Ordinanza 
 
nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  4,  sesto  e
decimo comma, della legge  27  dicembre  1956,  n.  1423  (Misure  di
prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e
per la pubblica moralita') e degli artt. 2-ter, primo e terzo  comma,
e 3-ter, secondo  comma,  della  legge  31  maggio  1965,  n.  575  (
Disposizioni contro le  organizzazioni  criminali  di  tipo  mafioso,
anche straniere), promosso dalla Corte  di  appello  di  Firenze  nel
procedimento penale a carico di H.A. ed altro, con ordinanza  del  19
febbraio 2010, iscritta al n.  331  del  registro  ordinanze  2010  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  44,  prima
serie speciale, dell'anno 2010. 
    Udito nella camera di consiglio del  6  aprile  2011  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
    Ritenuto che, con ordinanza del 19 febbraio  2010,  la  Corte  di
appello di Firenze ha sollevato, in riferimento all'art.  117,  primo
comma, della Costituzione, questione di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 4, sesto e decimo comma, della legge 27 dicembre  1956,  n.
1423 (Misure di prevenzione nei confronti  delle  persone  pericolose
per la sicurezza e per la pubblica moralita') e  degli  artt.  2-ter,
primo e terzo comma, e 3-ter, secondo comma, della  legge  31  maggio
1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo
mafioso, anche  straniere),  nella  parte  in  cui  prevedono  che  i
procedimenti  per  l'applicazione  delle   misure   di   prevenzione,
personali  e  patrimoniali,  si  svolgono  in  camera  di  consiglio,
precludendone cosi' la  trattazione  in  udienza  pubblica  anche  in
presenza di una richiesta in tal senso degli intervenienti; 
    che la Corte  rimettente  riferisce  di  essere  investita  degli
appelli avverso due distinti decreti del Tribunale  di  Pisa,  con  i
quali  erano  state  disposte,  nei   confronti   degli   appellanti,
rispettivamente,   la   misura   di   prevenzione   personale   della
sorveglianza speciale per la durata  di  tre  anni  e  la  misura  di
prevenzione patrimoniale della confisca di alcuni immobili; 
    che, nel corso del giudizio di impugnazione avverso il decreto di
confisca, i difensori, richiamando due decisioni della Corte  europea
dei diritti dell'uomo (la sentenza 13  novembre  2007,  emessa  nella
causa Bocellari e Rizza contro Italia, e la sentenza 8  luglio  2008,
emessa nella causa Perre e altri contro Italia), avevano chiesto  che
il procedimento fosse trattato  in  forma  pubblica,  sulla  base  di
un'interpretazione  adeguatrice  delle  norme  interne,  ovvero,   in
subordine,   che   fosse   sollevata   questione   di    legittimita'
costituzionale dell'art. 4 della legge n. 1423 del 1956  e  dell'art.
2-ter della legge n. 575 del 1965, per violazione degli  artt.  24  e
117, primo comma, Cost.; 
    che - riuniti i procedimenti  di  appello  relativi  alla  misura
personale  e  a  quella  patrimoniale,  stante   la   loro   evidente
connessione, e ritenuto valevole per entrambi il  motivo  di  gravame
concernente il  rito  da  seguire  -  il  collegio  ha  sollevato  la
questione di costituzionalita', con riferimento  al  solo  art.  117,
primo comma, Cost.; 
    che, a tale riguardo, il rimettente evidenzia che il decimo comma
dell'art. 4 della legge n. 1423 del 1956  prevede,  con  riguardo  al
giudizio  di  appello  -  al  pari  del   precedente   sesto   comma,
relativamente al giudizio di primo grado - che  il  procedimento  per
l'applicazione delle misure di prevenzione debba svolgersi «in camera
di consiglio» e, dunque, secondo il modulo  delineato  dall'art.  127
del  codice  di  procedura  penale,  il  quale,  pur  garantendo   il
contraddittorio e il diritto  di  difesa,  esclude  la  presenza  del
pubblico all'udienza (comma 6 dell'art. 127 cod. proc. pen.); 
    che, a sua volta, l'art. 2-ter della legge n. 575 del  1965,  nel
disciplinare l'applicazione delle misure di prevenzione  patrimoniali
nei confronti degli indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo
mafioso, opera un espresso riferimento al procedimento previsto dalla
legge n. 1423 del 1956; mentre  il  successivo  art.  3-ter,  secondo
comma, estende alle impugnazioni contro  i  decreti  di  confisca  le
disposizioni dell'art. 4 della medesima legge n. 1423 del 1956; 
    che  le  citate  disposizioni,   per   la   loro   «rigidita'   e
tassativita'»,  non  consentirebbero,  dunque,   di   accogliere   la
richiesta degli appellanti di  trattazione  del  gravame  in  udienza
pubblica; 
    che, cio' premesso, il giudice a quo rileva che la Corte  europea
dei diritti dell'uomo ha affermato, tanto nelle  pronunce  richiamate
dalla difesa che nella successiva la sentenza 5 gennaio 2010,  emessa
nella causa Bongiorno contro Italia, che la procedura di applicazione
delle misure di prevenzione  prevista  dall'ordinamento  italiano  si
pone in contrasto,  sotto  il  profilo  considerato,  con  l'art.  6,
paragrafo 1,  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955,  n.
848; 
    che la Corte di Strasburgo  ha  nell'occasione  ribadito  che  la
pubblicita' delle procedure giudiziarie, garantita dalla citata norma
della Convenzione (secondo cui «ogni persona ha diritto  che  la  sua
causa sia esaminata [...] pubblicamente»), tutela le persone soggette
a una giurisdizione contro  una  giustizia  segreta,  che  sfugge  al
controllo del pubblico,  e  costituisce  uno  dei  mezzi  idonei  per
preservare  la  fiducia  nei   giudici,   contribuendo   cosi'   alla
realizzazione dell'«equo processo»; 
    che la medesima Corte ha, altresi', evidenziato che, se  pure  la
Convenzione non preclude la possibilita' di derogare  in  determinati
casi al principio di pubblicita' delle udienze, a diversa conclusione
deve pervenirsi allorche' una procedura si svolga a porte  chiuse  in
virtu'   di   una   norma   generale   e   assoluta,   come   avviene
nell'ordinamento italiano per i procedimenti relativi alle misure  di
prevenzione; 
    che non e' consentito, d'altra parte,  trascurare  la  «posta  in
gioco» in detti  procedimenti  e  i  loro  potenziali  effetti  sulle
persone coinvolte, i quali fanno si' che il  controllo  del  pubblico
rappresenti una  condizione  necessaria  alla  garanzia  dei  diritti
dell'interessato; 
    che, di conseguenza, la Corte europea ha giudicato  «essenziale»,
ai  fini  del  rispetto  del  citato  art.  6,  paragrafo  1,   della
Convenzione, che i soggetti coinvolti nelle procedure di  prevenzione
«si vedano almeno offrire la possibilita' di sollecitare una pubblica
udienza davanti alle sezioni  specializzate  dei  tribunali  e  delle
corti d'appello»; 
    che dalle affermazioni ora ricordate si dovrebbe  necessariamente
dedurre - ad avviso del rimettente - che le norme  censurate  violino
l'art. 117, primo comma, Cost., che, nel nuovo testo introdotto dalla
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3  (Modifiche  al  titolo  V
della parte seconda della Costituzione),  impone  al  legislatore  il
rispetto  dei  vincoli  derivanti  dagli   obblighi   internazionali:
parametro rispetto al quale - secondo quanto chiarito dalle  sentenze
n. 348 e n. 349 del 2007 di questa  Corte  -  le  disposizioni  della
CEDU, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, assumono
il ruolo di «norme interposte»; 
    che il giudice comune, d'altronde - sempre alla luce delle citate
sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 - non e' abilitato  a  disapplicare
la disciplina interna contrastante con quella convenzionale: onde non
resterebbe altra  via,  per  rimuovere  il  rilevato  contrasto,  che
sollevare  questione  di  legittimita'  costituzionale  delle   norme
denunciate, nella parte in cui, imponendo la trattazione in camera di
consiglio  dei  procedimenti  per  l'applicazione  delle  misure   di
prevenzione,  non  ne  consentono   lo   svolgimento   in   «pubblico
dibattimento» neppure di fronte a una richiesta degli interessati; 
    che - a parere del giudice a quo - la rilevanza  della  questione
risulterebbe  indubbia,  giacche'  i  difensori  hanno  espressamente
chiesto che il procedimento prosegua in pubblica udienza; 
    che il rimettente ritiene, inoltre, che la  questione  -  seppure
prospettata dai difensori nel  solo  giudizio  relativo  alla  misura
patrimoniale - vada sollevata anche con riferimento al  giudizio  per
l'applicazione  delle  misure  personali:  infatti,  sia  il  dettato
dell'art. 6, paragrafo 1,  della  Convenzione  che  l'interpretazione
datane dalla Corte di Strasburgo avrebbero  una  «portata  generale»,
con conseguente loro estensibilita' alle misure personali,  «identica
essendo la ratio additata da quei giudici a tutela della  trasparenza
e ostensibilita' dell'attivita' giurisdizionale e stante  lo  stretto
legame normalmente (e in particolare nel caso  di  specie)  esistente
tra le due diverse tipologie di misure di prevenzione»; 
    che la questione dovrebbe avere, infine, ad oggetto non  soltanto
il decimo comma dell'art. 4 della legge n. 1423 del 1956, relativo al
giudizio di appello, ma anche il precedente sesto comma,  concernente
il giudizio di primo grado; 
    che, infatti, essendosi nella specie proceduto con rito  camerale
davanti al  Tribunale,  l'eventuale  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale non potrebbe non riguardare pure il giudizio di  prima
istanza, nel quale, anzi, formandosi la  prova  sui  presupposti  per
l'adozione delle misure di prevenzione, maggiore appare l'esigenza di
pubblicita' delle udienze; 
    che  detta  declaratoria  di  incostituzionalita'   estenderebbe,
d'altra parte, i propri effetti anche ai decreti adottati  dal  primo
giudice: decreti che, in quanto  assoggettati  ad  impugnazione,  non
potrebbero essere  considerati  quali  atti  processuali  «esauriti»,
sottratti, in quanto tali, all'efficacia  retroattiva  propria  delle
pronunce di illegittimita' costituzionale sui procedimenti pendenti. 
    Considerato che la Corte  di  appello  di  Firenze  dubita  della
legittimita'  costituzionale,  in  riferimento  all'art.  117,  primo
comma, della Costituzione, dell'art. 4, sesto e decimo  comma,  della
legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei  confronti
delle  persone  pericolose  per  la  sicurezza  e  per  la   pubblica
moralita') e degli artt. 2-ter, primo e terzo comma, e 3-ter, secondo
comma, della legge 31 maggio 1965, n.  575  (Disposizioni  contro  le
organizzazioni criminali di tipo  mafioso,  anche  straniere),  nella
parte in cui prevedono che i procedimenti  per  l'applicazione  delle
misure di prevenzione, personali e patrimoniali, debbano svolgersi  -
tanto in primo  grado  che  in  appello  -  con  rito  camerale,  non
consentendone cosi' la trattazione in udienza pubblica in presenza di
una richiesta degli interessati; 
    che  il  giudice  a  quo  pone  a  base  delle  proprie   censure
l'affermazione della Corte europea dei diritti dell'uomo  secondo  la
quale, ai fini  del  rispetto  del  principio  di  pubblicita'  delle
procedure  giudiziarie,  sancito  dall'art.  6,  paragrafo  1,  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, le  persone  coinvolte  nei  procedimenti  per
l'applicazione di  misure  di  prevenzione  debbono  vedersi  «almeno
offrire la possibilita' di sollecitare una pubblica  udienza  davanti
alle sezioni specializzate dei tribunali  e  delle  corti  d'appello»
(sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia; in senso
conforme, sentenza 8  luglio  2008,  Perre  e  altri  contro  Italia;
sentenza 5 gennaio 2010, Buongiorno contro Italia); 
    che la  Corte  rimettente  evidenzia,  altresi',  come  le  norme
denunciate siano, per converso, inequivoche  nello  stabilire,  senza
eccezioni, che il procedimento per  l'applicazione  delle  misure  di
prevenzione debba essere celebrato, nei gradi di merito, in camera di
consiglio (e, dunque, senza la presenza del pubblico); 
    che sarebbe, dunque, inevitabile  la  conclusione  che  le  norme
denunciate, nella parte  in  cui  non  accordano  all'interessato  la
garanzia «minimale» richiesta dalla  Corte  europea,  violino  l'art.
117, primo comma, Cost.; 
    che, successivamente all'ordinanza di rimessione,  questa  Corte,
con la sentenza n. 93  del  2010,  ha  dichiarato  costituzionalmente
illegittimi,  per   violazione   del   medesimo   parametro   evocato
dall'odierno rimettente, l'art. 4 della legge  n.  1423  del  1956  e
l'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, «nella  parte  in  cui  non
consentono che, su istanza degli  interessati,  il  procedimento  per
l'applicazione delle misure di  prevenzione  si  svolga,  davanti  al
tribunale e alla corte d'appello, nelle forme dell'udienza pubblica»; 
    che  tale  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale   si
riferisce  ai  procedimenti  per  l'applicazione  delle   misure   di
prevenzione tanto personali che patrimoniali; 
    che, pertanto, al di la' del piu' ampio complesso di disposizioni
oggi coinvolte nello  scrutinio  (il  quale  abbraccia  anche  l'art.
3-ter, secondo comma, della legge  n.  575  del  1965:  disposizione,
peraltro, di semplice rinvio, nella parte che  interessa,  al  decimo
comma dell'art. 4  della  legge  n.  1423  del  1956,  attinto  dalla
ricordata dichiarazione di illegittimita' costituzionale),  la  norma
contro cui si rivolgono le censure del giudice a quo - vale  a  dire,
quella che non consente agli interessati di chiedere che, davanti  ai
tribunali e alle corti d'appello, il procedimento di  prevenzione  si
svolga in forma pubblica - e' gia' stata rimossa dall'ordinamento con
efficacia ex tunc; 
    che, di conseguenza, la questione  va  dichiarata  manifestamente
inammissibile per sopravvenuta  mancanza  di  oggetto  (ex  plurimis,
ordinanze n. 306 e n. 78 del 2010; con riguardo a questione analoga a
quella oggi in esame, sentenza n. 80 del 2011); 
    che tale profilo  di  manifesta  inammissibilita'  e'  assorbente
rispetto a quello, pur  riconoscibile,  che  deriva  dal  difetto  di
rilevanza,  nel  giudizio  a  quo,  della  questione  concernente  il
giudizio di primo grado, non risultando dall'ordinanza di  rimessione
che sia stata formulata  nel  precedente  grado  di  giudizio  alcuna
istanza  di  trattazione  in  forma  pubblica  del  procedimento  (al
riguardo, sentenza n. 80 del 2011). 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale.