IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 286 del 2011, proposto da: Fulvio Accurso, rappresentato e difeso dagli avv. Vittorio Angiolini, Marco Cuniberti, Michele Salazar, con domicilio eletto presso Michele Salazar Avv. in Reggio Calabria, via Re Ruggero, 9; Amato Giuseppe, Fortunato Amodeo, Annalisa Arena, Caterina Asciutto, Angelina Patrizia Bandiera, Cinzia M.A. Barilla', Barbara Bennato, Alessandra Berselli, Carmelo Blatti, Giuseppe Bontempo, Gabriella Cama, Giuliana Maria Campagna, Giuseppe Campagna, Silvia Capone, Gabriella Cappello, Daniele Cappuccio, Caterina Catalano, Alessandra Cerreti, Maria Pia Ciollaro, Luca Colitta, Rocco Cosentino, Adriana Costabile, Tommasina Cotroneo, Giuseppe Creazzo, Emanuele Crescenti, Maria Cristina Crucitti, Antonio De Bernardo, Francesca Di Landro, Salvatore Di Landro, Roberto Placido Di Palma, Tiziana Drago, Andrea Pietro Esposito, Maria Adriana Fimiani, Bruno Finocchiaro, Antonino Giuseppe Foti, Fiorenza Freni, Francesco Frettoni, Rosalia Gaeta, Giuseppe Gambadoro, Vincenzo Giglio, Silvana Grasso, Nicola Gratteri, Franco Greco, Grazia Maria Grieco, Massimo Gullino, Emilio Iannello, Antonino Lagana', Filippo Giuseppe Leonardo, Giuseppe Lomabardo, Massimo Minniti, Giuseppe Minutoli, Maria Luisa Miranda, Francesco Mollace, Patrizia Morabito, Giovanni Musaro', Stefano Musolino, Sara Ombra, Rodolfo Palermo, Dionisio Pantano, Giulia Pantano, Andrea Papalia, Claudio Paris, Andrea Pastore, Ornella Pastore, Federico Perrone Capano, Francesco Petrone, Raffaele Roberto Pezzuto, Giuseppe Pignatone, Natina M.C. Prattico', Paolo Ramondino, Enrico Riccioni, Danilo Riva, Fulvio Rizzo, Marcello Rombola', Beatrice Ronchi, Maurizio Salomone, Piero Santese, Domenico Santoro, Natalino Sapone, Mirella Schillaci, Antonio Scortecci, Ottavio Sferlazza, Alfredo Sicuro, Gaspare Spedale, Olga Tarsia, Kate Tassone, Francesco Tedesco, Daniela Tortorella, Adriana Trapani, Pietro Viola, Maria Idria Gurgo Di Catelmenardo, Giuseppe Adornato, rappresentati e difesi dagli avv. Marco Cuniberti, Michele Salazar, Vittorio Angiolini, con domicilio eletto presso Michele Salazar Avv. in Reggio Calabria, via Re Ruggero, 9; Contro Ministero della Giustizia, Ministero dell'Economia e delle Finanze, Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distr.le dello Stato, domiciliata per legge in Reggio Calabria, via del Plebiscito, 15; Per il riconoscimento previa idonea cautela e con riserva di motivi aggiunti, del diritto al trattamento retributivo spettante senza tener conto delle decurtazioni di cui al comma 22 dell'art. 9 del d.l. 31 maggio 2010 n. 78, come conv. con modif. in l. 30 luglio 2010 n. 122, nonche' per la condanna delle amministrazioni resistenti al pagamento delle somme corrispondenti, con ogni accessorio di legge. Visti il ricorso e i relativi allegati; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia e del Ministero dell'Economia e delle Finanze e della Presidenza del Consiglio dei Ministri; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 dicembre 2011 il dott. Salvatore Gatto Costantino e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue; I ricorrenti, tutti magistrati ordinari in servizio nei vari uffici giudiziari della Provincia di Reggio Calabria, si dolgono delle illegittime decurtazioni del trattamento retributivo previste dal comma 22 dell'art. 9 del d.l. 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modificazioni in legge 30 luglio 2010 n. 122, per ragioni variamente articolate, sia in fatto che in diritto. In fatto espongono che dall'applicazione della normativa richiamata subiscono una sostanziale decurtazione del trattamento retributivo e chiedono di accertare se detta norma possa trovare effettiva applicazione ai ricorrenti (dubitando della sua precettivita' in ragione di una asserita genericita' e contraddittorieta' del testo) e, in caso positivo, sia rimessa alla Corte costituzionale la questione di costituzionalita' del vigente impianto normativo, allo scopo di accertare il loro diritto alla percezione della retribuzione integrale, nella misura variamente computata in atti per ciascun ricorrente. Si e' costituita l'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Reggio Calabria, che resiste al ricorso di cui chiede la reiezione. Le parti hanno scambiato memorie. Alla pubblica udienza del 20 dicembre 2011 la causa e' stata trattenuta in decisione. 1) Osserva il Collegio che con separata ordinanza su ricorso nr. 564/2011 chiamato in decisione nella medesima odierna udienza pubblica, e' stata trattata questione in parte analoga a quella odierna, che tuttavia ha oggetto solo in parte coincidente con quella di cui all'odierno ricorso, essendo in contestazione anche misure disposte con altre parti dell'art. 9 cit. e dello stesso d.l. n. 78/2010. Ai fini del presente giudizio, e' dunque trattata la sola questione della legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 21 e 22 dell'art. 9 del prefato d.l. n. 78/2010 convertito, con modificazioni, in legge n. 122/2010, nei limiti della domanda. 2) A mente del comma 21 dell'art. 9 succitato, per quanto qui di interesse, «I meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato di cui all'articolo 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, cosi' come previsti dall'articolo 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, non si applicano per gli anni 2011, 2012 e 2013 ancorche' a titolo di acconto, e non danno comunque luogo a successivi recuperi. (...)». Il successivo comma 22 cosi' dispone: «Per il personale di cui alla legge n. 27 /1981 non sono erogati, senza possibilita' di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012; per tale personale, per il triennio 2013-2015 l'acconto spettante per l'anno 2014 e' pari alla misura gia' prevista per fanno 2010 e il conguaglio per fanno 2015 viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014. Per il predetto personale l'indennita' speciale di cui all'articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, spettante negli anni 2011, 2012 e 2013, e' ridotta del 15 per cento per fanno 2011, del 25 per cento per fanno 2012 e del 32 per cento per fanno 2013. Tale riduzione non opera ai fini previdenziali». Soggiunge, nel quarto periodo, la medesima disposizione che «Nei confronti del predetto personale non si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 21, secondo e terzo periodo». 3) Parte ricorrente, trovando la piena condivisione del Collegio, prospetta questione di legittimita' costituzionale dei sopra trascritti commi 21 e 22 nelle parti di interesse (rispettivamente, primo periodo e primo, secondo e terzo periodo). La rilevanza della questione appare indiscutibile, e dunque vanno disattese le argomentazioni difensive di parte ricorrente secondo le quali dette norme sarebbero inapplicabili per la loro genericita' e per il contenuto contraddittorio delle stesse. Invero, come dedotto dall'Avvocatura in maniera condivisibile, il personale di magistratura ha subito dal 1° gennaio 2011 il mancato incremento del 3,04 per cento, ovverosia del secondo acconto previsto dal DPCM 23 giugno 2009, che sarebbe spettato laddove non fosse intervenuta la manovra. Ulteriore effetto della norma e' che non compete alcun conguaglio nel 2012 ne', per il triennio successivo, il primo acconto nel 2013. Piu' chiaramente, la norma, in combinato disposto con la disciplina del meccanismo di dinamica retributiva del personale di magistratura, quale fissato dall'articolo 2 della legge n. 27/1981 (che prevede un adeguamento triennale sulla base degli incrementi conseguiti nel precedente triennio dalle altre categorie del pubblico impiego e si realizza mediante il meccanismo di due acconti di pari importo nel secondo e terzo anno del triennio e successivo conguaglio): introduce nel corrente anno 2011 il blocco del meccanismo di adeguamento retributivo, nonche' il blocco di acconti e conguagli, cui avrebbero avuto altrimenti diritto; introduce altresi' la decurtazione dell'indennita' giudiziaria in ragione del 15% per cento. Non v'e' dubbio alcuno, dunque, in ordine alla rilevanza della questione proposta ai fini della decisione del ricorso. 4) In punto di fondatezza della questione, valga quanto segue. 4.1 Violazione degli artt. 2, 3, 24, 36, 53, 97, 100, 101, 108, 111 e 113 Cost. Lesione di tutti i principi fissati da tali norme. I commi 21 e 22 regolano gli aspetti attinenti alla corresponsione degli acconti, dei conguagli e delle indennita' specificamente spettanti ai Magistrati (indennita' giudiziaria ex art. 3 l. 27/1981) con i seguenti principi: a) per i magistrati, cosi' come per tutte le altre categorie del personale non contrattualizzato, viene introdotto il blocco dei «meccanismi di adeguamento retributivo» previsto dal primo periodo del comma 21, la cui operativita' e' estesa sia a livello di acconto che a livello di conguaglio (e dunque con effetto retroattivo) dal primo periodo dell'art. 22; b) per i soli Magistrati (di tutte le Magistrature), a differenza delle altre categorie del personale non contrattualizzato, sono salvaguardati i meccanismi di «progressione automatica dello stipendio», ossia gli scatti di carriera, e cio' perche' ad essi non si applicano i periodo secondo e terzo del comma 21; c) nei confronti dei soli Magistrati viene pero' operato - quasi a titolo di bilanciamento di quanto illustrato al punto b) - un taglio crescente nel tempo dell'indennita' giudiziaria (ex art. 3 l. 27/1981), come previsto dal secondo periodo del comma 22; d) i Magistrati subiscono poi, sempre in forza del comma 22, il blocco di acconti (anni 2011, 2012 e 2013) e conguagli (triennio 2010-2012); e) Vengono infine introdotti, ancora dal comma 22, dei «tetti» all'acconto per l'anno 2014 (che non puo' superare quello del 2010) e del conguaglio per l'anno 2015 (determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014, escludendo quindi il triennio 2011 - 2013). I commi 21 e 22 nelle parti riportate introducono pertanto, nel loro complesso, misure di notevole gravita', poiche' finalizzate a vincolare assai incisivamente, per gli anni 2011, 2012 e 2013 il trattamento economico dei singoli Magistrati; e cio' ancorche' le progressioni stipendiali siano fatte salve. Si tratta di misure ingiustamente penalizzanti, estemporanee e totalmente sganciate dalla normativa in materia di retribuzione del personale di Magistratura. 4.2. Per la sua connotazione manifestamente pregiudizievole, la prevista paralisi degli adeguamenti retributivi non ha bisogno di commenti e spiegazioni. Lo stesso dicasi in merito al «fermo» di acconti e conguagli, che parimenti comportano un depauperamento reddituale immediato per i Magistrati. Mentre il depauperamento e' solo differito nel tempo, ma egualmente certo, per quanto attiene ai «tetti» dell'acconto 2014 e del conguaglio 2015. Il comma 22 succitato incide non meno pesantemente sull'istituto dell'indennita' giudiziaria, senza alcun tipo di istruttoria ne' una stima precisa documentata del risparmio di spesa ottenibile dal relativo taglio, e quindi in modo totalmente irragionevole ed improvvisato. Basti pensare alla totale irrazionalita' derivante dalla previsione di un progressivo accrescimento nel tempo del taglio in questione (la riduzione e' del 15% per l'anno 2011, del 25% per l'anno 2012 e del 32% per l'anno 2013). Verosimilmente tale progressione verso l'alto potrebbe spiegarsi perche', essendo il taglio nato come misura compensativa e di bilanciamento della «salvezza» delle progressioni stipendiali (cosi' sub pt. 8 della cit. Circolare del Ministero dell'Economia e delle Finanze n. 12 del 15 aprile 2011, prot. n. 0035819), il Legislatore avrebbe tenuto conto delle previste promozioni nel triennio, presumibilmente crescenti nel numero. Ma in realta' una siffatta motivazione, oltre a non comparire assolutamente (neppure deduttivamente) nel testo della legge, appare del tutto illogica ed incoerente con il sistema. Anzitutto e' differente l'operativita' dei due meccanismi considerati, che sono profondamente eterogenei: il blocco delle progressioni stipendiali - ove attuato - avrebbe rappresentato un mancato esborso futuro e scaglionato nel tempo (e per certi versi anche eventuale, essendo ben possibile che un Magistrato «lasci la toga» prima di ottenere promozioni), mentre il taglio dell'indennita' giudiziaria opera sin da subito in busta paga quale misura di effettiva ed immediata decurtazione patrimoniale per il Magistrato. In secondo luogo, nessuna norma costituzionale e nessun principio contabile esige il finanziamento di un mancato taglio, diversamente da quanto accade per il finanziamento di una nuova spesa. Ancora, se si considera che le leggi precedenti - che prevedevano le tabelle retributive e i meccanismi di adeguamento degli stipendi dei Magistrati - erano gia' obbligatoriamente coperte a livello finanziario (in ottemperanza all'art. 81 Cost.), la motivazione del «finanziamento» del mancato taglio appare del tutto irrazionale. Persino la motivazione della «crisi economica» e' inadeguata a spiegare la ratio dei tagli crescenti. Infatti, se e' vero che la norma del comma 22 e' stata concepita per fronteggiare un momento di crisi presente ed connotazione tributaria, colpisce una limitata fascia di cittadini e lavoratori, e non «tutti» come costituzionalmente prescritto (art. 53 Cost.). Anche a non voler riconoscere natura tributaria alle disposizioni richiamate, esse comportano blocchi stipendiali con esito espropriativo (proprio perche' ledono diritti legati a diritti ed aspettative «quesite»), in assenza di compensazioni indennitarie (non monetarie) per i soggetti che ne risulteranno colpiti (art. 42 comma 3 Cost.). 4) Viene completamente svuotata la capacita' auto-organizzativa delle P.A., che dovrebbe normalmente potersi esprimere anche in riferimento allo stato economico del personale. Cio' comporta la violazione dell'art. 97 cost. e del principio di buon andamento ivi fissato sotto diversi aspetti, inerenti il perseguimento degli obiettivi di efficienza, economicita' ed efficacia, contenuti nel suddetto principio di buon andamento, impedendo all'Amministrazione di gestire il personale in conformita' delle esigenze di interesse pubblico di volta in volta emergenti. 5) Le norme succitate rafforzano l'idea che il Legislatore abbia inteso operare un indebito condizionamento sull'esercizio della funzione giurisdizionale (in conflitto con i dettami espressi dagli artt. 24, 101, 104, 108, 111 e 113 Cost.), obbligando il Magistrato (come singolo o come Ordine) a rivendicazioni economiche verso i pubblici poteri. 6) Viene violato l'art. 36 della Costituzione in relazione al principio di proporzionalita' della retribuzione alla quantita' e qualita' del lavoro prestato: la retribuzione sulla quale si va negativamente ad incidete era profilo: basti ricordare che con sentenza del 24 novembre 2010 la Corte di giustizia UE (C-40/10) ha annullato le disposizioni del regolamento 1296/2009 UE, che avevano ridotto l'adeguamento automatico annuale al costo della vita degli stipendi dei funzionari UE, abbattendolo dal 3,7% all'1,85%, ritenendo per l'appunto che la pur nota situazione di crisi economica non potesse essere posta a fondamento di poteri «eccezionali» del Consiglio. 4.3. Al di la' di tali profili, la norma in esame appare al Collegio in contrasto con la Costituzione sotto molteplici profili che si elencano sinteticamente: 1) Viene leso - senza che lo richieda il soddisfacimento di altri e piu' pregnanti principi costituzionali, nell'ottica di un ragionevole bilanciamento - il principio di affidamento del Magistrato nell'ordinario sviluppo economico della carriera e nella corresponsione di acconti e conguagli, cosi' come predeterminati ed attesi al momento di ingresso nei ruoli della Magistratura, anche in ragione del fisiologico progredire del rapporto (si veda T.A.R. Campania, sez. I Salerno, ord. n. 1162 del 23 giugno 2011, pronunciata su ricorso di alcuni Magistrati ordinari, con la quale e' stata disposta la rimessione degli atti del giudizio alla Corte Costituzionale, proprio in riferimento al comma 22 in esame). 2) Vengono discriminati «in peius» i pubblici dipendenti - tra cui i Magistrati - rispetto a tutti gli altri cittadini e/o lavoratori, con palese - violazione dell'art. 3 Cost. 3) Viene operato un prelievo che, pur rivestendo una chiara connotazione tributaria, colpisce una limitata fascia di cittadini e lavoratori, e non «tutti» come costituzionalmente prescritto (art. 53 Cost.). Anche a non voler riconoscere natura tributaria alle disposizioni richiamate, esse comportano blocchi stipendiali con esito espropriativo (proprio perche' ledono diritti legati a diritti ed aspettative «quesite»), in assenza di compensazioni indennitarie (non monetarie) per i soggetti che ne risulteranno colpiti (art. 42 comma 3 Cost.). 4) Viene completamente svuotata la capacita' auto-organizzativa delle P.A., che dovrebbe normalmente potersi esprimere anche in riferimento allo stato economico del personale. Cio' comporta la violazione dell'art. 97 cost. e del principio di buon andamento ivi fissato sotto diversi aspetti, inerenti il perseguimento degli obiettivi di efficienza, economicita' ed efficacia, contenuti nel suddetto principio di buon andamento, impedendo all'Amministrazione di gestire il personale in conformita' delle esigenze di interesse pubblico di volta in volta emergenti. 5) Le norme succitate rafforzano l'idea che il Legislatore abbia inteso operare un indebito condizionamento sull'esercizio della funzione giurisdizionale (in conflitto con i dettami espressi dagli artt. 24, 101, 104, 108, 111 e 113 Cost.), obbligando il Magistrato (come singolo o come Ordine) a rivendicazioni economiche verso i pubblici poteri. 6) Viene violato l'art. 36 della Costituzione in relazione al principio di proporzionalita' della retribuzione alla quantita' e qualita' del lavoro prestato: la retribuzione sulla quale si va negativamente ad incidere era stata determinata da una legislazione specifica, che parametrava le classi stipendiali alla progressione di carriera, e dunque proprio alla «quantita' e qualita' del lavoro prestato». Al contrario, i tagli sono lineari ed uguali per tutti, tanto da far dubitare che gli stessi rispettino la logica «meritocratica» dell'art. 36 Cost. Tali questioni richiedono - per la loro migliore comprensione - un necessario approfondimento ed un piu' accurato inquadramento dogmatico che il Collegio puo' svolgere richiamando quanto trattato e ritenuto nell'ordinanza pronunciata nel giudizio nr. 564/2011. PARTE II - Violazione degli artt. 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 103, 108, 111 e 113 cost. Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche e segnatamente: assoluta illogicita' ed irrazionalita', ingiustizia manifesta, errata valutazione dei presupposti, carenza istruttoria, difetto di motivazione, omessa ponderazione di interessi rilevanti, sviamento, contraddittorieta' intrinseca ed estrinseca dell'atto. Violazione del principio del «giusto procedimento» e dell'art. 97 Cost. I.1) Natura tributaria della norma - Violazione art. 53, 3 e 97 cost. - violazione principi di proporzionalita' e progressivita' dell'imposizione. Analogamente all'orientamento espresso in numerose ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale, adottate in ordine alla medesima questione da parte di altri TAR (v. TAR Sicilia, Palermo, n. 2375/2011; TAR Veneto, n. 1685/2011; TAR Trento, n. 307/2011 ed altre), il Collegio condivide il primo rilievo fatto valere dai ricorrenti, secondo cui alla norma in esame deve essere riconosciuta natura tributaria. Secondo l'insegnamento della giurisprudenza costituzionale, nella prestazione imposta con la norma in esame devono essere ravvisati i caratteri della doverosita', in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti, e del collegamento tra la prestazione di sostegno alla pubblica spesa, in relazione ad un presupposto economicamente rilevante. La considerazione (gia' svolta dal Collegio nell'ordinanza pronunciata su altro ricorso ed in relazione al comma 2 del medesimo art. 9) non muta anche a collocarsi nell'ottica secondo cui all'indennita' giudiziaria non va riconosciuta natura stipendiale, essendo comunque un emolumento soggetto a tassazione che concorre alla formazione del coacervo della base imponibile. In sostanza, anche in relazione alle riduzioni del comma 22 sono prospettabili la concorrenza dell'imposizione di un sacrificio economico individuale, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio e, contestualmente, la destinazione del gettito scaturente da tale ablazione al fine di integrare la finanza pubblica, ossia per reperire risorse necessarie a coprire spese pubbliche (come reso palese dalla stessa dizione della norma riportata, che invoca la situazione di grave crisi economica internazionale e gli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea; quanto alla giurisprudenza della Corte, si richiamano ex plurimis, Corte Cost., sentt. nn. 141/2009, 335/2008, 64/2008, 334/2006, 73/2005; si puo' fare riferimento altresi' alla giurisprudenza volta a definire la nozione costituzionale di «leggi tributarie», ai fini del giudizio di ammissibiliti del referendum ex art. 75 Cost). In effetti, l'obiettivo di finanza pubblica evocato dal d.l. n. 78/2010 va oltre la mera riduzione dei costi o della spesa corrente degli Stati, attenendo, piu' propriamente, alla riduzione del rapporto tra debite pubblico e PIL (come chiarisce lo stesso comma 2 dell'art. 9, laddove fa riferimento alle «esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea»). La natura tributaria della norma in esame e', ad avviso del Collegio, cosi' palese che non e' necessario alcun ulteriore approfondimento, se non per quanto concerne la verifica della giurisdizione del giudice amministrativo sulla relativa questione. I.2) A tal proposito, va affermato che sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda inerente decurtazioni del trattamento economico aventi natura tributaria, in quanto, ai sensi dell'art. 133 lett. «i» del cpa spetta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione delle «controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico». La formulazione della norma e' talmente ampia da ricomprendere ogni questione retributiva che trovi origine, causa oppure occasione nel rapporto di lavoro dei dipendenti non contrattualizzati, tra i quali rientrano i magistrati. I.3) Stante la natura tributaria da riconoscersi alla disposizione in esame, quest'ultima dovrebbe essere conforme ai principi dettati dall'art. 53 Cost., ai sensi del quale «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacita' contributiva» (comma 1) ed «Il sistema tributario e' informato a criteri di progressivita'» (comma 2). Invece la norma di cui si deduce l'illegittimita' costituzionale «colpisce» solo una specifica categoria di contribuenti, sulla base di loro peculiari qualita' soggettive e non sulla base di determinate qualita' di reddito, e, nello stesso tempo, impone una prestazione patrimoniale indipendente dall'effettiva capacita' contributiva soggettiva globalmente considerata (ossia individua uno specifico cespite da assoggettare a tassazione, senza relazioni con altre entrate del soggetto inciso), introducendo un'imposizione sostanzialmente regressiva e discriminatoria. Il primo profilo di incostituzionalita' si ravvisa nel fatto che il prelievo e' disposto esclusivamente in danno di una ben definita categoria socio-economica, i Magistrati, laddove, utilizzando il termine «Tutti», la disposizione costituzionale e' chiara nell'individuare in modo inequivoco ed onnicomprensivo la platea dei contribuenti da assoggettare al prelievo fiscale. Con l'ord. n. 341/2000 la Consulta, dopo aver Premesso che «l'art. 53 della Costituzione deve essere interpretato in modo unitario e coordinato, e non per preposizioni staccate ed autonome le une dalle altre» ha affermato che «la universalita' della imposizione, desumibile dalla espressione testuale "tutti'' (cittadini o non cittadini, in qualche modo con rapporti di collegamento con la Repubblica italiana), deve essere intesa nel senso di obbligo generale, improntato al principio di eguaglianza (senza alcuna delle discriminazioni vietate: art. 3, primo comma, della Costituzione), di concorrere alle "spese pubbliche in ragione della loro capacita' contributiva'' (con riferimento al singolo tributo ed al complesso della imposizione fiscale), come dovere inserito nei rapporti politici in relazione all'appartenenza del soggetto alla collettivita' organizzata». Manca, dunque, nella fattispecie normativa in esame 1'«indefettibile raccordo con la capacita' contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressivita', come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla liberta' ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarieta' politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)», che la Corte ha ritenuto essere la corretta condizione per un'imposizione contributiva equa. Tale impostazione fa apparire decisamente anomala e non conforme alla Costituzione la scelta del Legislatore del 2010 che, in un contesto economico-finanziario esplicitamente qualificato come «eccezionale», avrebbe potuto operare soltanto interventi straordinari e/o temporanei di prelievo forzoso, ed invece ha posto in essere misure continuative e sostanzialmente stabili - e percio' dal palese sapore tributario - in quanto oltretutto prolungate nel triennio 2011-2013 (oltre che legate al superamento di scaglioni predeterminati, esattamente come le imposte); ma soprattutto ha indirizzato tale prelievo nei confronti di una ben limitata «classe di persone», ben guardandosi dall'operare nei confronti di «tutti» i contribuenti in possesso di determinate fasce di reddito, nessuno escluso (liberi professionisti, lavoratori dipendenti del settore privato, imprenditori e quant'altro), esentati immotivatamente dall'imposizione straordinaria, nonostante l'eccezionalita' della situazione economica del Paese, come viceversa una corretta applicazione dei principi di cui all'art. 53 cost. avrebbe richiesto. I.4) Non vale Osservare, in contrario, che i magistrati e/o i dipendenti pubblici piu' in generale sono titolari di cespiti economici adeguati al prelievo, in quanto in possesso di una condizione lavorativa connotata da «stabilita'» (e dunque non incisa dalla riduzione dell'indennita' giudiziaria): in realta', la stabilita' della posizione lavorativa diviene, in questa prospettiva, un argomento politico o comunque ideologico, non certamente giuridico, sussistendo nell'Ordinamento numerosissimi esempi di «categorie protette» (si pensi ai notai o ai farmacisti, per esemplificare) che non sono state incise dalla manovra e che pure avrebbero potuto essere chiamate a concorrere al prelievo forzoso, visti i termini dell'urgenza collettiva determinata dalla crisi economica. Non essendo questa la sede per un confronto di natura politica, va evidenziato che, come affermato dalla Corte costituzionale con la citata ordinanza n. 341/2000, nell'imposizione contributiva e fiscale deve essere Osservato un criterio di uniformita', che nell'ammontare dei cespiti patrimoniali individua un criterio certo e non discriminatorio di identificazione della capacita' contributiva da assumere a presupposto di una imposta, anche se di natura temporanea o eccezionale (v. anche la sentenza n. 92/1963 della Corte costituzionale secondo cui «il primo comma dell'art. 53, nel sancire non gia' solo il dovere delle prestazioni tributarie, ma altresi' il principio della correlazione di queste con la capacita' contributiva di ciascuno, imponga al legislatore, oltre all'obbligo di non disporre prestazioni che siano in contrasto con i principi fondamentali sanciti dalla Costituzione a tutela della persona, altresi' l'obbligo di commisurare il carico tributario in modo uniforme nei confronti dei vari soggetti, allorche' sia dato riscontrare per essi una perfetta identita' della situazione di fatto presa in considerazione dalla legge al fine dell'imposizione del tributo», in omaggio «al principio generale di eguaglianza sancito nell'art. 3 della Costituzione»). I.5) Peraltro, anche all'interno della medesima categoria del personale inciso dalla disposizione in esame, quest'ultima assume forti connotati sperequativi e regressivi, perche', nella sua «draconiana» articolazione in due aliquote percentuali, prescinde dalla doverosa considerazione dell'eventuale sussistenza di ulteriori proventi. Cosi', a titolo meramente esemplificativo, con riferimento ai magistrati collocati in posizione di fuori ruolo o titolari di incarichi extra - giudiziari o di collaborazione con organi costituzionali, governativi o regionali, che superano grazie ai predetti incarichi la soglia di reddito di 150.000 euro, l'eventuale applicazione del prelievo del 5% sui redditi da stipendio che siano non superiori a 150.000 euro finisce con imporre una prestazione obbligatoria percepita come meno gravosa, rispetto a quanti possiedono solamente redditi ordinari, derivanti dalla retribuzione di servizio (e quindi senza emolumenti aggiuntivi), attesa la ben nota differenza soggettiva del valore marginale del denaro, che nel vigente sistema tributario rappresenta la precondizione economica e la ratio giustificatrice della progressivita' dell'imposizione. I.6) Va quindi ritenuto che l'art. 9 comma 2, del d.l. n. 78/2010 contrasta insanabilmente con gli orientamenti della Corte Costituzionale, dal momento che in sede legislativa non si e' cercata l'uniformita' di trattamento e di prelievo tra i vari soggetti dell'Ordinamento, il che ha determinato la palese violazione del principio di progressivita' sancito dal comma 2 dell'art. 53 Cost., indefettibile canone ispiratore del sistema tributario. L'opzione legislativa configge con il principio della perequazione tributaria - che sin dalla fine degli anni'50 fa parte del nostro diritto positivo, essendo immediatamente ascrivibile al dettato dell'art. 53 cost. - e che implica la ripartizione delle imposte tra i singoli cittadini e le diverse fasce della popolazione in base all'accertata capacita' contributiva di ciascuna «area sociale». La piu' elementare logica perequativa ed equitativa avrebbe imposto di considerare, ai fini del prelievo, non solo il dato «grezzo» e di per se' poco eloquente del reddito percepito dal lavoratore pubblico, ma altri elementi atti a fornire un quadro organico, complessivo e reale della capacita' contributiva del dipendente, calibrando e proporzionando la trattenuta stipendiale a fattori rilevanti «in melius» (come il gia' richiamato nell'esempio del cumulo con altri redditi - nei casi ammessi - o con introiti di altro tipo) ovvero «in peius» (si pensi ai casi di unico reddito familiare, all'esistenza di uno o piu' figli a carico, e cosi' via). Quanto appena esposto rende non manifestamente infondata la questione della illegittimita' costituzionale della norma in esame con riferimento agli artt. 53, 2 e 3 della Costituzione. II) Natura non tributaria della norma - Diminuzione temporanea della retribuzione - Disparita' di trattamento ed ingiustificata violazione della proporzione della retribuzione alla qualita' e quantita' di lavoro. Lesione del principio di uguaglianza e del principio di ragionevolezza legislativa. Lesione del principio di solidarieta' sociale, politica ed economica - Violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione. Violazione degli artt. 42 e 23 della Costituzione. II. 1) In via subordinata, anche a non riconoscere natura tributaria alla disposizione in esame secondo l'impostazione esposta sin qui (che, comunque, il Collegio condivide e preferisce), sussisterebbero comunque i profili di illegittimita' costituzionale appena enunciati. In costanza di rapporto, ed attesa la natura di tale rapporto, che e' disciplinato per legge e non per il tramite della contrattazione collettiva proprio a tutela della peculiarita' della funzione giurisdizionale e della indipendenza dei singoli magistrati, il «legislatore» ha sentito la necessita' di apportare modifiche «in pejus» del trattamento retributivo, derogando ai precisi meccanismi di disciplina della sua articolazione a parita' di prestazione. Da qui la lesione dei principi appena enunciati nel titolo del presente capoverso. II. 2) Il legislatore ridetermina, in senso ablativo, un trattamento economico gia' acquisito alla sfera del pubblico dipendente sub specie di diritto soggettivo. Cio', pertanto, incide sullo status economico dei lavoratori (anche appartenenti alla Magistratura) alterando quel sinallagma che e' il «proprium» dei rapporti di durata ed in particolare proprio dei rapporti di lavoro; basti considerare che sulla stabilita' anche economica si fondano le aspettative, le progettualita' e gli investimenti - di lungo periodo, se non addirittura a vita - del dipendente. Sebbene nel nostro sistema costituzionale non sia affatto interdetto al Legislatore di emanare disposizioni atte a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l'oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, le disposizioni in esame sembrano non rispettare la condizione essenziale, ossia che la riforma «in pejus» non trasmodi in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto (ex multis, Corte Cost., sent. n. 446/2002; ord. n. 327/2001; sentt. nn. 393/2000, 264/2005, 416/1999 n. 282/2005). II. 3) Da qui anche la violazione dell'art. 2 della Costituzione: la novazione oggettiva ed unilaterale del rapporto di lavoro, realizzata dal d.l. 78/2010, oltre a tradursi nel grave scardinamento di un principio di rilevanza costituzionale, e quindi indeclinabile, della materia lavoristica (la proporzionalita' tra prestazione e retribuzione ex art. 36 Cost.), va in fondo a sacrificare la stessa dignita' sociale della persona-lavoratore pubblico, che si trova soggetto, senza possibilita' di difesa, ad aggressioni patrimoniali sostanzialmente arbitrarie non solo nelle modalita' del prelievo, nei tempi del medesimo e nelle soglie stipendiali cui attingere, ma nello stesso presupposto (il presentarsi di pretese esigenze finanziarie); e cio' perche' a determinarlo e' lo stesso soggetto (Stato) che opera il prelievo, avvalendosi della forza congiunta e soverchiante derivante dall'essere ad un tempo datore di lavoro e Legislatore, e senza che il destinatario del sacrificio possa essere considerato direttamente o indirettamente responsabile della crisi finanziaria e di cassa cui e' chiamato a far fronte, derivando quest'ultima da fattori di squilibrio che sono ascrivibili a responsabilita' (quantomeno politica) dello stesso organo che dispone il prelievo (esecutivo nelle vesti di legislatore; sul punto vedasi meglio in fra). III) Violazione degli artt. 42 e 97 cost. Lesione dei principi costituzionali in tema di ablazione reale e dei principi di buon andamento ed imparzialita' amministrativa. Ancora, a non riconoscere nell'art 9 comma 22 del d.l. 78/2010 una disposizione tributaria (con conseguente applicazione dell'art. 53 Cost.) e ferme le ragioni di incostituzionalita' sin qui illustrate, un ulteriore sospetto di illegittimita' della norma in esame va tratto dalla sua natura sostanzialmente espropriativa, dal momento che si dispone nei confronti dei Magistrati una vera e propria ablazione di redditi formanti oggetto di' diritti quesiti, senza alcun indennizzo, con conseguente violazione dell'art. 42 Cost., secondo cui «La proprieta' privata puo' essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale». Non appare dubitatile che l'espropriazione possa astrattamente colpire (stante l'uso dell'onnicomprensivo termine «proprieta' privata» da parte del Costituente) anche beni mobili fungibili, quale il denaro (nella specie, l'indennita' giudiziaria gia' acquisita allo status economico del dipendente/Magistrato); secondo tale prospettazione, la fattispecie considerata consentirebbe di qualificare la norma di cui all'art. 9 comma 22 alla stregua di norma-provvedimento (in coerenza con la natura procedimentale dell'espropriazione), e dunque ne conseguirebbe la violazione dell'art. 97 Cost., perche' del provvedimento la norma ha mutuato la natura, ma ha eliso il procedimento, nel cui ambito vanno convogliate quelle imprescindibili esigenze di equilibrio dell'esercizio del potere tipicamente volte ad assicurare il minimo sacrificio, il giusto equilibrio con l'indennita', nonche' tutte quelle altre numerose facolta' di partecipazione degli interessati, che consentono a questi ultimi di verificare la legittimita' e l'opportunita' delle scelte cui sono chiamati a contribuire con il loro sacrificio, sia nell'an, che nel quantum delle misure richieste. III.1) Ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale e' la violazione dell'art. 42 cost. per la mancanza di qualsivoglia indennizzo. La Consulta ha piu' volte ribadito che l'obbligo a carico dell'Amministrazione di corrispondere un indennizzo puo' essere soddisfatto mediante «una pluralita' di soluzioni astrattamente ipotizzabili, idonee ad assicurare un serio ristoro (...) in armonia con i principi costituzionali, tra le quali il legislatore puo' operare una scelta» (sent. n. 179/1999). In tal senso il Legislatore e' libero nell'individuare i piu' idonei sistemi compensativi, ben potendo optare per misure alternative riparatorie (non economiche ma) in forma specifica (Corte Cost., sent. 179/1999 ed ord. n. 165/1998), aspetti questi del tutto obliterati dal legislatore nella fattispecie in esame. In accordo con la giurisprudenza che si e' occupata delle condizioni e dei limiti di validita' e di sindacabilita' delle c.d. leggi provvedimento (TAR Lazio, sez. III-Quater, nella sent. n. 12623/07; TAR Puglia, sez. II Lecce, ord. n. 3631/07), l'inesistenza di un formale obbligo di «motivare» la norma di rango primario non esclude che gli adempimenti istruttori compiuti nel corso dell'elaborazione della legge-provvedimento debbano essere dotati di effettivita', compiutezza ed attendibilita'; requisiti, questi, che la Consulta potra' senz'altro vagliare facendo leva sui fondamentali principi di imparzialita', buon andamento e ragionevolezza legislativa. IV) Violazioni comuni ad entrambe le ipotesi ricostruttive della normativa (natura tributaria e natura non tributaria della norma) - Violazione dei precetti di cui agli arti. 2 e 3 della Costituzione sotto diversi profili. Violazione dei principi espressi dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa nella «Raccomandazione CM/ Rec(2010)12 sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilita'», adottata il 17 novembre 2010. Quale che sia la natura giuridica che si voglia riconoscere alla norma in esame, sussistono ulteriori profili di incostituzionalita', che si prospettano sinteticamente e che negli atti di causa sono ben piu' diffusamente illustrati ed argomentati. IV. 1) Si premette che la Carta Fondamentale, all'art. 3 comma 2, prevede quale precipuo «compito della Repubblica» (per tale intendendosi lo Stato-apparato, ossia l'insieme dei pubblici poteri, ivi compreso il Legislatore) quello di promuovere e garantire «l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Poiche' tale partecipazione «economica» non puo' essere ovviamente considerata solo dal lato «attivo» ma anche dal lato «passivo», ovvero inglobando una serie di oneri ed obblighi che ad essa naturalmente pertengono (tra i quali la contribuzione alle esigenze finanziarie dell'Erario, a loro volta correlate al soddisfacimento dei bisogni della comunita'), il fine della norma e' quello di incaricare lo Stato (e percio' tutti pubblico poteri) di rimuovere gli squilibri socio-economici esistenti, ossia le diversificazioni economiche tra categorie sociali diverse, o tra lavoratori appartenenti ai diversi settori della societa' civile. In questo senso, l'aver attribuito la parte predominante dello sforzo «contributivo» tramite una minore retribuzione ai dipendenti pubblici, e tra essi ai magistrati, introduce forti discriminazioni nell'eguaglianza sostanziale dei soggetti dell'Ordinamento per le seguenti ragioni. IV.2) Viene sottoposta a prelievo una categoria di sicura «tassabilita'» per via della garanzia della ritenuta alla fonte; al di la' di ogni altra giustificazione ravvisabile nella ratio dell'istituto, il ricorso al prelievo fiscale e' indotto dall'incapacita' (tecnica o politica) di perseguire l'evasione fiscale, con conseguente vantaggio di fatto per i redditi non derivanti da lavoro dipendente nel settore pubblico. Come evidenziato dai ricorrenti, lungi dall'impegnarsi nella predisposizione di strumenti fiscali efficaci nella prevenzione di tale fenomeno, il Legislatore statale inconcepibilmente ed intollerabilmente ha aumentato gli squilibri, trascurando del tutto di colpire le ricchezze evase al fisco e persino gli introiti derivanti da rendite ben conosciute (si pensi alle rendite catastali e finanziarie), per concentrarsi su una fascia specifica di lavoratori, colpevoli unicamente di possedere la qualita' di pubblici impiegati (o di Magistrati) e di avere redditi facilmente accertabili ed ancora piu' facilmente «attaccabili». IV.3) La soluzione in concreto adottata nel d.l. 78/2010 e' stata probabilmente preferita: in quanto piu' «difendibile» da un punto di vista politico - ossia sul piano dell'accettabilita' da parte dell'opinione pubblica generale, nel momento storico in cui e' stata posta in essere; perche' assume come propria la semplicistica e generalizzante opinione comune, secondo cui i redditi incisi, per il fatto stesso di essere «elevati», costituiscono per lo piu' «prebende di Stato»; perche' il «tributo», o comunque il prelievo, poteva comodamente essere qualificato come «riduzione di spesa»; e cio' naturalmente approfittando della coincidenza tra il soggetto che lo impone ed il datore di lavoro che si vede ridotto per legge il costo del lavoro. Sennonche', tali ipotesi ricostruttive non consentono di sostenere la costituzionalita' della legge, fermo restando che le pretese «motivazioni» della manovra concepita a danno dei pubblici dipendenti non reggono ad un piu' approfondito esame. Infatti, la capacita' contributiva dei lavoratori dipendenti, e tra essi dei Magistrati, e' gia' messa a dura prova da un sistema fiscale alimentato in grande misura dal meccanismo della ritenuta alla fonte. Pertanto, prima di assoggettare ad ulteriore prelievo gli stipendi dei dipendenti pubblici destinatari di un'elevata retribuzione, si sarebbe dovuto verificare se tali dipendenti fossero - come effettivamente sono - gia' sottoposti ad una schiacciante imposizione fiscale, e conseguentemente concentrare la «riduzione della spesa» in altri settori, ad esempio frenando il ricorso sempre piu' frequente alle consulenze esterne in favore della Pubblica Amministrazione, oppure - argomento quest'ultimo di particolare rilievo - incidendo nel settore di tutte le c.d. spese (latu sensu) «clientelari», di particolare diffusione nel settore delle Autonomie regionali e locali (di difficoltosa riduzione, perche' a torto ritenute essenziali alla politica ed alla formazione del consenso, cosi' come inteso negli ultimi anni, come ad esempio i contributi a pioggia alle imprese, le spese per iniziative culturali, aggregative, le spese per societa' ed enti - satellite della PA, la formazione e cosi' via). IV.5) Le misure introdotte creano, come accennato, disparita' di trattamento anche interno alla platea degli incisi, contrastanti con orientamenti di matrice comunitaria, sui quali si tornera' diffusamente oltre. Si fa riferimento all'indicazione espressa dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa nella «Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilita'», adottata il 17 novembre 2010; indicazione che va chiaramente nel senso di «vietare ogni forma di discriminazione verso i giudici o i candidati all'ufficio di giudice» (punto 45). La stessa Raccomandazione, al punto 54, non solo richiede che la retribuzione dei giudici sia «commisurata al loro ruolo professionale e alle loro responsabilita'», ma esplicitamente esige che essa sia tale da «renderli immuni da qualsiasi pressione volta ad influenzare le loro decisioni». Addirittura - e la specificazione pare addirittura premonitrice - si chiede agli Stati membri che siano «adottate specifiche disposizioni di legge per garantire che non possa essere disposta una riduzione delle retribuzioni rivolta specificamente ai giudici». Il chiaro tenore della menzionata Raccomandazione smentisce in modo categorico una della apodittiche giustificazioni del taglio lineare poste a base del d.l. 78/2010, ossia quella che fa riferimento a pretesi «obblighi comunitari». Fino a prova contraria, nel settore specifico della riduzione dello stipendio del Magistrati l'unica disposizione comunitaria operante e' quella citata, che vieta il taglio cosi' come operato. Ne' puo' dubitarsi che detta disposizione, proprio in quanto «lex specialis» volta a salvaguardare il supremo valore dell'indipendenza degli Organi giudiziari, risulta evidentemente prevalente, nel ragionevole bilanciamento di interessi che deve governare le scelte legislative, rispetto a presunte necessita' di stabilizzazione finanziaria, tanto piu' che queste ultime ben sarebbero potute essere perseguite con un'infinita' di alternativi strumenti di intervento, ben piu' efficaci e remunerativi. La previsione dell'art. 9 comma 2 del d.l. 78/2010 non solo non e' in linea con tali indirizzi (che, a ben vedere, contraddice radicalmente), ma - per quanto detto ed argomentato poc'anzi - appare altresi' priva di quel necessario apporto istruttorio e fattuale in un contesto globale di revisione parlamentare del trattamento economico dei giudici, dell'istituto, che solo avrebbe potuto conferire ad essa ragionevolezza ed aderenza alla realta' del settore del pubblico impiego magistratuale. V) Violazione degli artt. 24, 100, 101, 103, 111, 108 e 113 Cost. Lesione dell'autonomia e della indipendenza della Magistratura. Argomento condiviso dalla quasi totalita' delle altre pronunce gia' registratesi sul tema (sopra richiamate) e che il Collegio non puo' non fare proprio e' quello secondo cui la norma in esame viola il fondamentale principio di autonomia ed indipendenza della magistratura, perche' subordina la «categoria» dei magistrati alla possibilita' di riduzioni «ex abrupto» del loro «status economico», con conseguente introduzione nel sistema ordinamentale di una regola materiale di contrattazione tra datore di lavoro e dipendente, che non puo' che condizionare le scelte di quest'ultimo, quanto meno sul piano dell'autorganizzazione, che e' uno dei presupposti dell'autonomia e dell'indipendenza. I valori dell'autonomia e dell'indipendenza della Magistratura da ogni altro Potere dello Stato sono sanciti in via generale dagli arti. 101 comma 2 («I giudici sono soggetti soltanto alla legge») e 104 comma 1 cost. («La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»). V.1) Sotto un primo profilo, occorre ribadire che i valori anzidetti sono a loro volta funzionali all'esercizio imparziale ed obiettivo della funzione giudicante, come esigono molteplici norme costituzionali, anche in vista della celebrazione di un «giusto processo» (cfr. artt. 24, 103, 111 e 113 Cost.; Corte cost., cent. n. 381/1999). Il Legislatore, mediante uno strumento che formalmente incide (solo) sulla retribuzione dei magistrati, viene in realta' ad operare un indebito condizionamento dell'esercizio della funzione giurisdizionale, poiche' costringe l'Ordine di appartenenza ad un confronto con i pubblici poteri al fine di ripristinare le condizioni economiche originarie, o quantomeno di elidere o attenuare le conseguenze negative della misura disposta. La costante giurisprudenza della Consulta conforta in modo nettissimo la fondatezza della censura dedotta, indubitabile e riconosciuta, sussistendo la necessita' di «attuazione del precetto costituzionale dell'indipendenza dei magistrati, che va salvaguardato anche sotto il profilo economico», onde evitare «tra l'altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri» (sentt. nn. 1/1978, 42/1993, 238/1990). V.2) Sotto un secondo profilo, si deve prospettare che un Magistrato «condizionato», quand'anche solo apparentemente (e potenzialmente) e non nella sostanza (e nella realta'), da una misura legislativa fortemente penalizzante per i suoi interessi economici, rischia di vedersi sottratto quel credito e quel prestigio di cui Egli personalmente e l'Ordine giudiziario nel suo insieme devono sempre ed indefettibilmente godere presso la comunita' dei cittadini (sent. Corte cost. n. 100/1981; Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa nella gia' richiamata Raccomandazione del 17 novembre 2010, ove la nozione di «indipendenza esterna» dei Giudici e' stata strettamente ed esplicitamente collegata alla seguente, testuale affermazione: «I giudici, che fanno parte della societa' che servono, non possono rendere giustizia in modo efficace senza godere della fiducia del pubblico» - punto 20 della raccomandazione). Tale linea argomentativa necessita di alcune precisazioni. La «percezione» dell'indipendenza della magistratura, in uno alla percezione della autorevolezza e del prestigio dell'Ordinamento giudiziario nel suo complesso, non sono, ad avviso del Collegio, credibilmente «appannate» da una (per quanto incidente) misura di riduzione della retribuzione, cosi' come operata dal Legislatore, perche' ben altre ed elevate sono le motivazioni sostanziali che fondano il servizio dei magistrati alle Istituzioni della Repubblica, solo per ultimo riconducibili al trattamento economico. Cio' che invece puo' effettivamente minare il prestigio ed il decoro della magistratura all'esterno, ovvero nella percezione della societa', e' il costringere i magistrati, singoli o nelle loro associazioni sindacali, a rivendicazioni di categoria che non possono che passare per il tramite di una tutela giurisdizionale gestita pur sempre da una magistratura anch'essa colpita dai medesimi provvedimenti (quella amministrativa) ed il cui giudizio dunque, per limiti strutturali invalicabili, non puo' che essere affidato alla delibazione di colleghi dei ricorrenti parimenti incisi (al pari di tutto il personale non contrattualizzato, del resto, e dei Dirigenti). I magistrati del Collegio, osservando quello che ordinariamente sarebbe stato un pacifico dovere di astensione, non possono esimersi dal giudicare sulla domanda, posto che nessun altro giudice dell'Ordinamento e' privo di interesse e che la controversia e' affidata alla cognizione del TAR in regime di competenza territoriale inderogabile; peraltro, se si astenessero, incorrerebbero in un altrettanto censurabile diniego di giustizia. Sebbene nella fattispecie in esame le questioni dedotte dai ricorrenti non costituiscono oggetto di altrettante rivendicazioni dei componenti del Collegio, che non hanno presentato a loro volta ricorso, (onde l'interesse alla lite e' meramente astratto e potenziale, non derivando loro, allo stato, un diretto ed immediato vantaggio dall'accoglimento della censura), all'esterno il sistema giudiziario nel suo complesso risulta costretto ad occuparsi di vicende che lo riguardano direttamente, con la conseguenza che viene riproposto nella sostanza un conflitto tra poteri dello Stato, che non ha precedenti nell'Ordinamento della Repubblica. Alla luce di queste considerazioni, a fronte di una decurtazione stipendiale cosi' rilevante e, soprattutto, suscettibile di ripetersi in futuro, perche' prorogabile ben oltre il 2013, o addirittura suscettibile di incrementi ulteriori, il decoro della magistratura nel suo insieme (ed, all'interno di essa, della magistratura amministrativa in particolare), e' fortemente leso e pregiudicato dall'intervento, unilaterale e d'imperio, dei poteri esecutivo e legislativo, che genera - nei fatti - un vero e proprio insanabile conflitto di interessi, ben potendo l'opinione pubblica associare la riduzione stipendiale alle ben note polemiche tra poteri dello Stato, apparendo la misura legislativa come una sorta di punizione o di monito per il Potere giudiziario, l'ostentazione di una condizione di supremazia di un Potere sull'altro, in contrasto - anche sotto tale profilo - con i dettami costituzionali, che improntano i rapporti tra Poteri alla separazione, all'equilibrio ed al bilanciamento IX) Tanto Premesso, ai sensi dell'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, il TAR solleva questione di legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 21 primo periodo e 22 primo, secondo e terzo periodo, del d.l. 31 maggio 2010 n. 78 convertito, con modificazioni, in l. 30 luglio 2010 n. 122, per contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 103, 104, 108, 111 e 113 della Costituzione, secondo i profili e per le ragioni sopra indicate, con sospensione del giudizio fino alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana della decisione della Corte costituzionale sulle questioni indicate, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 79 ed 80 del cpa ed art. 295 c.p.c. Riserva al definitivo ogni ulteriore decisione, nel merito e sulle spese.