Sentenza
nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 17 della legge
23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), promosso
con  ordinanza  del  12  giugno  2007  dal  Tribunale  di Treviso nel
procedimento  civile vertente tra la Fondosviluppo s.p.a. e la Veneto
Banca  Soc.  Coop.  a  r.l. iscritta al n. 779 del registro ordinanze
2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, 1ª
serie speciale, dell'anno 2007.
   Visti  gli  atti di costituzione della Fondosviluppo s.p.a., della
Veneto  Banca  Soc.  Coop.  a  r.l.  nonche' l'atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
   Udito nell'udienza pubblica del 15 aprile 2008 il giudice relatore
Giuseppe Tesauro;
   Uditi  gli  avvocati  Massimo  Malvestio  e Antonella Lillo per la
Veneto  Banca  Soc.  Coop.  a r.l., Livia Salvini, Massimo Luciani ed
Ermanno  Belli  per la Fondosviluppo s.p.a., e l'avvocato dello Stato
Diego Giordano per il Presidente del Consiglio dei ministri.
                          Ritenuto in fatto
   1. - Il  Tribunale  ordinario  di  Treviso,  con  ordinanza del 12
giugno  2007,  ha  sollevato, in riferimento agli articoli 101, 102 e
104  della  Costituzione,  questione  di  legittimita' costituzionale
dell'art.   17,  comma  1,  della  legge  23  dicembre  2000,  n. 388
(Disposizioni  per  la  formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello  Stato - legge finanziaria 2001), nella parte in cui stabilisce
che  le  disposizioni  di cui all'articolo 26 del decreto legislativo
del   Capo   provvisorio   dello  Stato  14  dicembre  1947,  n. 1577
(Provvedimenti  per  la cooperazione), ratificato, con modificazioni,
dalla  legge  2 aprile 1951, n. 302 (Ratifica, con modificazioni, del
decreto  legislativo  del  Capo  provvisorio  dello Stato 14 dicembre
1947,   n. 1577,   recante   provvedimenti  per  la  cooperazione,  e
modificazione della legge 8 maggio 1949, n. 285), all'articolo 14 del
decreto  del  Presidente  della  Repubblica 29 settembre 1973, n. 601
(Disciplina delle agevolazioni tributarie), ed all'articolo 11, comma
5,  della  legge  31  gennaio  1992, n. 59 (Nuove norme in materia di
societa'  cooperative),  si  interpretano  nel  senso che all'obbligo
delle societa' cooperative e loro consorzi di devolvere il patrimonio
effettivo  ai  fondi mutualistici di cui al citato articolo 11, comma
5,  «si  intendono  soggette  le  stesse  societa' cooperative e loro
consorzi  nei  casi  di  fusione e di trasformazione, ove non vietati
dalla  normativa  vigente,  in  enti diversi dalle cooperative per le
quali  vigono  le  clausole  di cui al citato articolo 26, nonche' in
caso di decadenza dai benefici fiscali».
   2.  - Il rimettente premette che Fondosviluppo s.p.a. ha convenuto
in giudizio Veneto Banca s.c.p.a.r.l. (gia' Banca Popolare di Asola e
Montebelluna   s.c.a.r.l.;   infra,  Veneto  Banca),  chiedendone  la
condanna  a  pagare  una somma di denaro corrispondente al patrimonio
della  Banca  di Credito Cooperativo del Piave e Livenza, incorporata
nella   Veneto   Banca,   a   seguito  di  delibere  delle  assemblee
straordinarie delle societa' in data 30 ottobre e 6 novembre 1999.
   Fondosviluppo    s.p.a.   e'   una   societa'   costituita   dalla
Confederazione  Cooperative  Italiane  e  dalla  Federazione Italiana
delle  Banche di Credito Cooperativo, ai sensi dell'art. 11, comma 1,
della legge n. 59 del 1992, che prevede la possibilita' di costituire
«fondi   mutualistici   per   la   promozione  e  lo  sviluppo  della
cooperazione», i quali possono essere gestiti senza scopo di lucro da
s.p.a.  o  da  associazioni.  Il  citato  art.  11, comma 5, recepito
nell'art. 50 dello statuto sociale della Banca di Credito Cooperativo
del  Piave  e  Livenza, dispone che deve «essere devoluto ai fondi di
cui   al   comma   1  il  patrimonio  residuo  delle  cooperative  in
liquidazione, dedotti il capitale versato e rivalutato ed i dividendi
eventualmente   maturati,   di   cui  al  primo  comma,  lettera  c),
dell'articolo 26» del d.lgs. C.p.S. n. 1577 del 1947.
   La  norma impugnata ha stabilito che detti artt. 11, comma 5, e 26
«si  interpretano  nel senso che la soppressione da parte di societa'
cooperative  o  loro  consorzi  delle  clausole  di  cui  al predetto
articolo  26», ovvero la fusione o la trasformazione dei medesimi «in
enti diversi dalle cooperative per le quali vigono le clausole di cui
al  citato  art.  26»,  nonche'  la  decadenza  dai benefici fiscali,
comportano   «comunque  per  le  stesse  l'obbligo  di  devolvere  il
patrimonio  effettivo in essere alla data della soppressione, dedotti
il  capitale  versato  e  rivalutato  ed  i  dividendi  eventualmente
maturati, ai fondi mutualistici di cui al citato art. 11, comma 5».
   Pertanto,  poiche'  la  Banca  di  Credito Cooperativo del Piave e
Livenza e Veneto Banca (gia' Banca Popolare di Asola e Montebelluna),
con  delibere assembleari del 30 ottobre e del 6 novembre 1999, hanno
deliberato  la  fusione  per  incorporazione in Veneto Banca, secondo
l'attrice,  sussiste  l'obbligo  di  quest'ultima  di versare ad essa
istante,   ai   sensi   del  citato  art.  11,  comma  5,  una  somma
corrispondente al patrimonio di detta Banca di Credito Cooperativo.
   Nel  giudizio  si  e'  costituita  Veneto  Banca,  contestando  la
legittimazione attiva dell'attrice e, nel merito, la fondatezza della
domanda,   eccependo  altresi'  l'illegittimita'  costituzionale  del
citato  art. 17, comma 1, della legge n. 388 del 2000, in riferimento
agli artt. 3, 47, 101, 102 e 104 Cost.
   2.1. - Posta questa premessa, il rimettente deduce che, secondo la
convenuta, la norma censurata avrebbe innovato il contenuto dell'art.
11,  comma  5,  della  legge  n. 59  del  1992, in quanto «allarga la
fattispecie  di  cui  al  comma  5 anche alle ipotesi di fusione e di
trasformazione» e fa riferimento al patrimonio effettivo, anziche' al
patrimonio residuo.
   Ad   avviso   del   Tribunale,   l'eccezione   di   illegittimita'
costituzionale   sollevata  dalla  convenuta  e'  non  manifestamente
infondata,   poiche'   la   giurisprudenza   costituzionale   ritiene
ammissibili  le norme interpretative, retroattive, in materia diversa
da  quella  penale,  sempre  che  siano  coerenti con la funzione «di
chiarire  il senso di norme preesistenti, ovvero di imporre una delle
possibili  varianti di senso compatibili col tenore letterale, sia al
fine  di  eliminare  eventuali  incertezze  interpretative,  sia  per
rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti».
   Pertanto,  qualora la lettera della norma interpretata sia chiara,
al  punto  da  non  avere  mai dato adito a dubbi interpretativi ed a
contrasti   nella  giurisprudenza,  la  stessa  qualificazione  della
disposizione come interpretativa conforterebbe l'inesistenza di detto
carattere,  facendo  emergere  il  reale  intento del legislatore, di
attribuirle efficacia retroattiva.
   Secondo  il  rimettente,  tanto si riscontrerebbe nella specie, in
quanto  la  lettera  del  citato  art. 11, comma 5, non avrebbe fatto
sorgere  dubbi in ordine alla sua irriferibilita' ai casi «di fusione
e di trasformazione, ove non vietati dalla normativa vigente, in enti
diversi  dalle  cooperative per le quali vigono le clausole di cui al
citato  articolo  26».  La  liquidazione  della societa' e', infatti,
fattispecie  differente  dalla fusione e la norma censurata introduce
anche il nuovo concetto di «patrimonio effettivo», in luogo di quello
di «patrimonio residuo».
   Inoltre,  non  risulterebbe  che la norma interpretata avesse dato
luogo  a  contrasti nella giurisprudenza, dato che le uniche pronunce
al  riguardo  sono state emanate nella vigenza della legge n. 388 del
2000   ed   hanno   ritenuto   il   carattere   interpretativo  della
disposizione,  senza  affrontare  la  questione della possibilita' di
intendere la liquidazione anche come fusione.
   Pertanto, il citato art. 17, comma 1, inciderebbe retroattivamente
su  diritti  acquisiti  e  la  autoqualificazione come interpretativa
rivelerebbe  l'intento  di  produrre questo effetto che, tuttavia, ne
determinerebbe  il  contrasto  con  gli artt. 101, 102 e 104 Cost. La
norma  violerebbe,  altresi',  i  limiti entro i quali possono essere
emanate  norme  aventi  efficacia  retroattiva,  che  attengono  alla
salvaguardia  dei  fondamentali  valori di civilta' giuridica posti a
tutela  dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, fra i
quali   vanno  ricompresi  il  rispetto  del  principio  generale  di
ragionevolezza   e   di   eguaglianza,   la  tutela  dell'affidamento
legittimamente  sorto  nei  soggetti quale principio connaturato allo
Stato  di  diritto  ed  il rispetto delle funzioni costituzionalmente
riservate al potere giudiziario.
   3. -  Nel  giudizio  innanzi  a  questa  Corte  si  e'  costituita
Fondosviluppo  s.p.a.,  attrice  nel  processo principale, chiedendo,
anche  nella memoria depositata in prossimita' dell'udienza pubblica,
che la questione sia dichiarata non fondata.
   A  suo avviso, l'art. 26 del d.lgs. C.p.S. n. 1577 del 1947 tutela
il  requisito  della mutualita' «pura»; la fusione delle societa', in
virtu'  di  una  risalente  configurazione,  costituiva  una causa di
scioglimento  e  comportava  l'estinzione della societa' incorporata;
inoltre, l'art. 14 della legge 17 febbraio 1971, n. 127 (Modifiche al
decreto  legislativo  del  Capo  provvisorio  dello Stato 14 dicembre
1947,  n. 1577,  modificato  con  legge  18  maggio  1949,  n. 285, e
ratificato  con  ulteriori  modificazioni  dalla legge 2 aprile 1951,
n. 302,  concernente  provvedimenti  per la cooperazione), vietava la
trasformazione  delle societa' cooperative in societa' lucrative, con
conseguente divieto anche della fusione cosiddetta eterogenea.
   L'art.  11,  comma  5,  della  legge n. 59 del 1992, integrando il
citato  art. 26, lettera c), ha utilizzato la formula «cooperative in
liquidazione»,  appunto  perche'  la  fusione  eterogenea era vietata
dall'art. 14 della legge n. 127 del 1971.
   Tuttavia,  le  elaborazioni della prassi (quindi, l'ammissibilita'
della  trasformazione  della  societa' cooperativa in associazione) e
nuove  norme  (in  particolare,  l'art. 35 del decreto legislativo 1°
settembre  1993,  n. 385, recante «Testo unico delle leggi in materia
bancaria  e creditizia»), che hanno autorizzato la fusione tra banche
di  credito  cooperativo  e  banche  popolari,  avevano indebolito la
tutela del fine mutualistico.
   Pertanto,  benche'  la  dottrina,  il  Consiglio  di  Stato  ed il
Ministero  delle finanze avessero ritenuto applicabile il citato art.
26  anche  nel  caso  di  fusione,  parte  della giurisprudenza aveva
privilegiato una diversa interpretazione.
   Dunque,  sussisteva una situazione di incertezza che conforterebbe
il  carattere  interpretativo  della  norma  censurata.  Inoltre,  le
nozioni di «patrimonio residuo» (posta dal citato art. 11, comma 5) e
di «patrimonio effettivo» (contenuta nella norma censurata) sarebbero
sostanzialmente  coincidenti,  poiche' anche la seconda identifica il
patrimonio  che  risulta  una  volta  dedotti  il  capitale versato e
rivalutato e i dividendi eventualmente maturati.
   Peraltro,  anche ritenendo che la lettera della norma interpretata
non  permetteva  l'esegesi  sopra  sintetizzata,  questa risulterebbe
plausibile  in  forza del criterio sistematico ed alla luce dell'art.
45 Cost., che impegna il legislatore ordinario a favorire lo sviluppo
della mutualita', preservandone i caratteri tipici.
   Finalita'  della norma censurata sarebbe stata quella di garantire
un'interpretazione  costituzionalmente  orientata  delle disposizioni
che ne costituiscono oggetto, allo scopo di assicurare la devoluzione
ai  fondi  mutualistici  del patrimonio delle societa' cooperative in
tutti i casi in cui viene meno il carattere della mutualita'.
   Siffatta  finalita'  e' stata perseguita anche con la novellazione
delle  norme del codice civile che disciplinano le societa', dato che
l'art.   2545-decies   permetterebbe  la  trasformazione  delle  sole
societa'  cooperative  diverse  da  quelle  a  mutualita' prevalente,
mentre  l'art. 2545-undecies chiarisce che la trasformazione comporta
la   devoluzione   del  valore  effettivo  del  patrimonio  ai  fondi
mutualistici.
   Infine, la considerazione che la norma non ha inciso sul giudicato
condurrebbe  ad  escludere  che il citato art. 17, comma 1, vulneri i
parametri costituzionali evocati dal rimettente.
   4. -   Nel   giudizio  si  e'  costituita  altresi'  Veneto  Banca
s.c.p.a.r.l.,  parte  convenuta nel giudizio principale chiedendo che
la questione sia accolta.
   A  suo  avviso,  l'art. 11, comma 5, della legge n. 59 del 1992 si
riferiva  al  solo  caso dello scioglimento della societa', mentre il
fine mutualistico era garantito dalla sanzione prevista dal comma 10,
che  operava  sul piano tributario. La considerazione che mai sarebbe
stata sostenuta l'applicabilita' di detta norma al caso della fusione
conforterebbe  il carattere innovativo della disposizione, dimostrato
anche dalla circostanza che introduce la nuova nozione di «patrimonio
effettivo», in luogo di quella di «patrimonio residuo».
   La  parte  privata  sostiene che la norma denunciata realizzerebbe
una  invasione  della  sfera  delle  attribuzioni spettanti al potere
giudiziario,  secondo  quanto  sarebbe  desumibile  dalle pronunce di
questa  Corte  richiamate nell'atto di costituzione. In ogni caso, la
norma  sarebbe  iniqua, poiche' imporrebbe a poche societa' di pagare
somme  alla  Fondoviluppo  s.p.a., che nulla ha fatto, per operazioni
che  mai  sarebbero  state realizzate, se si fosse avuta contezza del
prezzo che avrebbero comportato.
   Nella  memoria depositata in prossimita' dell'udienza pubblica, la
parte deduce che, sebbene l'ordinanza di rimessione abbia formalmente
indicato quali parametri costituzionali soltanto gli artt. 101, 102 e
104  Cost.,  la  questione deve ritenersi proposta anche in relazione
all'art.  3  Cost.,  poiche'  il  rimettente  ha  richiamato  anche i
principi di ragionevolezza e di tutela dell'affidamento.
   Veneto  Banca ripercorre, quindi, la disciplina delle Casse rurali
ed artigiane, deducendo che l'art. 14 della legge n. 127 del 1971 non
concerneva  queste  ultime,  alle  quali era riferibile l'art. 30 del
regio  decreto  26  agosto  1937,  n. 1706  (Testo  unico delle leggi
sull'ordinamento  delle  Casse  rurali  e  artigiane);  inoltre,  una
disciplina speciale della fusione era stabilita dall'art. 7 del regio
decreto-legge  12  marzo 1936, n. 375 (Disposizioni per la difesa del
risparmio e per la disciplina della funzione creditizia), convertito,
con  modificazioni,  dalla  legge  7  marzo 1938, n. 141, specialita'
confermata dall'art. 35 del d.lgs. n. 385 del 1993.
   La parte privata da' atto che l'art. 11 della legge n. 59 del 1992
era stato applicato alle banche di credito cooperativo e, tuttavia, a
suo  avviso,  esso concernerebbe il solo caso della societa' posta in
liquidazione.  La  disciplina  della  fusione  eterogenea,  per dette
banche,  prevede  invece  l'autorizzazione  della Banca d'Italia, che
potrebbe  essere  concessa  soltanto  se  strumentale  a  garantire i
creditori  della banca, obiettivo questo coerente con la tutela della
cooperazione, quindi con l'art. 45 Cost.
   Secondo  Veneto  Banca, il dubbio interpretativo sarebbe originato
da un quesito proposto dalla Confederazione Italia delle Cooperative,
che avrebbe ottenuto pronta risposta dal Ministero del lavoro e della
previdenza  sociale  prima, quindi dall'Agenzia delle entrate, con la
circolare  30  ottobre  2000, n. 195/E, che ha, tuttavia, chiarito di
non affrontare il profilo civilistico della questione.
   La  considerazione  che  una  pronuncia  di primo grado, che aveva
ritenuto  la  norma  censurata  interpretativa, e' stata riformata in
grado   di   appello   conforterebbe   la  fondatezza  delle  proprie
conclusioni.
   5.  -  Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  chiedendo  che  la  questione sia dichiarata inammissibile e,
comunque, infondata.
   La  difesa  erariale  richiama  la giurisprudenza di questa Corte,
secondo  la  quale,  nella  materia  diversa  da  quella penale, sono
ammissibili norme retroattive, qualora non sia vulnerato il principio
di  ragionevolezza, con la conseguenza che non sussiste il denunciato
vulnus  degli  artt.  101,  102,  104 Cost., non avendo il rimettente
neppure esplicitato le ragioni che dovrebbero dimostrare che la norma
censurata incide sulla funzione giurisdizionale.
   La  questione  sarebbe,  comunque,  non  fondata, poiche' la norma
denunciata  mira  a favorire la mutualita', preservandone caratteri e
finalita' e, in coerenza con i principi stabiliti dall'art. 45 Cost.,
e' strumentale ad assicurare la devoluzione ai fondi mutualistici del
patrimonio  della  societa'  cooperativa in tutti i casi nei quali e'
soppressa la struttura cooperativistica.
   6.  -  All'udienza  pubblica la difesa erariale e le parti private
hanno  insistito  per  l'accoglimento  delle conclusioni svolte nelle
difese scritte.
                       Considerato in diritto
   1. -  La  questione  sollevata  dal Tribunale ordinario di Treviso
investe  l'art.  17,  comma  1,  della legge 23 dicembre 2000, n. 388
(Disposizioni  per  la  formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello  Stato - legge finanziaria 2001), nella parte in cui stabilisce
che  le  disposizioni  di cui all'articolo 26 del decreto legislativo
del   Capo   provvisorio   dello  Stato  14  dicembre  1947,  n. 1577
(Provvedimenti  per  la cooperazione), ratificato, con modificazioni,
dalla  legge  2 aprile 1951, n. 302 (Ratifica, con modificazioni, del
decreto  legislativo  del  Capo  provvisorio  dello Stato 14 dicembre
1947,   n. 1577,   recante   provvedimenti  per  la  cooperazione,  e
modificazione della legge 8 maggio 1949, n. 285), all'articolo 14 del
decreto  del  Presidente  della  Repubblica 29 settembre 1973, n. 601
(Disciplina  delle agevolazioni tributarie), e all'articolo 11, comma
5,  della  legge  31  gennaio  1992, n. 59 (Nuove norme in materia di
societa'  cooperative),  si  interpretano  nel  senso che all'obbligo
delle societa' cooperative e loro consorzi di devolvere il patrimonio
effettivo  ai  fondi mutualistici di cui al citato articolo 11, comma
5,  «si  intendono  soggette  le  stesse  societa' cooperative e loro
consorzi  nei  casi  di  fusione e di trasformazione, ove non vietati
dalla  normativa  vigente,  in  enti diversi dalle cooperative per le
quali  vigono  le  clausole  di cui al citato articolo 26, nonche' in
caso di decadenza dai benefici fiscali».
   1.1. -  Secondo  il  rimettente, la norma censurata, nonostante si
autoqualifichi  come  interpretativa, sarebbe priva di tale carattere
e,   conseguentemente,   inciderebbe   retroattivamente   su  diritti
acquisiti,  ponendosi in contrasto con gli artt. 101, 102 e 104 della
Costituzione.
   Inoltre, la disposizione violerebbe i limiti entro i quali possono
essere emanate norme aventi efficacia retroattiva, che attengono alla
salvaguardia  dei  «fondamentali valori di civilta' giuridica posti a
tutela  dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, fra i
quali   vanno  ricompresi  il  rispetto  del  principio  generale  di
ragionevolezza   e   di   eguaglianza,   la  tutela  dell'affidamento
legittimamente  sorto  nei  soggetti quale principio connaturato allo
Stato  di  diritto  e  il  rispetto delle funzioni costituzionalmente
riservate al potere giudiziario».
   2. -  In  linea  preliminare,  va  osservato  che il rimettente ha
motivato  non  implausibilmente  in  ordine  all'applicabilita' della
norma  censurata nel giudizio principale, anche se, in considerazione
dell'oggetto   del   medesimo,  come  individuato  nell'ordinanza  di
rimessione,  la  questione deve ritenersi rilevante esclusivamente in
riferimento  alla  parte  della disposizione concernente l'obbligo di
devoluzione nel caso di fusione.
   Inoltre,  secondo  la giurisprudenza di questa Corte, la questione
deve   essere   scrutinata   avendo   riguardo   anche  ai  parametri
costituzionali non formalmente evocati, ma desumibili in modo univoco
dall'ordinanza  di rimessione (sentenza n. 69 del 1999), qualora tale
atto  faccia ad essi chiaro riferimento, sia pure implicito (sentenze
n. 26 del 2003; n. 99 del 1997), mediante il richiamo dei principi da
questi enunciati.
   Nella  specie,  sebbene  il  giudice  a  quo  abbia  espressamente
indicato quali parametri costituzionali soltanto gli artt. 101, 102 e
104  Cost.,  ha  censurato  il  citato  art.  17,  comma  1, anche in
riferimento all'art. 3 Cost., tenuto conto che dal tenore complessivo
dell'ordinanza  di  rimessione  risulta palese il riferimento a detta
norma,  operato mediante il richiamo dei principi di ragionevolezza e
di tutela dell'affidamento.
   3. - Nel merito, la questione non e' fondata.
   4.  -  I dubbi di legittimita' costituzionale sono stati sollevati
dal  rimettente  muovendo dalla considerazione che la norma censurata
non  avrebbe  carattere  interpretativo  e,  appunto  per  questo, si
porrebbe in contrasto con i parametri costituzionali sopra indicati.
   Ai  fini  del presente giudizio occorre quindi stabilire anzitutto
la natura della norma.
   La disposizione, come questa Corte ha affermato, e' interpretativa
qualora,  esistendo  una  oggettiva  incertezza  del  dato  normativo
(ordinanza  n. 400  del  2007)  ed  un  obiettivo  dubbio ermeneutico
(sentenza  n. 29  del  2002),  sia diretta a chiarire il contenuto di
preesistenti  norme,  ovvero  ad  escludere  o  ad  enucleare uno dei
significati tra quelli plausibilmente ascrivibili a queste.
   Tuttavia,  il  legislatore  puo'  emanare  norme  che precisino il
significato  di  preesistenti disposizioni anche se non siano insorti
contrasti  giurisprudenziali  (sentenza  n. 123  del  1988; ordinanza
n. 480  del  1992), ma sussista comunque una situazione di incertezza
nella  loro  applicazione (sentenze n. 291 del 2003; n. 374 del 2002;
n. 525  del  2000), essendo sufficiente che la scelta imposta rientri
tra  le  possibili  varianti  di  senso  del testo interpretato e sia
compatibile con la sua formulazione (sentenze n. 409 del 2005; n. 168
del  2004;  n. 292  del 2000), fermo restando che non spetta a questa
Corte esprimere valutazioni sulla fondatezza delle differenti esegesi
(sentenza n. 229 del 1999).
   5. -  Nel caso in esame, una delle disposizioni interpretate dalla
norma censurata che assumono rilievo, l'art. 26, primo comma, lettera
c),  del d.lgs. C.p.S. n. 1577 del 1947, stabilisce che, agli effetti
tributari,  la  sussistenza  dei  requisiti  mutualistici  si presume
quando  negli  statuti  delle  cooperative sono contenute le clausole
che,  tra l'altro, prevedono, in caso di scioglimento della societa',
l'obbligo di devolvere l'intero patrimonio sociale - dedotto soltanto
il  capitale  versato e i dividendi eventualmente maturati - «a scopi
di pubblica utilita' conformi allo spirito mutualistico».
   Successivamente,   l'art.   11  della  legge  n. 59  del  1992  ha
specificato il contenuto di detto obbligo, individuando i beneficiari
del  medesimo  nei fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo
della  cooperazione  (comma 5) e sanzionando la sua violazione con la
decadenza  sia  dai  benefici fiscali, sia da quelli di «altra natura
concessi ai sensi della normativa vigente» (comma 10).
   La finalita' di dette norme e' stata concordemente identificata in
quella   di   garantire   che   i  benefici  conseguiti  grazie  alle
agevolazioni previste per incentivare lo scopo mutualistico non siano
destinati allo svolgimento di un'attivita' priva di tale carattere e,
comunque, non siano fatti propri da coloro che ne hanno fruito.
   L'interpretazione  di  dette  disposizioni,  in  particolare della
seconda,   non   e'  stata  invece  univoca  in  ordine  alla  natura
dell'obbligo   dalle   stesse  previsto;  ad  un  orientamento  della
giurisprudenza  e  della  dottrina,  secondo  il quale all'obbligo di
devoluzione corrispondeva il diritto dei citati fondi mutualistici di
vedersi   attribuire   il  patrimonio  residuo  di  liquidazione,  si
contrapponeva, infatti, un diverso indirizzo, che riteneva desumibile
dalle norme la prescrizione di un onere avente rilievo esclusivamente
sotto il profilo fiscale.
   5.1. -   Un'altra   questione   controversa   aveva   ad   oggetto
l'interpretazione   del  divieto  di  trasformazione  delle  societa'
cooperative  in  societa'  ordinarie (art. 14 della legge 17 febbraio
1971,  n. 127,  recante  «Modifiche  al  decreto legislativo del Capo
provvisorio  dello  Stato  14  dicembre 1947, n. 1577, modificato con
legge   18   maggio   1949,   n. 285,   e  ratificato  con  ulteriori
modificazioni   dalla   legge  2  aprile  1951,  n. 302,  concernente
provvedimenti  per  la cooperazione»), e l'identificazione dei limiti
di questa modificazione dell'atto costitutivo.
   Secondo  un  orientamento, il divieto non era, infatti, riferibile
alla  trasformazione in enti diversi dalle societa' lucrative; questa
esegesi non era condivisa da un differente indirizzo, il quale aveva,
invece,   negato   l'ammissibilita'   di   detta  trasformazione,  ma
soprattutto  valorizzando  i profili della incompatibilita' causale e
di scopo, nonche' la diversita' della natura degli enti e del tipo di
rapporto associativo.
   Un  importante  argomento  per  la risoluzione della questione era
stato  apportato  dalla Corte di cassazione, che aveva individuato la
ratio   del  divieto  dell'art.  14  della  legge  n. 127  del  1971,
nell'esigenza di «prevenire possibili forme fraudolente di accesso ai
benefici previsti per l'esercizio di attivita' mutualistiche da parte
di  chi,  dopo  averli  conseguiti, voglia destinarli ad un'attivita'
lucrativa»  (sentenza  14  luglio  1997, n. 6349). Siffatta finalita'
poneva in luce la relazione esistente tra tale divieto - giustificato
da  ragioni  diverse  da  quelle di ordine concettuale, inerenti alla
natura   e  struttura  degli  enti  -  e  l'obbligo  di  devoluzione,
permettendo  di  ritenerlo  operante  in  tutti  i  casi nei quali la
modificazione  dell'atto  costitutivo  ne  comportava l'elusione e di
escluderne,  invece,  la violazione, qualora detto obbligo risultasse
comunque osservato.
   In tal senso, sostanzialmente, si era orientato anche il Consiglio
di  Stato  che, proprio nell'affrontare la questione dei limiti della
trasformazione  della  societa'  cooperativa, aveva appunto affermato
che,  «ove  siano  rispettate  le  disposizioni sostanziali di cui al
citato  articolo 11, comma 5, della legge n. 59 del 1992, la societa'
cooperativa puo' senz'altro trasformarsi in associazione riconosciuta
o  fondazione  senza  passare  attraverso  la fase della liquidazione
effettiva» (parere della sezione I, 31 luglio 1996, n. 1443/96).
   Una  parte  della giurisprudenza di merito e della dottrina aveva,
quindi,  valorizzato proprio la finalita' del suindicato divieto, per
ritenere  consentita  la trasformazione della societa' cooperativa in
enti  diversi  dalle  societa',  purche'  non  avesse  comportato  la
violazione   dell'obbligo  di  devoluzione.  In  tal  modo,  mediante
l'interpretazione  logico-sistematica  e  tenendo  conto  della ratio
dell'art.  11,  comma 5, della legge n. 59 del 1992, la modificazione
dell'atto  costitutivo  era  ammissibile,  secondo  un  orientamento,
qualora   risultasse   soddisfatta   la   finalita'  dell'obbligo  di
devoluzione,  che  quindi  assumeva  contenuto  piu'  ampio di quello
desumibile dalla mera lettera delle norme in esame.
   5.2. -  Siffatte  questioni si erano poste anche in relazione alla
fattispecie della fusione cosiddetta eterogenea.
   Una  parte  della dottrina e della giurisprudenza di merito, anche
anteriormente  alla  riforma  delle  norme  del  codice  civile sulle
societa' (decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, recante «Riforma
organica  della  disciplina  delle  societa'  di  capitali e societa'
cooperative,  in  attuazione  della  legge  3 ottobre 2001, n. 366»),
configurava   la   fusione   quale   mera   modificazione   dell'atto
costitutivo,  non riconducibile alla successione a titolo universale.
Secondo questa concezione, la fusione - nel caso di enti aventi causa
diversa,  ovvero  differenti  schemi  organizzativi  -  implicava  la
trasformazione  della  societa'  in vista della compenetrazione degli
atti   costitutivi  e,  conseguentemente,  l'obbligo  di  devoluzione
avrebbe  potuto essere ritenuto sussistente alla luce della ratio del
divieto  sopra  richiamato, sebbene non comportasse la liquidazione e
l'estinzione della societa' incorporata.
   A  conclusioni non dissimili poteva pervenirsi anche aderendo alla
tesi   -  prevalente  nella  giurisprudenza  di  legittimita'  -  che
enfatizzava  l'effetto  estintivo  della  fusione, ritenendo che essa
desse   luogo   ad   una  successione  a  titolo  universale.  Questa
configurazione   era,   infatti,   compatibile   con   l'affermazione
dell'obbligo  di devoluzione, quale enucleabile alla luce della ratio
della  norma  e  delle  finalita' sopra richiamate, ferma restando la
diversita' tra le fattispecie della liquidazione e dello scioglimento
della  societa'  e quella dell'estinzione della medesima, conseguente
appunto alla fusione.
   Analoghe   considerazioni   potevano   essere   svolte   anche  in
riferimento  alla  fattispecie  oggetto  del  giudizio principale. Il
decreto  legislativo  1°  settembre  1993,  n. 385 (Testo unico delle
leggi  in materia bancaria e creditizia), benche' avesse disciplinato
la   fusione   eterogenea   delle   banche  di  credito  cooperativo,
modificando  anche  l'art.  21 della legge n. 59 del 1992, non aveva,
infatti, introdotto innovazioni in ordine all'applicabilita' a queste
dell'obbligo   di  devoluzione  (non  implausibilmente  ritenuta  dal
rimettente),  mantenendo ferma la diversita' di disciplina rispetto a
quella stabilita per le banche popolari (art. 21, commi 3 ed 8, della
legge  n. 59  del  1992).  Cio'  era  in  armonia  con  la  complessa
evoluzione  della normativa di settore, caratterizzata dalla distinta
regolamentazione  di dette banche da parte del legislatore ordinario,
in  considerazione  della  configurabilita'  delle banche cooperative
come categoria autonoma ed a se' stante.
   L'inesistenza di ogni interferenza tra autorizzazione alla fusione
(art.  36  del  d.lgs. n. 385 del 1993) ed obbligo di devoluzione e',
peraltro,    confortata,   sul   piano   storico-sistematico,   dalla
circostanza  che,  anche  a  seguito delle innovazioni introdotte nel
testo  unico  delle  leggi  in  materia  bancaria  e creditizia, rese
necessarie  dalle  modifiche  delle  norme  del  codice  civile sulle
societa',  e' stato espressamente mantenuto fermo detto obbligo (art.
150-bis,  comma  5,  del  d.lgs. n. 385 del 1993), con una previsione
anteriormente  gia'  desumibile  dalle  norme  di detto testo unico e
della legge n. 59 del 1992.
   Infine,  il  riferimento  alla  nozione  di «patrimonio effettivo»
contenuto   nella   norma   censurata   puo'   essere   ritenuto  una
precisazione,  conseguente  alla  necessita'  di  operare nel caso di
fusione  una  valutazione  anche della parte dinamica del patrimonio.
Tale   precisazione   era,   tuttavia,   rilevabile   gia'   in   via
interpretativa,   una   volta   ritenuto   applicabile  l'obbligo  di
devoluzione  anche  nel caso in cui la societa' non si estingueva, ma
continuava ad esistere come soggetto diverso da quello che fruiva dei
benefici delle mutualita'.
   5.3. - In questo dibattito, agli inizi dello stesso anno nel quale
e'   stata  promulgata  la  norma  censurata,  erano  intervenuti  il
Ministero  del  lavoro  e  della  previdenza sociale (12 aprile 2000,
«Risposta   a   quesito   scritto  dalla  Confederazione  Cooperative
italiane»)  ed  il  Ministero  delle  finanze (Agenzia delle entrate,
circolare  30  ottobre  2000,  n. 195/E), offrendo un'interpretazione
ampia del contenuto dell'obbligo di devoluzione, comprensiva di tutti
i  casi  nei  quali  sussisteva  l'esigenza  di  evitare che benefici
conseguiti    grazie    alle   agevolazioni   stabilite   in   favore
dell'attivita'  mutualistica fossero eterodestinati rispetto a questo
scopo.   Pertanto,   risultava   incrementata  quella  situazione  di
incertezza  che - come affermato da questa Corte in riferimento ad un
caso, sotto certi profili, omologo a quello in esame (sentenze n. 291
del   2003;  n. 374  del  2002)  -  costituisce  il  presupposto  per
l'emanazione di norme interpretative.
   6.  -  Di  questi  dibattiti, delle questioni sopra sintetizzate e
della plausibilita' delle divergenti interpretazioni offerte di parti
delle  disposizioni  sopra  richiamate,  costituisce testimonianza la
molteplicita'  di  orientamenti espressi dalla giurisprudenza e dalla
dottrina,  anche  in  ordine  alla questione della natura della norma
censurata, cosi' da rendere chiara la complessita' dell'esegesi delle
norme.
   Pertanto,  risulta  palese  che  l'art.  17,  comma 1, della legge
n. 388  del  2000  e' intervenuto in una situazione di incertezza del
dato  normativo  e  che  i  criteri  legali  di ermeneutica rendevano
possibile  desumere  dalle  disposizioni  interpretate la variante di
senso  che  il legislatore ha inteso privilegiare, senza incidere ne'
su  orientamenti a tal punto consolidati da far ritenere implausibile
la soluzione accolta, ne' su sentenze passate in cosa giudicata.
   Il  carattere interpretativo della disposizione censurata comporta
che   essa  si  e'  saldata  «a  norme  precedenti  intervenendo  sul
significato  normativo  di queste, dunque lasciandone intatto il dato
testuale  ed  imponendo una delle possibili opzioni ermeneutiche gia'
ricomprese  nell'ambito  semantico  della legge interpretata» (tra le
molte, sentenze n. 425 del 2000; n. 397 del 1994), in modo che il suo
sopravvenire  non  ha  fatto  venire  meno  le norme interpretate, in
quanto  le disposizioni si sono congiunte, dando luogo ad un precetto
unitario (sentenze n. 311 del 1995; n. 94 del 1995; n. 397 del 1994).
   Siffatta  configurazione  conduce  ad escludere che il citato art.
17, comma 1, sia sostanzialmente innovativo, con effetti retroattivi,
ed   assume   importanza   sotto   il   profilo   del   controllo  di
ragionevolezza,   in   relazione  al  quale  rileva  la  funzione  di
interpretazione   autentica  che  una  disposizione  sia  in  ipotesi
chiamata  a  svolgere,  in  deroga  al principio per cui la legge non
dispone  che  per  l'avvenire  (sentenze  n. 234 del 2007; n. 374 del
2002).
   La  circostanza  che la norma censurata, in quanto interpretativa,
si  e'  limitata  ad  assegnare  alle  disposizioni  interpretate  un
significato in esse gia' contenuto, riconoscibile come una delle loro
possibili   varianti   di  senso,  influisce,  quindi,  sul  positivo
apprezzamento sia della sua ragionevolezza (sentenza n. 234 del 2007;
n. 274  del 2006; n. 135 del 2006; n. 409 del 2005; n. 291 del 2003),
sia  della  non  configurabilita' di una lesione dell'affidamento dei
destinatari  (sentenza  n. 229 del 1999; si veda anche sentenza n. 26
del   2003).   Questo   affidamento  deve  reputarsi,  evidentemente,
attenuato,  e  comunque  non  vulnerato,  perche' il testo originario
rendeva  plausibile  una  lettura diversa da quella che i destinatari
stessi avevano ritenuto di privilegiare.
   L'art.  17,  comma  1,  della legge n. 388 del 2000, avendo natura
interpretativa,  ha  dunque  operato  sul  piano  delle  fonti, senza
toccare  la potesta' di giudicare, poiche' si e' limitato a precisare
la regola astratta ed il modello di decisione cui l'esercizio di tale
potesta'  deve  attenersi  (ex  plurimis,  sentenze  n. 274 del 2006;
n. 282  del  2005;  n. 15  del  2005;  ordinanza  n. 240  del  2007),
definendo  e  delimitando  la  fattispecie  normativa  oggetto  della
medesima.   Pertanto,   la   norma  censurata  non  ha  vulnerato  le
attribuzioni  del  potere  giudiziario  e  la  sua formulazione rende
chiaro   che   neppure  ha  violato  l'intangibilita'  del  giudicato
(sentenze  n. 234  del  2007;  n. 282  del  2005),  mentre,  anche in
considerazione  delle  interpretazioni  rese  plausibili dalle norme,
difetta  ogni  elemento  per potere desumere che sia stata diretta ad
incidere  sui  giudizi in corso, per determinarne gli esiti (sentenze
n. 15 del 1995; n. 397 del 1994).