest'ultimo,  che il giudice a quo non sottopone al
giudizio   di   questa   Corte   -   ma  tra  gli  stessi  terzi.  Le
intercettazioni   eseguite  nel  corso  di  un  procedimento  penale,
infatti,  possono  contenere  elementi utili, o addirittura decisivi,
sia  per  le  tesi dell'accusa che per quelle della difesa. Ne deriva
che,  coeteris paribus, la posizione del comune cittadino, cui quegli
elementi  nuocciano  o  giovino,  viene  a  risultare differenziata -
eventualmente,  sino  al  punto  da  determinare  il passaggio da una
pronuncia  di  condanna  ad  una  assolutoria  (e viceversa); ovvero,
quanto  al  danneggiato dal reato, il passaggio dal riconoscimento al
diniego  della  pretesa  risarcitoria - in ragione della circostanza,
puramente  casuale,  che  il  soggetto  sottoposto ad intercettazione
abbia avuto, come interlocutore, un membro del Parlamento.
    Al  tempo  stesso,  impedendo di utilizzare le intercettazioni in
questione  anche  nei  confronti  di  soggetti  non  parlamentari, le
disposizioni  in  parola  finiscono,  di fatto - senza alcuna base di
legittimazione  costituzionale  -  per  configurare  una  immunita' a
vantaggio   di   soggetti  che  non  avrebbero  comunque  ragione  di
usufruirne,  in  quanto  non  chiamati  ad  esercitare  alcun mandato
elettivo.
    In sostanza, cio' che rende contrastante il complesso di norme in
esame  non  soltanto  con il parametro dell'eguaglianza, ma anche con
quello  della razionalita' intrinseca della scelta legislativa, e' il
fatto  che  -  per  neutralizzare  gli effetti della diffusione delle
conversazioni  del parlamentare, casualmente intercettate - sia stato
delineato    un    meccanismo   integralmente   e   irrimediabilmente
demolitorio,  omettendo  qualsiasi  apprezzamento della posizione dei
terzi, anch'essi coinvolti in quelle conversazioni.
    6.  -  I  commi 2,  5 e 6 dell'art. 6 della legge n. 140 del 2003
vanno  dichiarati,  pertanto,  costituzionalmente  illegittimi  nella
parte  in cui stabiliscono che la disciplina ivi prevista si applichi
anche  nei  casi  in cui le intercettazioni debbano essere utilizzate
nei  confronti  di soggetti diversi dal membro del Parlamento, le cui
conversazioni o comunicazioni sono state intercettate.
    La  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale comporta che
l'autorita'  giudiziaria  non debba munirsi dell'autorizzazione della
Camera,  qualora  intenda  utilizzare  le  intercettazioni  solo  nei
confronti  dei  terzi.  Invece,  qualora  si  voglia  far  uso  delle
intercettazioni  sia nei confronti dei terzi che del parlamentare, il
diniego  dell'autorizzazione non comportera' l'obbligo di distruggere
la   documentazione   delle   intercettazioni,   la   quale  rimarra'
utilizzabile limitatamente ai terzi.
    Le  residue  censure  del giudice rimettente, riferite agli altri
parametri evocati, restano assorbite.