IL TRIBUNALE DI CATANIA Ha emesso la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n. 6186/09 R.G., promossa da P. O. nata a M., il 17 febbraio 1958, residente in R. in persona del suo tutore pro tempore A. P., rappresentato e difeso, giusta procura a margine del ricorso introduttivo del giudizio, dall'avv. Mario Di Mauro presso lo studio del quale in Catania, e' elettivamente domiciliato; Ricorrente Contro P . M. A. nato a C. il 19 febbraio 1992 S. F. nata a C. il 19 giugno 1968 entrambi residenti in C., rappresentati e difesi, giusta procura a margine della comparsa di risposta, dall'avv. Patrizia Tamurella presso lo studio della quale in Catania, sono elettivamente domiciliati; Convenuti Il Tribunale, riunito in camera di consiglio, esaminati gli atti, udito il relatore; Osserva Con atto di citazione notificato in data 29.4.2009 O. P. per il tramite del suo tutore A. P. conveniva al giudizio del Tribunale di Catania M. A. P. ed esponeva che con sentenza n. 2621/04 del 30.1.2004 era stata pronunciata la sua interdizione e con provvedimento del 21.12.2007 nominato il tutore nella persona del fratello A.P. che nel corso della procedura di interdizione e di gestione della tutela veniva introdotto, da parte dei genitori dell'interdetto, un procedimento per la dichiarazione di nullita' del matrimonio che esso interdetto aveva contratto in data 15 dicembre 1990 con S. F., per essere stato uno dei contraenti affetto sin dalla nascita da infermita' mentale; che con sentenza n. 2772/07 il Tribunale dichiarava la nullita' del matrimonio e affidava il figlio minore nato da tale matrimonio, M. A. P., alla madre; che il figlio M. A. non poteva essere figlio di esso interdetto e cio' sia per assenza di coabitazione dei coniugi nel periodo compreso tra il trecentesimo ed il centottantesimo giorno prima della nascita, sia per l'impotenza del marito durante il tempo suddetto nonche' per la presenza nel medesimo periodo di una relazione extraconiugale della moglie. Concludeva chiedendo che, previ gli accertamenti medici del caso, il Tribunale dichiarasse che il convenuto M. A. P. non era figlio dell'attore. Instauratosi il contraddittorio si costituiva in giudizio S. F. nella qualita' di legale rappresentante del figlio minore che deduceva il difetto di integrita' del contraddittorio atteso che era stata chiamata in giudizio solo quale legale rappresentante del figlio e non personalmente. Deduceva in via pregiudiziale l'intervenuta decadenza dall'azione di disconoscimento ai sensi dell'art. 244 c.c. atteso che, fino alla pronuncia della sentenza di interdizione il P. era pienamente capace di agire giuridicamente, con la conseguenza che avrebbe dovuto proporre l'azione entro il termine di un anno dalla nascita del figlio, atteso che la sospensione del relativo termine, ai sensi dell'art. 245 c.c. doveva ritenersi operante solo per l'ipotesi in cui fosse intervenuta sentenza di interdizione. Contestava nel merito l'insussistenza dei presupposti per l'accoglimento della domanda della quale chiedeva il rigetto. Alla prima udienza il giudice assegnava a parte attrice termine per integrare il contraddittorio nei confronti di S. F., che, costituitasi in giudizio personalmente ribadiva le stesse difese gia' svolte quale rappresentante legale del figlio. Assegnati i termini ex art. 183 comma VI c.p.c. e formulate le relative richieste istruttorie il giudice istruttore rimetteva la causa al Collegio affinche' lo stesso si pronunziasse sulla pregiudiziale questione della decadenza della possibilita' di promuovere l'azione. Risultano dagli atti di causa le seguenti incontestate circostanze: Con sentenza n. 2621/04 emessa in data 26.7.2004 il Tribunale di Catania, su ricorso dell'odierna convenuta S. G., pronunciava l'interdizione di P. O., rilevando che il consulente tecnico all'uopo nominato dal giudice istruttore aveva accertato che il P. era affetto da ritardo mentale grave, patologia da attribuirsi a genesi traumatica perinatale, che rendeva il soggetto incapace di provvedere a propri interessi. Dalla relazione di consulenza tecnica del dott. Carmelo Florio a, depositata in quel procedimento, risulta che "in seguito alle condizioni di sofferenza perinatale (fattore traumatico ostetrico da presumibile sproporzione cefalo pelvica o da presentazione anomala o da non appropriato impiego di forcipe o ventosa ostetrica) il periziando ha manifestato ritardo mentale con disturbi del linguaggio, della comprensione e delle principali funzioni psichiche...l'esordio del disturbo e' certamente ascrivibile all'epoca perinatale...tale deficit e' irreversibile e duraturo". Ad analoghe conclusioni giungeva il consulente tecnico d'ufficio nominato dal giudice istruttore nella controversia promossa dai genitori dell'odierno attore e tendente ad ottenere la declaratoria di nullita' del matrimonio dallo stesso contratto con la convenuta S. F., giudizio conclusosi con sentenza n. 2772/07 che ha dichiarato tale nullita' per le acclarate condizioni di incapacita' del ricorrente al momento in cui lo stesso ha contratto il matrimonio (anno 1990). Anche il dott. Roberto Parlato ha rilevato che il ritardo mentale e' certamente riconducibile all'epoca perinatale (da causa traumatica) ed appare evidente che l'assenza di interventi mirati di tipo riabilitativo...ha limitato i margini di miglioramento e recupero sociale e interpersonale. Il periziando non appare in grado di esprimere giudizi, ne' possedere capacita' di critica tali da autodeterminarsi...la genesi traumatica perinatale di tale patologia puo' rendere conto del fatto che verosimilmente tale condizioni di incapacita' ad operare scelte autonome e responsabili, stante l'irreversibilita', fisse presente al momento della celebrazione del matrimonio. Orbene, se e' vero che, come sostenuto dalla Suprema Corte con sentenza n. 52498/ 1983 citata dalla difesa dei convenuti, la sentenza di interdizione non ha portata di giudicato costitutivo o dichiarativo della incapacita' legale o naturale dell'interdicendo con effetti risalenti al momento anteriore alla sua pubblicazione, e' anche vero che dagli atti, e segnatamente dalle due consulenze tecniche in atti, affatto contestate dai convenuti, risulta evidente che l'incapacita' che ha condotto alla interdizione del P., ed alla dichiarazione di nullita' del matrimonio dallo stesso contratto - ricollegabile gia' alla nascita - era certamente esistente al momento del sorgere del vincolo coniugale, e, dunque, della nascita del figlio ed e' di natura irreversibile. Va al riguardo rilevato che nessuna effettiva contestazione hanno mosso le parti convenute sull'esistenza di tale incapacita' in capo al P., dovendo al contrario sottolinearsi che e' stata proprio la odierna convenuta ad incoare il giudizio di interdizione nei confronti del coniuge. Siamo pertanto al cospetto di un soggetto che sin dalla nascita ha manifestato un ritardo mentale di tale gravita' da renderlo incapace non solo di provvedere materialmente ai propri interessi, ma altresi' di esprimere giudizi . possedere capacita' di critica tali da autodeterminarsi. e, dunque formarsi una autonoma volonta' e consapevolezza degli eventi esterni e, in sintesi, radicalmente privo della capacita' di intendere e di volere. Tanto Premesso, e al fine di valutare il fondamento dell'eccezione di decadenza sollevata dai convenuti, occorre individuare le norme di riferimento che nella specie sono costituite dagli artt. 244 e 245 c.c. Ai sensi dell'art. 244 c.c. il marito puo' disconoscere il figlio nel termine di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui e' nato il figlio; dal giorno del suo ritorno nel luogo in cui e' nato il figlio o in cui e' la residenza familiare. In ogni caso se prova di non avere avuto notizie della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto notizia. Ai sensi del successivo art. 245 c.c. se la parte interessata a promuovere l'azione di disconoscimento della paternita' si trova in stato di interdizione per infermita' di mente, la decadenza del termine indicato nell'articolo precedente e' sospesa nei suoi confronti sino a che dura lo stato di interdizione. L'azione puo' tuttavia essere promossa dal tutore. Tale ultima norma fa evidente e specifico richiamo allo "stato di interdizione per infermita' di mente" ed e' dunque applicabile unicamente alle ipotesi in cui il soggetto interessato sia giuridicamente incapace per effetto della conclusione del procedimento di interdizione, il che implica la necessita' che il termine non sia scaduto prima dell'interdizione. Il tenore letterale della norma e' chiaro ed evidente, ne' la stessa e' suscettibile di essere applicata analogicamente. E'd'obbligo, infatti, ricordare che le norme in tema di decadenza, e conseguentemente, quelle in tema di interruzione o sospensione dei relativi termini, per principio pacifico di diritto, sono di natura eccezionale e, dunque, insuscettibili di applicazione analogica, il che esclude la possibilita' di ritenere che la stessa possa essere applicata analogicamente (la Suprema Corte con riferimento all'ipotesi contemplata dall'art. 2942 n. 1 c.c. che prevede la sospensione della prescrizione nei confronti degli interdetti per infermita' di mente, per il tempo in cui non hanno rappresentante legale e per sei mesi successivi alla nomina del medesimo, ha chiarito che avendo la relativa disposizione carattere di norma eccezionale ricade nel divieto di interpretazione analogica di cui all'art. 14 preleggi, e non e' applicabile, pertanto, con riguardo all'interdicendo) . La norma, dunque, presuppone (soprattutto nella formulazione originaria) la natura personalissima dell'azione e appresta una particolare tutela per il soggetto interdetto, rendendo di fatto inoperante il termine di decadenza di cui all'art. 244 c.c. E'vero che la legge di riforma del diritto di famiglia ha introdotto la legittimazione a proporre l'azione pur in capo al tutore, ma allo stesso e' rimessa la mera facolta' di dare inizio al procedimento di disconoscimento, senza che la sua intervenuta nomina implichi l'inizio del decorso del termine per la decadenza e cio' a differenza di quanto avviene, in via generale, per la prescrizione. L'art. 2942 c. i c.c., infatti, prevede che la prescrizione rimane sospesa contro gli interdetti solo "per il tempo in cui non hanno rappresentante legale e per sei mesi successivi alla nomina del medesimo", in tal modo circoscrivendo l'arco temporale in cui la sospensione opera. Lo schema normativo contenuto nel codice civile, come modificato dalla riforma del diritto di famiglia, non tutela in alcun modo, rispetto all'azione di cui si discute, l'incapace naturale, ponendo lo stesso, a differenza di quanto accade per il soggetto interdetto, nella medesima condizione del soggetto pienamente capace di intendere e di volere (e di acquisire conseguentemente piena consapevolezza pur dei fatti che fondano l'azione), e cio' a differenza di quanto avviene in via generale per il compimento di atti e negozi giuridici, per i quali l'ordinamento riconosce la valenza di uno stato anche temporaneo di incapacita' di intendere e volere che giustifica, pur alle condizioni di cui all'art. 428 c.c. l'annullamento degli atti e dunque la privazione di efficacia degli stessi. Ritiene il Collegio dubbia la rispondenza di tale norma al dettato costituzionale e pertanto necessario sollevare, d'ufficio, la questione di legittimita' costituzionale della stessa. Sotto il profilo della rilevanza, basti rilevare che, come correttamente rilevato dalla difesa dei convenuti, nella fattispecie in esame lo stato di interdizione e' intervenuto quando era gia' ampiamente decorso il termine di decadenza di cui all'art. 244 c.c., essendo stato dichiarato interdetto il P. nell'anno 2004, laddove il figlio e' nato nel 1992 . Posta la non operativita' nella specie dell'art. 245 c.c. che contemplando l'ipotesi della sospensione, fa certamente riferimento ad un termine non ancora interamente decorso, non potrebbe che dichiararsi l'attore decaduto dalla possibilita' di propone l'azione di disconoscimento e cio' nonostante si tratti di soggetto che, sia al momento della nascita del figlio che successivamente, non era certamente capace di avere la consapevolezza della sussistenza delle condizioni dell'azione, con la conseguente irrimediabile perdita del diritto di agire in giudizio a tutela di una posizione giuridica personalissima. Sotto il profilo della non manifesta infondatezza osserva il Tribunale che l'art. 245 c.c. nella parte in cui prevede la sospensione del termine di cui all'art. 244 c.c. per la sola ipotesi di interdizione, sembra porti in contrasto in primo luogo con l'art. 3 della Costituzione in quanto assoggetta alla medesima disciplina due soggetti (il soggetto pienamente capace di intendere e di volere e il soggetto incapace naturalmente al momento in cui e' sorto lo status) che si trovano in una condizione di fatto e giuridica del tutto diversa. Che l'incapace naturale venga riconosciuto, con riferimento ad altri aspetti della sua sfera giuridica, soggetto meritevole di tutela - pur non piena come quella che si determina nell'ipotesi di interdizione - e' poi desumibile dalla disciplina dell'annullabilita' degli atti dallo stesso compiuti (art. 428 c.c.). Come noto, dall'art. 3 discendono tanto il principio di non discriminazione che quello di ragionevolezza. I limiti cosi' imposti al legislatore comportano che lo stesso, pur essendo nella condizione di disciplinare le materie che sono attribuite alla sua competenza in modo libero, tuttavia, non puo' escludere determinati soggetti dal godimento di specifiche situazioni, o imporre agli stessi divieti, in modo discriminatorio, a maggior ragione quando tali situazioni sono costituzionalmente rilevanti. Attraverso il principio d'eguaglianza e di verifica che la legge disponga un trattamento pari, per posizioni eguali, e differenziato per situazioni diverse, si e' estrapolato dalla Costituzione un "canone di coerenza dell'ordinamento giuridico", incentrato sulla clausola generale della ragionevolezza, grazie al quale si e' progressivamente esteso il giudizio di legittimita' costituzionale sull'azione del legislatore, in termini di logicita' interna della normativa, razionalita' delle deroghe apportate, giustificazione delle differenze di trattamento. Il legislatore puo', cosi', imporre limiti ai diritti e agli interessi dei soggetti in base alle finalita' che si intendono perseguire con l'esercizio del potere legislativo ma non puo' trattare diversamente determinati soggetti rispetto ad altri che si trovino nella medesima situazione, a meno che la disparita' di trattamento non sia giustificata in modo ragionevole: "il principio di eguaglianza e' violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso a cittadini che si trovino in situazione eguale"(C. Cast n. 15 del 1960); e, ancora, per citare un altro esempio in tal senso: "il principio di cui all'art. 3 cost. e' violato non solo quando i trattamenti messi a confronto sono formalmente contraddittori in ragione dell'identita' delle fattispecie, ma anche quando la differenza di trattamento e' irrazionale secondo le regole del discorso pratico, in quanto le rispettive fattispecie, pur diverse, s n ragionevolmente analoghe" Altra norma con la quale il suddetto art. 245 c.c. sembra contrastare e' l'art. 24 della Costituzione, ove si consideri l'evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale avente ad oggetto l'art. 244 c.c. con particolare riferimento al momento in cui inizia a decorrere il termine di decadenza nell'ipotesi in cui a promuovere l'azione sia il padre. Con la sentenza n. 134/85 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 244 c.c. nella parte in cui non dispone, per il caso di disconoscimento fondato sull'adulterio della moglie, che il termine dell'azione decorra dal giorno in cui il marito sia venuto a conoscenza dell'adulterio della moglie.Con sentenza n. 170/1999 la Corte ha dichiarato illegittima la medesima norma nella parte in cui non prevede che il termine annuale per la proposizione dell'azione di disconoscimento della paternita' nell'ipotesi di impotentia generandi, contemplata dal secondo comma dell'art. 235 c.c., decorra per il marito o per la moglie - quando sia lei a proporre l'azione di disconoscimento - dal giorno in cui si e' avuta conoscenza della detta impotenza. Nella motivazione della sentenza n. 134/85 la Corte costituzionale evidenzia l'irragionevolezza della norma nella parte in cui non privilegia l'effettiva conoscenza dell'adulterio che, in considerazione del particolare "fatto" oggetto della conoscenza, puo' essere preclusa per lungo tempo, in tal modo impedendo al padre di proporre il disconoscimento "dopo essere venuto a conoscenza dell'adulterio cioe' dopo l'avvenimento da cui nasce il suo diritto di azione" e cio' in evidente contrasto con quanto stabilito dalla medesima norma con riguardo all'ipotesi in cui il padre sia venuto a conoscenza della nascita solo in epoca successiva alla stessa, nel quale caso il termine decorre dal momento in cui tale conoscenza si e' verificata. Il Giudice delle leggi ha ritenuto che tale limitazione alla possibilita' di agire giudizialmente in capo al padre legittimo che sia venuto a conoscenza del tradimento della moglie che lo legittima alla proposizione dell'azione solo in epoca successiva al decorso del termine di cui all'art. 244 c.c., costituisca una grave lesione dell'art. 24 della Costituzione ed in particolare del diritto di agire in giudizio sancito dal primo comma, non piu' giustificabile dal contemperamento di tale interesse con quello contrapposto della tutela dello status di figlio legittimo. Come rileva la Corte costituzionale nella successiva sentenza n. 170/99 l'iter argomentativo di tale pronuncia si fonda "oltre che su considerazioni di ordine generale relative alla evoluzione della coscienza collettiva, nel senso della accordata preminenza del fatto della procreazione sulla qualificazione giuridica della filiazione e sulla constatazione della finalita', voluta dal legislatore del 1975 e ulteriormente da quello del 1983, di favorire il perseguimento del valore verita' - sulla constatazione, in particolare, della irragionevole esclusione del diritto del padre di agire per il disconoscimento, nel caso di scoperta dell'adulterio oltre un anno dopo la nascita del figlio, poiche', in tale ipotesi, l'azione sarebbe inutiliter data, con patente violazione del diritto di agire in giudizio" Nella medesima sentenza n. 179/99 la Corte evidenzia che il diritto di azione di cui all'art. 24 della Costituzione viene irrimediabilmente leso "quando si consente che il termine per il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi da cui sorge il diritto stesso" il che appare "inconciliabile con il principio in base al quale la garanzia di cui all'art. 24 della Costituzione deve estendersi alla conoscibilita' del momento di decorrenza del termine stesso al fine di assicurarne all'interessato l'utilizzazione nella sua interezza" e dunque contrasta insanabilmente con i principi costituzionali che presiedono alla tutela giurisdizionale dei diritti. Osserva ancora la Corte che tale interpretazione non si pone in contrasto con l'esigenza di tutela dello status di figlio legittimo rilevando che gia' il legislatore della riforma del diritto di famiglia "ha superato la impostazione tradizionale che attribuiva preminenza al favor legitimitatis attraverso la equiparazione della filiazione naturale a quella legittima ed ha di conseguenza reso omogenee le situazioni che discendono dalla conservazione dello stato ancorato alla certezza formale rispetto a quelle che si acquisiscono con l'affermazione della verita' naturale; .L'attribuzione di pari diritti ai figli naturali rispetto a quelli legittimi, ad opera del riformato art. 261 del codice civile, determinando il venir meno della posizione di privilegio di questi ultimi, ha consentito l'acquisizione di status conformi alla realta' della procreazione, senza piu' tema di gravi conseguenze pregiudizievoli legate alla condizione di sfavore della filiazione naturale. Contemporaneamente le ipotesi di accertamento della verita' biologica sono state ampliate. Le disposizioni normative che consentono di verificare la conformita' dello status alla realta' della procreazione hanno quindi comportato l'affermazione del principio della tendenziale corrispondenza tra certezza formale e verita' naturale la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall'elevatissimo grado di attendibilita' dei risultati delle indagini. Nella crescente considerazione del favor veritatis non si e' ravvisata una ragione di conflitto con il favor minoris, poiche' anzi la verita' biologica della procreazione si e' ritenuta una componente essenziale dell'interesse del medesimo minore, riconoscendosi espressamente l'esigenza di garantire al figlio il diritto alla propria identita' e precisamente all'affermazione di un rapporto di filiazione veridico (sentenze nn. 216 e 112 del 1997), rispetto al quale puo' recedere l'intangibilita' dello status, allorche' esso risulti privato del fondamento della presunta corrispondenza alla verita' biologica e quando risulti tempestivamente azionato il diritto. Le argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale nelle pronunce sull'art. 244 c.c., alle quali hanno fatto seguito altre che hanno ancora di piu' esteso l'ambito di operativita' dell'azione di disconoscimento della paternita' (si pensi alla sentenza n. 266/06 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, sempre per contrasto con l'art. 24, l'art. 235 comma 1 m. 3 nella parte in cui ai fini dell'azione di disconoscimento della paternita' subordina l'esame delle prove tecniche, da cui risulta che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, alla previa dimostrazione dell'adulterio della moglie) inducono a interrogarsi sulla conformita' all'art. 24 della Costituzione pur dell'art. 245 c.c. (oggetto della presente analisi) che sembra impingere nella medesima violazione riscontrata nella norma precedente; nel limitare la sospensione del termine di decadenza di cui all'art. 244 c.c. alla sola ipotesi in cui la parte interessata si trovi in stato di interdizione, la norma di fatto impedisce al soggetto titolare di un'azione personalissima che si trovi nella condizione, anche temporanea, di non potere avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell'azione di poterla validamente esperire, cosi' ponendosi, pur essa, in contrasto con l'art. 24 comma secondo della Costituzione, senza che tale sostanziale privazione del diritto di agire possa essere giustificata, per le ragioni sopra esposte, da un preminente diverso interesse quale il favor legitimitatis. Ne' sussiste, nel contesto normativo del nostro codice civile, la possibilita' di una diversa interpretazione costituzionalmente orientata: l'art. 245 c.c. disciplinando un termine di decadenza, non e' suscettibile di applicazione analogica; nessun ausilio puo' trarsi dalla disciplina in tema di annullabilita' degli atti compiuti da persona incapace, posto che nel sistema delineato dall'art. 428 c.c. e' irrilevante, al fine della proposizione dell'azione di annullamento, il momento in cui l'incapace ha la consapevolezza di avere compiuto, in stato di incapacita', un atto a se' pregiudizievole, come dimostrato dal fatto che il termine di prescrizione per l'azione decorre dal momento in cui l'atto e' stato compiuto e non dal momento in cui e' cessato lo stato di incapacita' : per pacifica interpretazione la norma e' dettata a tutela dell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici che tuttavia appare mitigata dalla possibilita' di applicazione del principio contenuto dell'art. 1442 ultimo comma c.c. a tenore del quale l'annullabilita' (ivi compresa quella derivante da uno stato di incapacita' naturale) puo' essere opposta dalla pare convenuta per l'esecuzione del contratto anche se e' prescritta l'azione per farla valere. Ne' potrebbe in senso contrario argomentarsi che l'estensione della sospensione di cui all'art. 245 c.c. comporterebbe, di fatto, l'inoperativita' del termine: tale effetto e' possibile pur nell'ipotesi di soggetto che si trovi in stato di interdizione, atteso che, come gia' detto, il tutore puo', e non deve, promuovere l'azione di disconoscimento dopo che sia intervenuta la sua nomina e, certamente, non si realizza per tutte le ipotesi (diverse da quella in esame) in cui il soggetto si trovi un uno stato di incapacita' naturale temporaneo. Tutto cio' premesso ritiene il Collegio di dovere sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 245 c.c. nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine di cui al precedente art. 244 c.c. sia sospesa pur quando la parte interessata a promuovere l'azione di disconoscimento della paternita' si trovi in stato di incapacita' naturale per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione.