Ordinanza
nel  giudizio  di legittimita' costituzionale degli artt. 82 e 91 del
codice  di  procedura  civile promosso con ordinanza del 13 settembre
2006 dalla Corte d'appello di Torino nel procedimento civile vertente
tra  Augusto  Consiglio  e  Ennio  Marcolongo  iscritta al n. 373 del
registro  ordinanze  2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 21, 1ª serie speciale, dell'anno 2007.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito  nella  Camera  di  consiglio  del  24  ottobre 2007 il giudice
relatore Luigi Mazzella.
Ritenuto  che  la  Corte  di  appello di Torino, con ordinanza del 13
settembre 2006, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione  -  questione di legittimita' costituzionale degli artt.
82  e  91 del codice di procedura civile nella parte in cui - secondo
il  «diritto  vivente  costituito  dalla  costante  giurisprudenza di
legittimita» - dispongono che le spese di lite vanno comunque poste a
carico  della  parte  soccombente  e non del difensore, anche quando,
come  nella specie, la soccombenza e' ascrivibile esclusivamente alla
intempestiva,   negligente   proposizione   dell'appello   da   parte
dell'avvocato,  in  violazione  della normale diligenza professionale
esigibile  ai sensi degli artt.1176, secondo comma, e 2236 del codice
civile;
     che, al fine di consentire una piu' compiuta difesa ai difensori
delle   parti   in  ordine  alla  rilevanza  ed  alla  non  manifesta
infondatezza di tale questione, la Corte rimettente ha dichiarato con
sentenza non definitiva l'inammissibilita' dell'appello ed ha rimesso
la  causa  sul  ruolo  in  ordine alla questione relativa al soggetto
tenuto a sopportare le spese del giudizio di secondo grado;
     che  il  difensore  dell'appellante  ha  ammesso  la  tardivita'
dell'impugnazione  avverso  la sentenza di primo grado dichiarando di
essere coperto da polizza assicurativa;
     che, secondo il giudice a quo, far ricadere le conseguenze della
soccombenza   sulla   cosiddetta  «parte  assistita»  presuppone  una
responsabilita'  oggettiva  di  quest'ultima  per  gli  atti  del suo
difensore,  in  quanto  il  cliente  esposto alla condanna alle spese
causate  dalla  tardivita' dell'appello non risulta agli atti neanche
informato   sulle   ragioni  dell'intervenuto  rigetto  dell'appello,
subendo, in tal modo, anche una compromissione del proprio diritto di
difesa;
     che  la  Corte  rimettente  denuncia  inoltre  una disparita' di
trattamento,  osservando  che  diversa  e  piu'  compiuta  tutela  e'
assicurata alla parte soccombente non per sua colpa dall'art. 94 cod.
proc. civ., che contempla la possibilita' di condannare personalmente
alle  spese  chi,  pur  non essendo parte nel processo, rappresenta o
assiste  le  parti  in giudizio, in presenza di gravi motivi, tra cui
puo' ricomprendersi anche la mancanza di normale prudenza;
     che,  adducendo la rilevanza della questione, dal momento che il
giudizio  a  quo  non  puo'  essere  definito indipendentemente dalla
risoluzione   della  questione  di  legittimita'  costituzionale,  il
giudice  rimettente  rileva che, dopo il passaggio in giudicato della
sentenza,  la  procura  alle liti (pur persistendo il rapporto con il
cliente  ad  altri fini, ad es., per la notifica di atti al domicilio
elettivo) non puo' piu' essere dal difensore utilizzata allo scopo di
chiedere  la  riforma  di  una  sentenza  ormai passata in giudicato,
avendo essa esaurito lo scopo per cui e' stata rilasciata;
     che  la  soluzione imposta dal diritto vivente e' irragionevole,
poiche'  quando  la  procura  alle  liti  ha  esaurito  il suo scopo,
l'attivita'  del difensore non puo' ragionevolmente riverberare alcun
effetto  sulla cosiddetta «parte-difesa» e dovrebbe restare attivita'
di  cui, di norma, il professionista diverso dall'avvocato, assume la
esclusiva  responsabilita'  (ai  sensi  degli  artt.1176  e 2229 cod.
civ.);
     che  in conclusione, a giudizio del rimettente, appare del tutto
irragionevole  e  discriminatorio  che  l'avvocato  - il quale agisca
quando  non  ha  piu'  i  poteri  del difensore (non solo per difetto
originario   della   procura   alle   liti,   ma  anche  per  difetto
sopravvenuto) - «non possa assumere la qualita' di parte, e non possa
essere condannato alle spese di lite risultate conseguenza diretta ed
immediata del suo comportamento»;
     che  e'  intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, sostenendo l'infondatezza della questione ed osservando che le
sezioni  unite  della Corte di cassazione, nel risolvere un contrasto
giurisprudenziale  in  materia,  hanno affermato il principio secondo
cui  nel  caso  di  azione  o  impugnazione del difensore privo della
procura  da  parte  del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire,
l'attivita'  del  difensore  medesimo non produce alcun effetto sulla
parte  e  resta  attivita'  processuale  di  cui  il legale si assume
l'esclusiva  responsabilita',  sicche' e' ammissibile la sua condanna
alle  spese  del  giudizio;  cio'  diversamente  dal  caso in cui una
procura  alle  liti  sia  stata di fatto conferita al difensore dalla
parte  in  nome  della  quale  egli  dichiari di agire e tale procura
risulti  per qualche motivo invalida o non piu' efficace (sentenza 10
maggio 2006, n. 10706);
     che,  secondo  l'Avvocatura erariale, nel caso di specie, avendo
il  difensore  appellato  la  sentenza  di primo grado sulla base del
mandato  a  suo  tempo conferitogli dalla parte da lui rappresentata,
solo   in   prosieguo  divenuto  inefficace,  trova  applicazione  la
normativa   codicistica   sulla  rappresentanza  e  sul  mandato  (in
particolare  gli  artt.  1722,  numero  1 e 2957, secondo comma, cod.
civ.),  secondo  cui  il compimento dell'affare estingue il mandato e
l'estinzione coincide con il passaggio in giudicato della decisione;
     che,  ad  avviso dell'Avvocatura generale, il giudice rimettente
ha  omesso  di  prendere posizione sulla diversa conclusione cui sono
giunte  le  sezioni  unite  della  Corte di cassazione, limitandosi a
prospettare   come  ingiustificata  una  differenziazione  delle  due
ipotesi,  considerate  sostanzialmente  sovrapponibili, ed ha inoltre
trascurato  di  considerare  come sia lo stesso sistema a fare questa
distinzione,  laddove  prevede (art. 300, commi primo e secondo, cod.
proc.  civ.)  la sopravvivenza del potere rappresentativo e difensivo
del  legale  anche  in  caso  di estinzione del mandato per morte del
mandante;
     che  parimenti  infondato  -  secondo  la  difesa  erariale - e'
l'ulteriore   profilo   di  illegittimita'  prospettato  dal  giudice
rimettente,  relativo  alla  dedotta violazione del diritto di difesa
della parte, essendo sempre fatto salvo il diritto di quest'ultima di
rivalersi  separatamente nei confronti del professionista negligente,
in base alle regole della responsabilita' professionale.
Considerato  che la Corte di appello di Torino dubita, in riferimento
agli   artt.   3   e   24   della  Costituzione,  della  legittimita'
costituzionale degli articoli 82 e 91 cod. proc. civ., nella parte in
cui   -   secondo  il  «diritto  vivente  costituito  dalla  costante
giurisprudenza  di  legittimita»  -  dispongono  che le spese di lite
vanno  comunque  poste  a  carico  della  parte soccombente e non del
difensore,  anche  quando,  come  nella  specie,  la  soccombenza  e'
ascrivibile    esclusivamente    alla    intempestiva    proposizione
dell'appello  da  parte  dell'avvocato, in violazione dell'obbligo di
normale diligenza professionale;
     che,  a  giudizio  del  rimettente,  le  disposizioni  censurate
determinano  una  disparita'  di  trattamento,  priva  di ragionevole
giustificazione,   in  quanto  diversa  e  piu'  compiuta  tutela  e'
assicurata alla parte soccombente non per sua colpa dall'art. 94 cod.
proc.  civ.  che  prevede la possibilita' di condannare personalmente
alle  spese  chi,  pur  non essendo parte nel processo, rappresenta o
assiste  le parti in giudizio in presenza di gravi motivi, tra cui e'
annoverabile  anche la mancanza di normale prudenza, e che, per altro
verso,  l'attribuzione  della  qualita' di difensore, ex art. 82 cod.
proc.  civ.  a  chi  non  puo'  difendere  il cliente nel processo di
appello da lui tardivamente instaurato, si traduce in una lesione del
diritto di difesa;
     che,  a  prescindere dal rilievo che con l'invocata pronuncia il
giudice  rimettente  chiede  a  questa  Corte  di  intervenire su una
materia,  quella  processuale, nella quale la Costituzione non impone
un   modello   unico   e  infungibile  al  legislatore,  lasciando  a
quest'ultimo la piu' ampia discrezionalita' nella conformazione degli
istituti,  purche'  sia  salvaguardato il limite della ragionevolezza
(ex  plurimus,  si veda l'ordinanza n. 383 del 1987), la questione e'
manifestamente infondata;
     che,  per affermare l'irragionevolezza delle norme censurate, il
rimettente  opera  una  commistione  tra  ambiti diversi nei quali si
collocano,  da  una  parte,  il  rapporto  tra  cliente  e difensore,
regolato  dalle norme civilistiche del mandato che prevedono, in caso
di  colpa  del  mandatario, un risarcimento del danno non commisurato
necessariamente  al  solo  costo  del  processo,  e,  dall'altra,  il
rapporto   tra  parte,  difensore  e,  strettamente  funzionale  alle
esigenze   proprie  del  giudizio,  nel  quale  confluiscono  aspetti
pubblicistici  riguardanti  anche  l'esigenza di assicurare la difesa
tecnica e di garantire una equilibrata posizione delle parti in lite;
     che,  proprio  per  questa  netta  distinzione  di ambiti non e'
irragionevole  la  scelta  del  legislatore  di mantenere separato il
piano  sostanziale  del  mandato  alla  lite  da  quello strettamente
processuale della soccombenza;
     che non puo' essere evocato come tertium comparationis l'art. 94
cod.  proc.  civ.,  in  quanto  esso  concerne l'istituto - del tutto
distinto  dalla  rappresentanza  tecnica  -  della  «parte  in  senso
formale»,  che  assume  la qualita' di parte per rappresentare quella
«sostanziale» o per integrarne la capacita';
     che  del  tutto  privo di fondamento e' il richiamo dell'art. 24
Cost.,  in ordine alla dedotta violazione del diritto di difesa della
parte,  essendo  sempre  fatto salvo il diritto di questa di agire in
separata  sede  nei  confronti del difensore negligente, in base alle
regole della responsabilita' professionale;
     che, pertanto la questione e' manifestamente infondata.