Sentenza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 630 del  codice
di procedura penale, promosso dalla Corte di appello di  Bologna  nel
procedimento penale a carico di D.P., con ordinanza del  23  dicembre
2008, iscritta al n. 303 del registro  ordinanze  2010  e  pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, 1ª  serie  speciale,
dell'anno 2010. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella camera di consiglio del 9 febbraio  2011  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Con ordinanza del  23  dicembre  2008,  pervenuta  a  questa
Corte, con la prova delle prescritte notificazioni  e  comunicazioni,
il 26 agosto 2010, la Corte di appello di Bologna  ha  sollevato,  in
riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione e  all'art.
46 della Convenzione per la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e
delle liberta' fondamentali (d'ora in avanti: «CEDU»),  ratificata  e
resa esecutiva  con  legge  4  agosto  1955,  n.  848,  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 630  del  codice  di  procedura
penale, «nella parte in cui non prevede la rinnovazione del  processo
allorche' la sentenza o  il  decreto  penale  di  condanna  siano  in
contrasto con la sentenza definitiva della Corte [europea dei diritti
dell'uomo] che abbia accertato l'assenza di equita' del processo,  ai
sensi dell'art. 6 della Convenzione europea per la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo». 
    Il giudice a quo riferisce di  essere  chiamato  a  delibare  due
richieste riunite di revisione, proposte, ai sensi degli artt. 629  e
seguenti cod. proc.  pen.,  dal  difensore  di  un  condannato  e  da
quest'ultimo personalmente, in relazione alla  medesima  sentenza  di
condanna. Alla data della prima delle  due  richieste  -  quella  del
difensore,  presentata  l'11  gennaio  2006  -  il  condannato  stava
espiando, in regime di detenzione domiciliare, la parte residua della
pena di tredici anni e sei  mesi  di  reclusione,  inflittagli  dalla
Corte d'assise di Udine con sentenza del  3  ottobre  1994,  divenuta
irrevocabile il 27 marzo 1996. 
    Dopo  la  condanna  definitiva  -  prosegue   il   rimettente   -
l'interessato  si  era  rivolto  alla  Corte  europea   dei   diritti
dell'uomo, la quale, con  «sentenza  del  9  settembre  1998»,  aveva
accertato il carattere «non equo» del  processo  celebrato  nei  suoi
confronti,  per  violazione  dell'art.  6  della   CEDU:   violazione
ravvisata  segnatamente  nel  fatto  che  il  ricorrente  era   stato
condannato sulla base delle dichiarazioni rese da tre coimputati, non
esaminati in contraddittorio perche' in dibattimento si erano avvalsi
della facolta' di non rispondere. 
    Il  Comitato  dei   ministri   del   Consiglio   d'Europa   aveva
sollecitato, quindi, piu' volte lo  Stato  italiano  ad  adottare  le
misure necessarie per garantire l'osservanza della citata  decisione:
sollecitazioni rimaste, peraltro, senza effetto. 
    Nel  frattempo,  sul  versante  interno,  il  Procuratore   della
Repubblica presso il Tribunale di Udine aveva promosso  incidente  di
esecuzione al fine di verificare - alla luce di detta pronuncia -  la
legittimita'  della  detenzione  del  condannato,   con   contestuale
richiesta di sospensione dell'esecuzione della pena. 
    Accogliendo il  ricorso  successivamente  proposto  dal  pubblico
ministero avverso l'ordinanza di  rigetto  della  Corte  d'assise  di
Udine, la Corte di  cassazione,  con  sentenza  1°  dicembre  2006-25
gennaio 2007, n. 2800, aveva dichiarato l'inefficacia dell'ordine  di
carcerazione emesso nei confronti  del  condannato,  disponendone  la
liberazione. Nell'occasione, la Corte di cassazione  aveva  enunciato
il  principio  di  diritto   in   forza   del   quale   «il   giudice
dell'esecuzione deve dichiarare, a norma  dell'art.  670  cod.  proc.
pen., l'ineseguibilita' del giudicato quando la Corte  europea  [...]
dei diritti dell'uomo [...] abbia accertato che la condanna e'  stata
pronunciata per effetto della violazione delle  regole  sul  processo
equo  sancite  dall'art.  6  della  Convenzione   europea   e   abbia
riconosciuto  il  diritto  del  condannato  alla   rinnovazione   del
giudizio,  anche  se  il  legislatore  abbia  omesso  di   introdurre
nell'ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo». 
    Parallelamente, e prima che intervenisse la pronuncia della Corte
di cassazione  ora  ricordata,  il  difensore  del  condannato  aveva
proposto al giudice a quo l'istanza di revisione che da'  origine  al
giudizio principale. La difesa aveva sostenuto, in  particolare,  che
la fattispecie considerata poteva essere ricondotta  all'ipotesi  del
contrasto fra giudicati, di cui all'art. 630, comma  1,  lettera  a),
cod. proc. pen., stante l'equiparabilita' della decisione della Corte
europea alla sentenza di un «giudice speciale»;  aggiungendo  che  il
mancato  accoglimento  di   tale   tesi   avrebbe   reso   la   norma
costituzionalmente illegittima, per contrasto con gli artt. 3  e  111
Cost.  Il  difensore  aveva   chiesto,   altresi',   la   sospensione
dell'esecuzione della pena inflitta al proprio assistito: sospensione
che era stata concessa dal giudice a quo. 
    Con ordinanza del 15 marzo 2006, la Corte d'appello rimettente  -
ritenendo impraticabile la soluzione  interpretativa  prospettata  in
via principale dalla difesa - aveva sollevato,  in  riferimento  agli
artt. 3, 10 e 27  Cost.,  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., «nella parte  in
cui esclude, dai casi di  revisione,  l'impossibilita'  che  i  fatti
stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto  di  condanna  si
concilino con la sentenza della Corte  Europea  che  abbia  accertato
l'assenza di  equita'  del  processo,  ai  sensi  dell'art.  6  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo». 
    In relazione agli indicati  parametri,  la  questione  era  stata
dichiarata, peraltro, infondata da questa Corte con sentenza  n.  129
del  2008.  La   Corte   aveva   escluso,   in   specie,   tanto   la
configurabilita' di una disparita' di trattamento  fra  casi  simili,
attenendo il contrasto fra giudicati, evocato dalla norma  censurata,
ai «fatti» su  cui  si  fondano  le  diverse  sentenze,  e  non  alle
valutazioni in esse effettuate; quanto una lesione della  presunzione
di  innocenza,  intesa   come   norma   di   diritto   internazionale
consuetudinario, posto che detta presunzione si dissolve allorche' il
processo e' giunto al suo epilogo; quanto, infine, una compromissione
della finalita' rieducativa della pena, non  potendo  le  regole  del
"giusto processo" essere considerate  strumentali  alla  rieducazione
del condannato. Nell'occasione, la Corte aveva comunque  sottolineato
«l'improrogabile necessita' di predisporre adeguate misure», volte  a
riparare le violazioni  ai  principi  in  tema  di  "equo  processo",
accertate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    Ripresa quindi la trattazione del procedimento davanti alla Corte
d'appello  rimettente,  il  Procuratore   generale   aveva   eccepito
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 630 cod. proc.  pen.  sotto
un diverso profilo: quello, cioe', della lesione dell'art. 117  Cost.
in riferimento all'art. 46, paragrafo 1,  della  CEDU,  che  sancisce
l'obbligo  degli  Stati  contraenti  di  conformarsi  alle   sentenze
definitive della Corte europea, rimuovendo ogni effetto contrario. 
    Ad avviso del giudice  a  quo,  la  questione  sarebbe,  in  tale
termini, proponibile, in quanto basata su censure  nuove  e  distinte
rispetto a quelle gia' esaminate dalla Corte costituzionale. Indubbia
risulterebbe, altresi', la sua rilevanza nel  giudizio  a  quo.  Allo
stato, infatti, le  richieste  di  revisione  che  il  rimettente  e'
chiamato a delibare dovrebbero essere  dichiarate  inammissibili,  ai
sensi dell'art. 634 cod. proc. pen.,  perche'  proposte  fuori  delle
ipotesi previste dall'art. 630 del medesimo codice: declaratoria  che
lascerebbe, peraltro, «senza risposta» l'esigenza -  suscettibile  di
scaturire dall'eventuale assoluzione dell'imputato  all'esito  di  un
nuovo processo - di riparare l'ingiusta  detenzione  (art.  314  cod.
proc. pen.) o  l'errore  giudiziario  (art.  643  cod.  proc.  pen.).
L'accoglimento della questione renderebbe, al contrario,  ammissibili
le richieste, «con tutte le potenziali conseguenze». 
    Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il  giudice  a  quo
rileva  come,  alla  luce  dei   principi   affermati   dalla   Corte
costituzionale  nelle  sentenze  n.  348  e  n.  349  del  2007,   le
disposizioni della CEDU - nell'interpretazione datane dalla Corte  di
Strasburgo - costituiscano «norme interposte» ai fini della  verifica
del rispetto dell'art. 117, primo comma, Cost., nella  parte  in  cui
impone al legislatore di conformarsi  agli  obblighi  internazionali:
con la conseguenza che, ove il  giudice  ravvisi  un  contrasto,  non
componibile per via di interpretazione, tra una norma interna  e  una
norma della Convenzione, egli non puo' disapplicare la norma interna,
ma deve sottoporla a scrutinio di costituzionalita'  in  rapporto  al
parametro dianzi indicato. 
    Il censurato art. 630 cod. proc. pen. risulterebbe,  in  effetti,
inconciliabile con la previsione dell'art.  46,  paragrafo  1,  della
CEDU, a fronte della quale gli Stati contraenti sarebbero  tenuti  ad
adeguare la propria legislazione alle norme  della  Convenzione,  nel
significato   loro   attribuito   dalla   Corte   europea:    obbligo
internazionale che, nel  caso  di  specie,  la  Corte  di  Strasburgo
avrebbe ritenuto violato con la sentenza precedentemente ricordata. 
    Si dovrebbe dunque concludere che  l'art.  630  cod.  proc.  pen.
lede, sia pure indirettamente, l'art. 117, primo comma, Cost.,  nella
parte in cui - nell'individuare i casi di revisione - omette  tuttora
di prevedere la rinnovazione del processo, allorche' la sentenza o il
decreto penale di  condanna  siano  in  contrasto  con  una  sentenza
definitiva della  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  che  abbia
accertato «l'assenza di equita' del processo», ai sensi  dell'art.  6
della CEDU. 
    2.1. -  E'  intervenuto  nel  giudizio  di  costituzionalita'  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, il  quale  ha  chiesto  che  la
questione sia dichiarata inammissibile o infondata. 
    Ad  avviso  della  difesa  dello  Stato,  andrebbe  escluso   che
l'istituto  della  revisione,  quale  disciplinato  dal   codice   di
procedura penale, rappresenti lo  strumento  adeguato  per  adempiere
l'obbligo internazionale richiamato dal rimettente. 
    Dalla sentenza di questa  Corte  n.  129  del  2008  emergerebbe,
infatti, con chiarezza come la fattispecie  in  discussione  non  sia
assimilabile al conflitto di  giudicati  contemplato  dall'art.  630,
comma  1,  lettera  a),  cod.  proc.  pen.,   non   sussistendo   una
incompatibilita', sotto  il  profilo  «naturalistico»,  tra  i  fatti
ritenuti nella pronuncia nazionale e quelli ritenuti  nella  sentenza
della Corte europea. 
    La revisione e', d'altra parte, configurata dal  codice  di  rito
come   un   mezzo   di   impugnazione    straordinario    preordinato
esclusivamente al proscioglimento della persona  gia'  condannata  in
via  definitiva;  laddove,  di  contro,  l'accertata  violazione  del
diritto all'equo processo non equivale a  prova  dell'innocenza:  non
tutte le violazioni procedurali si riverberano, infatti, allo  stesso
modo  sulla  condanna,  la  quale   potrebbe   essere   eventualmente
confermata anche sottraendo l'elemento d'accusa «viziato». 
    Si dovrebbe, pertanto, ritenere che solo attraverso  l'intervento
del legislatore possa essere introdotta una riapertura  del  processo
specificamente modulata sugli  effetti  delle  sentenze  della  Corte
europea. 
    2.2. - Con successiva memoria, l'Avvocatura generale dello  Stato
ha  insistito  per  la  declaratoria   di   inammissibilita'   o   di
infondatezza della questione. 
    La difesa erariale osserva  come  l'inserimento  della  decisione
della  Corte  europea  tra  le  ipotesi  di  revisione,  nei  termini
auspicati dal rimettente,  finirebbe  per  risolversi  -  essendo  il
ricorso a detta Corte subordinato al previo  esaurimento  dei  rimedi
interni (art. 35, paragrafo 1, della CEDU) - nella  creazione  di  un
«improvvido quarto grado di giudizio»,  atto  a  minare  la  coerenza
dell'intero sistema processuale penale. 
    L'istituto  della  revisione  e'  infatti   basato,   per   lunga
tradizione storica, sulla sopravvenienza di fatti oggettivi,  esterni
all'iter processuale, che rendono logicamente ed eticamente  doveroso
rimuovere gli effetti di una  sentenza  penale  irrevocabile.  Se  si
consentisse la revisione a seguito di una  mera  rivalutazione  degli
stessi  fatti  gia'  esaminati  nei  tre  gradi  di  giudizio  e  poi
riesaminati dalla Corte europea, si  innoverebbe  profondamente  tale
impianto, con evidenti rischi per alcune categorie di processi (quali
quelli contro la criminalita' organizzata). 
    Occorrerebbe, in ogni caso, individuare  una  categoria  di  vizi
cosi' assoluti  da  non  essere  sanati  dal  giudicato,  stabilendo,
altresi', a quali condizioni  le  violazioni  accertate  dalla  Corte
europea possano dare luogo alla revisione, posto che non sempre dette
violazioni incidono sulla correttezza  della  decisione  interna.  In
quest'ottica, la revisione non  costituirebbe,  comunque,  l'istituto
piu' adatto a soddisfare le esigenze di  adeguamento  alle  decisioni
dei Giudici di  Strasburgo,  anche  per  la  sua  rigidita'  riguardo
all'esito, scandito dalla secca alternativa  tra  la  conferma  della
sentenza di condanna e il proscioglimento: rigidita' eliminabile solo
a seguito  di  modifiche  talmente  incisive  da  cambiare  il  volto
dell'istituto stesso. 
    Sotto altro profilo, poi, andrebbe tenuto conto delle  differenze
qualitative tra responsabilita' dello  Stato  derivanti  da  sentenze
della Corte europea che richiedono misure individuali di  esecuzione,
e responsabilita' dello Stato scaturenti da sentenze  che  richiedono
misure generali, come nel caso dell'espropriazione. 
    Nell'accertare violazioni dell'art. 6 della  CEDU,  la  Corte  di
Strasburgo avrebbe, in effetti - secondo l'Avvocatura dello  Stato  -
sempre adottato misure individuali a favore dei ricorrenti in sede di
equa riparazione, ai sensi dell'art. 41 della CEDU. Non  avrebbe  mai
espressamente invitato lo Stato italiano  ad  adottare  una  riforma,
ponendo vincoli conformativi, ma avrebbe ribadito  piuttosto  la  sua
giurisprudenza,  secondo  la  quale  spetta  allo  Stato,  sotto   il
controllo del Comitato dei ministri, scegliere i mezzi per  adempiere
nell'ordinamento nazionale  agli  obblighi  scaturenti  dall'art.  46
della CEDU. 
    Tutto cio' conforterebbe la convinzione che spetti unicamente  al
legislatore introdurre forme di riapertura del processo a seguito  di
sentenze della Corte europea, calibrandole sulla  specificita'  delle
diverse situazioni, nell'ottica di  contemperare  le  esigenze  della
certezza  del  diritto  e  quelle  di  tutela  dei  diritti   (anche)
processuali dei soggetti che hanno subito una condanna. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - La Corte di appello di  Bologna  dubita  della  legittimita'
costituzionale, in  riferimento  all'art.  117,  primo  comma,  della
Costituzione e all'art. 46 della Convenzione per la salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali,  dell'art.  630  del
codice di procedura penale,  «nella  parte  in  cui  non  prevede  la
rinnovazione del processo allorche' la sentenza o il  decreto  penale
di condanna siano in contrasto con la sentenza definitiva della Corte
[europea dei diritti dell'uomo]  che  abbia  accertato  l'assenza  di
equita' del processo, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione  europea
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo». 
    La Corte rimettente e' chiamata a delibare due richieste  riunite
di revisione, aventi ad oggetto  una  sentenza  di  condanna  a  pena
detentiva, divenuta irrevocabile. Secondo quanto riferisce il giudice
a quo, le richieste farebbero seguito all'avvenuto  accertamento,  da
parte della Corte europea dei diritti dell'uomo, del  carattere  "non
equo" del processo svoltosi nei confronti del  condannato:  cio',  in
quanto la condanna era stata emessa sulla  base  delle  dichiarazioni
rese nel corso delle indagini  preliminari  da  tre  coimputati,  non
esaminati in dibattimento perche' si erano avvalsi della facolta'  di
non rispondere (e, dunque, in violazione del diritto dell'accusato  a
interrogare o  fare  interrogare  i  testimoni  a  carico,  garantito
dall'art. 6, paragrafo 3, lettera d, della CEDU). 
    Escluso che la descritta evenienza  possa  essere  ricondotta  ad
alcuno dei casi di revisione attualmente  contemplati  dall'art.  630
cod. proc. pen. - e, in particolare, a quello (invocato  nella  prima
delle richieste) della inconciliabilita' tra  giudicati,  di  cui  al
comma 1, lettera a) - la Corte rimettente  assume  che,  proprio  per
questa ragione, la norma censurata risulterebbe inconciliabile con le
previsioni  dell'art.  46  della  CEDU.  Nell'obbligare   gli   Stati
contraenti  ad  uniformarsi  alle  sentenze  definitive  della  Corte
europea, la disposizione convenzionale ora  citata  li  vincolerebbe,
infatti, a permettere la rinnovazione del processo, pur definito  con
sentenza  o  decreto  penale  irrevocabile,  allorche'  la  Corte  di
Strasburgo ne abbia accertato  il  carattere  "non  equo",  ai  sensi
dell'art. 6 della CEDU. 
    Di conseguenza, il denunciato art. 630 cod. proc. pen. verrebbe a
porsi, sia pure indirettamente, in contrasto con  l'art.  117,  primo
comma, Cost., nella parte in cui impone al  legislatore  il  rispetto
degli obblighi internazionali. 
    2. - In via  preliminare,  va  osservato  come  la  questione  di
legittimita' costituzionale in esame debba ritenersi ammissibile,  in
quanto sostanzialmente diversa - pur  nell'analogia  delle  finalita'
perseguite - rispetto a quella in precedenza sollevata dalla Corte di
appello di Bologna nel medesimo giudizio e dichiarata non fondata  da
questa Corte con sentenza n. 129 del 2008. 
    Detta diversita' si apprezza  in  rapporto  a  tutti  e  tre  gli
elementi  che  compongono  la  questione:  l'oggetto  e'  piu'  ampio
(essendo sottoposto a scrutinio l'art. 630 cod. proc. pen. nella  sua
interezza, e non la sola disposizione di cui al comma 1, lettera  a),
nuovo  e'  il  parametro  evocato  e   differenti   sono   anche   le
argomentazioni    svolte    a    sostegno    della    denuncia     di
incostituzionalita'. 
    Non  ricorre,  pertanto,  nella  specie,  la   preclusione   alla
riproposizione della questione nel medesimo grado di giudizio,  volta
ad evitare un bis in idem  che  si  risolverebbe  nella  impugnazione
della precedente decisione della Corte,  inammissibile  alla  stregua
dell'ultimo comma dell'art. 137 Cost. (al  riguardo,  tra  le  altre,
sentenze n. 477 del 2002, n. 225 del 1994 e n. 257 del 1991). 
    3. - Nel merito, la questione e' fondata, nei termini di  seguito
specificati. 
    4. - L'art. 46 della CEDU -  evocato  dal  giudice  a  quo  quale
«norma interposta» - impegna, al paragrafo 1, gli Stati contraenti «a
conformarsi alle sentenze definitive della Corte [europea dei diritti
dell'uomo] sulle controversie di cui sono  parti»;  soggiungendo,  al
paragrafo 2, che «la sentenza definitiva della Corte e' trasmessa  al
Comitato dei ministri che ne controlla l'esecuzione». 
    Si tratta di previsione di centrale rilievo nel  sistema  europeo
di tutela dei diritti fondamentali,  che  fa  perno  sulla  Corte  di
Strasburgo: e' evidente, infatti, come  la  consistenza  dell'obbligo
primario nascente dalla  CEDU  a  carico  degli  Stati  contraenti  -
riconoscere a ogni persona i diritti e le  liberta'  garantiti  dalla
Convenzione (art. 1) - venga a  dipendere,  in  larga  misura,  dalle
modalita' di "composizione" delle singole violazioni accertate. 
    Al riguardo, si deve rilevare come, successivamente all'ordinanza
di rimessione, l'art. 46 della CEDU sia stato modificato per  effetto
dell'entrata in vigore (il 1° giugno 2010) del Protocollo n. 14  alla
Convenzione (ratificato e reso  esecutivo  in  Italia  con  legge  15
dicembre 2005, n. 280). La modifica non elide, peraltro, le  esigenze
poste a fondamento della questione di costituzionalita', ma semmai le
rafforza. Tramite l'aggiunta di tre ulteriori paragrafi, si  prevede,
infatti, che il Comitato dei ministri possa chiedere  alla  Corte  di
Strasburgo una decisione interpretativa, quando vi siano dubbi  circa
il contenuto di una sentenza definitiva in precedenza adottata,  tali
da  ostacolare  il  controllo  sulla  sua  esecuzione  (paragrafo   3
dell'art. 46); nonche', soprattutto, che possa  chiedere  alla  Corte
una ulteriore  pronuncia,  la  quale  accerti  l'avvenuta  violazione
dell'obbligo  per  una  Parte  contraente  di  conformarsi  alle  sue
sentenze (paragrafi 4 e 5). Viene introdotto,  cosi',  uno  specifico
procedimento di infrazione, atto a costituire un piu' incisivo  mezzo
di pressione nei confronti dello Stato convenuto. 
    Quanto, poi, ai contenuti dell'obbligo, l'art.  46  va  letto  in
combinazione sistematica con l'art. 41 della CEDU, a mente del quale,
«se la Corte dichiara che vi e' stata violazione della Convenzione  o
dei  suoi  Protocolli  e  se  il  diritto  interno  dell'Alta   Parte
contraente non permette  che  in  modo  imperfetto  di  rimuovere  le
conseguenze di tale  violazione,  la  Corte  accorda,  se  del  caso,
un'equa soddisfazione alla parte lesa». 
    A questo proposito, e' peraltro consolidata, nella  piu'  recente
giurisprudenza della Corte di  Strasburgo,  l'affermazione  in  forza
della quale, «quando la  Corte  constata  una  violazione,  lo  Stato
convenuto  ha  l'obbligo  giuridico,  non  solo   di   versare   agli
interessati le somme attribuite a titolo di  equa  soddisfazione,  ma
anche di adottare le misure generali e/o, se  del  caso,  individuali
necessarie» (tra le molte, Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009,
Scoppola contro Italia, punto 147; Grande Camera, sentenza  1°  marzo
2006, Sejdovic contro Italia, punto 119; Grande  Camera,  sentenza  8
aprile 2004, Assanidze' contro Georgia, punto 198). Cio'  in  quanto,
alla luce dell'art. 41 della CEDU, le somme  assegnate  a  titolo  di
equo indennizzo mirano unicamente ad «accordare un risarcimento per i
danni  subiti  dagli  interessati  nella   misura   in   cui   questi
costituiscano una conseguenza della violazione che non puo'  in  ogni
caso essere cancellata» (sentenza 13 luglio 2000, Scozzari  e  Giunta
contro Italia, punto 250). 
    La finalita' delle misure individuali che lo Stato  convenuto  e'
tenuto  a  porre  in  essere  e',  per  altro   verso,   puntualmente
individuata dalla Corte  europea  nella  restitutio  in  integrum  in
favore  dell'interessato.  Dette  misure  devono  porre,  cioe',  «il
ricorrente, per quanto possibile, in  una  situazione  equivalente  a
quella in cui si troverebbe se non vi fosse  stata  una  inosservanza
[...] della Convenzione» (ex plurimis,  Grande  Camera,  sentenza  17
settembre 2009,  Scoppola  contro  Italia,  punto  151;  sentenza  10
novembre 2004, Sejdovic contro Italia, punto 55; sentenza  18  maggio
2004, Somogyi contro Italia, punto 86).  In  quest'ottica,  lo  Stato
convenuto e' chiamato  anche  a  rimuovere  gli  impedimenti  che,  a
livello di legislazione nazionale, si  frappongano  al  conseguimento
dell'obiettivo: «ratificando la  Convenzione»,  difatti,  «gli  Stati
contraenti si impegnano a far si' che il  loro  diritto  interno  sia
compatibile con quest'ultima» e, dunque,  anche  ad  «eliminare,  nel
proprio ordinamento giuridico interno, ogni eventuale ostacolo  a  un
adeguato ripristino della situazione del ricorrente» (Grande  Camera,
sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 152; Grande
Camera, sentenza 8 aprile  2004,  Assanidze'  contro  Georgia,  punto
198). 
    Con  particolare  riguardo   alle   infrazioni   correlate   allo
svolgimento di un processo, e di un processo  penale  in  specie,  la
Corte  di  Strasburgo,  muovendo   dalle   ricordate   premesse,   ha
identificato nella riapertura del processo il meccanismo piu' consono
ai fini della  restitutio  in  integrum,  segnatamente  nei  casi  di
accertata violazione  delle  garanzie  stabilite  dall'art.  6  della
Convenzione. Cio', in conformita' alle indicazioni gia'  offerte  dal
Comitato dei ministri, in particolare nella Raccomandazione  R(2000)2
del 19 gennaio 2000, con la quale  le  Parti  contraenti  sono  state
specificamente  invitate  «ad  esaminare  i  rispettivi   ordinamenti
giuridici nazionali allo scopo di assicurare  che  esistano  adeguate
possibilita' di riesame di un caso, ivi  compresa  la  riapertura  di
procedimenti, laddove la Corte abbia riscontrato una violazione della
Convenzione». 
    I  Giudici  di  Strasburgo  hanno  affermato,  in  specie  -  con
giurisprudenza ormai costante -  che,  quando  un  privato  e'  stato
condannato all'esito di un  procedimento  inficiato  da  inosservanze
dell'art. 6 della Convenzione, il mezzo piu'  appropriato  per  porre
rimedio alla violazione constatata  e'  rappresentato,  in  linea  di
principio, «da un nuovo processo o dalla riapertura del procedimento,
su domanda dell'interessato», nel rispetto di tutte le condizioni  di
un processo equo (ex plurimis, sentenza 11 dicembre 2007,  Cat  Berro
contro Italia, punto 46; sentenza 8 febbraio  2007,  Kollcaku  contro
Italia, punto 81; sentenza 21 dicembre  2006,  Zunic  contro  Italia,
punto 74; Grande Camera,  sentenza  12  maggio  2005,  Öcalan  contro
Turchia, punto 210).  Cio',  pur  dovendosi  riconoscere  allo  Stato
convenuto  una  discrezionalita'  nella  scelta  delle  modalita'  di
adempimento del proprio obbligo, sotto il controllo del Comitato  dei
ministri  e  nei  limiti  della  compatibilita'  con  le  conclusioni
contenute nella sentenza della Corte (tra le  molte,  Grande  Camera,
sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 152; Grande
Camera, sentenza 1° marzo 2006, Sejdovic contro Italia, punti  119  e
127; Grande camera, sentenza 12 maggio 2005, Öcalan  contro  Turchia,
punto 210). 
    5. - Si comprende,  peraltro,  come  al  fine  di  assicurare  la
restitutio in integrum della  vittima  della  violazione,  nei  sensi
indicati dalla Corte europea, occorre poter rimettere in  discussione
il giudicato gia' formatosi  sulla  vicenda  giudiziaria  sanzionata.
L'avvenuto  esaurimento  dei  rimedi  interni  rappresenta,  infatti,
condizione imprescindibile di  legittimazione  per  il  ricorso  alla
Corte di Strasburgo (art.  35,  paragrafo  1,  della  CEDU):  con  la
conseguenza che quest'ultima si pronuncia, in via  di  principio,  su
vicende gia' definite a livello interno con decisione irrevocabile. 
    In tale prospettiva, larga parte degli Stati membri del Consiglio
d'Europa - soprattutto dopo la citata Raccomandazione R(2000)2  -  si
e'  dotata  di  una  apposita  disciplina,  intesa  a  permettere  la
riapertura del processo penale riconosciuto "non  equo"  dalla  Corte
europea; mentre in altri Paesi, pure  in  assenza  di  uno  specifico
intervento normativo, la riapertura e' stata  comunque  garantita  da
una applicazione estensiva del mezzo  straordinario  di  impugnazione
gia' previsto dalla legislazione nazionale. 
    La   situazione   si    presenta    significativamente    diversa
nell'ordinamento italiano. L'impossibilita'  di  avvalersi,  ai  fini
considerati, del mezzo  straordinario  di  impugnazione  storicamente
radicato nel sistema processuale penale - cioe', la revisione  -  e',
infatti,  generalmente  riconosciuta,  non   essendo   l'ipotesi   in
questione riconducibile ad alcuno dei  casi  attualmente  contemplati
dall'art.  630  cod.  proc.  pen.  Tale  insieme  di  casi  riflette,
d'altronde,  la  tradizionale  configurazione   dell'istituto   quale
strumento volto a comporre il dissidio tra la "verita'  processuale",
consacrata dal giudicato,  e  la  "verita'  storica",  risultante  da
elementi fattuali "esterni" al giudicato stesso. Si tratta, in  altre
parole, di un rimedio contro il difettoso apprezzamento da parte  del
giudice del fatto storico-naturalistico: difetto  che  puo'  emergere
per contrasto con i fatti stabiliti da decisioni distinte  da  quella
oggetto di denuncia (lettere a e b dell'art. 630  cod.  proc.  pen.);
per insufficiente conoscenza  degli  elementi  probatori  al  momento
della decisione (lettera c), o per  effetto  di  dimostrata  condotta
criminosa  (lettera  d).  Al  tempo  stesso,  la  revisione   risulta
strutturata in funzione del solo proscioglimento della  persona  gia'
condannata: obbiettivo, che si  trova  immediatamente  espresso  come
oggetto del giudizio prognostico circa l'idoneita' dimostrativa degli
elementi posti a base della domanda di revisione, che l'art. 631 cod.
proc. pen. eleva a condizione di ammissibilita' della domanda stessa. 
    Nel caso di accertamento, da parte  della  Corte  di  Strasburgo,
della violazione dell'art. 6 della CEDU  la  prospettiva  e'  affatto
diversa. Si tratta, in tal caso, di porre rimedio, oltre i limiti del
giudicato (considerati  tradizionalmente  comunque  insuperabili  con
riguardo agli  errores  in  procedendo),  a  un  "vizio"  interno  al
processo, tramite una riapertura del medesimo che ponga l'interessato
nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della  lesione.
Rimediare al difetto di "equita'" di un processo, d'altro canto,  non
significa giungere necessariamente a un giudizio assolutorio: chi  e'
stato condannato, ad esempio, da un  giudice  non  imparziale  o  non
indipendente - secondo la valutazione  della  Corte  europea  -  deve
vedersi assicurato un nuovo processo davanti a un giudice rispondente
ai requisiti di cui all'art. 6, paragrafo 1, della  CEDU,  senza  che
tale diritto possa rimanere rigidamente subordinato a un  determinato
tipo di  pronostico  circa  il  relativo  esito  (il  nuovo  processo
potrebbe bene concludersi, ad esempio,  anziche'  con  l'assoluzione,
con una condanna, fermo naturalmente il divieto della  reformatio  in
peius). 
    Esclusa, dunque, la fruibilita' dell'istituto della revisione, la
giurisprudenza ha sperimentato diverse soluzioni ermeneutiche  intese
a salvaguardare i  diritti  riconosciuti  dalla  CEDU,  superando  le
preclusioni  connesse  al  giudicato.   Per   comune   convincimento,
tuttavia, si tratta di  soluzioni  parziali  e  inidonee  alla  piena
realizzazione dell'obiettivo. 
    La notazione vale, anzitutto, con riguardo alla soluzione che  fa
leva sull'altro mezzo straordinario di impugnazione  introdotto  piu'
di recente  nell'ordinamento,  ossia  il  ricorso  straordinario  per
errore materiale o di fatto contenuto nei  provvedimenti  pronunciati
dalla Corte di cassazione (art. 625-bis cod. proc. pen.); rimedio che
la giurisprudenza di legittimita' ha ritenuto  utilizzabile,  in  via
analogica, al fine di dare esecuzione alle sentenze  della  Corte  di
Strasburgo   che   abbiano   accertato   violazioni    di    garanzie
convenzionali, ancorche' non dipese da mero errore percettivo (Cass.,
12 novembre 2008-11 dicembre 2008, n. 45807; si veda anche Cass.,  11
febbraio 2010-28 aprile 2010, n. 16507). A prescindere da ogni  altro
rilievo, lo strumento previsto dall'art. 625-bis cod. proc. pen.  non
puo' comunque  rappresentare  una  risposta  esaustiva  al  problema,
risultando strutturalmente inidoneo ad assicurare la  riapertura  dei
processi  a  fronte  di  violazioni  che  non  si  siano   verificate
nell'ambito del giudizio  di  cassazione  (quale  quella  riscontrata
nella vicenda oggetto del giudizio a quo). 
    Analoga  conclusione  si  impone   in   riferimento   all'impiego
dell'istituto della  restituzione  in  termini  per  la  proposizione
dell'impugnazione (art. 175, comma 2, cod. proc.  pen.):  trattandosi
di meccanismo che, in ragione del dettato  della  norma  ora  citata,
risulta  utilizzabile  -  ed  e'  stato  in  fatto  utilizzato  dalla
giurisprudenza - unicamente per porre rimedio alle  violazioni  della
CEDU collegate alla disciplina  del  processo  contumaciale  (tra  le
altre, Cass., 12 febbraio 2008-27 febbraio 2008, n. 8784;  Cass.,  15
novembre 2006-2 febbraio  2007,  n.  4395).  Ipotesi  che  non  viene
parimenti in rilievo nel giudizio a quo. 
    Ma la valutazione non muta  neppure  con  riguardo  all'ulteriore
soluzione interpretativa praticata proprio in relazione alla  vicenda
oggetto del presente giudizio in sede di esecuzione del  giudicato  e
che fa perno sull'incidente di esecuzione regolato dall'art. 670 cod.
proc. pen. (supra, punto 1 del Ritenuto  in  fatto).  Si  tratta,  in
specie, della tesi secondo la quale, quando la  Corte  europea  abbia
accertato che la condanna e' stata pronunciata  in  violazione  delle
regole sull'equo processo, riconoscendo  il  diritto  del  condannato
alla rinnovazione del giudizio, il  giudice  dell'esecuzione  sarebbe
tenuto a dichiarare l'ineseguibilita'  del  giudicato,  ancorche'  il
legislatore abbia omesso di introdurre «un mezzo idoneo a  instaurare
il nuovo processo» (Cass.,  1°  dicembre  2006-25  gennaio  2007,  n.
2800). Al di la' di ogni altra possibile considerazione,  il  rimedio
si  rivela,  infatti,  inadeguato:  esso  "congela"   il   giudicato,
impedendone l'esecuzione, ma non lo  elimina,  collocandolo  a  tempo
indeterminato in una sorta di "limbo  processuale".  Soprattutto,  la
mera declaratoria di ineseguibilita' non  da'  risposta  all'esigenza
primaria: quella, cioe', della riapertura del processo, in condizioni
che  consentano  il  recupero   delle   garanzie   assicurate   dalla
Convenzione. 
    6. - L'assenza, nell'ordinamento italiano, di un apposito rimedio
diretto  a   tale   fine   e'   stata,   d'altronde,   reiteratamente
stigmatizzata  dagli  organi  del   Consiglio   d'Europa,   anche   e
soprattutto  in  rapporto  al  caso  concernente  il  condannato  nel
giudizio a quo. 
    A  questo  proposito,  occorre  preliminarmente  rilevare   -   a
rettifica di quanto si afferma nell'ordinanza di rimessione - che  la
Corte europea dei diritti  dell'uomo  non  si  e',  in  realta',  mai
pronunciata sulla detta vicenda. L'atto  che  il  giudice  rimettente
qualifica come  «sentenza  del  9  settembre  1998»  della  Corte  di
Strasburgo,  e',  in  effetti,  un  rapporto  di  pari   data   della
Commissione europea  dei  diritti  dell'uomo  (organo  soppresso  dal
Protocollo n. 11): rapporto che e' stato recepito  dal  Comitato  dei
ministri con decisione del 15  aprile  1999  (Risoluzione  interinale
DH(99)258). Ai sensi dell'art. 32 della  CEDU,  nel  testo  anteriore
all'entrata in vigore del Protocollo n. 11 (avvenuta il  1°  novembre
1998,  ma  con  applicazione  della  disciplina  previgente  ai  casi
pendenti a detta data, in forza della disposizione transitoria di cui
all'art. 5), il Comitato dei  ministri  era,  infatti,  competente  a
deliberare sui casi pervenuti al suo esame dopo la  redazione  di  un
rapporto da parte della Commissione  europea,  cui  non  seguisse  il
deferimento  entro  tre  mesi  della  controversia  alla   Corte   di
Strasburgo. 
    La circostanza ora evidenziata  non  influisce,  tuttavia,  sulla
rilevanza della questione, giacche' in forza dell'originario art. 32,
paragrafo 4, della CEDU, le decisioni del Comitato dei ministri erano
vincolanti per gli Stati contraenti allo stesso modo  delle  sentenze
definitive della  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo:  avendosi,
quindi - ora per allora - una piena equivalenza delle une alle  altre
ai fini considerati. 
    Proprio in questa prospettiva, tanto  il  Comitato  dei  ministri
(Risoluzioni  interinali  ResDH(2000)  30  del  19   febbraio   2002,
ResDH(2004)13 del 10 febbraio 2004 e  ResDH(2005)85  del  12  ottobre
2005), quanto l'Assemblea parlamentare  del  Consiglio  d'Europa  (si
veda, tra le altre, la Risoluzione n. 1516(2006) del 2 ottobre  2006)
hanno censurato, in  toni  via  via  piu'  pressanti,  l'inadempienza
dell'Italia all'obbligo di rimuovere le conseguenze della  violazione
accertata nel caso in  esame:  inadempienza  correlata  appunto  alla
mancanza,  nell'ordinamento  interno,  di  un   meccanismo   atto   a
consentire la riapertura del processo dichiarato "non equo". 
    La sollecitazione ad introdurre, «il piu' rapidamente possibile»,
un simile meccanismo  e'  stata  nuovamente  rivolta  alle  autorita'
italiane dal Comitato dei ministri anche in occasione della decisione
di chiusura della procedura  di  controllo  relativa  a  detto  caso:
decisione  adottata  dopo  la  ricordata  pronuncia  della  Corte  di
cassazione che aveva dichiarato ineseguibile il  giudicato  formatosi
nei confronti del condannato, ordinandone la liberazione (Risoluzione
finale CM/ResDH(2007)83 del 19 febbraio 2007). 
    7. - In sede di scrutinio della ricordata precedente questione di
legittimita' costituzionale, sollevata  dalla  Corte  di  appello  di
Bologna  nell'ambito  del  medesimo  giudizio  (supra,  punto  1  del
Ritenuto in fatto), questa Corte ha  gia'  avuto  modo  di  rimarcare
come, alla luce delle vicende dianzi riassunte, la predisposizione di
adeguate  misure  volte  a  riparare,  sul  piano   processuale,   le
conseguenze scaturite da accertate violazioni  del  diritto  all'equo
processo  si  ponesse  in   termini   di   «evidente,   improrogabile
necessita'» (sentenza n. 129 del 2008). 
    Cio', tuttavia, non ha potuto impedire che tale questione - per i
termini in cui era  stata  formulata  -  si  dovesse  dichiarare  non
fondata. 
    Il  quesito  di  costituzionalita'  era  diretto,   infatti,   ad
estendere all'ipotesi considerata  lo  specifico  caso  di  revisione
previsto dall'art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc.  pen.,  sulla
base della denunciata violazione degli artt. 3,  10  e  27  Cost.  Al
riguardo, si  e'  rilevato  come  nessuno  dei  parametri  evocati  -
principio di eguaglianza; presunzione di innocenza, intesa come norma
di  diritto  internazionale  generalmente   riconosciuta;   finalita'
rieducativa della pena - risultasse pertinente. Non il primo,  stante
l'eterogeneita' della situazione descritta dal citato art. 630, comma
1, lettera a), cod. proc. pen. rispetto a quella posta  a  raffronto:
giacche' il concetto di inconciliabilita' tra sentenze  irrevocabili,
evocato   dalla   norma    del    codice,    attiene    all'oggettiva
incompatibilita'    tra    i     «fatti»     (intesi     in     senso
storico-naturalistico) su cui si fondano le  decisioni,  e  non  alla
contraddittorieta' logica delle valutazioni in esse  effettuate.  Non
il secondo, poiche' l'art. 10, primo comma, Cost.  non  comprende  le
norme pattizie che non riproducano principi o  norme  consuetudinarie
del  diritto  internazionale;  cio',   senza   considerare   che   la
«presunzione di innocenza» non ha, di per se', «nulla  a  che  vedere
con i rimedi straordinari destinati a purgare gli eventuali  errores,
in procedendo o in  iudicando  che  siano»,  dissolvendosi  -  quella
presunzione - nel momento stesso in cui il  processo  giunge  al  suo
epilogo. Neppure, da ultimo, era conferente il terzo parametro, posto
che la pretesa del rimettente di assegnare alle  regole  del  «giusto
processo» una funzione strumentale alla «rieducazione» del condannato
avrebbe  determinato  «una  paradossale  eterogenesi  dei  fini,  che
vanificherebbe  -  questa  si'  -  la  stessa  presunzione   di   non
colpevolezza» (sentenza n. 129 del 2008). 
    Nel  respingere  la  questione,  questa  Corte  non  ha  mancato,
tuttavia,  di  rivolgere  un  «pressante  invito»   al   legislatore,
affinche' colmasse, con i  provvedimenti  ritenuti  piu'  idonei,  la
lacuna normativa in contestazione. Ma, nonostante il tempo trascorso,
tale esortazione e' rimasta senza seguito. 
    8. - A diversa conclusione deve pervenirsi circa la questione  di
legittimita' costituzionale oggi in esame, la quale,  per  un  verso,
investe l'art. 630 cod. proc. pen. nel suo complesso,  e,  per  altro
verso, viene proposta in riferimento al diverso  e  piu'  appropriato
parametro espresso dall'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  assumendo,
quale «norma interposta», l'art.  46  (in  correlazione  all'art.  6)
della CEDU. 
    A  partire  dalle  sentenze  n.  348  e  n.  349  del  2007,   la
giurisprudenza di questa Corte e' costante nel ritenere che le  norme
della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea  dei
diritti  dell'uomo,  specificamente  istituita  per   dare   a   esse
interpretazione  e  applicazione  (art.  32,   paragrafo   1,   della
Convenzione) - integrino,  quali  «norme  interposte»,  il  parametro
costituzionale espresso dall'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  nella
parte in cui impone la conformazione della  legislazione  interna  ai
vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 1  del
2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010; n. 317 e n. 311 del 2009,  n.
39 del 2008; sulla perdurante validita' di tale  ricostruzione  anche
dopo l'entrata in vigore del Trattato  di  Lisbona  del  13  dicembre
2007, sentenza n. 80 del  2011).  Prospettiva  nella  quale,  ove  si
profili un eventuale contrasto fra una  norma  interna  e  una  norma
della  CEDU,  il  giudice  comune  deve   verificare   anzitutto   la
praticabilita' di una interpretazione della prima in  senso  conforme
alla Convenzione, avvalendosi di ogni  strumento  ermeneutico  a  sua
disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo - non potendo a
cio' rimediare tramite  la  semplice  non  applicazione  della  norma
interna   contrastante   -   egli   deve   denunciare   la   rilevata
incompatibilita', proponendo questione di legittimita' costituzionale
in  riferimento  all'indicato  parametro.  A  sua  volta,  la   Corte
costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo  sindacare
l'interpretazione  della  CEDU  data  dalla  Corte   europea,   resta
legittimata a verificare se la norma della Convenzione - la quale  si
colloca pur  sempre  a  un  livello  sub-costituzionale  -  si  ponga
eventualmente  in  conflitto  con  altre  norme  della  Costituzione:
ipotesi nella quale dovra' essere esclusa la  idoneita'  della  norma
convenzionale a integrare il parametro considerato. 
    Nella  specie,  si  e'  gia'  rimarcato  (supra,  punto   4   del
Considerato in diritto) come la  Corte  di  Strasburgo  ritenga,  con
giurisprudenza ormai costante,  che  l'obbligo  di  conformarsi  alle
proprie sentenze definitive, sancito a carico delle Parti  contraenti
dall'art. 46, paragrafo 1, della CEDU, comporti anche l'impegno degli
Stati  contraenti  a  permettere  la  riapertura  dei  processi,   su
richiesta dell'interessato, quante volte essa  appaia  necessaria  ai
fini della restitutio in integrum in favore del medesimo, nel caso di
violazione   delle   garanzie   riconosciute    dalla    Convenzione,
particolarmente in tema di equo processo. 
    Tale interpretazione  non  puo'  ritenersi  contrastante  con  le
conferenti tutele offerte dalla Costituzione. In  particolare  -  pur
nella indubbia rilevanza dei valori della certezza e della stabilita'
della cosa giudicata - non puo' ritenersi contraria a Costituzione la
previsione del venir meno dei relativi effetti preclusivi in presenza
di compromissioni di particolare pregnanza - quali  quelle  accertate
dalla Corte di Strasburgo, avendo riguardo alla  vicenda  giudiziaria
nel suo complesso - delle garanzie attinenti a  diritti  fondamentali
della persona: garanzie che, con particolare riguardo alle previsioni
dell'art. 6 della Convenzione, trovano del resto ampio riscontro  nel
vigente testo dell'art. 111 Cost. 
    Il giudice a quo ha, per  altro  verso,  non  ingiustificatamente
individuato nell'art. 630 cod. proc. pen.  la  sedes  dell'intervento
additivo richiesto: la revisione, infatti - comportando, quale  mezzo
straordinario di impugnazione a carattere generale, la riapertura del
processo, che implica una ripresa delle attivita' processuali in sede
di cognizione, estesa anche all'assunzione delle prove -  costituisce
l'istituto, fra quelli attualmente esistenti nel sistema  processuale
penale, che presenta profili di maggiore assonanza con quello la  cui
introduzione appare necessaria al fine di  garantire  la  conformita'
dell'ordinamento nazionale al parametro evocato. 
    Contrariamente  a  quanto  sostiene  l'Avvocatura  dello   Stato,
d'altro canto, all'accoglimento della questione non  puo'  essere  di
ostacolo la circostanza che - come pure si e' avuto modo di  rilevare
(supra, punto  5  del  Considerato  in  diritto)  -  l'ipotesi  della
riapertura del processo collegata al vincolo  scaturente  dalla  CEDU
risulti eterogenea rispetto agli altri casi di revisione  attualmente
contemplati  dalla  norma  censurata,  sia  perche'  fuoriesce  dalla
logica, a questi sottesa, della composizione dello iato tra  "verita'
processuale" e "verita' storica", emergente da elementi "esterni"  al
processo gia' celebrato; sia perche' a detta ipotesi non si  attaglia
la rigida alternativa, prefigurata dalla  disciplina  vigente  quanto
agli esiti del giudizio di revisione, tra proscioglimento e  conferma
della precedente condanna. 
    Posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile  in  via
interpretativa - tanto piu' se attinente a diritti fondamentali -  la
Corte e' tenuta comunque a porvi rimedio: e  cio',  indipendentemente
dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al
contrario, da quanto la  norma  (o,  meglio,  la  norma  maggiormente
pertinente alla fattispecie in discussione) omette di prevedere. Ne',
per risalente rilievo di questa Corte (sentenza n. 59 del 1958), puo'
essere  ritenuta  preclusiva  della  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale delle  leggi  la  carenza  di  disciplina  -  reale  o
apparente - che da essa  puo'  derivarne,  in  ordine  a  determinati
rapporti. Spettera', infatti, da un lato, ai  giudici  comuni  trarre
dalla  decisione  i  necessari  corollari  sul   piano   applicativo,
avvalendosi degli  strumenti  ermeneutici  a  loro  disposizione;  e,
dall'altro, al legislatore provvedere eventualmente  a  disciplinare,
nel modo piu' sollecito e  opportuno,  gli  aspetti  che  apparissero
bisognevoli di apposita regolamentazione. 
    Nella specie, l'art. 630 cod. proc. pen. deve  essere  dichiarato
costituzionalmente illegittimo proprio perche' (e nella parte in cui)
non contempla un «diverso» caso di revisione, rispetto a  quelli  ora
regolati, volto specificamente a consentire (per il processo definito
con una delle pronunce indicate nell'art. 629  cod.  proc.  pen.)  la
riapertura del processo -  intesa,  quest'ultima,  come  concetto  di
genere,  funzionale  anche  alla  rinnovazione  di   attivita'   gia'
espletate, e, se del caso, di quella integrale del giudizio -  quando
la riapertura stessa  risulti  necessaria,  ai  sensi  dell'art.  46,
paragrafo 1, della CEDU, per conformarsi a  una  sentenza  definitiva
della Corte europea dei  diritti  dell'uomo  (cui,  per  quanto  gia'
detto, va equiparata la decisione adottata dal Comitato dei  ministri
a norma del precedente testo dell'art. 32 della CEDU). 
    La necessita' della riapertura andra' apprezzata - oltre  che  in
rapporto alla natura oggettiva  della  violazione  accertata  (e'  di
tutta evidenza, cosi', ad esempio, che non  dara'  comunque  luogo  a
riapertura l'inosservanza del principio  di  ragionevole  durata  del
processo, di cui all'art. 6, paragrafo 1, CEDU, dato che  la  ripresa
delle  attivita'  processuali  approfondirebbe  l'offesa)  -  tenendo
naturalmente conto delle indicazioni contenute nella  sentenza  della
cui esecuzione si tratta,  nonche'  nella  sentenza  "interpretativa"
eventualmente richiesta alla Corte di  Strasburgo  dal  Comitato  dei
ministri, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 3, della CEDU. 
    S'intende, per  altro  verso,  che,  quando  ricorra  l'evenienza
considerata,  il  giudice   dovra'   procedere   a   un   vaglio   di
compatibilita' delle singole disposizioni  relative  al  giudizio  di
revisione. Dovranno ritenersi, infatti, inapplicabili le disposizioni
che  appaiano  inconciliabili,  sul   piano   logico-giuridico,   con
l'obiettivo perseguito (porre l'interessato nelle condizioni  in  cui
si sarebbe trovato in assenza della violazione accertata, e non  gia'
rimediare a  un  difettoso  apprezzamento  del  fatto  da  parte  del
giudice, risultante da elementi  esterni  al  giudicato),  prime  fra
tutte - per quanto  si  e'  osservato  -  quelle  che  riflettono  la
tradizionale  preordinazione  del  giudizio  di  revisione  al   solo
proscioglimento  del  condannato.  Cosi',   per   esempio,   rimarra'
inoperante la condizione di  ammissibilita',  basata  sulla  prognosi
assolutoria, indicata  dall'art.  631  cod.  proc.  pen.;  come  pure
inapplicabili saranno da ritenere - nei congrui casi - le  previsioni
dei commi 2 e 3 dell'art. 637 cod.  proc.  pen.  (secondo  le  quali,
rispettivamente, l'accoglimento della richiesta  comporta  senz'altro
il  proscioglimento  dell'interessato,  e  il  giudice  non  lo  puo'
pronunciare esclusivamente sulla  base  di  una  diversa  valutazione
delle prove assunte nel precedente giudizio). 
    Occorre considerare, d'altro canto, che l'ipotesi di revisione in
parola comporta, nella sostanza, una deroga -  imposta  dall'esigenza
di rispetto di obblighi internazionali - al ricordato  principio  per
cui i vizi processuali  restano  coperti  dal  giudicato.  In  questa
prospettiva, il giudice della revisione valutera' anche come le cause
della non equita'  del  processo  rilevate  dalla  Corte  europea  si
debbano tradurre,  appunto,  in  vizi  degli  atti  processuali  alla
stregua del diritto interno, adottando nel  nuovo  giudizio  tutti  i
conseguenti provvedimenti per eliminarli. 
    9.  -  Giova  ribadire  e  sottolineare  che  l'incidenza   della
declaratoria di incostituzionalita' sull'art. 630 cod. proc. pen. non
implica  una  pregiudiziale  opzione  di  questa   Corte   a   favore
dell'istituto  della   revisione,   essendo   giustificata   soltanto
dall'inesistenza  di  altra  e  piu'  idonea  sedes   dell'intervento
additivo. Il  legislatore  resta  pertanto  e  ovviamente  libero  di
regolare con una diversa disciplina - recata anche  dall'introduzione
di un autonomo e distinto istituto -  il  meccanismo  di  adeguamento
alle pronunce definitive della Corte  di  Strasburgo,  come  pure  di
dettare norme su specifici aspetti di esso sui quali questa Corte non
potrebbe  intervenire,  in  quanto  involventi  scelte  discrezionali
(quale, ad esempio, la previsione di un termine di decadenza  per  la
presentazione della domanda di riapertura del processo,  a  decorrere
dalla definitivita' della sentenza della Corte europea). Allo  stesso
modo, rimane affidata alla discrezionalita' del legislatore la scelta
dei  limiti  e  dei  modi  nei  quali  eventualmente  valorizzare  le
indicazioni della Raccomandazione R(2000)2 del Comitato dei  ministri
del Consiglio d'Europa, piu' volte richiamata,  nella  parte  in  cui
prospetta la possibile introduzione di condizioni per  la  riapertura
del procedimento, collegate alla natura  delle  conseguenze  prodotte
dalla  decisione  interna  e  all'incidenza  su  quest'ultima   della
violazione accertata (punto II, i e ii).