IL GIUDICE DI PACE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa promossa, ex artt. 22 e ss della legge 24 novembre 1981, n. 689, da Pubblimil S.r.l., in persona del suo amministratore unico e legale rappresentante, sig. Luca Tagliabue, con sede in Segrate, elettivamente domiciliata in Milano, corso Plebisciti n. 1, presso lo studio degli avvocati Antonio e Annamaria Spadetta, che la rappresentano e difendono, giusta procura speciale, contro Comune di Milano, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso giusta procura speciale dalla dott.ssa Emanuela Durante ed elettivamente domiciliato in Milano, largo De Benedetti n. 1, negli uffici del settore pubblicita' e servizi ambientali. F a t t o La Pubblimil S.r.l., tra il 13 luglio 2006 e il 13 ottobre 2006, proponeva ventitre' ricorsi contro altrettante ordinanze ingiunzioni - notificatele due in data 15 giugno 2006, quattro in data 18 luglio 2006 e diciassette in data 29 agosto 2006 - con le quali il Comune di Milano, per sanzioni amministrative concernenti esposizione abusiva di mezzi pubblicitari perche' non preceduta dalla necessaria autorizzazione (Regolamento comunale pubblicita' art. 6), le ingiungeva il pagamento rispettivamente di Euro 3.733,85, di Euro 2.907,85 e di Euro 1.667,85 con tre delle anzidette ordinanze e di Euro 815,85 con ciascuna delle altre venti ordinanze. La corrente, richiamandosi ad una lunga prassi che dimostrerebbe, quanto meno, la sua buona fede, chiedeva l'annullamento delle anzidette ordinanze ingiunzioni con la condanna di chi di dovere alle spese di lite o, in subordine e salvo gravame, la riduzione al minimo edittale, pari a Euro 206,00, della sanzione irrogata con e per ciascuna delle ordinanze impugnate, con la compensazione delle spese processuali. L'amministrazione opposta (Comune di Milano) resisteva ai ricorsi chiedendone il rigetto. Questo giudice, trattandosi di cause soggettivamente ed oggettivamente connesse, ne disponeva ex art. 274, comma primo, cod. proc. civ., la riunione in un unico procedimento per farle oggetto di un'unica decisione. Le parti precisavano le rispettive conclusioni all'udienza del 24 aprile 2007 al termine della quale il giudice - ex art. 23, legge n. 689/1981 - concedeva breve termine per il deposito di note difensive rinviando per la discussione all'udienza del 7 maggio 2007. Entrambe le parti presentavano note difensive. D i r i t t o Questo giudice, per le considerazioni che seguono, ritiene che la decisione della presente causa debba essere preceduta dalla soluzione di una questione di legittimita' costituzionale concernente l'indipendenza, l'obiettivita' e l'imparzialita' del giudice. Non manifesta infondatezza I giudici, tutti i giudici, in base ad un fondamentale principio comunemente condiviso, debbono non solo essere ma anche apparire indipendenti, obiettivi ed imparziali. Ma possono essere (o apparire) indipendenti, obiettivi ed imparziali i giudici il cui trattamento economico (e in particolare l'ammontare dei loro compensi) dipende (o puo' dipendere) in larga misura dalle «scelte» processuali, peraltro, pienamente legittime, di una delle parti in causa? E' una domanda retorica alla quale, a parere di chi scrive, nessuno, per onesta' intellettuale, potrebbe dare una risposta positiva. Eppure una norma giuridica concernente i giudici di pace consente ad una delle parti di «determinare», sia pure in modo indiretto e quasi recondito, il trattamento economico (e quindi l'ammontare dei compensi) del giudice. L'art. 11, comma 2, della legge n. 374/1991 prevede che al giudice di pace venga corrisposto il compenso «di Euro 56,81 per ogni (altro) processo assegnato e comunque definito o cancellato dal ruolo». Quindi il giudice di pace, in base alla citata disposizione, e' un giudice retribuito prevalentemente a cottimo. La retribuzione a cottimo indubbiamente ha il pregio, ma al tempo stesso il difetto (di gran lunga piu' rilevante dello stesso pregio), di far sorgere nel giudice un interesse personale (incompatibile con la finzione giurisdizionale) a decidere e a decidere nel minor tempo possibile il maggior numero di cause. I compensi del giudice di pace dipendono dai processi il cui numero, pero', almeno in alcuni casi, viene determinato peraltro legittimamente dallo stesso attore (o dallo stesso ricorrente). Non di rado davanti al giudice di pace il ricorrente impugna piu' atti concernenti sanzioni amministrative avente lo stesso oggetto (qualche volta anche dieci, cento o mille atti!). Per impugnarli, a sua insindacabile scelta, puo' presentare tanti ricorsi (tanti quanti sono gli atti impugnati) oppure un solo ricorso (c.d. ricorso cumulativo). La Corte di cassazione, infatti, ha ritenuto ammissibile il ricorso cumulativo sia nel processo civile sia nel processo tributario. (Sez V, sent. n. 7359/02, sent. n. 19666/2004). Dalla scelta del ricorrente, pero', in base alla citata disposizione dipendono i compensi del giudice il quale non puo' non essere (o non apparire) positivamente o negativamente «condizionato» a seconda del vantaggio che riceve o che non riceve, anche se non puo' escludersi che qualche singolo giudice, per non apparire «condizionato», possa emettere sentenza di rigetto per chi presenta tanti ricorsi e di accoglimento per chi presenta un solo ricorso «c.d. cumulativo». In entrambi i casi, pero', la sentenza e' «viziata» perche' il giudice non e' obiettivo. La «scelta del ricorrente» puo' assumere (ed ha assunto) dimensioni clamorose e abnormi. Recentemente una societa' che opera nel settore della locazione finanziaria ha presentato ad una stessa commissione tributaria provinciale, davanti alla quale vige una disposizione analoga a quella prevista per i giudici di pace (art. 13, decreto legislativo n. 545/1992), millenovantacinque (1.095) ricorsi, sostanzialmente identici, contro altrettanti avvisi di accertamento concernenti tasse automobilistiche. E situazioni analoghe (forse anche peggiori) si sono verificate o comunque possono verificarsi anche davanti ai giudici di pace. Nel caso all'esame di questo giudice la ricorrente non ha proposto mille ricorsi ma soltanto ventitre' ricorsi, tanti quante sono le ordinanze ingiunzioni impugnate. La ricorrente ha presentato molti ricorsi ma ne avrebbe potuto presentare, legittimamente, anche uno o due soltanto. La questione di principio, pero', ha la stessa rilevanza indipendentemente dal numero dei ricorsi presentati (dieci o cento o mille). Questo giudice, «grazie» alla scelta della ricorrente, dovrebbe ricevere dallo Stato un compenso di molto superiore a quello che avrebbe percepito in caso di un solo ricorso o di due ricorsi. L'immagine del giudice, pur senza alcuna sua colpa, e a prescindere dalle «intenzioni» della ricorrente, pero' puo' risultarne «compromessa» perche' un giudice, un qualsiasi giudice, che riceve un «vantaggio», anche se indirettamente, da una delle parti non puo' essere (o apparire) obiettivo ed imparziale. La Corte costituzionale, in una sua non recente sentenza, dalla quale non si e' mai discostata, ha affermato che «Va escluso nel giudice qualsiasi anche indiretto interesse alla causa da decidere, e deve esigersi che la legge garantisca l'assenza di qualsiasi aspettativa di vantaggi, come di timori di alcun pregiudizio, preordinando gli strumenti atti a tutelare l'obiettivita' della decisione» (Sent. n. 60/1969) Quindi i giudici non possono e non debbono avere interessi economici, neppure indiretti, connessi in qualche modo con la causa da decidere. L'indipendenza e l'imparzialita' del giudice - sempre ritenute essenziali per la funzione giurisdizionale - con la legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, sono state espressamente e solennemente affermate (o riaffermate). Una disposizione introdotta dalla citata legge stabilisce, infatti, che «Ogni processo si svolge (deve svolgersi)..., davanti a giudice terzo e imparziale» (art. 111, secondo comma, della Costituzione). La citata norma (art. 11, comma 2, della legge n. 374/1991) nella parte in cui prevede per il giudice di pace il compenso «di Euro 56,81 per ogni altro processo assegnato e comunque definito o cancellato dal ruolo», a parere di questo giudice, e' quanto meno di dubbia legittimita' in relazione ad alcuni principi costituzionali (art. 3, ragionevolezza; art. 111, comma 2, terzieta' ed imparzialita' del giudice; art. 97, comma 1, «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialita' dell'amministrazione»). Questo giudice ha la sofferta consapevolezza - e ritiene opportuno evidenziarlo - che la eventuale dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'anzidetta norma (art. 11, comma 2, legge n. 374/1991) nuocerebbe al suo personale interesse (e nuocerebbe a tutti i giudici di pace) perche' gli farebbe perdere il compenso di Euro 56,81. per ogni processo definito. Nel caso di specie, per questa sola causa, «perderebbe» la somma di Euro 1.306,63. Tuttavia anche se la «conservazione» della citata norma puo' «giovare» ad alcuni (compreso allo scrivente), a questo giudice la relativa questione di legittimita' costituzionale appare «non manifestamente infondata». Rilevanza Inoltre trattasi di questione «rilevante» ai fini della definizione del presente giudizio, al pari di tutte le questioni concernenti la composizione dell'organo giudicante, perche' la norma di cui all'art. 11, secondo comma, della legge 21 novembre 1991, n. 374, nuoce all'obiettivita' della decisione (e all'indipendenza e all'immagine del giudice). Questo giudice non ignora che, ad una prima superficiale lettura, la disposizione denunciata potrebbe sembrare non incidere in modo diretto ed immediato sul rapporto de quo e che, conseguentemente, la relativa questione potrebbe essere ritenuta «irrilevante» e quindi inammissibile. Tuttavia e' fiducioso sull'approfondita valutazione e sulle conclusioni della Corte costituzionale. Infatti ad un giudizio di «rilevanza», non si potrebbe non pervenire se questo giudice affermasse esplicitamente che la norma denunziata influenza (o puo' influenzare) negativamente la sua decisione. Se lo facesse nessuno potrebbe smentirlo e conseguentemente la relativa questione (peraltro in assenza della possibilita' del giudice di astenersi non ricorrendo, secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza, le «gravi ragioni di convenienza» di cui all'art. 51, comma 2, cod. proc. civ.), dovrebbe essere ritenuta «rilevante». Questo giudice, pero', pur non affermando (ma potrebbe farlo una delle parti in causa...!) ne' escludendo che la norma denunziata influenza la sua decisione, ritiene doveroso evidenziare che la sua sentenza, con la vigente normativa, sara' e apparira' «viziata», quanto meno, dal sospetto di un suo condizionamento economico e/o psicologico, con conseguente danno anche per la parte che dovesse essere vittoriosa ma soprattutto per la credibilita' della giustizia. Ad un giudizio di ammissibilita', inoltre, dovrebbe pervenirsi anche considerando la questione sotto il profilo dell'indipendenza dell'Organo giudicante in relazione al suo trattamento economico. A meno che non si voglia ritenere ancora valida ed attuale l'affermazione, implicita ma sufficientemente chiara, della Corte costituzionale secondo la quale il trattamento economico incide o puo' incidere sulla indipendenza del giudice, ma soltanto del giudice «professionale» e non anche del giudice «onorario» (ved. Corte cost. ordinanza n. 594 del 1989). Trattasi di un convincimento, a parere di questo giudice, anacronistico innanzitutto perche' espresso molti anni fa, ancor prima dell'istituzione dei giudici di pace (legge 24 novembre 1991, n. 374), ma anche perche' non rispondente alla realta' dei giudici di pace, i quali, quasi tutti, svolgono «a tempo pieno» (e quindi professionalmente) funzioni giurisdizionali e molti di loro non hanno altri redditi oltre a quelli connessi con le anzidette funzioni. Inoltre anche formalmente i giudici di pace, almeno per quanto riguarda i doveri, ma soltanto i doveri, sono equiparati ai magistrati ordinari (rectius professionali odi carriera). L'art. 10 della legge n. 374 del 1991, (recentemente modificato), infatti, con una disposizione forse difficile da comprendere, stabilisce che «Il giudice di pace e' tenuto all'osservanza dei doveri previsti per i magistrati ordinari». A completamento delle anzidette considerazioni appare opportuno ricordare l'allarme lanciato qualche anno fa (25 ottobre 2005) da alcuni membri del Consiglio superiore della magistratura - aderenti al Movimento per la Giustizia - che in relazione al sistema retributivo dei giudici di pace hanno scritto: «Gli effetti anomali del sistema di retribuzione (prevalentemente «a cottimo») dei giudici di pace costituiscono costante e prevalente causale dei rilevi deontologici che interessano i magistrati onorari di cui il plenum e' giudice disciplinare. Nonostante il limite previsto di recente per le indennita' dei giudici di pace (72.000 euro annui), continuano a pervenire segnalazioni di condotte finalizzate ad incrementare l'utile economico attraverso autentiche distorsioni della giurisdizione. Si tratta di condotte che... imporrebbero una seria revisione normativa delle modalita' di compenso delle attivita' della magistratura di pace». Questo giudice, pertanto, auspica che la Corte, in base a queste nuove argomentazioni, voglia giungere ad una diversa considerazione dei giudici onorari ed, in particolare dei giudici di pace, e del loro trattamento economico. Il suggerimento o l'esortazione della Corte costituzionale per la quale «deve esigersi che la legge garantisca l'assenza (nel giudice) di qualsiasi aspettativa di vantaggi, come di timori di alcun pregiudizio, preordinando gli strumenti atti a tutelare l'obiettivita' della decisione» (Sent. n. 60/1969), anche a prescindere da tutte le altre considerazioni esposte, convincono ed inducono lo scrivente a sollecitare una pronuncia atta a tutelare l'obiettivita' della decisione anche della presente causa.