ha pronunciato la seguente 
  
                              Sentenza 
  
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo 1 del regio
decreto 16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del  fallimento,  del
concordato preventivo e della  liquidazione  coatta  amministrativa),
promosso dal Tribunale ordinario di Torre Annunziata nel procedimento
vertente tra l'Amministrazione provinciale di Napoli e la  Cera  Fish
s.r.l., con ordinanza del 20 gennaio 2011, iscritta  al  n.  208  del
registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 2011. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella camera di consiglio del  21  marzo  2012  il  Giudice
relatore Paolo Maria Napolitano. 
  
                          Ritenuto in fatto 
  
    1. -- Con ordinanza depositata il 20 gennaio  2011  il  Tribunale
ordinario  di  Torre  Annunziata   ha   sollevato,   in   riferimento
all'articolo  3  della  Costituzione,   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'articolo 1 del regio decreto 16  marzo  1942,  n.
267 (Disciplina del fallimento, del  concordato  preventivo  e  della
liquidazione coatta amministrativa), nel testo introdotto  a  seguito
della entrata in vigore del decreto legislativo 12 settembre 2007, n.
169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16  marzo
1942, n. 267, nonche' al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in
materia di disciplina del fallimento,  del  concordato  preventivo  e
della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi
5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), nella parte in  cui
esclude dalla assoggettabilita' alla dichiarazione di fallimento  gli
imprenditori agricoli e quelli ad essi equiparati. 
    1.1. -- Il giudice a quo, dopo aver riferito di essere chiamato a
decidere  in   merito   alla   istanza   di   fallimento   presentata
dall'Amministrazione provinciale di Napoli in danno della  Cera  Fish
s.r.l.  a  socio   unico,   precisa,   in   punto   di   fatto,   che
l'Amministrazione istante ha concesso ed erogato alla  Cera  Fish  un
contributo finanziario, di importo superiore ad euro 850.000,00,  per
la realizzazione di un impianto di allevamento di  specie  ittiche  e
che la concessione del contributo prevedeva che l'impianto, una volta
realizzato, dovesse essere messo in funzione entro un  dato  termine.
Sottolinea  che,  viceversa,  l'impianto,  a  seguito  di  divergenze
insorte fra l'appaltante Cera  Fish  e  la  ditta  appaltatrice,  pur
completato,  non   e'   stato   mai   attivato   e   che,   pertanto,
l'Amministrazione provinciale ha, dapprima, revocato  la  concessione
del contributo e richiesto la restituzione di  quanto  gia'  versato,
maggiorato da interessi. Quindi, stante il  perdurante  inadempimento
della Cera Fish, ha ottenuto nei confronti della medesima un  decreto
ingiuntivo che, nonostante la opposizione della  intimata,  e'  stato
munito della clausola della provvisoria esecuzione. Infine, vista  la
inutilita'  di  una  procedura  esecutiva  immobiliare  iniziata  nei
confronti della Cera  Fish  -  la  quale,  appresa  la  revoca  della
concessione del contributo, si era disfatta, cedendole ad  un  terzo,
di buona parte delle sue attivita' - l'Amministrazione ha  presentato
l'istanza di fallimento di cui dianzi. 
    Aggiunge il rimettente che,  radicatosi  il  contraddittorio,  la
societa' debitrice si era  difesa,  fra  l'altro,  deducendo  la  sua
natura di impresa agricola (recte: ittica e come  tale  equiparata  a
quella) non suscettibile di declaratoria di fallimento. 
    Nella assenza di istanze istruttorie delle parti, il giudizio era
stato rimesso alla decisione camerale. 
    1.2.  --  Osserva,  a  questo  punto,  il  rimettente  che  delle
condizioni e requisiti necessari per giungere alla  dichiarazione  di
fallimento certamente ricorreva nella fattispecie quello relativo  al
quantum della  attuale  esposizione  debitoria,  essendo  il  credito
vantato  dalla  Amministrazione  e  portato  dal  decreto  ingiuntivo
provvisoriamente esecutivo superiore a 30.000,00  euro.  Riguardo  ai
limiti dimensionali di cui all'art. 1, comma 2, del regio decreto  n.
267 del 1942 il rimettente rileva che,  incombendo  sul  fallendo  la
prova del mancato superamento di detti limiti, l'inerzia  istruttoria
della Cera Fish ha consentito di affermare l'avvenuto superamento  di
detti limiti. Infine, con riferimento allo stato di insolvenza,  esso
era desumibile da diversi  elementi  in  atti  (pretestuosita'  delle
difese della Cera Fish,  avvenuta  dismissione  di  parte  delle  sue
attivita', visura immobiliare negativa). 
    Ritiene,  invece,  il  Tribunale  di  Torre  Annunziata  che  non
sussista a carico della societa' fallenda il requisito  della  natura
di impresa commerciale. 
    Sostiene, al riguardo, il rimettente come in tal senso siano dati
significativi sia  la  iscrizione  di  quella  presso  la  Camera  di
commercio di Napoli quale  impresa  agricola  sia  l'oggetto  sociale
della medesima (attivita' della pesca, dell'allevamento ittico e  del
commercio di prodotti ittici all'ingrosso e al dettaglio) nonche'  la
causale  del  contributo   finanziario   concessole   dalla   istante
Amministrazione. 
    L'assenza del predetto requisito osterebbe in  modo  insuperabile
alla dichiarazione di fallimento. 
    2. -- Sostiene, quindi, il rimettente che l'art.  1  della  legge
fallimentare, nell'assoggettare  al  fallimento  solo  l'imprenditore
commerciale e non anche l'imprenditore agricolo si pone in  contrasto
con l'art. 3 Cost. il quale impone di  trattare  in  maniera  diversa
solo situazioni realmente, e non solo apparentemente, diverse. 
    2.1. -- Osserva, al riguardo, il rimettente che nell'ambito delle
riforme che hanno, di recente, coinvolto  le  procedure  concorsuali,
non  vi  e'  stata  l'estensione  della  relativa  disciplina   anche
all'imprenditore non commerciale, sebbene essa fosse auspicata  dalla
dottrina  giuridica  la  quale   aveva   rilevato   che   la   figura
dell'imprenditore agricolo, come «ridisegnata»  dal  legislatore  nel
2001, non «meritava» il trattamento differenziato. 
    2.2. --  In  particolare,  il  rimettente  -  rammentato  che  la
predetta esenzione traeva fondamento dal fatto che,  diversamente  da
quello commerciale, l'imprenditore agricolo era  soggetto,  oltre  al
generico rischio economico (proprio di  ogni  attivita'  produttiva),
anche a quello ambientale,  derivante  dalla  influenza  dei  fattori
naturali, non governabili  dall'uomo,  sul  ciclo  produttivo  e  che
l'imprenditore agricolo non faceva ampio  e  sistematico  ricorso  al
credito,  sicche'  il  suo  eventuale  dissesto  non  aveva  ricadute
economiche tali da giustificare la procedura concorsuale - rileva che
tali considerazioni non rispondono piu' alla attuale  situazione,  in
cui, anche  per  l'impresa  agricola,  il  progresso  tecnologico  ha
ridotto quasi del tutto il rischio ambientale mentre  il  ricorso  al
credito e' divenuta pratica sempre piu' diffusa. 
    Prosegue il rimettente osservando, altresi', che  l'esenzione  de
qua  poteva  giustificarsi  nella   vigenza   dell'originario   testo
dell'art. 2135  del  codice  civile,  ma,  successivamente  alla  sua
riformulazione,  avvenuta  per  effetto  dell'art.  1   del   decreto
legislativo 18 maggio 2001, n. 228  (Orientamento  e  modernizzazione
del settore agricolo, a norma dell'articolo 7  della  legge  5  marzo
2001,  n.  57),  l'affievolirsi   del   concreto   collegamento   fra
l'attivita' d'impresa e lo sfruttamento del fondo, l'ampliamento  del
novero delle attivita' connesse e l'abbandono del criterio della loro
riconducibilita' all'esercizio normale della agricoltura, hanno  reso
ingiustificata  la   esenzione   dell'imprenditore   agricolo   dalle
procedure fallimentari. 
    Nell'esaminare   le   modifiche   apportate   alla   nozione   di
imprenditore agricolo il rimettente sottolinea - oltre alla  avvenuta
sostituzione della  locuzione  «bestiame»  con  quella  di  «animali»
(significando essa che ad oggi  ogni  forma  di  allevamento  rientra
nella attivita' agricola) - che, attraverso l'uso dell'espressione «o
possono utilizzare» - riferita  al  rapporto  tra  fondo  agricolo  e
attivita'  svolta  -  il  legislatore  ha  inteso  affermare  che  e'
possibile svolgere  un'attivita'  agricola  anche  senza  l'effettiva
utilizzazione del fondo, essendo, percio', possibile che  questo  non
eserciti  piu'  un  ruolo  produttivo,  potendo  «assurgere  a   mero
strumento di conservazione delle piante». 
    A seguito della intervenuta parificazione legislativa, rientrano,
pertanto, nel paradigma dell'art. 2135 del codice civile non solo  le
ipotesi  di  coltura  tradizionale  ma  anche  quelle   in   cui   la
coltivazione e' operata non sul terreno ma in  soluzioni  chimiche  e
nelle quali i fattori  climatici  sono  condizionati  dall'intervento
umano.  Allo  stesso  modo  la   possibile   limitazione   dell'opera
dell'imprenditore agricolo ad una sola  «fase  necessaria  del  ciclo
vegetale ed animale» consente l'attribuzione di tale qualifica  anche
a chi, secondo i precedenti schemi,  agiva  nell'ambito  dell'impresa
commerciale, limitandosi, ad esempio, ad attendere  alla  incubazione
delle uova e, alla loro schiusa, alla vendita dei pulcini. 
    2.3. -- Aggiunge il rimettente che la non assoggettabilita'  alle
procedure concorsuali dell'imprenditore  agricolo  apparirebbe  ancor
piu' irrazionale ove si tengano  presenti  le  innovazioni  normative
introdotte nell'art. 2135 cod. civ. con riferimento allo  svolgimento
delle  «attivita'  connesse».  Infatti  queste,  in  passato,   erano
riconosciute  come  tali  solo  la'  dove  sussistesse   un   vincolo
soggettivo ed oggettivo con l'attivita'  propriamente  agricola,  nel
senso che le prime dovevano non solo essere compiute da chi  svolgeva
la seconda, ma anche  essere  legate  al  fondo  da  un  rapporto  di
accessorieta'  e   di   strumentalita',   mentre,   attualmente,   e'
considerato imprenditore  agricolo  anche  chi  «manipola,  conserva,
trasforma,   commercializza   o   valorizza»   prodotti   che   siano
«prevalentemente» ottenuti dall'esercizio  della  attivita'  agricola
principale. 
    Ritiene il rimettente che l'abbandono del criterio  del  «normale
esercizio   dell'agricoltura»   e   l'adozione   di   quello    della
«prevalenza», per l'«evanescenza» di quest'ultimo, rendera' arduo  il
«concreto  riscontro  dell'attivita'   agricola   per   connessione»,
potendosi considerare, ad esempio, agricola anche la attivita' di chi
commerci, trasformi o conservi, unitamente a quelli da lui  prodotti,
anche  frutti  naturali  provenienti  da  altri  fondi  non  da   lui
coltivati. 
    2.4. -- Quanto alla rilevanza  della  questione,  ad  avviso  del
rimettente, non svolge alcun ruolo il fatto che l'art. 1 del  decreto
legislativo 29 marzo 2004, n. 99 (Disposizioni in materia di soggetti
e attivita', integrita' aziendale e semplificazione amministrativa in
agricoltura, a norma dell'articolo 1, comma 2, lettere d,  f,  g,  l,
ee, della legge 7 marzo 2003, n. 38), abbia previsto che le  societa'
di capitali  sono  considerate  imprenditori  agricoli  professionali
quando, oltre ad avere quale oggetto  lo  svolgimento  della  impresa
agricola, almeno uno  degli  amministratori  abbia  la  qualifica  di
imprenditore agricolo professionale. Siffatta disposizione,  infatti,
non avrebbe abrogato l'art. 2135 cod. civ., ma  avrebbe  giustapposto
alla  categoria  dell'imprenditore  agricolo  a  titolo   principale,
quella, di nuova istituzione, di imprenditore agricolo professionale. 
    2.5. -- Conclude il Tribunale di Torre Annunziata osservando che,
stante l'espressa equiparazione normativa operata dall'art. 2,  comma
5, del decreto legislativo 18 maggio 2001,  n.  226  (Orientamento  e
modernizzazione del settore della pesca e dell'acquacoltura  a  norma
dell'articolo 7 della legge 5 marzo 2001, n. 57), e' irrilevante  che
la Cera Fish s.r.l. sia un imprenditore ittico e non agricolo. 
    3.  --  E'  intervenuto  in  giudizio,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei
ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata. 
    3.1. --  Quanto  alla  inammissibilita',  l'interveniente  difesa
rileva che il rimettente, che pur da' atto della circostanza  che  la
societa' fallenda ha ceduto a terzi gran parte delle  sue  attivita',
non ha motivato, riguardo  alla  sussistenza  dei  requisiti  per  la
dichiarazione di fallimento, ne'  sulla  rilevanza  della  cessazione
della attivita' da parte della Cera Fish s.r.l. ne' sulla inefficacia
degli atti dispositivi compiuti da questa dopo la notificazione della
revoca del contributo. 
    3.2. -- Riguardo al merito, l'Avvocatura concorda col  rimettente
nell'affermare che il nuovo art. 2135 cod. civ. contiene una  nozione
di imprenditore agricolo piu' ampia della precedente,  essendo  state
recepite sul piano  giuridico  le  modifiche  intervenute  su  quello
tecnologico. L'impresa  agricola  non  ha,  infatti,  piu'  come  suo
obiettivo lo sfruttamento della naturale produttivita'  della  terra,
ma  si  connota  in  senso  «industriale».  In  tale  mutata  realta'
economica, in cui possono  darsi  ipotesi  di  impresa  agricola  con
struttura   organizzativa   anche   piu'    complessa    dell'impresa
commerciale, si pone la questione della conciliabilita' coi  principi
costituzionali  della  esenzione  dell'imprenditore  agricolo   dalle
procedure concorsuali. 
    Analoghe   problematiche   non   sono   sfuggite    in    passato
all'attenzione del giudice delle leggi, il quale ha ritenuto  non  in
contrasto con l'art. 3 Cost. la soggezione alle procedure concorsuali
delle piccole societa' commerciali e non  delle  societa'  artigiane,
precisando, nell'occasione, che il diverso trattamento era frutto  di
una scelta discrezionale del legislatore, operata fra varie soluzioni
possibili ed espressione di scelte attinenti alla  generale  politica
economica e giudiziaria,  precisando,  altresi',  che  la  disciplina
della impresa artigiana costituisce un  complesso  di  valutazioni  e
disposizioni legislative non  riconducibili  esclusivamente  al  tema
della soggezione o meno alle procedure concorsuali. 
    Ritiene l'Avvocatura che  tali  considerazioni  siano  pertinenti
anche al caso presente, attesa la contiguita' fra l'impresa artigiana
e quella agricola; figure ambedue caratterizzate da una molteplicita'
di  regole  singolari,  espressione  della  politica  economica   del
legislatore. In tale ottica, prosegue la difesa erariale, nella quale
si inquadrano una serie di interventi,  espressivi  di  una  politica
«beneficiante»,  volti  a  permettere  all'imprenditore  agricolo  di
fronteggiare la concorrenza mondiale  dei  paesi  emergenti,  non  e'
irragionevole sottrarre il medesimo alle «pesanti  conseguenze  delle
procedure concorsuali». 
    In tal senso, gia' con la sentenza n. 145 del 1982, questa Corte,
chiamata a scrutinare la disparita' delle conseguenze derivanti dalla
insolvenza  dell'imprenditore  commerciale  e  di  quello   agricolo,
osservo' che compete al Parlamento interrogarsi sul fatto  che  altre
legislazioni di paesi europei ed extraeuropei disciplinano in maniera
diversa dalla nostra le conseguenze della insolvenza. 
    3.3. -- Rileva, da ultimo, la difesa statale, che il dubbio sulla
opportunita' di  continuare  a  sottrarre  l'impresa  agricola  dalle
procedure  concorsuali  si  e'  posto  al  legislatore  delegato   in
occasione della recente riforma del diritto fallimentare:  allora  si
e' ritenuto di doverlo risolvere nel senso di  conservare  la  regola
previgente in ossequio al criterio, contenuto nella legge di  delega,
secondo il quale vi era l'esigenza di «semplificare la disciplina del
fallimento   attraverso   l'estensione   dei    soggetti    esonerati
dall'applicabilita'  dell'istituto»,  criterio  che,   evidentemente,
sarebbe stato disatteso se, fra i soggetti suscettibili  di  fallire,
fosse stato ricompreso anche l'imprenditore agricolo. 
  
                       Considerato in diritto 
  
    1. -- Il Tribunale ordinario di  Torre  Annunziata  ha  sollevato
questione incidentale di legittimita' costituzionale dell'articolo  1
del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina  del  fallimento,
del   concordato   preventivo    e    della    liquidazione    coatta
amministrativa), nel testo introdotto  a  seguito  della  entrata  in
vigore  del  decreto  legislativo   12   settembre   2007,   n.   169
(Disposizioni integrative e correttive  al  regio  decreto  16  marzo
1942, n. 267, nonche' al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in
materia di disciplina del fallimento,  del  concordato  preventivo  e
della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi
5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), dubitando della sua
conformita' all'art. 3  della  Costituzione,  sotto  il  profilo  del
rispetto del principio di  eguaglianza,  nella  parte  in  cui  esso,
prevedendo che «sono soggetti alle disposizioni sul fallimento  [...]
gli imprenditori che esercitano  un'attivita'  commerciale»,  esclude
che siano soggetti al fallimento gli imprenditori agricoli  e  quelli
ad essi equiparati. 
    1.1. -- Afferma, infatti, il rimettente che  -  a  seguito  della
dilatazione della nozione di imprenditore agricolo fornita  dall'art.
2135 del codice civile, conseguente alle modificazioni  apportate  al
testo di tale norma dall'art. 1 del  decreto  legislativo  18  maggio
2001, n. 228 (Orientamento e modernizzazione del settore agricolo,  a
norma dell'articolo 7 della legge 5 marzo 2001, n. 57) - sono  venute
meno le ragioni che, stante la precedente differenziazione fra le due
figure imprenditoriali, giustificavano la predetta esenzione. 
    Cessate, pertanto, le ragioni di distinzione  fra  l'imprenditore
commerciale e l'imprenditore agricolo (e quelli ad esso  equiparati),
sarebbe a questo  punto,  ad  avviso  del  rimettente,  contrario  al
principio di eguaglianza il diverso trattamento  normativo  riservato
alla due situazioni giuridiche. 
    2. -- Deve, preliminarmente, darsi atto, in quanto sotto  diversi
aspetti essa deve essere esaminata ai fini  della  completezza  della
presente decisione, della circostanza che  l'imprenditore  della  cui
assoggettabilita' a fallimento si  discute  nel  giudizio  a  quo  e'
qualificato dal Tribunale rimettente come imprenditore ittico. 
    In linea di principio tale qualificazione  non  sarebbe  ostativa
all'ammissibilita' della  questione  di  legittimita'  costituzionale
sollevata dal Tribunale di Torre  Annunziata,  sebbene  la  questione
stessa  sia  argomentata  con  specifico  riferimento   alla   figura
dell'imprenditore agricolo. 
    Infatti, secondo  quanto  previsto  dall'art.  2,  comma  5,  del
decreto  legislativo  18  maggio  2001,  n.   226   (Orientamento   e
modernizzazione del settore della pesca e dell'acquacoltura, a  norma
dell'articolo 7 della legge 5 marzo 2001, n. 57), disposizione questa
in vigore al momento in cui e' stata sollevata la presente  questione
di legittimita'  costituzionale,  «fatte  salve  le  piu'  favorevoli
disposizioni  di   legge,   l'imprenditore   ittico   e'   equiparato
all'imprenditore agricolo». 
    2.1. --  Nessun  rilievo  sostanziale  ha,  poi,  il  fatto  che,
successivamente  al  deposito  della  ordinanza  di  rimessione   del
Tribunale  di  Torre  Annunziata,  la  disposizione  legislativa  ora
richiamata sia stata espressamente abrogata per effetto della entrata
in vigore dell'art. 27, comma 1, lettera d), del decreto  legislativo
9 gennaio 2012, n. 4 (Misure per  il  riassetto  della  normativa  in
materia di pesca e acquacoltura, a norma dell'articolo 28 della legge
4 giugno 2010, n. 96), dato che l'art. 4, comma 4, del citato  d.lgs.
n. 4 del 2012, a sua volta, prevede nuovamente che  «fatte  salve  le
piu' favorevoli disposizioni di legge  di  settore,  all'imprenditore
ittico si  applicano  le  disposizioni  previste  per  l'imprenditore
agricolo». 
    D'altra parte, la  circostanza  che  l'acquacoltura,  tipicamente
svolta dall'imprenditore ittico, sia  riconducibile  ad  un'attivita'
imprenditoriale agricola costituisce un dato gia' da tempo  acquisito
nella giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 190 del 2001). 
    Da quanto sopra esposto, in punto  di  astratta  rilevanza  della
presente questione, risulta evidente che la' dove essa fosse accolta,
dal  venir  meno  della   caratteristica   inassoggettabilita'   alla
procedura fallimentare  dell'imprenditore  agricolo  deriverebbe,  in
assenza di diverse disposizioni derogatorie dettate  al  riguardo  in
maniera specifica per  l'imprenditore  ittico,  la  possibilita'  per
quest'ultimo di essere sottoposto a procedura fallimentare. 
    3. -- La questione e' inammissibile. 
    Ritiene  questa  Corte  di   doversi   interrogare,   sempre   in
riferimento  alla  rilevanza  nel  giudizio  a  quo  della   presente
questione, in merito alla esaustivita'  delle  argomentazioni  svolte
nell'ordinanza  di  rimessione  sulla   effettiva   possibilita'   di
inquadrare  il  soggetto,  della  cui   suscettibilita'   ad   essere
dichiarato fallito si controverte nel detto giudizio, nella categoria
dell'imprenditore  ittico  piuttosto  che   nell'ambito   di   quella
dell'imprenditore commerciale. 
    Motiva, infatti, sul  punto  il  Tribunale  di  Torre  Annunziata
affermando espressamente che «i pochi elementi [acquisiti in sede  di
istruttoria prefallimentare] inducono ad escludere che la  resistente
rientri nell'alveo della impresa commerciale». «Oltre alla iscrizione
presso la Camera di Commercio industria Artigianato e Agricoltura  di
Napoli come impresa agricola, avvalora[no]  la  relativa  presunzione
l'oggetto sociale (attivita' della pesca, dell'allevamento  ittico  e
del commercio dei prodotti ittici all'ingrosso e al dettaglio)  e  la
causale del contributo richiesto». 
    3.1. -- L'affermata esclusione operata dal giudice  rimettente  -
palesemente  decisiva  in  merito  alla  rilevanza  della   questione
sollevata - appare, alla luce vuoi  degli  altri  elementi  di  fatto
riportati  nell'ordinanza,  vuoi   alla   luce   degli   orientamenti
giurisprudenziali formatisi sull'argomento, viziata da una fragilita'
argomentativa tale da impedire che la stessa possa  dirsi  meritevole
di quella valutazione di «plausibilita'» che, secondo la  piu'  volte
ribadita giurisprudenza di questa Corte, segna il limite di fronte al
quale deve  arrestarsi  l'indagine  del  giudice  delle  leggi  sulla
rilevanza nel giudizio a quo della questione sollevata (sul punto, ex
plurimis: sentenze nn. 178, 161 e 125 del 2009, nonche' ordinanza  n.
179 del 2003). 
    Infatti,  il  rimettente  -  sebbene  chiarisca,  nel  descrivere
minuziosamente  i  prodromi  della  vicenda  che  ha   portato   alla
presentazione della istanza di fallimento,  che  l'impresa  fallenda,
realizzata la piscina per  l'allevamento  ittico  in  relazione  alla
quale  aveva  goduto  del  contributo   finanziario   erogato   dalla
Amministrazione provinciale di Napoli, non aveva posto in funzione la
predetta infrastruttura  produttiva,  provvedendo,  anzi,  quale  sua
unica  attivita'  economica,  alla  dismissione  dei  propri  cespiti
immobiliari,  tanto   che   l'ente   erogante   aveva   revocato   il
finanziamento  chiedendone,  invano,  la  restituzione   -   ritiene,
tuttavia, di dover qualificare  come  imprenditore  ittico  il  detto
operatore economico sulla base del solo dato formale costituito dalla
sua iscrizione con tale qualificazione presso la Camera di  commercio
di Napoli e dall'oggetto sociale. 
    3.2.  --  Trascura,  pero',   il   rimettente   di   dare   conto
dell'avvenuta verifica della  sostanziale  congruita'  dell'attivita'
effettivamente svolta dall'impresa fallenda rispetto ai predetti dati
formali. Tale verifica si sarebbe dovuta imporre con  tanta  maggiore
evidenza in quanto, da  un  lato,  l'oggetto  sociale  dichiarato  si
caratterizza per la sua ridotta univocita'  (si  parla,  infatti,  di
commercio, all'ingrosso ed al dettaglio, di  prodotti  ittici,  senza
che sia precisato se i medesimi siano frutto dell'attivita' di  pesca
ed allevamento ovvero siano acquisiti presso terzi), e, d'altro lato,
nell'ordinanza di rimessione  l'unica  attivita'  economica  ascritta
alla fallenda (la dismissione, tramite cessione a terzi,  dei  propri
cespiti immobiliari) e' certamente riconducibile piu'  ad  un'impresa
commerciale che ad una societa' operante nel settore ittico. 
    Tanto piu' decisiva - deve, infine, osservarsi - e' la  omissione
argomentativa del rimettente ove si  tenga  presente  l'orientamento,
anche di recente ribadito, della  Corte  di  cassazione,  secondo  il
quale l'iscrizione di un'azienda nel registro delle  imprese  con  la
qualifica  di  impresa  agricola  non  impedisce  di   accertare   lo
svolgimento  effettivo  e  concreto   di   un'attivita'   commerciale
rientrante nei parametri di cui all'art. 1 della  legge  fallimentare
(Corte di cassazione, sezione I civile, 10 dicembre 2010, n.  24995).
Ne' la circostanza che la societa' in  questione  non  avesse  ancora
iniziato a svolgere alcuna attivita' -  salvo  quella  relativa  alla
dismissione di alcuni immobili - poteva essere  considerata  elemento
ostativo per la sottoposizione alla procedura fallimentare, dato  che
il giudice di legittimita' ha  affermato  che  l'«identita'»  atta  a
ritenere applicabile tale normativa e',  dalla  societa'  ad  oggetto
commerciale, acquisita «nel momento in cui si costituisce» (Corte  di
cassazione, sezione I civile, 28 aprile 2005, n. 8849). 
    3.3.  --  L'insoddisfacente  identificazione  quale  imprenditore
ittico, e come tale equiparato per quanto ora di interesse  a  quello
agricolo, del soggetto del cui fallimento si  discute  di  fronte  al
rimettente, rendendo, quanto  meno,  non  adeguatamente  motivata  la
rilevanza nel giudizio a quo della presente questione di legittimita'
costituzionale - in un ambito tematico nel quale questa Corte ha gia'
in passato postulato la necessita' di applicare criteri assolutamente
idonei   e   sicuri,   dovendosi   il   giudizio   di    fallibilita'
dell'imprenditore  ricavare  in  «relazione   all'attivita'   svolta,
all'organizzazione dei mezzi impiegati, all'entita'  dell'impresa  ed
alle ripercussioni che il dissesto  produce  nell'economia  generale»
(sentenza n. 570 del 1989)  ed  affermato  che  l'individuazione  del
«tipo» di impresa non puo' prescindere anche dalla concreta  indagine
sulla sua struttura ed organizzazione (sentenza n. 54 del 1991) -  ne
comporta la inammissibilita'.