IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 286 del 2011, proposto da: 
        Fulvio Accurso, rappresentato e difeso  dagli  avv.  Vittorio
Angiolini, Marco Cuniberti, Michele  Salazar,  con  domicilio  eletto
presso Michele Salazar Avv. in Reggio Calabria, via  Re  Ruggero,  9;
Amato Giuseppe, Fortunato Amodeo, Annalisa Arena, Caterina  Asciutto,
Angelina Patrizia Bandiera, Cinzia M.A.  Barilla',  Barbara  Bennato,
Alessandra Berselli, Carmelo  Blatti,  Giuseppe  Bontempo,  Gabriella
Cama, Giuliana Maria  Campagna,  Giuseppe  Campagna,  Silvia  Capone,
Gabriella Cappello, Daniele Cappuccio, Caterina Catalano,  Alessandra
Cerreti, Maria Pia Ciollaro, Luca Colitta, Rocco  Cosentino,  Adriana
Costabile, Tommasina Cotroneo, Giuseppe Creazzo, Emanuele  Crescenti,
Maria Cristina Crucitti, Antonio De Bernardo,  Francesca  Di  Landro,
Salvatore Di Landro, Roberto Placido Di Palma, Tiziana Drago,  Andrea
Pietro Esposito, Maria Adriana Fimiani, Bruno  Finocchiaro,  Antonino
Giuseppe Foti, Fiorenza Freni,  Francesco  Frettoni,  Rosalia  Gaeta,
Giuseppe Gambadoro, Vincenzo Giglio, Silvana Grasso, Nicola Gratteri,
Franco Greco, Grazia Maria Grieco, Massimo Gullino, Emilio  Iannello,
Antonino Lagana',  Filippo  Giuseppe  Leonardo,  Giuseppe  Lomabardo,
Massimo Minniti, Giuseppe Minutoli, Maria  Luisa  Miranda,  Francesco
Mollace, Patrizia Morabito, Giovanni Musaro', Stefano Musolino,  Sara
Ombra, Rodolfo Palermo,  Dionisio  Pantano,  Giulia  Pantano,  Andrea
Papalia, Claudio Paris, Andrea  Pastore,  Ornella  Pastore,  Federico
Perrone Capano, Francesco Petrone, Raffaele Roberto Pezzuto, Giuseppe
Pignatone, Natina M.C. Prattico', Paolo Ramondino,  Enrico  Riccioni,
Danilo  Riva,  Fulvio  Rizzo,  Marcello  Rombola',  Beatrice  Ronchi,
Maurizio Salomone, Piero Santese, Domenico Santoro, Natalino  Sapone,
Mirella Schillaci,  Antonio  Scortecci,  Ottavio  Sferlazza,  Alfredo
Sicuro,  Gaspare  Spedale,  Olga  Tarsia,  Kate  Tassone,   Francesco
Tedesco, Daniela Tortorella, Adriana  Trapani,  Pietro  Viola,  Maria
Idria Gurgo  Di  Catelmenardo,  Giuseppe  Adornato,  rappresentati  e
difesi  dagli  avv.  Marco  Cuniberti,  Michele   Salazar,   Vittorio
Angiolini, con domicilio eletto presso Michele Salazar Avv. in Reggio
Calabria, via Re Ruggero, 9; 
    Contro Ministero della Giustizia, Ministero dell'Economia e delle
Finanze, Presidenza  del  Consiglio  dei  Ministri,  rappresentati  e
difesi dall'Avvocatura Distr.le dello Stato, domiciliata per legge in
Reggio Calabria, via del Plebiscito, 15; 
    Per il riconoscimento previa idonea  cautela  e  con  riserva  di
motivi aggiunti, del diritto  al  trattamento  retributivo  spettante
senza tener conto delle decurtazioni di cui al comma 22  dell'art.  9
del d.l. 31 maggio 2010 n. 78, come conv. con modif. in l. 30  luglio
2010 n. 122, nonche' per la condanna delle amministrazioni resistenti
al pagamento delle  somme  corrispondenti,  con  ogni  accessorio  di
legge. 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visti gli atti di costituzione in giudizio  del  Ministero  della
Giustizia e del Ministero  dell'Economia  e  delle  Finanze  e  della
Presidenza del Consiglio dei Ministri; 
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno  20  dicembre  2011  il
dott. Salvatore Gatto Costantino e uditi per  le  parti  i  difensori
come specificato nel verbale; 
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue; 
    I ricorrenti, tutti magistrati  ordinari  in  servizio  nei  vari
uffici giudiziari della Provincia  di  Reggio  Calabria,  si  dolgono
delle illegittime decurtazioni del trattamento  retributivo  previste
dal comma 22 dell'art. 9 del d.l. 31 maggio 2010  n.  78,  convertito
con modificazioni in  legge  30  luglio  2010  n.  122,  per  ragioni
variamente articolate, sia in fatto che in diritto. 
    In  fatto  espongono  che   dall'applicazione   della   normativa
richiamata subiscono una  sostanziale  decurtazione  del  trattamento
retributivo e chiedono di accertare  se  detta  norma  possa  trovare
effettiva   applicazione   ai   ricorrenti   (dubitando   della   sua
precettivita'   in   ragione   di   una   asserita   genericita'    e
contraddittorieta' del testo) e, in caso positivo, sia  rimessa  alla
Corte costituzionale la questione di  costituzionalita'  del  vigente
impianto normativo, allo scopo di  accertare  il  loro  diritto  alla
percezione della  retribuzione  integrale,  nella  misura  variamente
computata in atti per ciascun ricorrente. 
    Si e' costituita l'Avvocatura Distrettuale dello Stato di  Reggio
Calabria, che resiste al ricorso di cui chiede la reiezione. 
    Le parti hanno scambiato memorie. 
    Alla pubblica udienza del 20 dicembre  2011  la  causa  e'  stata
trattenuta in decisione. 
    1) Osserva il Collegio che con separata ordinanza su ricorso  nr.
564/2011  chiamato  in  decisione  nella  medesima  odierna   udienza
pubblica, e' stata trattata  questione  in  parte  analoga  a  quella
odierna, che tuttavia ha oggetto solo in parte coincidente con quella
di cui all'odierno ricorso, essendo  in  contestazione  anche  misure
disposte con altre parti dell'art. 9 cit.  e  dello  stesso  d.l.  n.
78/2010. 
    Ai fini  del  presente  giudizio,  e'  dunque  trattata  la  sola
questione della legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma  21  e
22  dell'art.  9  del  prefato  d.l.  n.  78/2010   convertito,   con
modificazioni, in legge n. 122/2010, nei limiti della domanda. 
    2) A mente del comma 21 dell'art. 9 succitato, per quanto qui  di
interesse, «I meccanismi di adeguamento retributivo per il  personale
non contrattualizzato di cui all'articolo 3, del decreto  legislativo
30 marzo 2001, n. 165, cosi' come  previsti  dall'articolo  24  della
legge 23 dicembre 1998, n. 448, non si applicano per gli  anni  2011,
2012 e 2013 ancorche' a titolo di acconto, e non danno comunque luogo
a successivi recuperi. (...)». 
    Il successivo comma 22 cosi' dispone: «Per il  personale  di  cui
alla legge n. 27  /1981  non  sono  erogati,  senza  possibilita'  di
recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed  il  conguaglio
del triennio 2010-2012; per tale personale, per il triennio 2013-2015
l'acconto spettante per l'anno 2014 e' pari alla misura gia' prevista
per fanno 2010 e il conguaglio per fanno 2015 viene  determinato  con
riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014. Per  il  predetto  personale
l'indennita' speciale di cui all'articolo 3 della legge  19  febbraio
1981, n. 27, spettante negli anni 2011, 2012 e 2013, e'  ridotta  del
15 per cento per fanno 2011, del 25 per cento per fanno 2012 e del 32
per  cento  per  fanno  2013.  Tale  riduzione  non  opera  ai   fini
previdenziali».  Soggiunge,   nel   quarto   periodo,   la   medesima
disposizione  che  «Nei  confronti  del  predetto  personale  non  si
applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e  21,  secondo  e  terzo
periodo». 
    3) Parte ricorrente, trovando la piena condivisione del Collegio,
prospetta  questione  di  legittimita'   costituzionale   dei   sopra
trascritti commi 21 e 22 nelle parti di  interesse  (rispettivamente,
primo periodo e primo, secondo e terzo periodo). 
    La rilevanza della questione appare indiscutibile, e dunque vanno
disattese le argomentazioni difensive di parte ricorrente secondo  le
quali dette norme sarebbero inapplicabili per la loro  genericita'  e
per il contenuto contraddittorio delle stesse. 
    Invero, come dedotto dall'Avvocatura in maniera condivisibile, il
personale di magistratura ha subito dal 1° gennaio  2011  il  mancato
incremento del 3,04 per cento, ovverosia del secondo acconto previsto
dal DPCM 23 giugno 2009,  che  sarebbe  spettato  laddove  non  fosse
intervenuta la manovra. 
    Ulteriore effetto della norma e' che non compete alcun conguaglio
nel 2012 ne', per il triennio successivo, il primo acconto nel 2013. 
    Piu'  chiaramente,  la  norma,  in  combinato  disposto  con   la
disciplina del meccanismo di dinamica retributiva  del  personale  di
magistratura, quale fissato dall'articolo 2 della  legge  n.  27/1981
(che prevede un adeguamento triennale  sulla  base  degli  incrementi
conseguiti nel precedente triennio dalle altre categorie del pubblico
impiego e si realizza mediante il meccanismo di due acconti  di  pari
importo  nel  secondo  e  terzo  anno  del  triennio   e   successivo
conguaglio): 
        introduce nel corrente anno 2011 il blocco del meccanismo  di
adeguamento retributivo, nonche' il blocco di  acconti  e  conguagli,
cui avrebbero avuto altrimenti diritto; 
        introduce   altresi'    la    decurtazione    dell'indennita'
giudiziaria in ragione del 15% per cento. 
    Non v'e' dubbio alcuno, dunque, in ordine  alla  rilevanza  della
questione proposta ai fini della decisione del ricorso. 
    4) In punto di fondatezza della questione, valga quanto segue. 
    4.1 Violazione degli artt. 2, 3, 24, 36, 53, 97, 100,  101,  108,
111 e 113 Cost. Lesione di tutti i principi fissati da tali norme. 
    I  commi  21  e  22   regolano   gli   aspetti   attinenti   alla
corresponsione  degli  acconti,  dei  conguagli  e  delle  indennita'
specificamente spettanti ai  Magistrati  (indennita'  giudiziaria  ex
art. 3 l. 27/1981) con i seguenti principi: 
        a) per i magistrati, cosi' come per tutte le altre  categorie
del personale non contrattualizzato, viene introdotto il  blocco  dei
«meccanismi di adeguamento retributivo» previsto  dal  primo  periodo
del comma 21, la cui operativita' e' estesa sia a livello di  acconto
che a livello di conguaglio (e dunque con  effetto  retroattivo)  dal
primo periodo dell'art. 22; 
        b) per i  soli  Magistrati  (di  tutte  le  Magistrature),  a
differenza delle altre categorie del personale non contrattualizzato,
sono salvaguardati i meccanismi  di  «progressione  automatica  dello
stipendio», ossia gli scatti di carriera, e cio' perche' ad essi  non
si applicano i periodo secondo e terzo del comma 21; 
        c) nei confronti dei soli Magistrati viene  pero'  operato  -
quasi a titolo di bilanciamento di quanto illustrato al punto b) - un
taglio crescente nel tempo dell'indennita' giudiziaria (ex art. 3  l.
27/1981), come previsto dal secondo periodo del comma 22; 
        d) i Magistrati subiscono poi, sempre in forza del comma  22,
il blocco di acconti (anni 2011, 2012 e 2013) e  conguagli  (triennio
2010-2012); 
        e) Vengono  infine  introdotti,  ancora  dal  comma  22,  dei
«tetti» all'acconto per l'anno 2014 (che non puo' superare quello del
2010) e del conguaglio per l'anno 2015 (determinato  con  riferimento
agli anni 2009, 2010 e 2014, escludendo quindi  il  triennio  2011  -
2013). I commi 21 e 22 nelle parti  riportate  introducono  pertanto,
nel loro complesso, misure di notevole gravita', poiche'  finalizzate
a vincolare assai incisivamente, per gli anni 2011, 2012  e  2013  il
trattamento economico dei singoli Magistrati;  e  cio'  ancorche'  le
progressioni stipendiali siano fatte salve. 
    Si tratta di misure ingiustamente  penalizzanti,  estemporanee  e
totalmente sganciate dalla normativa in materia di  retribuzione  del
personale di Magistratura. 
    4.2. Per la sua connotazione manifestamente  pregiudizievole,  la
prevista paralisi degli adeguamenti retributivi  non  ha  bisogno  di
commenti e spiegazioni. Lo stesso dicasi  in  merito  al  «fermo»  di
acconti e  conguagli,  che  parimenti  comportano  un  depauperamento
reddituale immediato per i Magistrati. Mentre  il  depauperamento  e'
solo differito nel tempo, ma egualmente certo, per quanto attiene  ai
«tetti» dell'acconto 2014 e del conguaglio 2015. 
    Il comma 22 succitato incide non meno pesantemente  sull'istituto
dell'indennita' giudiziaria, senza alcun tipo di istruttoria ne'  una
stima precisa documentata  del  risparmio  di  spesa  ottenibile  dal
relativo  taglio,  e  quindi  in  modo  totalmente  irragionevole  ed
improvvisato. 
    Basti  pensare  alla  totale   irrazionalita'   derivante   dalla
previsione di un progressivo accrescimento nel tempo  del  taglio  in
questione (la riduzione e' del 15%  per  l'anno  2011,  del  25%  per
l'anno  2012  e  del  32%  per  l'anno  2013).  Verosimilmente   tale
progressione verso l'alto  potrebbe  spiegarsi  perche',  essendo  il
taglio  nato  come  misura  compensativa  e  di  bilanciamento  della
«salvezza» delle progressioni stipendiali (cosi' sub pt. 8 della cit.
Circolare del Ministero dell'Economia e delle Finanze n.  12  del  15
aprile 2011, prot. n. 0035819), il Legislatore avrebbe  tenuto  conto
delle previste promozioni nel triennio, presumibilmente crescenti nel
numero. 
    Ma in realta' una siffatta motivazione,  oltre  a  non  comparire
assolutamente (neppure deduttivamente) nel testo della legge,  appare
del tutto illogica ed incoerente con il sistema. 
    Anzitutto  e'  differente  l'operativita'  dei   due   meccanismi
considerati, che  sono  profondamente  eterogenei:  il  blocco  delle
progressioni stipendiali - ove attuato  -  avrebbe  rappresentato  un
mancato esborso futuro e scaglionato nel tempo  (e  per  certi  versi
anche eventuale, essendo ben possibile che un  Magistrato  «lasci  la
toga» prima di ottenere promozioni), mentre il taglio dell'indennita'
giudiziaria opera sin  da  subito  in  busta  paga  quale  misura  di
effettiva ed immediata decurtazione patrimoniale per il Magistrato. 
    In secondo luogo, nessuna norma costituzionale e nessun principio
contabile esige il finanziamento di un mancato  taglio,  diversamente
da quanto accade per il finanziamento di una nuova spesa. 
    Ancora, se si considera che le leggi precedenti - che prevedevano
le tabelle retributive e i meccanismi di adeguamento  degli  stipendi
dei Magistrati -  erano  gia'  obbligatoriamente  coperte  a  livello
finanziario (in ottemperanza all'art. 81 Cost.), la  motivazione  del
«finanziamento» del mancato taglio appare del tutto irrazionale. 
    Persino la motivazione della «crisi economica»  e'  inadeguata  a
spiegare la ratio dei tagli crescenti. Infatti, se  e'  vero  che  la
norma del comma 22 e' stata concepita per fronteggiare un momento  di
crisi presente ed  connotazione  tributaria,  colpisce  una  limitata
fascia   di   cittadini   e   lavoratori,   e   non   «tutti»    come
costituzionalmente prescritto (art. 53  Cost.).  Anche  a  non  voler
riconoscere natura  tributaria  alle  disposizioni  richiamate,  esse
comportano  blocchi  stipendiali  con  esito  espropriativo  (proprio
perche' ledono diritti legati a diritti ed aspettative «quesite»), in
assenza di compensazioni indennitarie (non monetarie) per i  soggetti
che ne risulteranno colpiti (art. 42 comma 3 Cost.). 
    4) Viene completamente svuotata la  capacita'  auto-organizzativa
delle P.A., che  dovrebbe  normalmente  potersi  esprimere  anche  in
riferimento allo stato economico del personale. 
    Cio' comporta la violazione dell'art. 97 cost. e del principio di
buon  andamento  ivi  fissato  sotto  diversi  aspetti,  inerenti  il
perseguimento  degli  obiettivi  di   efficienza,   economicita'   ed
efficacia,  contenuti  nel  suddetto  principio  di  buon  andamento,
impedendo all'Amministrazione di gestire il personale in  conformita'
delle esigenze di interesse pubblico di volta in volta emergenti. 
    5) Le norme succitate rafforzano l'idea che il Legislatore  abbia
inteso  operare  un  indebito  condizionamento  sull'esercizio  della
funzione giurisdizionale (in conflitto con i dettami  espressi  dagli
artt. 24, 101, 104, 108, 111 e 113 Cost.), obbligando  il  Magistrato
(come singolo o come Ordine)  a  rivendicazioni  economiche  verso  i
pubblici poteri. 
    6) Viene violato l'art. 36 della  Costituzione  in  relazione  al
principio di proporzionalita' della  retribuzione  alla  quantita'  e
qualita' del lavoro prestato:  la  retribuzione  sulla  quale  si  va
negativamente ad  incidete  era  profilo:  basti  ricordare  che  con
sentenza del 24 novembre 2010 la Corte di giustizia UE  (C-40/10)  ha
annullato le disposizioni del regolamento 1296/2009 UE,  che  avevano
ridotto l'adeguamento automatico annuale al costo  della  vita  degli
stipendi  dei  funzionari  UE,  abbattendolo  dal   3,7%   all'1,85%,
ritenendo per l'appunto che la pur nota situazione di crisi economica
non potesse essere posta a fondamento  di  poteri  «eccezionali»  del
Consiglio. 
    4.3. Al di la' di tali profili,  la  norma  in  esame  appare  al
Collegio in contrasto con la Costituzione  sotto  molteplici  profili
che si elencano sinteticamente: 
        1) Viene leso - senza che lo richieda il  soddisfacimento  di
altri e piu' pregnanti principi  costituzionali,  nell'ottica  di  un
ragionevole  bilanciamento  -  il  principio   di   affidamento   del
Magistrato nell'ordinario sviluppo economico della carriera  e  nella
corresponsione di acconti e conguagli, cosi' come  predeterminati  ed
attesi al momento di ingresso nei ruoli della Magistratura, anche  in
ragione del fisiologico  progredire  del  rapporto  (si  veda  T.A.R.
Campania,  sez.  I  Salerno,  ord.  n.  1162  del  23  giugno   2011,
pronunciata su ricorso di alcuni Magistrati ordinari, con la quale e'
stata disposta la rimessione  degli  atti  del  giudizio  alla  Corte
Costituzionale, proprio in riferimento al comma 22 in esame). 
        2) Vengono discriminati «in peius» i  pubblici  dipendenti  -
tra cui i Magistrati - rispetto  a  tutti  gli  altri  cittadini  e/o
lavoratori, con palese - violazione dell'art. 3 Cost. 
        3) Viene operato un prelievo che, pur rivestendo  una  chiara
connotazione tributaria, colpisce una limitata fascia di cittadini  e
lavoratori, e non «tutti» come costituzionalmente prescritto (art. 53
Cost.).  Anche  a  non  voler  riconoscere  natura  tributaria   alle
disposizioni richiamate,  esse  comportano  blocchi  stipendiali  con
esito espropriativo (proprio perche' ledono diritti legati a  diritti
ed aspettative «quesite»), in assenza di  compensazioni  indennitarie
(non monetarie) per i soggetti che ne risulteranno colpiti  (art.  42
comma 3 Cost.). 
        4)    Viene    completamente    svuotata     la     capacita'
auto-organizzativa  delle  P.A.,  che  dovrebbe  normalmente  potersi
esprimere anche in riferimento allo stato economico del personale. 
    Cio' comporta la violazione dell'art. 97 cost. e del principio di
buon  andamento  ivi  fissato  sotto  diversi  aspetti,  inerenti  il
perseguimento  degli  obiettivi  di   efficienza,   economicita'   ed
efficacia,  contenuti  nel  suddetto  principio  di  buon  andamento,
impedendo all'Amministrazione di gestire il personale in  conformita'
delle esigenze di interesse pubblico di volta in volta emergenti. 
        5) Le norme succitate rafforzano l'idea  che  il  Legislatore
abbia inteso operare un indebito condizionamento sull'esercizio della
funzione giurisdizionale (in conflitto con i dettami  espressi  dagli
artt. 24, 101, 104, 108, 111 e 113 Cost.), obbligando  il  Magistrato
(come singolo o come Ordine)  a  rivendicazioni  economiche  verso  i
pubblici poteri. 
        6) Viene violato l'art. 36 della Costituzione in relazione al
principio di proporzionalita' della  retribuzione  alla  quantita'  e
qualita' del lavoro prestato:  la  retribuzione  sulla  quale  si  va
negativamente ad incidere era stata determinata da  una  legislazione
specifica, che parametrava le classi stipendiali alla progressione di
carriera, e dunque proprio alla  «quantita'  e  qualita'  del  lavoro
prestato». 
    Al contrario, i tagli sono lineari ed uguali per tutti, tanto  da
far dubitare che gli  stessi  rispettino  la  logica  «meritocratica»
dell'art. 36 Cost. 
    Tali questioni richiedono - per la loro migliore  comprensione  -
un necessario  approfondimento  ed  un  piu'  accurato  inquadramento
dogmatico che il Collegio puo' svolgere richiamando quanto trattato e
ritenuto nell'ordinanza pronunciata nel giudizio nr. 564/2011. 
PARTE II - Violazione degli artt. 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97,  100,
101, 103, 108, 111 e 113 cost. Eccesso di  potere  in  tutte  le  sue
figure  sintomatiche  e   segnatamente:   assoluta   illogicita'   ed
irrazionalita',  ingiustizia  manifesta,   errata   valutazione   dei
presupposti, carenza  istruttoria,  difetto  di  motivazione,  omessa
ponderazione di interessi  rilevanti,  sviamento,  contraddittorieta'
intrinseca ed estrinseca  dell'atto.  Violazione  del  principio  del
«giusto procedimento» e dell'art. 97 Cost. 
I.1) Natura tributaria della norma - Violazione art. 53, 3 e 97 cost.
-  violazione   principi   di   proporzionalita'   e   progressivita'
dell'imposizione. 
    Analogamente all'orientamento espresso in numerose  ordinanze  di
rimessione  alla  Corte  Costituzionale,  adottate  in  ordine   alla
medesima questione da parte di altri TAR (v. TAR Sicilia, Palermo, n.
2375/2011; TAR Veneto, n.  1685/2011;  TAR  Trento,  n.  307/2011  ed
altre), il Collegio condivide  il  primo  rilievo  fatto  valere  dai
ricorrenti, secondo cui alla norma in esame deve essere  riconosciuta
natura tributaria. 
    Secondo l'insegnamento della giurisprudenza costituzionale, nella
prestazione imposta con la norma in esame devono essere  ravvisati  i
caratteri   della   doverosita',   in   mancanza   di   un   rapporto
sinallagmatico tra parti, e del collegamento tra  la  prestazione  di
sostegno  alla  pubblica  spesa,  in  relazione  ad  un   presupposto
economicamente rilevante. 
    La  considerazione  (gia'  svolta  dal  Collegio   nell'ordinanza
pronunciata su altro ricorso ed in relazione al comma 2 del  medesimo
art.  9)  non  muta  anche  a  collocarsi  nell'ottica  secondo   cui
all'indennita' giudiziaria non va  riconosciuta  natura  stipendiale,
essendo comunque un emolumento soggetto  a  tassazione  che  concorre
alla formazione del coacervo della base imponibile. 
    In sostanza, anche in relazione alle riduzioni del comma 22  sono
prospettabili  la  concorrenza  dell'imposizione  di  un   sacrificio
economico individuale, realizzata attraverso un atto autoritativo  di
carattere ablatorio e, contestualmente, la destinazione  del  gettito
scaturente  da  tale  ablazione  al  fine  di  integrare  la  finanza
pubblica, ossia per  reperire  risorse  necessarie  a  coprire  spese
pubbliche  (come  reso  palese  dalla  stessa  dizione  della   norma
riportata,  che  invoca  la  situazione  di  grave  crisi   economica
internazionale e gli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede
europea; quanto alla giurisprudenza della  Corte,  si  richiamano  ex
plurimis,  Corte  Cost.,  sentt.  nn.  141/2009,  335/2008,  64/2008,
334/2006,  73/2005;  si   puo'   fare   riferimento   altresi'   alla
giurisprudenza volta a definire la nozione costituzionale  di  «leggi
tributarie», ai fini del giudizio di ammissibiliti del referendum  ex
art. 75 Cost). 
    In effetti, l'obiettivo di finanza pubblica evocato dal  d.l.  n.
78/2010 va oltre la mera riduzione dei costi o della  spesa  corrente
degli  Stati,  attenendo,  piu'  propriamente,  alla  riduzione   del
rapporto tra debite pubblico e PIL (come chiarisce lo stesso comma  2
dell'art. 9, laddove fa riferimento  alle  «esigenze  prioritarie  di
raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede
europea»). 
    La natura tributaria della norma  in  esame  e',  ad  avviso  del
Collegio,  cosi'  palese  che  non  e'  necessario  alcun   ulteriore
approfondimento,  se  non  per  quanto  concerne  la  verifica  della
giurisdizione del giudice amministrativo sulla relativa questione. 
    I.2) A tal proposito, va affermato che sussiste la  giurisdizione
del giudice amministrativo sulla domanda  inerente  decurtazioni  del
trattamento economico aventi natura tributaria, in quanto,  ai  sensi
dell'art. 133 lett. «i» del cpa spetta alla  giurisdizione  esclusiva
del giudice amministrativo la cognizione delle «controversie relative
ai rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico». 
    La formulazione della norma e' talmente  ampia  da  ricomprendere
ogni questione retributiva che trovi origine, causa oppure  occasione
nel rapporto di lavoro dei dipendenti non  contrattualizzati,  tra  i
quali rientrano i magistrati. 
    I.3)  Stante  la   natura   tributaria   da   riconoscersi   alla
disposizione in  esame,  quest'ultima  dovrebbe  essere  conforme  ai
principi dettati dall'art. 53 Cost., ai sensi del quale  «Tutti  sono
tenuti a concorrere  alle  spese  pubbliche  in  ragione  della  loro
capacita' contributiva»  (comma  1)  ed  «Il  sistema  tributario  e'
informato a criteri di progressivita'» (comma 2). 
    Invece la norma di cui si deduce l'illegittimita'  costituzionale
«colpisce» solo una specifica categoria di contribuenti,  sulla  base
di loro peculiari qualita' soggettive e non sulla base di determinate
qualita' di reddito, e, nello stesso tempo,  impone  una  prestazione
patrimoniale  indipendente  dall'effettiva   capacita'   contributiva
soggettiva globalmente considerata  (ossia  individua  uno  specifico
cespite da assoggettare  a  tassazione,  senza  relazioni  con  altre
entrate   del   soggetto   inciso),    introducendo    un'imposizione
sostanzialmente regressiva e discriminatoria. 
    Il primo profilo di incostituzionalita' si ravvisa nel fatto  che
il prelievo e' disposto esclusivamente in danno di una  ben  definita
categoria socio-economica,  i  Magistrati,  laddove,  utilizzando  il
termine   «Tutti»,   la   disposizione   costituzionale   e'   chiara
nell'individuare in modo inequivoco ed onnicomprensivo la platea  dei
contribuenti da assoggettare al prelievo fiscale. 
    Con l'ord. n.  341/2000  la  Consulta,  dopo  aver  Premesso  che
«l'art. 53  della  Costituzione  deve  essere  interpretato  in  modo
unitario e coordinato, e non per preposizioni staccate ed autonome le
une  dalle  altre»  ha  affermato   che   «la   universalita'   della
imposizione,   desumibile   dalla   espressione   testuale   "tutti''
(cittadini  o  non  cittadini,  in  qualche  modo  con  rapporti   di
collegamento con la Repubblica  italiana),  deve  essere  intesa  nel
senso di obbligo generale, improntato  al  principio  di  eguaglianza
(senza alcuna delle discriminazioni vietate:  art.  3,  primo  comma,
della Costituzione), di concorrere alle "spese pubbliche  in  ragione
della loro  capacita'  contributiva''  (con  riferimento  al  singolo
tributo ed al  complesso  della  imposizione  fiscale),  come  dovere
inserito nei rapporti  politici  in  relazione  all'appartenenza  del
soggetto alla collettivita' organizzata». 
    Manca,   dunque,   nella   fattispecie   normativa    in    esame
1'«indefettibile raccordo con la capacita' contributiva, in un quadro
di sistema informato a criteri di  progressivita',  come  svolgimento
ulteriore,  nello  specifico  campo  tributario,  del  principio   di
eguaglianza,  collegato  al  compito  di  rimozione  degli   ostacoli
economico-sociali esistenti di fatto alla liberta' ed eguaglianza dei
cittadini-persone  umane,  in  spirito  di   solidarieta'   politica,
economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)», che  la  Corte
ha  ritenuto  essere  la  corretta  condizione   per   un'imposizione
contributiva equa. 
    Tale impostazione fa apparire decisamente anomala e non  conforme
alla Costituzione la scelta del  Legislatore  del  2010  che,  in  un
contesto  economico-finanziario   esplicitamente   qualificato   come
«eccezionale»,   avrebbe   potuto   operare    soltanto    interventi
straordinari e/o temporanei di prelievo forzoso, ed invece  ha  posto
in essere misure continuative e sostanzialmente stabili -  e  percio'
dal palese sapore tributario - in quanto  oltretutto  prolungate  nel
triennio 2011-2013 (oltre che  legate  al  superamento  di  scaglioni
predeterminati, esattamente  come  le  imposte);  ma  soprattutto  ha
indirizzato tale prelievo nei confronti di una ben  limitata  «classe
di persone», ben guardandosi dall'operare nei confronti di «tutti»  i
contribuenti in possesso di determinate  fasce  di  reddito,  nessuno
escluso (liberi professionisti,  lavoratori  dipendenti  del  settore
privato,  imprenditori  e  quant'altro),   esentati   immotivatamente
dall'imposizione  straordinaria,  nonostante  l'eccezionalita'  della
situazione  economica  del  Paese,  come   viceversa   una   corretta
applicazione dei principi di cui all'art. 53 cost. avrebbe richiesto. 
    I.4) Non vale Osservare, in contrario, che  i  magistrati  e/o  i
dipendenti  pubblici  piu'  in  generale  sono  titolari  di  cespiti
economici  adeguati  al  prelievo,  in  quanto  in  possesso  di  una
condizione lavorativa connotata da «stabilita'» (e dunque non  incisa
dalla  riduzione  dell'indennita'  giudiziaria):   in   realta',   la
stabilita' della posizione lavorativa diviene, in questa prospettiva,
un  argomento  politico  o  comunque   ideologico,   non   certamente
giuridico,  sussistendo  nell'Ordinamento  numerosissimi  esempi   di
«categorie  protette»  (si  pensi  ai  notai  o  ai  farmacisti,  per
esemplificare) che non sono state incise dalla  manovra  e  che  pure
avrebbero potuto essere chiamate a concorrere  al  prelievo  forzoso,
visti i  termini  dell'urgenza  collettiva  determinata  dalla  crisi
economica. Non essendo questa la sede  per  un  confronto  di  natura
politica,  va   evidenziato   che,   come   affermato   dalla   Corte
costituzionale con la citata ordinanza n. 341/2000,  nell'imposizione
contributiva  e  fiscale  deve  essere  Osservato  un   criterio   di
uniformita', che nell'ammontare dei cespiti patrimoniali individua un
criterio  certo  e  non  discriminatorio  di  identificazione   della
capacita' contributiva da assumere  a  presupposto  di  una  imposta,
anche se di natura temporanea o eccezionale (v. anche la sentenza  n.
92/1963 della  Corte  costituzionale  secondo  cui  «il  primo  comma
dell'art. 53, nel sancire non gia' solo il dovere  delle  prestazioni
tributarie, ma altresi' il principio della correlazione di queste con
la capacita' contributiva di ciascuno, imponga al legislatore,  oltre
all'obbligo di non disporre prestazioni che siano in contrasto con  i
principi fondamentali  sanciti  dalla  Costituzione  a  tutela  della
persona, altresi' l'obbligo di commisurare il  carico  tributario  in
modo uniforme nei confronti dei vari  soggetti,  allorche'  sia  dato
riscontrare per essi una perfetta identita' della situazione di fatto
presa in considerazione dalla  legge  al  fine  dell'imposizione  del
tributo», in omaggio «al principio generale  di  eguaglianza  sancito
nell'art. 3 della Costituzione»). 
    I.5) Peraltro, anche all'interno  della  medesima  categoria  del
personale inciso dalla disposizione  in  esame,  quest'ultima  assume
forti  connotati  sperequativi  e  regressivi,  perche',  nella   sua
«draconiana» articolazione in  due  aliquote  percentuali,  prescinde
dalla doverosa considerazione dell'eventuale sussistenza di ulteriori
proventi. Cosi', a titolo meramente esemplificativo, con  riferimento
ai magistrati collocati in posizione di fuori  ruolo  o  titolari  di
incarichi  extra  -  giudiziari  o  di  collaborazione   con   organi
costituzionali, governativi  o  regionali,  che  superano  grazie  ai
predetti incarichi la soglia di reddito di 150.000 euro,  l'eventuale
applicazione del prelievo del 5% sui redditi da stipendio  che  siano
non superiori a 150.000 euro  finisce  con  imporre  una  prestazione
obbligatoria  percepita  come  meno  gravosa,   rispetto   a   quanti
possiedono solamente redditi ordinari, derivanti  dalla  retribuzione
di servizio (e quindi senza emolumenti  aggiuntivi),  attesa  la  ben
nota differenza soggettiva del valore marginale del denaro,  che  nel
vigente sistema tributario rappresenta la precondizione  economica  e
la ratio giustificatrice della progressivita' dell'imposizione. 
    I.6) Va quindi ritenuto che l'art. 9 comma 2, del d.l. n. 78/2010
contrasta   insanabilmente   con   gli   orientamenti   della   Corte
Costituzionale, dal momento che in sede legislativa non si e' cercata
l'uniformita' di trattamento  e  di  prelievo  tra  i  vari  soggetti
dell'Ordinamento, il che ha  determinato  la  palese  violazione  del
principio di progressivita' sancito dal comma 2 dell'art.  53  Cost.,
indefettibile canone ispiratore del sistema tributario. 
    L'opzione   legislativa   configge   con   il   principio   della
perequazione tributaria - che sin dalla fine degli anni'50  fa  parte
del nostro diritto positivo, essendo  immediatamente  ascrivibile  al
dettato dell'art. 53 cost. - e  che  implica  la  ripartizione  delle
imposte tra i singoli cittadini e le diverse fasce della  popolazione
in  base  all'accertata  capacita'  contributiva  di  ciascuna  «area
sociale». 
    La piu'  elementare  logica  perequativa  ed  equitativa  avrebbe
imposto di considerare, ai  fini  del  prelievo,  non  solo  il  dato
«grezzo» e di per  se'  poco  eloquente  del  reddito  percepito  dal
lavoratore pubblico, ma altri  elementi  atti  a  fornire  un  quadro
organico,  complessivo  e  reale  della  capacita'  contributiva  del
dipendente, calibrando e proporzionando la trattenuta  stipendiale  a
fattori rilevanti «in melius» (come il gia'  richiamato  nell'esempio
del cumulo con altri redditi - nei casi ammessi - o con  introiti  di
altro tipo) ovvero «in peius» (si pensi  ai  casi  di  unico  reddito
familiare, all'esistenza di uno o piu' figli a carico, e cosi'  via).
Quanto appena esposto rende non manifestamente infondata la questione
della  illegittimita'  costituzionale  della  norma  in   esame   con
riferimento agli artt. 53, 2 e 3 della Costituzione. 
II) Natura non tributaria della norma - Diminuzione temporanea  della
retribuzione - Disparita' di trattamento ed ingiustificata violazione
della proporzione della retribuzione alla  qualita'  e  quantita'  di
lavoro. Lesione del principio  di  uguaglianza  e  del  principio  di
ragionevolezza legislativa. Lesione  del  principio  di  solidarieta'
sociale, politica ed economica - Violazione degli artt. 2 e  3  della
Costituzione. Violazione degli artt. 42 e 23 della Costituzione. 
    II. 1)  In  via  subordinata,  anche  a  non  riconoscere  natura
tributaria alla disposizione in esame secondo l'impostazione  esposta
sin  qui  (che,  comunque,  il  Collegio  condivide  e   preferisce),
sussisterebbero comunque i profili di  illegittimita'  costituzionale
appena enunciati. 
    In costanza di rapporto, ed attesa la natura  di  tale  rapporto,
che  e'  disciplinato  per  legge  e  non  per   il   tramite   della
contrattazione collettiva proprio a tutela della  peculiarita'  della
funzione giurisdizionale e della indipendenza dei singoli magistrati,
il «legislatore» ha sentito la necessita' di apportare modifiche  «in
pejus» del trattamento retributivo, derogando ai  precisi  meccanismi
di disciplina della sua articolazione a parita'  di  prestazione.  Da
qui la lesione dei principi appena enunciati nel titolo del  presente
capoverso. 
    II.  2)  Il  legislatore  ridetermina,  in  senso  ablativo,   un
trattamento  economico  gia'  acquisito  alla  sfera   del   pubblico
dipendente sub specie di diritto soggettivo. Cio',  pertanto,  incide
sullo  status  economico  dei  lavoratori  (anche  appartenenti  alla
Magistratura) alterando quel sinallagma  che  e'  il  «proprium»  dei
rapporti di durata ed in particolare proprio dei rapporti di  lavoro;
basti considerare che sulla stabilita' anche economica si fondano  le
aspettative, le progettualita' e gli investimenti - di lungo periodo,
se non addirittura a vita - del dipendente. 
    Sebbene  nel  nostro  sistema  costituzionale  non  sia   affatto
interdetto al Legislatore di emanare disposizioni atte  a  modificare
in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti  di
durata, anche se  l'oggetto  di  questi  sia  costituito  da  diritti
soggettivi perfetti, le disposizioni in esame sembrano non rispettare
la condizione  essenziale,  ossia  che  la  riforma  «in  pejus»  non
trasmodi in un regolamento irrazionale, frustrando,  con  riguardo  a
situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti,  l'affidamento
del cittadino nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento
fondamentale dello Stato di diritto (ex multis, Corte Cost., sent. n.
446/2002; ord. n. 327/2001; sentt. nn. 393/2000,  264/2005,  416/1999
n. 282/2005). 
    II. 3) Da qui anche la violazione dell'art. 2 della Costituzione:
la  novazione  oggettiva  ed  unilaterale  del  rapporto  di  lavoro,
realizzata dal d.l. 78/2010, oltre a tradursi nel grave scardinamento
di un principio di rilevanza costituzionale, e quindi  indeclinabile,
della materia lavoristica  (la  proporzionalita'  tra  prestazione  e
retribuzione ex art. 36 Cost.), va in fondo a sacrificare  la  stessa
dignita' sociale della  persona-lavoratore  pubblico,  che  si  trova
soggetto, senza possibilita' di difesa, ad  aggressioni  patrimoniali
sostanzialmente arbitrarie non solo nelle modalita' del prelievo, nei
tempi del medesimo e nelle soglie stipendiali cui attingere, ma nello
stesso presupposto (il presentarsi di pretese esigenze  finanziarie);
e cio' perche' a determinarlo e' lo stesso soggetto (Stato) che opera
il  prelievo,  avvalendosi  della  forza  congiunta  e   soverchiante
derivante dall'essere ad un tempo datore di lavoro e  Legislatore,  e
senza che il destinatario del  sacrificio  possa  essere  considerato
direttamente o indirettamente responsabile della crisi finanziaria  e
di cassa cui e' chiamato a  far  fronte,  derivando  quest'ultima  da
fattori  di  squilibrio  che  sono  ascrivibili   a   responsabilita'
(quantomeno politica) dello stesso organo  che  dispone  il  prelievo
(esecutivo nelle vesti di legislatore; sul  punto  vedasi  meglio  in
fra). 
III) Violazione degli artt.  42  e  97  cost.  Lesione  dei  principi
costituzionali in tema di ablazione reale  e  dei  principi  di  buon
andamento ed imparzialita' amministrativa. 
    Ancora, a non riconoscere nell'art 9 comma 22  del  d.l.  78/2010
una disposizione tributaria (con conseguente  applicazione  dell'art.
53  Cost.)  e  ferme  le  ragioni  di  incostituzionalita'  sin   qui
illustrate, un ulteriore sospetto di illegittimita'  della  norma  in
esame va tratto dalla sua natura sostanzialmente  espropriativa,  dal
momento che si dispone  nei  confronti  dei  Magistrati  una  vera  e
propria ablazione di redditi formanti oggetto  di'  diritti  quesiti,
senza alcun  indennizzo,  con  conseguente  violazione  dell'art.  42
Cost., secondo cui «La  proprieta'  privata  puo'  essere,  nei  casi
preveduti dalla legge, e salvo  indennizzo,  espropriata  per  motivi
d'interesse generale». 
    Non appare dubitatile che  l'espropriazione  possa  astrattamente
colpire  (stante  l'uso  dell'onnicomprensivo   termine   «proprieta'
privata» da parte del Costituente) anche beni mobili fungibili, quale
il denaro (nella specie, l'indennita' giudiziaria gia' acquisita allo
status   economico   del   dipendente/Magistrato);    secondo    tale
prospettazione,   la   fattispecie   considerata   consentirebbe   di
qualificare la norma di cui all'art.  9  comma  22  alla  stregua  di
norma-provvedimento  (in  coerenza  con  la   natura   procedimentale
dell'espropriazione),  e  dunque  ne  conseguirebbe   la   violazione
dell'art. 97 Cost., perche' del provvedimento la norma ha mutuato  la
natura, ma ha eliso il procedimento, nel cui ambito vanno convogliate
quelle imprescindibili  esigenze  di  equilibrio  dell'esercizio  del
potere tipicamente volte  ad  assicurare  il  minimo  sacrificio,  il
giusto  equilibrio  con  l'indennita',  nonche'  tutte  quelle  altre
numerose facolta' di partecipazione degli interessati, che consentono
a questi ultimi di verificare la legittimita' e l'opportunita'  delle
scelte cui sono chiamati a contribuire con il  loro  sacrificio,  sia
nell'an, che nel quantum delle misure richieste. 
    III.1) Ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale  e'  la
violazione  dell'art.  42  cost.  per  la  mancanza  di  qualsivoglia
indennizzo. 
    La Consulta  ha  piu'  volte  ribadito  che  l'obbligo  a  carico
dell'Amministrazione  di  corrispondere  un  indennizzo  puo'  essere
soddisfatto  mediante  «una  pluralita'  di  soluzioni  astrattamente
ipotizzabili, idonee ad assicurare un serio ristoro (...) in  armonia
con i principi costituzionali,  tra  le  quali  il  legislatore  puo'
operare una scelta» (sent. n. 179/1999). In tal senso il  Legislatore
e' libero nell'individuare i piu' idonei  sistemi  compensativi,  ben
potendo optare per misure alternative riparatorie (non economiche ma)
in forma specifica (Corte Cost., sent. 179/1999 ed ord. n. 165/1998),
aspetti questi del tutto obliterati dal legislatore nella fattispecie
in esame. 
    In accordo  con  la  giurisprudenza  che  si  e'  occupata  delle
condizioni e dei limiti di validita' e di sindacabilita'  delle  c.d.
leggi provvedimento (TAR  Lazio,  sez.  III-Quater,  nella  sent.  n.
12623/07; TAR Puglia, sez. II Lecce, ord. n. 3631/07),  l'inesistenza
di un formale obbligo di «motivare» la norma di  rango  primario  non
esclude  che  gli   adempimenti   istruttori   compiuti   nel   corso
dell'elaborazione della legge-provvedimento debbano essere dotati  di
effettivita', compiutezza ed attendibilita'; requisiti,  questi,  che
la Consulta potra' senz'altro vagliare facendo leva sui  fondamentali
principi  di   imparzialita',   buon   andamento   e   ragionevolezza
legislativa. 
IV) Violazioni comuni  ad  entrambe le  ipotesi  ricostruttive  della
normativa (natura tributaria e natura non tributaria della  norma)  -
Violazione dei precetti di cui agli arti. 2 e  3  della  Costituzione
sotto diversi profili. Violazione dei principi espressi dal  Comitato
dei  Ministri  del  Consiglio  d'Europa  nella  «Raccomandazione  CM/
Rec(2010)12 sui giudici: indipendenza, efficacia e  responsabilita'»,
adottata il 17 novembre 2010. 
    Quale che sia la natura giuridica che si voglia riconoscere  alla
norma in esame, sussistono ulteriori profili di  incostituzionalita',
che si prospettano sinteticamente e che negli atti di causa sono  ben
piu' diffusamente illustrati ed argomentati. 
    IV. 1) Si premette che la Carta Fondamentale, all'art. 3 comma 2,
prevede  quale  precipuo  «compito  della   Repubblica»   (per   tale
intendendosi lo Stato-apparato, ossia l'insieme dei pubblici  poteri,
ivi  compreso  il  Legislatore)  quello  di  promuovere  e  garantire
«l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori  all'organizzazione
politica, economica e sociale del Paese». 
    Poiche'  tale  partecipazione   «economica»   non   puo'   essere
ovviamente considerata solo dal  lato  «attivo»  ma  anche  dal  lato
«passivo», ovvero inglobando una serie di oneri ed  obblighi  che  ad
essa naturalmente pertengono  (tra  i  quali  la  contribuzione  alle
esigenze  finanziarie  dell'Erario,  a  loro   volta   correlate   al
soddisfacimento dei bisogni della comunita'), il fine della norma  e'
quello di incaricare lo Stato (e percio' tutti  pubblico  poteri)  di
rimuovere  gli  squilibri   socio-economici   esistenti,   ossia   le
diversificazioni economiche tra  categorie  sociali  diverse,  o  tra
lavoratori appartenenti ai diversi settori della societa' civile. 
    In questo senso, l'aver attribuito la  parte  predominante  dello
sforzo «contributivo» tramite una minore retribuzione  ai  dipendenti
pubblici, e tra essi ai magistrati, introduce  forti  discriminazioni
nell'eguaglianza sostanziale dei  soggetti  dell'Ordinamento  per  le
seguenti ragioni. 
    IV.2)  Viene  sottoposta  a  prelievo  una  categoria  di  sicura
«tassabilita'» per via della garanzia della ritenuta alla  fonte;  al
di  la'  di  ogni  altra  giustificazione  ravvisabile  nella   ratio
dell'istituto,  il   ricorso   al   prelievo   fiscale   e'   indotto
dall'incapacita'  (tecnica  o  politica)  di  perseguire   l'evasione
fiscale, con  conseguente  vantaggio  di  fatto  per  i  redditi  non
derivanti da lavoro dipendente nel settore pubblico. Come evidenziato
dai  ricorrenti,  lungi  dall'impegnarsi  nella  predisposizione   di
strumenti fiscali efficaci nella prevenzione  di  tale  fenomeno,  il
Legislatore  statale  inconcepibilmente   ed   intollerabilmente   ha
aumentato  gli  squilibri,  trascurando  del  tutto  di  colpire   le
ricchezze evase al fisco e persino gli introiti derivanti da  rendite
ben conosciute (si pensi alle rendite catastali e  finanziarie),  per
concentrarsi  su  una  fascia  specifica  di  lavoratori,   colpevoli
unicamente di possedere la  qualita'  di  pubblici  impiegati  (o  di
Magistrati) e di avere redditi facilmente accertabili ed ancora  piu'
facilmente «attaccabili». 
    IV.3) La soluzione in concreto adottata nel d.l. 78/2010 e' stata
probabilmente preferita: 
        in quanto piu' «difendibile» da un punto di vista politico  -
ossia sul piano dell'accettabilita' da parte  dell'opinione  pubblica
generale, nel momento storico in cui e' stata posta in essere; 
        perche' assume come propria la semplicistica e generalizzante
opinione comune, secondo cui i redditi incisi, per il fatto stesso di
essere «elevati», costituiscono per lo piu' «prebende di Stato»; 
        perche'  il  «tributo»,  o  comunque  il   prelievo,   poteva
comodamente essere qualificato come  «riduzione  di  spesa»;  e  cio'
naturalmente approfittando della coincidenza tra il soggetto  che  lo
impone ed il datore di lavoro che si vede ridotto per legge il  costo
del lavoro. 
    Sennonche',  tali  ipotesi  ricostruttive   non   consentono   di
sostenere la costituzionalita' della legge,  fermo  restando  che  le
pretese «motivazioni» della manovra concepita a  danno  dei  pubblici
dipendenti non reggono ad un piu' approfondito esame. 
    Infatti, la capacita' contributiva dei lavoratori  dipendenti,  e
tra essi dei Magistrati, e' gia' messa a dura  prova  da  un  sistema
fiscale alimentato in grande misura  dal  meccanismo  della  ritenuta
alla fonte. Pertanto, prima di assoggettare ad ulteriore prelievo gli
stipendi  dei   dipendenti   pubblici   destinatari   di   un'elevata
retribuzione, si sarebbe dovuto verificare se tali dipendenti fossero
- come effettivamente sono -  gia'  sottoposti  ad  una  schiacciante
imposizione fiscale, e  conseguentemente  concentrare  la  «riduzione
della spesa» in altri settori, ad esempio frenando il ricorso  sempre
piu' frequente alle  consulenze  esterne  in  favore  della  Pubblica
Amministrazione,  oppure  -  argomento  quest'ultimo  di  particolare
rilievo - incidendo nel settore di tutte le c.d. spese  (latu  sensu)
«clientelari», di particolare diffusione nel settore delle  Autonomie
regionali e  locali  (di  difficoltosa  riduzione,  perche'  a  torto
ritenute essenziali alla politica ed alla  formazione  del  consenso,
cosi' come inteso negli ultimi anni, come ad esempio i  contributi  a
pioggia alle imprese, le spese per iniziative culturali, aggregative,
le spese per societa' ed enti - satellite della PA, la  formazione  e
cosi' via). 
    IV.5) Le misure introdotte creano, come accennato, disparita'  di
trattamento anche interno alla platea degli incisi, contrastanti  con
orientamenti  di  matrice  comunitaria,   sui   quali   si   tornera'
diffusamente oltre. 
    Si fa  riferimento  all'indicazione  espressa  dal  Comitato  dei
Ministri del Consiglio d'Europa nella «Raccomandazione CM/Rec  (2010)
12 sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilita'»,  adottata
il 17 novembre 2010; indicazione che  va  chiaramente  nel  senso  di
«vietare ogni forma di discriminazione verso i giudici o i  candidati
all'ufficio di giudice» (punto 45). 
    La stessa Raccomandazione, al punto 54, non solo richiede che  la
retribuzione dei giudici sia «commisurata al loro ruolo professionale
e alle loro responsabilita'», ma esplicitamente esige  che  essa  sia
tale da «renderli immuni da qualsiasi pressione volta ad  influenzare
le  loro  decisioni».  Addirittura  -  e   la   specificazione   pare
addirittura premonitrice - si chiede  agli  Stati  membri  che  siano
«adottate specifiche disposizioni di  legge  per  garantire  che  non
possa  essere  disposta  una  riduzione  delle  retribuzioni  rivolta
specificamente ai giudici». 
    Il chiaro tenore della menzionata  Raccomandazione  smentisce  in
modo categorico una  della  apodittiche  giustificazioni  del  taglio
lineare  poste  a  base  del  d.l.  78/2010,  ossia  quella  che   fa
riferimento a pretesi «obblighi comunitari». 
    Fino a prova contraria, nel  settore  specifico  della  riduzione
dello  stipendio  del  Magistrati  l'unica  disposizione  comunitaria
operante e' quella citata, che vieta il taglio cosi' come operato. 
    Ne' puo' dubitarsi che detta disposizione, proprio in quanto «lex
specialis» volta a salvaguardare il supremo valore  dell'indipendenza
degli  Organi  giudiziari,  risulta  evidentemente  prevalente,   nel
ragionevole bilanciamento di interessi che deve governare  le  scelte
legislative,  rispetto  a  presunte  necessita'  di   stabilizzazione
finanziaria, tanto piu' che queste ultime ben sarebbero potute essere
perseguite con un'infinita' di alternativi strumenti  di  intervento,
ben piu' efficaci e remunerativi. 
    La previsione dell'art. 9 comma 2 del d.l. 78/2010 non  solo  non
e' in linea con  tali  indirizzi  (che,  a  ben  vedere,  contraddice
radicalmente), ma - per quanto detto ed argomentato poc'anzi - appare
altresi' priva di quel necessario apporto istruttorio e  fattuale  in
un  contesto  globale  di  revisione  parlamentare  del   trattamento
economico  dei  giudici,  dell'istituto,  che  solo  avrebbe   potuto
conferire ad essa ragionevolezza ed aderenza alla realta' del settore
del pubblico impiego magistratuale. 
V) Violazione degli artt. 24, 100, 101, 103, 111,  108  e  113  Cost.
Lesione dell'autonomia e della indipendenza della Magistratura. 
    Argomento condiviso dalla quasi totalita'  delle  altre  pronunce
gia' registratesi sul tema (sopra richiamate) e che il  Collegio  non
puo' non fare proprio e' quello secondo cui la norma in  esame  viola
il  fondamentale  principio  di  autonomia  ed   indipendenza   della
magistratura, perche' subordina la «categoria»  dei  magistrati  alla
possibilita' di riduzioni «ex abrupto» del loro  «status  economico»,
con conseguente introduzione nel sistema ordinamentale di una  regola
materiale di contrattazione tra datore di lavoro  e  dipendente,  che
non puo' che condizionare le scelte di quest'ultimo, quanto meno  sul
piano   dell'autorganizzazione,   che   e'   uno   dei    presupposti
dell'autonomia e dell'indipendenza. 
    I valori dell'autonomia e dell'indipendenza della Magistratura da
ogni altro Potere dello Stato sono  sanciti  in  via  generale  dagli
arti. 101 comma 2 («I giudici sono soggetti soltanto alla  legge»)  e
104 comma 1 cost. («La magistratura costituisce un ordine autonomo  e
indipendente da ogni altro potere»). 
    V.1) Sotto un  primo  profilo,  occorre  ribadire  che  i  valori
anzidetti sono a loro volta funzionali  all'esercizio  imparziale  ed
obiettivo della funzione giudicante, come  esigono  molteplici  norme
costituzionali, anche in  vista  della  celebrazione  di  un  «giusto
processo» (cfr. artt. 24, 103, 111 e 113 Cost.; Corte cost., cent. n.
381/1999). Il Legislatore, mediante  uno  strumento  che  formalmente
incide (solo) sulla retribuzione dei magistrati, viene in realta'  ad
operare un indebito  condizionamento  dell'esercizio  della  funzione
giurisdizionale, poiche' costringe l'Ordine  di  appartenenza  ad  un
confronto con i pubblici poteri al fine di ripristinare le condizioni
economiche  originarie,  o  quantomeno  di  elidere  o  attenuare  le
conseguenze negative della misura disposta. 
    La  costante  giurisprudenza  della  Consulta  conforta  in  modo
nettissimo  la  fondatezza  della  censura  dedotta,  indubitabile  e
riconosciuta, sussistendo la necessita' di «attuazione  del  precetto
costituzionale dell'indipendenza dei magistrati, che va salvaguardato
anche sotto il profilo economico», onde evitare «tra l'altro che essi
siano soggetti a periodiche rivendicazioni  nei  confronti  di  altri
poteri» (sentt. nn. 1/1978, 42/1993, 238/1990). 
    V.2) Sotto  un  secondo  profilo,  si  deve  prospettare  che  un
Magistrato  «condizionato»,  quand'anche   solo   apparentemente   (e
potenzialmente) e non nella sostanza (e nella realta'), da una misura
legislativa fortemente penalizzante per i suoi  interessi  economici,
rischia di vedersi sottratto quel credito e  quel  prestigio  di  cui
Egli personalmente e l'Ordine  giudiziario  nel  suo  insieme  devono
sempre ed indefettibilmente godere presso la comunita' dei  cittadini
(sent. Corte cost. n. 100/1981; Comitato dei Ministri  del  Consiglio
d'Europa nella gia' richiamata Raccomandazione del 17 novembre  2010,
ove la  nozione  di  «indipendenza  esterna»  dei  Giudici  e'  stata
strettamente ed  esplicitamente  collegata  alla  seguente,  testuale
affermazione: «I giudici, che fanno parte della societa' che servono,
non possono rendere giustizia in modo  efficace  senza  godere  della
fiducia del pubblico» - punto 20 della raccomandazione). 
    Tale linea argomentativa necessita di alcune precisazioni. 
    La «percezione» dell'indipendenza della magistratura, in uno alla
percezione  della  autorevolezza  e  del  prestigio  dell'Ordinamento
giudiziario nel suo complesso, non  sono,  ad  avviso  del  Collegio,
credibilmente «appannate» da una (per  quanto  incidente)  misura  di
riduzione della retribuzione, cosi'  come  operata  dal  Legislatore,
perche' ben altre ed elevate  sono  le  motivazioni  sostanziali  che
fondano il servizio dei magistrati alle Istituzioni della Repubblica,
solo per ultimo riconducibili al trattamento economico. 
    Cio' che invece puo' effettivamente minare  il  prestigio  ed  il
decoro della magistratura all'esterno, ovvero nella percezione  della
societa', e' il  costringere  i  magistrati,  singoli  o  nelle  loro
associazioni sindacali, a rivendicazioni di categoria che non possono
che passare per il tramite di una tutela giurisdizionale gestita  pur
sempre  da  una   magistratura   anch'essa   colpita   dai   medesimi
provvedimenti (quella amministrativa) ed il cui giudizio dunque,  per
limiti strutturali invalicabili, non puo' che  essere  affidato  alla
delibazione di colleghi dei ricorrenti parimenti incisi (al  pari  di
tutto  il  personale  non  contrattualizzato,  del   resto,   e   dei
Dirigenti). 
    I magistrati del Collegio, osservando quello  che  ordinariamente
sarebbe stato un pacifico dovere di astensione, non possono  esimersi
dal  giudicare  sulla  domanda,  posto  che  nessun   altro   giudice
dell'Ordinamento e' privo di  interesse  e  che  la  controversia  e'
affidata alla cognizione del TAR in regime di competenza territoriale
inderogabile; peraltro,  se  si  astenessero,  incorrerebbero  in  un
altrettanto censurabile diniego di giustizia. 
    Sebbene nella fattispecie  in  esame  le  questioni  dedotte  dai
ricorrenti non costituiscono oggetto  di  altrettante  rivendicazioni
dei componenti del Collegio, che non hanno presentato  a  loro  volta
ricorso,  (onde  l'interesse  alla  lite  e'  meramente  astratto   e
potenziale, non derivando loro, allo stato, un diretto  ed  immediato
vantaggio dall'accoglimento della censura),  all'esterno  il  sistema
giudiziario nel suo  complesso  risulta  costretto  ad  occuparsi  di
vicende che lo riguardano direttamente, con la conseguenza che  viene
riproposto nella sostanza un conflitto tra poteri  dello  Stato,  che
non ha precedenti nell'Ordinamento della Repubblica. 
    Alla luce di queste considerazioni, a fronte di una  decurtazione
stipendiale cosi' rilevante e, soprattutto, suscettibile di ripetersi
in futuro, perche' prorogabile  ben  oltre  il  2013,  o  addirittura
suscettibile di incrementi ulteriori, il  decoro  della  magistratura
nel  suo  insieme  (ed,  all'interno  di  essa,  della   magistratura
amministrativa in particolare), e'  fortemente  leso  e  pregiudicato
dall'intervento, unilaterale e  d'imperio,  dei  poteri  esecutivo  e
legislativo, che genera - nei fatti - un vero  e  proprio  insanabile
conflitto di interessi, ben potendo l'opinione pubblica associare  la
riduzione stipendiale alle ben note polemiche tra poteri dello Stato,
apparendo la misura legislativa come una  sorta  di  punizione  o  di
monito per il Potere giudiziario, l'ostentazione di una condizione di
supremazia di un Potere sull'altro, in contrasto - anche  sotto  tale
profilo - con i dettami costituzionali, che improntano i rapporti tra
Poteri alla separazione, all'equilibrio ed al bilanciamento IX) Tanto
Premesso, ai sensi dell'art. 23, secondo comma, della legge 11  marzo
1953, n. 87, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, il
TAR solleva questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  9,
comma 21 primo periodo e 22 primo, secondo e terzo periodo, del  d.l.
31 maggio 2010 n. 78 convertito, con modificazioni, in l.  30  luglio
2010 n. 122, per contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 36,  41,  42,  53,
97, 100, 101, 103, 104, 108, 111 e 113 della Costituzione, secondo  i
profili e per le ragioni sopra indicate, con sospensione del giudizio
fino alla pubblicazione nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica
Italiana della decisione della Corte costituzionale  sulle  questioni
indicate, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 79 ed  80  del
cpa ed art. 295 c.p.c. 
    Riserva al definitivo ogni  ulteriore  decisione,  nel  merito  e
sulle spese.