Sentenza 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 503, commi 5  e
6,  del  codice  di  procedura  penale,  promosso  dal  Tribunale  di
Siracusa, sezione distaccata di Augusta, nel  procedimento  penale  a
carico di M.A.J.F.F. e L.N.S.,  con  ordinanza  del  13  marzo  2007,
iscritta al n. 857 del registro ordinanze  2007  e  pubblicata  nella
Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  5, 1ª   serie   speciale,
dell'anno 2008; 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella Camera di consiglio del 22  aprile  2009  il  giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
                          Ritenuto in fatto 
    1. - Con ordinanza depositata il 13 marzo 2007, il  Tribunale  di
Siracusa, sezione distaccata di Augusta, ha sollevato, in riferimento
agli  artt.  24,  secondo  comma,  e   111,   quarto   comma,   della
Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale: 
        a) dell'art. 503, comma 5, del codice procedura penale, nella
parte in  cui  non  prevede  che  «le  dichiarazioni  alle  quali  il
difensore aveva diritto di assistere assunte dal pubblico ministero o
dalla  polizia  giudiziaria  su  delega  del   pubblico   ministero»,
impiegate per le contestazioni all'imputato nel corso  dell'esame  ai
sensi  del  comma  3  del  medesimo  articolo,  «non  possono  essere
utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso,  salvo  che
ricorrano i presupposti di cui all'art.  500,  comma  4,  cod.  proc.
pen.»; 
        b) dell'art. 503, comma 6, cod. proc. pen.,  nella  parte  in
cui non prevede che «le dichiarazioni, rese a  norma  degli  articoli
294, 299,  comma  3-ter,  391  e  422  cod.  proc.  pen.»,  parimenti
impiegate per le contestazioni  all'imputato  nel  corso  dell'esame,
«non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza  il  loro
consenso, salvo che ricorrano i  presupposti  di  cui  all'art.  500,
comma 4, cod. proc. pen.». 
    Il giudice a quo premette che,  durante  il  dibattimento  in  un
processo nei confronti di M.A.J.F.F. e L.N.S., imputati  del  delitto
di cui agli artt. 110 del codice penale  e  12,  commi  1  e  3,  del
decreto legislativo  25  luglio  1998,  n.  286  (Testo  unico  delle
disposizioni concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme
sulla condizione dello straniero), l'imputato  M.A.J.F.F.,  esaminato
nell'udienza del 5 luglio 2005 e, con l'assistenza di un  interprete,
nell'udienza del 30 giugno  2006,  aveva  negato  la  responsabilita'
propria e del coimputato, dando una versione  dei  fatti  diversa  da
quella risultante dai verbali degli interrogatori  resi,  nella  fase
delle indagini, al pubblico ministero il 22 febbraio 2002, al giudice
per  le  indagini  preliminari  in  sede  di  udienza  di   convalida
dell'arresto il 25 febbraio 2002 e alla polizia giudiziaria, delegata
dal pubblico ministero, il 6 marzo 2002, quando aveva ammesso i fatti
contestati e indicato L.N.S. come  concorrente  nel  reato.  Aggiunge
che, nell'udienza del  5  luglio  2005,  su  richiesta  del  pubblico
ministero e con l'opposizione della difesa, detti verbali, in  quanto
utilizzati per le contestazioni, erano stati acquisiti  al  fascicolo
per il dibattimento ai sensi dell'art. 503, comma 5, cod. proc. pen. 
    Cio' premesso, il rimettente osserva  -  in  punto  di  rilevanza
delle questioni - che, in  base  ad  un  asserito  «diritto  vivente,
espresso dalla giurisprudenza  della  Corte  di  cassazione  e  dalla
stessa Corte costituzionale», le  precedenti  dichiarazioni  difformi
rese  dall'imputato  davanti  al  pubblico  ministero,  alla  polizia
giudiziaria  delegata  e  al  giudice  nella  fase   delle   indagini
preliminari e nell'udienza preliminare, in quanto utilizzate  per  le
contestazioni ed acquisite al fascicolo per il dibattimento ai  sensi
dei commi 5 e 6 dell'art. 503 cod. proc.  pen.,  assumerebbero  piena
efficacia probatoria al fine dell'accertamento dei  fatti  «non  solo
nei confronti dell'imputato che  le  ha  rese  con  la  (possibilita'
della) presenza del difensore, ma anche nei confronti dei  coimputati
il cui difensore non aveva diritto di  assistervi  e  che  non  hanno
prestato il consenso all'utilizzazione  delle  stesse»  (sono  citate
plurime sentenze della Corte di cassazione e la sentenza della  Corte
costituzionale n. 255 del 1992). 
    Di conseguenza, nel giudizio a quo, il rimettente sarebbe  tenuto
a valutare il contenuto dei verbali dianzi  indicati  anche  ai  fini
dell'affermazione  della  responsabilita'  del  coimputato,  il   cui
difensore non aveva diritto di assistere alle dichiarazioni  in  essi
documentate e che non aveva consentito alla loro utilizzazione: donde
la rilevanza delle questioni. 
    Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo  -  dopo
aver effettuato un excursus sull'evoluzione della disciplina in  tema
di formazione e  valutazione  della  prova,  avutasi  successivamente
all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale  -  rileva
come, a seguito della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, di
riforma dell'art. 111 Cost., e della legge 1° marzo 2001, n.  63,  di
attuazione  della  riforma,  la  disciplina  in  parola  risulti  ora
interamente  ispirata  al  «principio   del   contraddittorio   nella
formazione della prova, sia nella sua dimensione oggettiva sia  nella
sua dimensione soggettiva», con le sole eccezioni previste dal quinto
comma del nuovo art. 111 Cost. Ne consegue, tra l'altro,  che  norme,
quali, ad esempio, quelle degli artt. 238 e 513 cod. proc. pen.,  che
continuano a prevedere l'utilizzabilita' in dibattimento dei  verbali
contenenti precedenti  dichiarazioni  rese  dall'imputato,  hanno  un
tratto comune consistente «in cio' che o si tratta di atti  alla  cui
assunzione il difensore dell'imputato ha potuto partecipare e  allora
la prova si e' gia'  formata  nel  contraddittorio  delle  parti  (in
conformita' al precetto del quarto comma dell'art. 111 Cost.)  ovvero
l'imputato ha prestato il suo consenso all'acquisizione  dell'atto  e
allora si rende operante una delle deroghe previste dal quinto  comma
dell'art. 111 Cost.». 
    A fronte di tale quadro normativo - ad avviso del rimettente - le
disposizioni censurate dovrebbero ritenersi  lesive,  in  parte  qua,
degli artt. 24, secondo comma, e 111, quarto comma, Cost. 
    Il  primo  parametro  risulterebbe   vulnerato   in   quanto   la
possibilita'   di   utilizzare   le   dichiarazioni   difformi   rese
dall'imputato prima del dibattimento nei confronti di altri, senza il
loro consenso, violerebbe il diritto di difesa dei coimputati, i  cui
difensori  non  abbiano  potuto  partecipare   all'assunzione   delle
dichiarazioni stesse. 
    L'art. 111, quarto  comma,  Cost.  sarebbe  leso,  a  sua  volta,
essendosi la prova formata in contraddittorio solo con l'imputato  il
cui difensore aveva diritto di assistere all'atto e non con gli altri
imputati, i cui difensori erano privi di analogo  diritto.  Il  nuovo
testo dell'art. 111 Cost. avrebbe accolto,  difatti,  una  concezione
«massimalista» del contraddittorio,  alla  luce  della  quale  «prova
formata in contraddittorio» e' unicamente la dichiarazione  resa  nel
corso  dell'esame  incrociato:  mentre  sarebbe  stata  respinta   la
concezione  «minore»,  secondo  cui  deve   ritenersi   «formata   in
contraddittorio» anche la «prova  complessa»  che  si  compone  della
dichiarazione dibattimentale e del «precedente difforme»,  introdotto
mediante  la  contestazione.  La  dichiarazione  utilizzata  per   la
contestazione, difatti, e' «un mezzo che serve  al  contraddittorio»,
in quanto costringe l'esaminato a rendere conto del  mutamento  della
versione  dei  fatti,  ma  non   e',   di   per   se',   formata   in
contraddittorio: onde non potrebbe essere utilizzata come  prova  del
fatto. 
    A conferma dell'assunto, il  rimettente  ricorda  come  la  Corte
costituzionale,   nel    rigettare    questioni    di    legittimita'
costituzionale  del  regime  di  «esclusione   probatoria»   previsto
dall'art. 500 cod. proc. pen. con riferimento all'esame testimoniale,
abbia reiteratamente affermato che l'art.  111  Cost.  ha  attribuito
risalto costituzionale al principio del contraddittorio, anche «nella
prospettiva  della  impermeabilita'   del   processo,   quanto   alla
formazione della prova, rispetto al  materiale  raccolto  in  assenza
della dialettica tra le parti». Opzione,  questa,  alla  cui  stregua
deve ritenersi del tutto coerente  «la  previsione  di  istituti  che
mirino a preservare la fase del dibattimento - nella  quale  assumono
valore paradigmatico i principi dell'oralita' e del contraddittorio -
da contaminazioni probatorie fondate su atti unilateralmente raccolti
nel corso delle indagini preliminari» (vengono citate le ordinanze n.
396, n. 365 e n. 36 del 2002). 
    2.  -  E'  intervenuto  nel  giudizio  di  costituzionalita'   il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, il  quale  ha  chiesto  che  le
questioni siano dichiarate inammissibili o infondate. 
    La difesa erariale eccepisce, in via preliminare, l'insufficienza
della motivazione sulla rilevanza, avendo  il  rimettente  omesso  di
descrivere con completezza la fattispecie sottoposta al suo  esame  e
avendo esposto le questioni di  costituzionalita'  senza  sufficienti
riferimenti  ai  fatti  di  causa,  in  particolare  senza   chiarire
«l'incidenza delle dichiarazioni rese dal M. nell'ambito  dell'intero
quadro probatorio». 
    Sotto   altro   profilo,   le   questioni   andrebbero   ritenute
inammissibili in quanto nell'ordinanza di rimessione non  si  precisa
se, in occasione degli interrogatori acquisiti al  fascicolo  per  il
dibattimento, sia stato osservato il disposto dell'art. 64,  comma  1
[recte:  3],  lettera  c),  cod.  proc.  pen.,  in  forza  del  quale
l'imputato deve essere  preventivamente  avvisato  della  circostanza
che, se rendera'  dichiarazioni  concernenti  la  responsabilita'  di
altri, in ordine  a  tali  dichiarazioni  assumera'  la  qualita'  di
testimone, salve le garanzie dell'art. 197-bis cod. proc. pen.  Detta
omissione impedirebbe, infatti, di  individuare  l'«esatto  parametro
normativo»  alla  stregua  del  quale   condurre   il   giudizio   di
costituzionalita'. 
    Nel merito, le questioni sarebbero comunque infondate. 
    I dubbi di costituzionalita' del rimettente risulterebbero  privi
di consistenza proprio alla luce della disciplina dettata del  citato
art. 64 cod. proc. pen., che prevede, al comma 2, l'inutilizzabilita'
assoluta delle dichiarazioni nei confronti dei chiamati in  reita'  o
correita', qualora l'avviso  sopra  ricordato  non  sia  stato  dato;
mentre - nel caso contrario di effettuazione dell'avviso - avendo  il
soggetto assunto la  posizione  di  testimone  con  riferimento  alle
dichiarazioni concernenti  altri,  trovera'  applicazione  il  regime
delle contestazioni previsto per l'esame testimoniale  dall'art.  500
cod. proc. pen., che richiede il «contraddittorio pieno». 
    In ogni caso, il giudice a quo avrebbe omesso  di  verificare  la
praticabilita'  di  una  interpretazione   diversa   e   conforme   a
Costituzione delle norme contestate, peraltro agevolmente  ricavabile
da una lettura sistematica delle stesse:  interpretazione  alla  luce
della quale l'acquisizione al fascicolo  per  il  dibattimento  delle
dichiarazioni difformi  dell'imputato,  prevista  dai  commi  5  e  6
dell'art. 503 cod. proc. pen. - acquisizione che conferisce  a  dette
dichiarazioni il valore di prova piena - riguarderebbe unicamente  le
dichiarazioni  autoaccusatorie;   non,   invece,   le   dichiarazioni
«eteroaccusatorie»,  le  quali,  in  base  al  «principio   generale»
desumibile dall'art. 500 cod. proc. pen., potrebbero essere  valutate
ai soli fini della credibilita' del dichiarante. 
                       Considerato in diritto 
    1. - Il Tribunale di Siracusa,  sezione  distaccata  di  Augusta,
dubita della legittimita' costituzionale del comma  5  dell'art.  503
del codice di procedura penale, nella parte in cui  non  prevede  che
«le dichiarazioni alle quali il difensore aveva diritto di  assistere
assunte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria su  delega
del pubblico ministero non possono essere utilizzate nei confronti di
altri senza il loro consenso, salvo che ricorrano  i  presupposti  di
cui all'art. 500, comma 4, cod. proc. pen.». Dubita, altresi',  della
legittimita' costituzionale del comma 6 del medesimo art. 503,  nella
parte in cui non prevede che «le dichiarazioni, rese [al  giudice]  a
norma degli articoli 294, 299, comma 3-ter,  391  e  422  cod.  proc.
pen., non possono essere utilizzate nei confronti di altri  senza  il
loro consenso, salvo che ricorrano i presupposti di cui all'art. 500,
comma 4, cod. proc. pen.». 
    I quesiti di costituzionalita' non coinvolgono, dunque,  l'intera
disciplina dei commi 5  e  6  dell'art.  503  cod.  proc.  pen.,  che
prevedono l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle sopra
indicate  dichiarazioni,   ove   impiegate   per   le   contestazioni
all'imputato durante  l'esame  a  norma  del  comma  3  del  medesimo
articolo. Essi investono, di contro, unicamente lo specifico  profilo
dell'utilizzabilita' di  tali  dichiarazioni  come  prova  dei  fatti
riferiti - oltre che nei confronti dell'imputato dichiarante -  anche
nei confronti  dei  coimputati  che  non  abbiano  prestato  il  loro
consenso  e  il  cui   difensore   non   abbia   potuto   partecipare
all'assunzione delle dichiarazioni stesse; e cio',  anche  fuori  dei
casi eccezionali previsti dall'art. 500, comma 4, cod. proc. pen. con
riguardo all'esame testimoniale. 
    Ad avviso del giudice a quo, le norme impugnate violerebbero, per
tal verso, l'art. 24, secondo comma, della  Costituzione,  in  quanto
attribuirebbero piena valenza  probatoria  ad  un  atto  a  contenuto
dichiarativo nei confronti di  soggetti  rimasti  estranei  alla  sua
formazione e che quindi non erano in condizione  di  far  valere,  in
quella occasione, il proprio diritto di difesa. 
    Sarebbe leso, inoltre, il principio  del  «contraddittorio  nella
formazione della  prova»,  enunciato  dall'art.  111,  quarto  comma,
Cost., perche' si consentirebbe di utilizzare nel processo,  ai  fini
della decisione sul merito  della  res  iudicanda,  il  contenuto  di
dichiarazioni rese da uno degli imputati senza che vi  sia  stata  la
possibilita' di controesaminarlo da parte dei difensori  degli  altri
imputati: e cio', anche quando non ricorrano le fattispecie di deroga
previste dall'art. 111, quinto comma, Cost. 
    2.  -  In  via  preliminare,  vanno  disattese  le  eccezioni  di
inammissibilita' delle questioni per  difetto  di  motivazione  sulla
rilevanza, formulate dall'Avvocatura generale dello Stato sul duplice
rilievo che il giudice a quo avrebbe omesso, da un lato, di  indicare
l'incidenza sul quadro  probatorio  complessivo  degli  interrogatori
acquisiti e, dall'altro, di specificare se per tali atti fosse  stato
dato l'avviso previsto dall'art. 64, comma 3, lettera c), cod.  proc.
pen. 
    Il primo rilievo attiene, infatti, al merito della res iudicanda,
laddove  il  quesito  di   costituzionalita'   investe   il   profilo
preliminare, di ordine processuale, relativo all'utilizzabilita'  nei
confronti dei coimputati del materiale probatorio acquisito ai  sensi
dell'art. 503, commi 5 e 6,  cod.  proc.  pen.  Non  era  necessario,
quindi, che nell'ordinanza  di  rimessione  si  specificasse  se  gli
interrogatori acquisiti fossero concretamente idonei a  orientare  il
giudizio sull'imputazione, essendo questa una valutazione che attiene
al momento della decisione, quando, ai sensi dell'art. 546, comma  1,
cod. proc. pen., il giudice e' tenuto a valutare  tutti  i  risultati
probatori per affermarne o escluderne la decisivita'. 
    Quanto, poi, al secondo rilievo, la circostanza  che  il  giudice
rimettente  abbia  accertato  l'avvenuta   formulazione   dell'avviso
previsto dall'art. 64, comma 3, lettera c), cod.  proc.  pen.  e'  da
ritenere implicita nel fatto che le dichiarazioni, recate dai verbali
poi acquisiti, siano state  utilizzate,  senza  alcuna  eccezione  di
parte e senza alcun rilievo d'ufficio, per le contestazioni  previste
dal  comma  3  dell'art.  503  cod.   proc.   pen.,   necessariamente
preliminari all'acquisizione al fascicolo per il dibattimento. 
    3. - Nel merito, le questioni non sono fondate. 
    3.1. - Il giudice a quo muove dal presupposto che, in  base  alle
norme  censurate,  le   precedenti   dichiarazioni   difformi,   rese
dall'imputato prima del giudizio e utilizzate per  le  contestazioni,
assumano - una volta acquisite al fascicolo  per  il  dibattimento  -
piena efficacia probatoria senza limitazioni non solo  nei  confronti
dell'imputato che le ha rese, ma anche dei coimputati. 
    I commi 5 e 6 dell'art. 503 cod. proc. pen., recherebbero quindi,
sotto questo profilo, una disciplina  in  tema  di  formazione  della
prova affatto diversa dalla vigente  in  forza  di  altre  norme,  in
particolare quelle di cui agli artt. 238 e 513 cod. proc. pen.,  che,
ammettendo l'utilizzabilita' in dibattimento dei  verbali  contenenti
precedenti dichiarazioni rese dall'imputato, la  subordinano  o  alla
partecipazione  del  difensore   o   al   consenso   all'acquisizione
dell'atto. 
    Tale ricostruzione delle fattispecie  oggetto  di  rimessione  si
assume costituire il «diritto vivente, espresso dalla  giurisprudenza
della Corte di cassazione e dalla stessa Corte costituzionale», ma in
contrasto con i parametri costituzionali evocati. 
    Tuttavia, l'esame delle sentenze di legittimita' e costituzionali
indicate a sostegno del presupposto interpretativo fatto proprio  dal
giudice a quo consente di apprezzare che si tratta o di richiami  non
pertinenti o di decisioni emesse prima della modifica  dell'art.  111
Cost., operata dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n.  2,  e
delle conseguenti riforme al codice  di  procedura  penale  apportate
dalla legge 1° marzo 2001, n. 63. Quindi,  i  principi  affermati  in
dette decisioni non sono piu' attuali ne' conformi ai dati  normativi
di riferimento. 
    3.2. - La censura di incostituzionalita' involge  la  piu'  ampia
problematica del  «valore  probatorio»  da  attribuire  agli  atti  a
contenuto dichiarativo assunti nelle fasi precedenti il giudizio  per
attivita' unilaterale dei soggetti processuali,  in  particolare  del
pubblico ministero. 
    Il  processo  penale  e'   ora   regolato   dal   principio   del
«contraddittorio nella formazione della prova», enunciato dal  quarto
comma dell'art. 111 Cost., il  quale  comporta  che  tutte  le  parti
devono essere poste in grado di partecipare  attivamente  al  momento
genetico, e non soltanto di formulare  a  posteriori  valutazioni  su
elementi acquisiti unilateralmente. Ne discende l'impermeabilita' del
processo rispetto al materiale raccolto in assenza  della  dialettica
tra le parti. 
    Per le prove dichiarative, il contraddittorio e il suo necessario
corollario della oralita' sono ora, nel dibattimento, regola generale
- fuori delle tassative fattispecie derogatorie delineate  dal  nuovo
dettato  costituzionale  -  per  cui  gli  istituti  che   mirano   a
preservarlo   da   contaminazioni   probatorie   fondate   su    atti
unilateralmente assunti nelle fasi antecedenti devono necessariamente
essere valutati in coerenza con gli enunciati dell'art. 111 Cost. 
    La legge n. 63  del  2001,  attuativa  dei  principi  del  giusto
processo, pur  avendo  mutato  la  regola  di  utilizzabilita'  delle
dichiarazioni  servite  per   le   contestazioni   al   testimone   e
ripristinata l'esclusione probatoria contenuta nella stesura iniziale
del codice, ha lasciato inalterata la disciplina prevista dai commi 5
e 6 dell'art. 503 cod. proc. pen. 
    Derogando   al   principio   d'irrilevanza    probatoria    delle
dichiarazioni rese durante  le  indagini,  si  continua  a  prevedere
l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento, se utilizzate per le
contestazioni, delle dichiarazioni  difformi  rese  dall'imputato  in
precedenza, cui il difensore aveva diritto di assistere. 
    Peraltro e conformemente a  quanto  stabilito  da  questa  Corte,
nella nuova prospettiva indicata dall'art.111 Cost. «l'istituto delle
contestazioni - proprio perche' configurato quale veicolo tecnico  di
utilizzazione processuale di dichiarazioni raccolte  prima  e  al  di
fuori del contraddittorio - non puo' mai atteggiarsi alla stregua  di
un meccanismo di acquisizione illimitato e incondizionato  di  quelle
dichiarazioni»  (ordinanza  n.  36  del  2002;  si  veda  anche  gia'
l'ordinanza n. 440 del 2000). 
    3.3. - L'interpretazione della disciplina censurata  offerta  dal
giudice a quo non puo', quindi, essere ritenuta adeguata  all'attuale
quadro normativo. 
    In particolare, per quanto concerne  l'aspetto  che  al  presente
interessa, precise esigenze, non solo di lettura conforme al disposto
dell'art. 111, quarto comma, Cost., ma anche - e prima  ancora  -  di
coerenza  sistematica,  rispetto  alla  regolamentazione  complessiva
della materia attualmente racchiusa nel codice di rito, impongono  di
ritenere che il recupero probatorio per effetto delle  contestazioni,
prefigurato dai commi 5 e 6 dell'art. 503 cod. proc. pen., non  operi
comunque ai fini dell'affermazione della responsabilita' di  soggetti
diversi dal dichiarante. 
    Al riguardo, va rilevato, anzitutto, che le regole  generali  per
l'interrogatorio sono state modificate dalla legge n.  63  del  2001.
L'art. 64 cod. proc. pen. ora prevede che,  prima  che  abbia  inizio
l'interrogatorio,  la  persona  deve  essere  avvisata  che  le   sue
dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti  e
che,  se  rendera'  dichiarazioni  su   fatti   che   concernono   la
responsabilita'  di  altri,  assumera',  in  ordine  a  tali   fatti,
l'ufficio di  testimone.  L'avvertimento  indica  al  dichiarante  la
«sorte» che avranno nel dibattimento le  sue  dichiarazioni,  qualora
non intenda avvalersi della facolta' di non rispondere, e la norma e'
stata  ritenuta  da  questa   Corte   applicabile   anche   all'esame
dibattimentale dell'imputato, sul presupposto dell'esistenza  di  una
«consistente  serie  di  dati  sostanziali  i  quali  depongono   per
l'appartenenza dei due atti processuali - l'interrogatorio e  l'esame
- a un medesimo genus» (ordinanza n. 191 del 2003). 
    In tutti i casi, pertanto, in cui l'imputato -  dichiarante  erga
alios - non versi in situazione di  incompatibilita'  a  testimoniare
(alla stregua, in particolare, dell'art.  197-bis  cod.  proc.  pen.,
introdotto anch'esso dalla legge  n.  63  del  2001),  trova  diretta
applicazione la disciplina dettata dall'art. 500 cod. proc. pen.  per
l'esame testimoniale: disciplina a fronte della  quale  le  pregresse
dichiarazioni difformi dell'imputato  sulla  responsabilita'  altrui,
lette per la contestazione, sono utilizzabili dal  giudice  solo  per
valutare la credibilita' del dichiarante e  non  costituiscono  prova
dei fatti in esso affermati (comma 2), salvo  ricorrano  le  speciali
ipotesi previste dal comma 4. 
    Ma la conclusione non puo' essere diversa neppure quando  ricorra
una situazione di  incompatibilita'  all'assunzione  dell'ufficio  di
testimone. 
    Le regole sull'esame testimoniale, di cui al citato art. 500 cod.
proc. pen., risultano attualmente richiamate, difatti - in  luogo  di
quelle dell'art. 503 - anche dall'art. 210  cod.  proc.  pen.:  norma
questa - parimenti oggetto di profonda revisione da parte della legge
attuativa dei principi del giusto processo - che fissa i modi  con  i
quali e' possibile acquisire il contributo probatorio  delle  persone
imputate in un procedimento connesso o di  un  reato  collegato,  che
siano incompatibili come testimoni (quale, tra gli altri,  l'imputato
di concorso nel medesimo reato,  nei  cui  confronti  non  sia  stata
pronunciata sentenza irrevocabile: ipotesi ricorrente nel giudizio  a
quo). 
    Dall'anzidetto rinvio si desume,  dunque,  che  le  dichiarazioni
contra alios rese da uno di detti imputati nelle  fasi  anteriori  al
giudizio, ancorche' acquisite al fascicolo del dibattimento a seguito
di contestazione, hanno la stessa limitata valenza  probatoria  delle
precedenti dichiarazioni difformi  utilizzate  per  le  contestazioni
nell'esame testimoniale. 
    Questa Corte ha d'altro canto stabilito, fin  dalla  sentenza  n.
361 del 1998, che le disposizioni del citato art. 210 cod. proc. pen.
- riferite testualmente alla sola ipotesi nella quale  nei  confronti
della  persona  da  esaminare  si  proceda  separatamente  -  debbano
applicarsi anche all'esame del coimputato nel  medesimo  procedimento
su fatti concernenti la responsabilita' di  altri,  gia'  oggetto  di
precedenti  dichiarazioni  rese  all'autorita'  giudiziaria  o   alla
polizia giudiziaria delegata dal  pubblico  ministero.  E  questo  ad
evitare una disparita' di trattamento del  tutto  irrazionale,  posto
che «la figura del dichiarante erga  alios,  sia  esso  imputato  nel
medesimo  procedimento  o  in  separato  procedimento  connesso,   e'
sostanzialmente identica, in quanto l'esame sul  fatto  altrui  viene
condotto su un imputato che assume l'una piuttosto che l'altra  veste
per ragioni meramente processuali e occasionali». 
    Le norme censurate hanno, dunque,  all'interno  del  sistema,  un
significato diverso da quello ipotizzato  dal  rimettente,  il  quale
fonda, cosi', i quesiti di costituzionalita' su una erronea  premessa
ermeneutica. I commi 5 e 6 dell'art. 503 cod. proc. pen. - anche alla
stregua del rinvio, operato dal comma 4, all'art. 500, comma 2, dello
stesso codice - comportano  che  le  dichiarazioni  rese  nelle  fasi
anteriori al giudizio dall'imputato possono  essere  utilizzate,  per
quel che concerne la responsabilita' dei coimputati, ai soli fini  di
valutare la  credibilita'  del  dichiarante,  salvo  che  gli  stessi
coimputati prestino consenso all'utilizzazione piena ovvero ricorrano
le circostanze indicate dall'art. 500, comma 4. Il che rende coerente
la disciplina anche con quanto e' disposto dall'art.  513,  comma  1,
cod. proc.  pen.,  che  ammette  la  lettura  in  dibattimento  delle
dichiarazioni rese dall'imputato nelle fasi  anteriori,  quando  egli
sia  contumace  o  assente  o  rifiuti   di   rendere   l'esame,   ma
significativamente  aggiunge  che  «tali  dichiarazioni  non  possono
essere utilizzate nei confronti di  altri  senza  il  loro  consenso,
salvo che ricorrano i presupposti di cui all'articolo 500, comma 4».