IL TRIBUNALE DI CATANIA 
 
    Ha emesso la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n.
6186/09  R.G.,  promossa  da  P.  O.  nata  a  M.,  il  17   febbraio
1958, residente in R. in persona del suo tutore pro  tempore  A.  P.,
rappresentato  e  difeso,  giusta  procura  a  margine  del   ricorso
introduttivo del giudizio, dall'avv. Mario Di Mauro presso lo  studio
del quale in Catania, e' elettivamente domiciliato; Ricorrente 
    Contro P . M. A. nato a C. il 19 febbraio 1992 S. F. nata a C. il
19 giugno 1968 entrambi residenti  in  C.,  rappresentati  e  difesi,
giusta procura  a  margine  della  comparsa  di  risposta,  dall'avv.
Patrizia Tamurella presso lo studio  della  quale  in  Catania,  sono
elettivamente domiciliati; Convenuti 
    Il Tribunale, riunito in camera di consiglio, esaminati gli atti,
udito il relatore; 
 
                               Osserva 
 
    Con atto di citazione notificato in data 29.4.2009 O. P.  per  il
tramite del suo tutore A. P. conveniva al giudizio del  Tribunale  di
Catania M. A.  P.  ed  esponeva  che  con  sentenza  n.  2621/04  del
30.1.2004  era  stata  pronunciata  la   sua   interdizione   e   con
provvedimento del 21.12.2007 nominato il  tutore  nella  persona  del
fratello A.P. che nel corso della  procedura  di  interdizione  e  di
gestione della  tutela  veniva  introdotto,  da  parte  dei  genitori
dell'interdetto, un procedimento per la dichiarazione di nullita' del
matrimonio che esso interdetto aveva contratto in  data  15  dicembre
1990 con S. F., per essere stato uno dei contraenti affetto sin dalla
nascita da  infermita'  mentale;  che  con  sentenza  n.  2772/07  il
Tribunale dichiarava la nullita' del matrimonio e affidava il  figlio
minore nato da tale matrimonio, M. A. P., alla madre; che  il  figlio
M. A. non poteva essere figlio di esso  interdetto  e  cio'  sia  per
assenza di coabitazione dei  coniugi  nel  periodo  compreso  tra  il
trecentesimo ed il centottantesimo giorno prima  della  nascita,  sia
per l'impotenza del marito durante il tempo suddetto nonche'  per  la
presenza nel medesimo periodo di una relazione  extraconiugale  della
moglie. 
    Concludeva chiedendo che, previ gli accertamenti medici del caso,
il Tribunale dichiarasse che il convenuto M. A.  P.  non  era  figlio
dell'attore. 
    Instauratosi il contraddittorio si costituiva in giudizio  S.  F.
nella  qualita'  di  legale  rappresentante  del  figlio  minore  che
deduceva il difetto di integrita' del contraddittorio atteso che  era
stata chiamata in  giudizio  solo  quale  legale  rappresentante  del
figlio e non personalmente. 
    Deduceva in via pregiudiziale l'intervenuta decadenza dall'azione
di disconoscimento ai sensi dell'art. 244 c.c. atteso che, fino  alla
pronuncia della sentenza di interdizione il P. era pienamente  capace
di agire  giuridicamente,  con  la  conseguenza  che  avrebbe  dovuto
proporre l'azione entro il termine  di  un  anno  dalla  nascita  del
figlio, atteso che la sospensione  del  relativo  termine,  ai  sensi
dell'art. 245 c.c. doveva ritenersi operante solo  per  l'ipotesi  in
cui fosse intervenuta sentenza di interdizione. 
    Contestava  nel  merito  l'insussistenza  dei   presupposti   per
l'accoglimento della domanda della quale chiedeva il rigetto. 
    Alla prima udienza il giudice assegnava a parte  attrice  termine
per integrare  il  contraddittorio  nei  confronti  di  S.  F.,  che,
costituitasi in giudizio personalmente ribadiva le stesse difese gia'
svolte quale rappresentante legale del figlio. 
    Assegnati i termini ex art. 183 comma VI c.p.c.  e  formulate  le
relative richieste istruttorie il  giudice  istruttore  rimetteva  la
causa  al  Collegio  affinche'  lo  stesso  si   pronunziasse   sulla
pregiudiziale  questione  della  decadenza  della   possibilita'   di
promuovere l'azione. 
    Risultano  dagli  atti  di   causa   le   seguenti   incontestate
circostanze: 
    Con sentenza n. 2621/04 emessa in data 26.7.2004 il Tribunale  di
Catania,  su  ricorso  dell'odierna  convenuta  S.  G.,   pronunciava
l'interdizione di P. O., rilevando che il consulente tecnico all'uopo
nominato dal giudice istruttore aveva accertato che il P. era affetto
da  ritardo  mentale  grave,  patologia  da  attribuirsi   a   genesi
traumatica perinatale, che rendeva il soggetto incapace di provvedere
a propri interessi. 
    Dalla relazione di consulenza tecnica del dott. Carmelo Florio a,
depositata  in  quel  procedimento,  risulta  che  "in  seguito  alle
condizioni di sofferenza perinatale (fattore traumatico ostetrico  da
presumibile sproporzione cefalo pelvica o da presentazione anomala  o
da non  appropriato  impiego  di  forcipe  o  ventosa  ostetrica)  il
periziando  ha  manifestato  ritardo   mentale   con   disturbi   del
linguaggio,  della   comprensione   e   delle   principali   funzioni
psichiche...l'esordio  del   disturbo   e'   certamente   ascrivibile
all'epoca perinatale...tale deficit e' irreversibile e duraturo". 
    Ad analoghe conclusioni giungeva il consulente tecnico  d'ufficio
nominato dal  giudice  istruttore  nella  controversia  promossa  dai
genitori dell'odierno attore e tendente ad ottenere  la  declaratoria
di nullita' del matrimonio dallo stesso contratto con la convenuta S.
F., giudizio conclusosi con sentenza n.  2772/07  che  ha  dichiarato
tale  nullita'  per  le  acclarate  condizioni  di  incapacita'   del
ricorrente al momento in cui lo stesso  ha  contratto  il  matrimonio
(anno 1990). 
    Anche il dott. Roberto Parlato ha rilevato che il ritardo mentale
e'  certamente   riconducibile   all'epoca   perinatale   (da   causa
traumatica) ed appare evidente che l'assenza di interventi mirati  di
tipo  riabilitativo...ha  limitato  i  margini  di  miglioramento   e
recupero sociale e interpersonale. Il periziando non appare in  grado
di esprimere giudizi, ne' possedere  capacita'  di  critica  tali  da
autodeterminarsi...la genesi traumatica perinatale di tale  patologia
puo' rendere conto del fatto che verosimilmente  tale  condizioni  di
incapacita'  ad  operare  scelte  autonome  e  responsabili,   stante
l'irreversibilita', fisse presente al momento della celebrazione  del
matrimonio. 
    Orbene, se e' vero che, come sostenuto dalla  Suprema  Corte  con
sentenza n.  52498/  1983  citata  dalla  difesa  dei  convenuti,  la
sentenza di interdizione non ha portata di  giudicato  costitutivo  o
dichiarativo della incapacita' legale  o  naturale  dell'interdicendo
con effetti risalenti al momento anteriore alla sua pubblicazione, e'
anche vero che  dagli  atti,  e  segnatamente  dalle  due  consulenze
tecniche in atti, affatto contestate dai convenuti, risulta  evidente
che l'incapacita' che ha condotto alla interdizione del P.,  ed  alla
dichiarazione di nullita' del matrimonio  dallo  stesso  contratto  -
ricollegabile gia' alla nascita - era certamente esistente al momento
del sorgere del vincolo  coniugale,  e,  dunque,  della  nascita  del
figlio ed e' di natura irreversibile. 
    Va al riguardo rilevato che nessuna effettiva contestazione hanno
mosso le parti convenute sull'esistenza di tale incapacita'  in  capo
al P., dovendo al contrario sottolinearsi che  e'  stata  proprio  la
odierna  convenuta  ad  incoare  il  giudizio  di  interdizione   nei
confronti del coniuge. 
    Siamo pertanto al cospetto di un soggetto che sin  dalla  nascita
ha manifestato un  ritardo  mentale  di  tale  gravita'  da  renderlo
incapace non solo di provvedere materialmente ai propri interessi, ma
altresi' di esprimere giudizi . possedere capacita' di  critica  tali
da autodeterminarsi. e,  dunque  formarsi  una  autonoma  volonta'  e
consapevolezza degli eventi esterni e, in sintesi, radicalmente privo
della capacita' di intendere e di volere. 
    Tanto  Premesso,  e   al   fine   di   valutare   il   fondamento
dell'eccezione  di  decadenza  sollevata   dai   convenuti,   occorre
individuare le norme di riferimento che nella specie sono  costituite
dagli artt. 244 e 245 c.c. 
    Ai sensi dell'art. 244 c.c. il marito puo' disconoscere il figlio
nel termine di un anno che decorre dal giorno  della  nascita  quando
egli si trovava al tempo di questa  nel  luogo  in  cui  e'  nato  il
figlio; dal giorno del suo ritorno nel luogo in cui e' nato il figlio
o in cui e' la residenza familiare. In ogni  caso  se  prova  di  non
avere avuto notizie della nascita in detti giorni, il termine decorre
dal giorno in cui ne ha avuto notizia. 
    Ai sensi del successivo art. 245 c.c. se la parte  interessata  a
promuovere l'azione di disconoscimento della paternita' si  trova  in
stato di interdizione per  infermita'  di  mente,  la  decadenza  del
termine  indicato  nell'articolo  precedente  e'  sospesa  nei   suoi
confronti sino a che dura lo stato  di  interdizione.  L'azione  puo'
tuttavia essere promossa dal tutore. 
    Tale ultima norma fa evidente e specifico richiamo allo "stato di
interdizione per  infermita'  di  mente"  ed  e'  dunque  applicabile
unicamente  alle  ipotesi  in  cui  il   soggetto   interessato   sia
giuridicamente   incapace   per   effetto   della   conclusione   del
procedimento di interdizione, il che implica  la  necessita'  che  il
termine non sia scaduto prima dell'interdizione. 
    Il tenore letterale della norma e' chiaro  ed  evidente,  ne'  la
stessa e' suscettibile di essere applicata analogicamente. 
    E'd'obbligo,  infatti,  ricordare  che  le  norme  in   tema   di
decadenza, e conseguentemente,  quelle  in  tema  di  interruzione  o
sospensione dei relativi termini, per principio pacifico di  diritto,
sono di natura eccezionale e, dunque, insuscettibili di  applicazione
analogica, il che esclude la possibilita' di ritenere che  la  stessa
possa  essere  applicata  analogicamente  (la   Suprema   Corte   con
riferimento all'ipotesi contemplata dall'art.  2942  n.  1  c.c.  che
prevede  la  sospensione  della  prescrizione  nei  confronti   degli
interdetti per infermita' di mente, per il tempo  in  cui  non  hanno
rappresentante legale e per  sei  mesi  successivi  alla  nomina  del
medesimo, ha chiarito che avendo la relativa  disposizione  carattere
di norma eccezionale ricade nel divieto di interpretazione  analogica
di cui all'art. 14 preleggi, e  non  e'  applicabile,  pertanto,  con
riguardo all'interdicendo) . 
    La norma,  dunque,  presuppone  (soprattutto  nella  formulazione
originaria) la  natura  personalissima  dell'azione  e  appresta  una
particolare tutela per il  soggetto  interdetto,  rendendo  di  fatto
inoperante il termine di decadenza di cui all'art.  244  c.c.  E'vero
che la legge di riforma del diritto  di  famiglia  ha  introdotto  la
legittimazione a proporre l'azione pur in capo  al  tutore,  ma  allo
stesso e' rimessa la mera facolta' di dare inizio al procedimento  di
disconoscimento,  senza  che  la  sua  intervenuta  nomina   implichi
l'inizio del decorso del termine per la decadenza e cio' a differenza
di quanto avviene, in via generale, per la prescrizione. L'art.  2942
c. i c.c., infatti, prevede che la prescrizione rimane sospesa contro
gli interdetti solo "per il tempo in  cui  non  hanno  rappresentante
legale e per sei mesi successivi alla nomina del  medesimo",  in  tal
modo circoscrivendo l'arco temporale in cui la sospensione opera. 
    Lo schema normativo contenuto nel codice civile, come  modificato
dalla riforma del diritto di famiglia,  non  tutela  in  alcun  modo,
rispetto all'azione di cui si discute, l'incapace  naturale,  ponendo
lo stesso, a differenza di quanto accade per il soggetto  interdetto,
nella medesima condizione del soggetto pienamente capace di intendere
e di volere (e di acquisire conseguentemente piena consapevolezza pur
dei fatti che fondano  l'azione),  e  cio'  a  differenza  di  quanto
avviene in via generale per il compimento di atti e negozi giuridici,
per i quali l'ordinamento riconosce la valenza  di  uno  stato  anche
temporaneo di incapacita' di intendere e volere che  giustifica,  pur
alle condizioni di cui all'art. 428 c.c. l'annullamento degli atti  e
dunque la privazione di efficacia degli stessi. 
    Ritiene il Collegio  dubbia  la  rispondenza  di  tale  norma  al
dettato costituzionale e pertanto necessario sollevare, d'ufficio, la
questione di legittimita' costituzionale della stessa. 
    Sotto il  profilo  della  rilevanza,  basti  rilevare  che,  come
correttamente rilevato dalla difesa dei convenuti, nella  fattispecie
in esame lo stato di interdizione  e'  intervenuto  quando  era  gia'
ampiamente decorso il termine di decadenza di cui all'art. 244  c.c.,
essendo stato dichiarato interdetto il P. nell'anno 2004, laddove  il
figlio e' nato nel 1992 . 
    Posta la non operativita' nella specie  dell'art.  245  c.c.  che
contemplando l'ipotesi della sospensione, fa  certamente  riferimento
ad un termine  non  ancora  interamente  decorso,  non  potrebbe  che
dichiararsi l'attore decaduto dalla possibilita' di propone  l'azione
di disconoscimento e cio' nonostante si tratti di soggetto  che,  sia
al momento della nascita del  figlio  che  successivamente,  non  era
certamente capace di avere la consapevolezza della sussistenza  delle
condizioni dell'azione, con la conseguente irrimediabile perdita  del
diritto di agire in giudizio a  tutela  di  una  posizione  giuridica
personalissima. 
    Sotto il profilo della  non  manifesta  infondatezza  osserva  il
Tribunale  che  l'art.  245  c.c.  nella  parte  in  cui  prevede  la
sospensione del termine di cui all'art. 244 c.c. per la sola  ipotesi
di interdizione, sembra porti in contrasto in primo luogo con  l'art.
3 della Costituzione in quanto assoggetta  alla  medesima  disciplina
due soggetti (il soggetto pienamente capace di intendere e di  volere
e il soggetto incapace naturalmente al momento in  cui  e'  sorto  lo
status) che si trovano in una condizione di  fatto  e  giuridica  del
tutto diversa. 
    Che l'incapace naturale venga riconosciuto,  con  riferimento  ad
altri aspetti della  sua  sfera  giuridica,  soggetto  meritevole  di
tutela - pur non piena come quella che si determina  nell'ipotesi  di
interdizione - e' poi desumibile dalla disciplina dell'annullabilita'
degli atti dallo stesso compiuti (art. 428 c.c.). 
    Come noto, dall'art. 3  discendono  tanto  il  principio  di  non
discriminazione che quello di ragionevolezza. I limiti cosi'  imposti
al legislatore comportano che lo stesso, pur essendo nella condizione
di disciplinare le materie che sono attribuite alla sua competenza in
modo libero, tuttavia, non puo' escludere  determinati  soggetti  dal
godimento di specifiche situazioni, o imporre agli stessi divieti, in
modo discriminatorio, a maggior ragione quando tali  situazioni  sono
costituzionalmente rilevanti. Attraverso il principio d'eguaglianza e
di verifica che la legge disponga un trattamento pari, per  posizioni
eguali, e differenziato per situazioni  diverse,  si  e'  estrapolato
dalla  Costituzione   un   "canone   di   coerenza   dell'ordinamento
giuridico", incentrato sulla clausola generale della  ragionevolezza,
grazie  al  quale  si  e'  progressivamente  esteso  il  giudizio  di
legittimita' costituzionale sull'azione del legislatore,  in  termini
di logicita' interna  della  normativa,  razionalita'  delle  deroghe
apportate, giustificazione delle differenze di trattamento. 
    Il legislatore puo', cosi', imporre  limiti  ai  diritti  e  agli
interessi dei soggetti  in  base  alle  finalita'  che  si  intendono
perseguire  con  l'esercizio  del  potere  legislativo  ma  non  puo'
trattare diversamente determinati soggetti rispetto ad altri  che  si
trovino nella medesima  situazione,  a  meno  che  la  disparita'  di
trattamento non sia giustificata in modo ragionevole:  "il  principio
di eguaglianza e' violato anche quando la legge, senza un ragionevole
motivo, faccia un trattamento diverso a cittadini che si  trovino  in
situazione eguale"(C. Cast n. 15 del 1960); e, ancora, per citare  un
altro esempio in tal senso: "il principio di cui all'art. 3 cost.  e'
violato  non  solo  quando  i  trattamenti  messi  a  confronto  sono
formalmente   contraddittori   in   ragione   dell'identita'    delle
fattispecie,  ma  anche  quando  la  differenza  di  trattamento   e'
irrazionale secondo le regole del  discorso  pratico,  in  quanto  le
rispettive fattispecie, pur diverse, s n ragionevolmente analoghe" 
    Altra norma con  la  quale  il  suddetto  art.  245  c.c.  sembra
contrastare  e'  l'art.  24  della  Costituzione,  ove  si  consideri
l'evoluzione della giurisprudenza della Corte  costituzionale  avente
ad oggetto l'art. 244 c.c. con particolare riferimento al momento  in
cui inizia a decorrere il termine di decadenza nell'ipotesi in cui  a
promuovere l'azione sia il padre. 
    Con la sentenza n. 134/85 la Corte costituzionale  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 244 c.c. nella parte in cui
non dispone, per il caso di  disconoscimento  fondato  sull'adulterio
della moglie, che il termine dell'azione decorra dal giorno in cui il
marito  sia  venuto  a  conoscenza  dell'adulterio  della  moglie.Con
sentenza n. 170/1999 la Corte ha dichiarato illegittima  la  medesima
norma nella parte in cui non prevede che il termine  annuale  per  la
proposizione  dell'azione   di   disconoscimento   della   paternita'
nell'ipotesi di impotentia generandi, contemplata dal  secondo  comma
dell'art. 235 c.c., decorra per il marito o per la  moglie  -  quando
sia lei a proporre l'azione di disconoscimento - dal giorno in cui si
e' avuta conoscenza della detta impotenza.  Nella  motivazione  della
sentenza   n.    134/85    la    Corte    costituzionale    evidenzia
l'irragionevolezza della norma nella  parte  in  cui  non  privilegia
l'effettiva conoscenza  dell'adulterio  che,  in  considerazione  del
particolare "fatto" oggetto della conoscenza,  puo'  essere  preclusa
per lungo tempo, in tal  modo  impedendo  al  padre  di  proporre  il
disconoscimento "dopo essere venuto a conoscenza dell'adulterio cioe'
dopo l'avvenimento da cui nasce il suo diritto di azione" e  cio'  in
evidente contrasto con quanto  stabilito  dalla  medesima  norma  con
riguardo all'ipotesi in cui il padre sia venuto  a  conoscenza  della
nascita solo in epoca successiva  alla  stessa,  nel  quale  caso  il
termine decorre dal momento in cui tale conoscenza si e'  verificata.
Il  Giudice  delle  leggi  ha  ritenuto  che  tale  limitazione  alla
possibilita' di agire giudizialmente in capo al padre  legittimo  che
sia venuto a conoscenza del tradimento della moglie che lo  legittima
alla proposizione dell'azione solo in epoca successiva al decorso del
termine di cui all'art.  244  c.c.,  costituisca  una  grave  lesione
dell'art. 24 della Costituzione ed  in  particolare  del  diritto  di
agire in giudizio sancito dal primo comma,  non  piu'  giustificabile
dal contemperamento di tale interesse con quello  contrapposto  della
tutela dello  status  di  figlio  legittimo.  Come  rileva  la  Corte
costituzionale   nella   successiva   sentenza   n.   170/99   l'iter
argomentativo di tale pronuncia si fonda "oltre che su considerazioni
di  ordine  generale  relative  alla   evoluzione   della   coscienza
collettiva, nel senso della  accordata  preminenza  del  fatto  della
procreazione sulla qualificazione giuridica della filiazione e  sulla
constatazione della finalita', voluta  dal  legislatore  del  1975  e
ulteriormente da quello del 1983, di favorire  il  perseguimento  del
valore  verita'  -  sulla  constatazione,   in   particolare,   della
irragionevole esclusione del  diritto  del  padre  di  agire  per  il
disconoscimento, nel caso di scoperta dell'adulterio  oltre  un  anno
dopo la nascita  del  figlio,  poiche',  in  tale  ipotesi,  l'azione
sarebbe inutiliter data, con patente violazione del diritto di  agire
in giudizio" Nella medesima sentenza n. 179/99 la Corte evidenzia che
il diritto di azione di cui  all'art.  24  della  Costituzione  viene
irrimediabilmente leso "quando si consente che il termine per il  suo
esercizio possa  decorrere  indipendentemente  dalla  conoscenza  dei
presupposti e degli elementi costitutivi  da  cui  sorge  il  diritto
stesso" il che appare "inconciliabile con il  principio  in  base  al
quale  la  garanzia  di  cui  all'art.  24  della  Costituzione  deve
estendersi alla conoscibilita' del momento di decorrenza del  termine
stesso al fine di assicurarne all'interessato  l'utilizzazione  nella
sua interezza" e  dunque  contrasta  insanabilmente  con  i  principi
costituzionali  che  presiedono  alla  tutela   giurisdizionale   dei
diritti. Osserva ancora la Corte che tale interpretazione non si pone
in  contrasto  con  l'esigenza  di  tutela  dello  status  di  figlio
legittimo rilevando che gia' il legislatore della riforma del diritto
di famiglia "ha superato la impostazione tradizionale che  attribuiva
preminenza al favor legitimitatis attraverso la  equiparazione  della
filiazione naturale a quella legittima  ed  ha  di  conseguenza  reso
omogenee le situazioni che discendono dalla conservazione dello stato
ancorato alla certezza formale rispetto a quelle che si  acquisiscono
con l'affermazione della verita' naturale;  .L'attribuzione  di  pari
diritti ai figli naturali rispetto a quelli legittimi, ad  opera  del
riformato art. 261 del codice  civile,  determinando  il  venir  meno
della  posizione  di  privilegio  di  questi  ultimi,  ha  consentito
l'acquisizione di status conformi alla  realta'  della  procreazione,
senza piu' tema di  gravi  conseguenze  pregiudizievoli  legate  alla
condizione di sfavore della filiazione  naturale.  Contemporaneamente
le  ipotesi  di  accertamento  della  verita'  biologica  sono  state
ampliate. Le disposizioni normative che consentono di  verificare  la
conformita' dello status alla realta' della procreazione hanno quindi
comportato   l'affermazione   del   principio    della    tendenziale
corrispondenza tra certezza formale e verita' naturale la cui ricerca
risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel  campo
della  genetica  e  dall'elevatissimo  grado  di  attendibilita'  dei
risultati delle indagini. 
    Nella crescente considerazione del  favor  veritatis  non  si  e'
ravvisata una ragione di conflitto con il favor minoris, poiche' anzi
la verita' biologica della procreazione si e' ritenuta una componente
essenziale  dell'interesse  del   medesimo   minore,   riconoscendosi
espressamente l'esigenza di  garantire  al  figlio  il  diritto  alla
propria identita' e precisamente all'affermazione di un  rapporto  di
filiazione veridico (sentenze nn. 216 e 112 del  1997),  rispetto  al
quale puo' recedere l'intangibilita'  dello  status,  allorche'  esso
risulti privato del fondamento  della  presunta  corrispondenza  alla
verita'  biologica  e  quando  risulti  tempestivamente  azionato  il
diritto. 
    Le  argomentazioni  svolte  dalla  Corte   costituzionale   nelle
pronunce sull'art. 244 c.c., alle quali hanno fatto seguito altre che
hanno ancora di piu' esteso l'ambito di operativita'  dell'azione  di
disconoscimento della paternita' (si pensi alla  sentenza  n.  266/06
che  ha  dichiarato  costituzionalmente   illegittimo,   sempre   per
contrasto con l'art. 24, l'art. 235 comma 1 m. 3 nella parte  in  cui
ai fini dell'azione di  disconoscimento  della  paternita'  subordina
l'esame delle prove tecniche, da cui risulta che il  figlio  presenta
caratteristiche genetiche o del gruppo  sanguigno  incompatibili  con
quelle del presunto padre, alla previa  dimostrazione  dell'adulterio
della moglie) inducono a interrogarsi sulla conformita'  all'art.  24
della Costituzione pur dell'art. 245  c.c.  (oggetto  della  presente
analisi) che sembra impingere nella medesima  violazione  riscontrata
nella norma precedente; nel limitare la sospensione  del  termine  di
decadenza di cui all'art. 244 c.c. alla sola ipotesi in cui la  parte
interessata si trovi in stato di  interdizione,  la  norma  di  fatto
impedisce al soggetto titolare di  un'azione  personalissima  che  si
trovi  nella  condizione,  anche  temporanea,  di  non  potere  avere
conoscenza e consapevolezza  del  fatto  costitutivo  dell'azione  di
poterla validamente esperire, cosi' ponendosi, pur essa, in contrasto
con l'art. 24  comma  secondo  della  Costituzione,  senza  che  tale
sostanziale  privazione   del   diritto   di   agire   possa   essere
giustificata, per le ragioni sopra esposte, da un preminente  diverso
interesse quale il favor legitimitatis. 
    Ne' sussiste, nel contesto normativo del nostro codice civile, la
possibilita'  di  una  diversa   interpretazione   costituzionalmente
orientata: l'art. 245 c.c. disciplinando un termine di decadenza, non
e' suscettibile di applicazione analogica; nessun ausilio puo' trarsi
dalla disciplina in tema di annullabilita'  degli  atti  compiuti  da
persona incapace, posto che nel sistema delineato dall'art. 428  c.c.
e'  irrilevante,  al   fine   della   proposizione   dell'azione   di
annullamento, il momento in cui l'incapace ha  la  consapevolezza  di
avere  compiuto,  in  stato   di   incapacita',   un   atto   a   se'
pregiudizievole,  come  dimostrato  dal  fatto  che  il  termine   di
prescrizione per l'azione decorre dal momento in cui l'atto e'  stato
compiuto e non dal momento in cui e' cessato lo stato di  incapacita'
:  per  pacifica  interpretazione  la  norma  e'  dettata  a   tutela
dell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici che tuttavia  appare
mitigata dalla possibilita' di applicazione del  principio  contenuto
dell'art. 1442 ultimo comma c.c. a tenore del quale  l'annullabilita'
(ivi compresa quella derivante da uno stato di incapacita'  naturale)
puo'  essere  opposta  dalla  pare  convenuta  per  l'esecuzione  del
contratto anche se e' prescritta l'azione per farla valere. 
    Ne' potrebbe in senso  contrario  argomentarsi  che  l'estensione
della sospensione di cui all'art. 245 c.c. comporterebbe,  di  fatto,
l'inoperativita'  del  termine:  tale  effetto   e'   possibile   pur
nell'ipotesi di soggetto che  si  trovi  in  stato  di  interdizione,
atteso che, come gia' detto, il tutore puo', e non  deve,  promuovere
l'azione di disconoscimento dopo che sia intervenuta la sua nomina e,
certamente, non si realizza per tutte le ipotesi (diverse  da  quella
in esame) in cui il soggetto si trovi un  uno  stato  di  incapacita'
naturale temporaneo. 
    Tutto cio' premesso ritiene il Collegio di  dovere  sollevare  la
questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  245  c.c.  nella
parte in cui non prevede che la decorrenza  del  termine  di  cui  al
precedente art. 244 c.c. sia sospesa pur quando la parte  interessata
a promuovere l'azione di disconoscimento della paternita' si trovi in
stato di incapacita' naturale per contrasto con  gli  artt.  3  e  24
della Costituzione.