LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da U. V., nato a S. Maria Capua Vetere il 26 gennaio 1969 avverso l'ordinanza del 16 febbraio 2012 del Tribunale di Napoli; Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Vincenzo Romis; udito il Pubblico ministero, in persona dell'Avvocato Generale Massimo Fedeli, che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il difensore, avv. Marco Muscariello in sostituzione dell'avv. Antonio Abet, che ha concluso per l'accoglimento dei motivi di ricorso. Ritenuto di fatto 1. Il Tribunale di Napoli, con ordinanza del 16 febbraio 2012 - depositata il successivo 23 febbraio - in funzione di giudice dell'appello cautelare, ha accolto l'impugnazione del Pubblico ministero nei confronti del provvedimento del 6 maggio 2010 con il quale il giudice del medesimo Tribunale, all'esito di giudizio celebrato con il rito abbreviato, aveva sostituito con la misura degli arresti domiciliari quella della custodia cautelare in carcere, disposta nei confronti di V. U., per vari reati di illecita detenzione e porto in luogo pubblico di arma comune da sparo clandestina, di ricettazione e di estorsione, aggravati dall'uso del metodo mafioso e dalla finalita' di agevolazione mafiosa. Il Tribunale del riesame ha rilevato l'impossibilita' di sostituzione della misura cautelare carceraria con altra meno gravosa, ritenendo a cio' ostativo il combinato disposto degli artt. 275, comma 3, e 299, comma 2, cod. proc. pen. , e cio' in conseguenza della contestazione all'Ucciero della circostanza aggravante di cui all'art. 7 della legge n. 203 del 1991. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, per mezzo del difensore avv.to Antonio Abet, V. U., deducendo violazione di legge processuale e difetto di motivazione, con argomentazioni che possono cosi' riassumersi: la disposizione di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., conterrebbe una presunzione soltanto relativa di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, tale da poter essere superata dall'apprezzamento discrezionale del giudice, e cio' alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale in materia influenzata dalle plurime decisioni della Corte costituzionale che hanno di recente dichiarato la parziale illegittimita', per categorie di reato, della disposizione sopra indicata. 2. Con ordinanza del 10 maggio 2012, dep. il 4 giugno successivo, la Sesta Sezione Penale di questa Corte, alla quale il ricorso era stato assegnato in base ai criteri tabellari, ha rimesso il ricorso dell'Ucciero alle Sezioni Unite, per la risoluzione della questione, su cui v'e' contrasto in giurisprudenza, se la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere consenta di sostituire detta misura, successivamente alla sua adozione, con altre meno afflittive, oppure permetta soltanto di revocarla qualora le esigenze cautelari siano del tutte venute meno; con l'ordinanza di rimessione sono state indicate le piu' significative decisioni di questa Corte a sostegno dell'uno e dell'altro indirizzo, e sinteticamente ricordate le considerazioni addotte a sostegno dei due contrapposti orientamenti: a) nelle decisioni favorevoli all'orientamento della presunzione assoluta di inadeguatezza di ogni altra misura diversa da quella della custodia in carcere, anche successivamente all'adozione della misura, vengono valorizzate la lettera della norma ed un argomento sistematico ritenuto desumibile dall'art. 299, comma 2, cod. proc. pen., laddove e' consentita la sostituzione della misura con altra meno grave, quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero quando la misura applicata non appare piu' proporzionata all'entita' del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata risulta inadeguata, ma con espressa eccezione proprio delle ipotesi contemplate dall'art. 275, comma 3, del codice di rito: con conseguente irrilevanza, quindi, dell'eventuale affievolimento delle esigenze cautelari, perche' solo il venir meno delle stesse potrebbe comportare la revoca della misura; b) per l'orientamento contrario, l'obbligatorieta' dell'applicazione della misura della custodia in carcere opererebbe solo in occasione dell'adozione del provvedimento genetico della misura cautelare dovendo essere valutati il decorso del tempo e la concreta sussistenza della prosecuzione della pericolosita' sociale del soggetto e, qualora questa risulti attenuata, la possibilita', da ritenersi dunque legittima, di applicare la misura meno afflittiva. Con decreto del 6 giugno 2012, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso in esame alla Sezioni Unite, fissando l'odierna udienza per la trattazione in camera di consiglio partecipata. Considerato in diritto 1. Il tema di indagine e di decisione sul quale le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi consiste nello stabilire: "se la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere ex art. 275, comma 3, cod. proc. pen. operi solo in occasione dell'adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva o riguardi anche le vicende successive che attengono alla permanenza o meno delle esigenze cautelari" (nella concreta fattispecie nel caso di reato aggravato ai sensi dell'art. 7 della legge 12 dicembre 1991, n. 203). Di talche', i riferimenti normativi di carattere procedurale sui quali bisogna focalizzare l'attenzione in questa sede sono gli artt. 275, comma 3, e 299, comma 2, cod. proc. pen., disposizione, quest'ultima, in cui risulta espressamente richiamato lo stesso art. 275, comma 3. 2. L'art. 275 cod. proc. pen. indica i criteri cui il giudice deve attenersi per individuare la misura da ritenersi idonea in relazione alla natura ed al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto; nel terzo comma dello stesso articolo e' pero' stabilita una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia in carcere per i delitti ivi elencati, "salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari": dunque, per tali delitti, e' obbligatoria la piu' afflittiva delle misure cautelari, purche' sussistano esigenze cautelari, nulla rilevando la natura ed il grado delle stesse. Il comma 2 dell'art. 299 cod. proc, pen. e' cosi' formulato: "salvo quanto previsto dall'art. 275, comma 3, quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non appare piu' proporzionata all'entita' del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, il giudice sostituisce la misura con un'altra meno grave ovvero ne dispone l'applicazione con modalita' meno gravose". In relazione alle due norme citate, e' sorto nella giurisprudenza di questa Corte un contrasto interpretativo in ordine alla questione se la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere, per i reati indicati nell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., debba trovare applicazione solo in occasione dell'adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva o riguardi anche le vicende successive al momento genetico della misura stessa, con conseguente irrilevanza dell'eventuale attenuazione delle esigenze cautelari (a meno che, ovviamente, le stesse non siano venute a mancare del tutto). Il quadro giurisprudenziale che si e' delineato sulla questione giuridica controversa puo' essere sinteticamente illustrato come segue. 3. La tesi secondo cui la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere governa soltanto il momento iniziale della misura e' stata prospettata, nell'epoca piu' recente, da sez. 6, n. 25167 del 18 febbraio 2010, dep. 2 luglio 2010, Gargiulo, Rv. 247595: con detta decisione e' stato affermato che l'obbilgatorieta' della custodia in carcere non puo' aver riguardo alle vicende successive all'adozione della misura stessa, perche' in tali ipotesi occorre valutare il decorso del tempo e la concreta sussistenza della pericolosita' sociale, con la conseguenza della doverosita' della verifica circa la possibilita' di sostituzione della misura originaria con altra meno afflittiva. Tale sentenza ha fatto richiamo, per avvalorare la soluzione adottata, a due precedenti datati, e cioe' sez. 6, n. 54 del 13 gennaio 1995, dep. 1° marzo 1995, Corea, Rv. 200564 e sez. 1, n. 3592 del 24 maggio 1996, dep. 6 agosto 1996, Corsanto, Rv. 205490 che enunciarono il seguente principio: "qualora in grado di appello venga affermata, nei confronti di un soggetto sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, la sussistenza, esclusa nel primo giudizio, di uno dei reati per i quali l'art. 275, comma 3, c.p.p. impone la custodia cautelare in carcere, ai fini della decisione sullo status libertatis dell'imputato deve aversi riguardo non gia' al suddetto art. 275, poiche' non si verte in tema di prima applicazione di una misura cautelare di coercizione personale, bensi' all'art. 299, comma 4, c.p.p., che prevede la modifica peggiorativa della precedente misura in corso quando risultino aggravate le esigenze cautelari; ne consegue che la pura e semplice intervenuta condanna per uno dei reati predetti, non accompagnata da alcun elemento sintomatico dell'emergere di qualche evenienza negativamente influente sulle esigenze cautelari, non puo' essere idonea a modificare il quadro giuridico - processuale esistente al momento della concessione degli arresti domiciliari ed a fondare il ripristino della custodia in carcere". In particolare, la seconda, tra le due decisioni appena richiamate, fondo' il proprio convincimento sulla regolamentazione specifica e autonoma del c.d. ripristino, contemplato dagli artt. 300, comma 5, e 307, comma 2, del codice di rito. Da tale premessa derivo' la conclusione che i parametri valutativi per l'accertamento delle esigenze cautelari di cui all'art. 274, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., richiamate dall'art. 300, comma 5, stesso codice, devono essere ricavati dalla regola generale di cui all'art. 299, comma 4, cod. proc. pen., secondo cui "il giudice, su richiesta del p.m., sostituisce la misura applicata con altra piu' grave ovvero ne dispone l'applicazione con modalita' piu' gravose", ove "le esigenze cautelari risultano aggravate". Da ultimo, detto indirizzo interpretativo e' stato ribadito, senza pero' il ricorso ad ulteriori argomentazioni a sostegno, da sez. 6, n. 4424 del 20 ottobre 2010, dep. 4 febbraio 2011, D'Angelo, Rv. 249188. 4. In senso contrario si e' invece orientata la prevalente giurisprudenza. Gia' sez. 1, n. 3274 del 7 luglio 1992, dep. 3 agosto 1992, Bigoni, Rv. 191558 preciso', quanto alla disposizione dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. , nella formulazione allora in vigore, che "la custodia in carcere, una volta accertata l'esistenza di gravi indizi di colpevolezza dell'indagato, non puo' essere sostituita con gli arresti domiciliari": con tale decisione fu ritenuto inapplicabile, in relazione ai reati indicati in detta disposizione, il criterio di scelta sull'idoneita' e sull'adeguatezza della misura. Nello stesso senso, a poca distanza di tempo, si espresse Sez. 1, n. 931 del 4 marzo 1993, dep. 19 maggio 1993, Granato, Rv. 193997, secondo cui "allorche' si procede per uno dei reati indicati nei comma 3 dell'art. 275 c.p.p., e' preclusa la sostituzione della custodia cautelare in carcere con altra misura meno grave: la permanenza delle esigenze cautelari, ancorche' attenuate, purche' continuino a sussistere i gravi indizi di colpevolezza, comporta il mantenimento dell'originaria piu' grave misura coercitiva. Per poter far cessare la custodia cautelare devono venire a mancare completamente le suddette esigenze, ma a tale ipotesi consegue la revoca della misura imposta, a norma del comma 1 dell'art. 299 c.p.p. Il quale, non prevedendo - per ovvi motivi - la riserva contenuta nel comma 2 in ordine ai reati contemplati nel comma 3 del citato art. 275, stabilisce che le misure coercitive (e interdittive) sono immediatamente revocate quando risultano «mancanti», anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilita' previste dall'art. 273 c.p.p. o dalle disposizioni relative alle singole misure, ovvero le esigenze cautelari previste dall'art. 274 stesso codice". Ancora, il principio di diritto, cosi' enunciato, fu ribadito da sez. 5, n. 1753 del 12 maggio 1993, dep. 2 luglio 1993, Giugliano, Rv. 195408, con specifico riferimento al reato di cui all'art. 416 bis cod. pen. , trattandosi di "uno dei reati per i quali, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, l'unica misura applicabile e' la custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari". Nel medesimo senso, a distanza di anni, sez. 3, n. 2711 del 3 agosto 1999, dep. 21 aprile 2000, Valenza, Rv. 216566-7 ribadi' che "la presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia cautelare in carcere nei confronti di soggetti gravemente indiziati di taluno dei reati previsti dall'art. 275, comma 3, c.p.p, opera in tutte le fasi del procedimento penale, e non solo in occasione dell'applicazione della misura cautelare". E cosi' ancora: sez. 5, n. 24924 del 7 maggio 2004, dep. 1° giugno 2004, Santaniello, Rv. 229877; sez. 6, n. 9249 del 26 gennaio 2005, dep. 9 marzo 2005, Miceti Corchettino, Rv. 230938. Questo indirizzo interpretativo si e' ulteriormente rafforzato con Sez, 6, n. 20447 del 26 gennaio 2005, dep. 31 maggio 2005, Marino, Rv. 231451, che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di costituzionalita' dell'art. 299, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede che, nell'ipotesi di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., il giudice non possa sostituire la misura cautelare adottata con altra meno grave, quando le esigenze risultino attenuate: e' stato affermato, sul punto, che dette norme non costituiscono ne' irragionevole esercizio della discrezionalita' legislativa, ne' violazione del principio di uguaglianza, e cio' in ragione dell'elevato e specifico coefficiente di pericolosita' per la convivenza e la sicurezza collettiva inerente ai reati ivi considerati. Con tale decisione e' stato ulteriormente specificato come, risultando rispettata la riserva di legge, non possa apprezzarsi nemmeno la violazione dell'art. 13, primo comma, della Costituzione; con l'ulteriore precisazione che l'art. 27, comma 2, della Costituzione, non e' applicabile alle misure coercitive di tipo personale adottate per finalita' cautelari. Nello stesso senso si sono ancora espresse: sez. 2, n. 16615 del 13 marzo 2008, dep. 22 aprile 2008, Vitagliano ed altro, non massimata sul punto; sez. 5, n. 27146 dell'8 giugno 2010, dep. 13 luglio 2010, Femia, Rv. 248034; sez. 6, n. 32222 del 9 luglio 2010, dep. 23 agosto 2010, Galdi, Rv. 247596; sez. 5, n. 34003 del 18 maggio 2010, dep. 21 settembre 2010, Di Simone, Rv. 248410; sez. 2, n. 11749 del 16 febbraio 2011, dep. 24 marzo 2011, Armens, Rv. 249686, secondo cui "non avrebbe senso imporre l'adozione della custodia cautelare in carcere se poi fosse possibile sostituirla con misura meno afflittiva". Da ultimo sez. 5, n. 35190 del 22 giugno 2011, dep. 28 settembre 2011, Ciminello, Rv. 251201, ha ribadito che l'orientamento prevalente, ritenuto nell'occasione condivisibile, si fonda su un argomento sistematico, costituito dal rilievo che l'art. 299, comma 2, cod. proc. pen. , consente la sostituzione della misura, in caso di attenuazione delle esigenze cautelari o della sopravvenuta assenza di proporzione all'entita' del fatto o alla sanzione, "ma con espressa eccezione proprio delle ipotesi contemplate dall'art. 275 comma 3", 5. La questione oggetto del contrasto cosi' delineatosi non e' mai stata tematicamente affrontata dalle Sezioni Unite. Mette conto pero' sottolineare che di recente le Sezioni Unite, con la sentenza n. 27919 del 31 marzo 2011, dep. 14 luglio 2011, Ambrogio, Rv. 250195-6, nel ragionare sulla portata applicativa delle interpolazioni dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., hanno avuto modo di precisare, come sopra ricordato nella parte narrativa, quanto segue: "anche nel momento della sostituzione della misura cautelare giocano le presunzioni alle quali si e' gia' fatto cenno nel considerare il momento genetico della misura cautelare: una diversa soluzione, evidentemente, renderebbe del tutto irrazionale il sistema. Tuttavia, in tale fase non possono operare presunzioni prima inesistenti". Le Sezioni unite hanno, dunque, avvalorato l'orientamento affermatosi come prevalente nella giurisprudenza di legittimita' che, come si e' visto, ha origini ormai datate. 6. Cosi' descritto il quadro giurisprudenziale, ritengono queste Sezioni Unite di dover confermare l'opzione interpretativa privilegiata dalla prevalente giurisprudenza e gia' recentemente avallata dalle Sezioni Unite con la citata sentenza Ambrogio. A tanto inducono - e fermo restando quanto gia' argomentato con le sentenze che hanno dato vita all'orientamento maggioritario e con la stessa sentenza delle Sezioni Unite, Ambrogio - le ragioni di ordine letterale, sistematico e logico di seguito indicate. Una corretta operazione ermeneutica, finalizzata ad individuare la ratio sottesa alla norma da interpretate, deve muovere innanzi tutto dal dato letterale. Orbene, la formulazione delle disposizioni che rilevano ai fini della soluzione della questione "de qua", non sembra possa dare adito a particolari difficolta' interpretative, in considerazione della sua sufficiente chiarezza; ed e' noto che, in presenza di un dato testuale sufficientemente chiaro, l'interprete deve attenersi a tale dato, il cui significato va ricostruito senza sovrapposizione di opzioni per le valutazioni politico-criminali discendenti dalla stessa lettera normativa. Cio' premesso, e' agevole argomentare, da una lettura complessiva del testo normativo, che il legislatore ha inteso per certo attribuire alla presunzione assoluta di cui all'art. 275, comma 3, del codice di rito, il carattere di eccezionalita' com'e' reso palese dall'elencazione specifica dei reati cui ha voluto ricollegare detta presunzione e dall'espressione "salvo che non siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari". Dunque, in deroga alla regola generale enunciata nel comma 1 dello stesso articolo - secondo cui il giudice, nel disporre le misure, "tiene conto della specifica idoneita' di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari" - ed in deroga altresi' al principio della custodia in carcere quale extrema ratio, fissato nell'incipit dello stesso comma 3 della norma in esame, il legislatore ha ritenuto, per determinati reati, specificamente indicati, di dover stabilire una presunzione assoluta di idoneita' della piu' afflittiva delle misure. Da tanto, consegue che l'interpretazione della disposizione non puo' che essere quella piu' rigorosa consentita dall'enunciato letterale, in stretta aderenza alla ratio normativa, chiaramente ravvisabile, nel caso in esame, nella necessita' di ricercare un giusto contemperamento delle opposte esigenze del diritto alla liberta' dell'indagato (o imputato) e della tutela della collettivita' (come evidenziato dalla Corte costituzionale con l'ordinanza n. 450 del 1995). Cosi' individuata la ratio della norma, deve ritenersi, quale logica conseguenza, che detta presunzione debba operare non solo nel momento genetico della misura, ma per tutte le vicende successive, in presenza di esigenze cautelari. Conclusione, questa, che risulta, poi viepiu' rafforzata, come detto, da ragioni di ordine logico e sistematico. Sotto il primo aspetto, e' sufficiente osservare che non risponderebbe a criteri di logica - avuto riguardo alla ratio della disposizione quale individuata gia' sulla scorta del dato letterale - imporre, per delitti ritenuti dal legislatore di particolare gravita', l'adozione della custodia cautelare in carcere se poi fosse possibile sostituirla con misura meno afflittiva (cosi' come evidenziato da sez. 2, n. 11749 del 16 febbraio 2011, dep. 24 marzo 2011, Armens, Rv. 249686, sopra ricordata). Dal punto di vista sistematico, mette conto sottolineare che: a) nel primo periodo del comma 3 dell'ad. 275 cod. proc. pen., con riferimento alla custodia in carcere quale misura da adottare solo ove ogni altra misura risulti inadeguata, e' stata usata la formulazione "puo' essere disposta", mentre con riferimento alla presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere il legislatore ha fatto ricorso alla diversa formulazione "e' applicata": orbene, non sembra che tale diversa terminologia sia senza significato, posto che il termine "disposta" consente di individuare certamente proprio il momento genetico, a differenza della parola "applicata" che, infatti, risulta poi usata anche nell'art. 299 cod, proc. pen. dedicato alla "revoca e sostituzione delle misure"; b) nell'art. 299 cod. proc. pen., che, come appena ricordato, pur contiene le disposizioni che disciplinano la revoca e la sostituzione delle misure, vi e', nell'incipit del comma 2, il richiamo alla presunzione di adeguatezza dl cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. quale eccezione alla possibilita' di sostituzione della misura in corso nel caso di attenuazione delle esigenze cautelari ovvero quando la misura applicata non appare piu' proporzionata all'entita' del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata: risulta dunque chiara l'intenzione del legislatore, avuto riguardo alla collocazione dell'eccezione ed alla formulazione della norma, di aver voluto rendere operativa la presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere, prevista dal comma 3 dell'art. 275 cod. proc. pen. , per i reati ivi elencati, per l'intera durata della vicenda cautelare e non per il solo momento iniziale in cui detta misura viene disposta. Ne' tale opzione ermeneutica risulta efficacemente contrastata dall'argomento che, in alcune delle sentenze espressione dell'indirizzo minoritario, si e' ritenuto di poter individuare nel comma 4 dell'art. 299 cod. proc. pen., laddove e' previsto che, fermo restando quanto e' stabilito nell'art. 276 cod. proc. pen. (provvedimenti in caso di trasgressione alle prescrizione imposte), "quando le esigenze cautelari risultano aggravate, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, sostituisce la misura applicata con un'altra piu' grave ovvero ne dispone l'applicazione con modalita' piu' gravose". Ed invero, nell'art. 299 cod. proc. pen., accanto alla revoca della misura (comma 1), e' prevista anche la sostituzione della misura: in senso meno afflittivo, nei caso di attenuazione delle esigenze cautelari (comma 2) o in senso piu' severo, e su richiesta del pubblico ministero, nel caso di aggravamento delle esigenze stesse (comma 4). Le disposizioni di cui ai commi 2 e 4 dell'art. 299 cod. proc. pen. sono dunque simmetriche, e non si rilevano nella formulazione del quarto comma elementi persuasivi a favore dell'orientamento interpretativo minoritario. La sostituzione di una misura con altra meno afflittiva, nel caso di attenuazione delle esigenze cautelari, cosi' come prevede l'art. 299, comma 2, cod. proc. pen., e' chiara espressione della regola generale che comporta una continua verifica, da parte del giudice, circa ll permanere delle condizioni che hanno determinato la limitazione della liberta' personale e la scelta di una determinata misura cautelare. Orbene, a tale regola - che governa l'aspetto per cosi' dire dinamico della vicenda cautelare, disciplinato nel contesto normativo dell'art. 299 cod. proc. pen. - il legislatore ha inteso porre un'eccezione, attenuando la discrezionalita' del giudice, con l'introduzione di criteri legali di valutazione, e cosi' ponendo una presunzione assoluta di adeguatezza della misura della custodia in carcere per determinati reati in quanto ritenuti di particolare pericolosita' sociale: presunzione che deve ritenersi operante non solo in occasione dell'adozione dei provvedimento genetico della misura coercitiva (art. 275, comma 3, cod. proc. pen. ) ma, necessariamente, anche per il prosieguo della vicenda cautelare proprio perche' espressamente richiamata nel comma 2 dell'art. 299 cod. proc. pen. ("salvo quanto previsto dall'art. 275 comma 3"). Va pertanto enunciato il seguente principio: "La presunzione di adeguatezza della custodia in carcere ex art. 275, comma 3, cod, proc. pen. opera non solo in occasione dell'adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle vicende successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari". 7. Risolto il quesito sottoposto al vaglio di queste Sezioni Unite, si ravvisa la necessita' di valutare la eventuale non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita' dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., quanto alla presunzione assoluta di adeguatezza della misura della custodia in carcere, in relazione ai delitti aggravati dalla circostanza ex art. 7 del decreto legge n. 152/1991 (conv. dalla legge n. 203 del 1991) contestata all'U. : e cio', avuto riguardo all'evoluzione della giurisprudenza costituzionale in relazione alla portata della presunzione di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. , essendo intervenute plurime pronunce di declaratoria di parziale incostituzionalita' di tale norma; questione rilevante, in relazione alla concreta fattispecie, in considerazione del fatto che a carico dell'Ucciero e' stata ritenuta sussistente l'aggravante de qua - sotto entrambi i profili ricollegati all'aggravante stessa (delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo) - e tenuto conto dell'espresso richiamo dell'art. 299, comma 2, cod. proc, pen. , a tale presunzione, di cui si e' prima detto. Orbene, ritiene il Collegio che trattasi di questione non manifestamente infondata. La Corte Costituzionale, con l'ordinanza n. 450 del 1995 statui' la compatibilita' della presunzione in argomento con i principi costituzionali, rilevando che la scelta del tipo di misura non implica necessariamente l'attribuzione al giudice di un potere di apprezzamento in concreto, perche' ben puo' essere oggetto di una valutazione in termini generali del legislatore, "nel rispetto della ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti". Osservo' il giudice delle leggi che ricade nell'ambito della discrezionalita' legislativa l'individuazione del punto di equilibrio tra diverse esigenze, e in particolare tra quella della minore possibile restrizione della liberta' personale e quella della tutela degli interessi costituzionali presidiati attraverso la previsione degli strumenti cautelari. Muovendo da tali premesse, si ritenne che la predeterminazione in linea generale dell'area dei delitti di criminalita' organizzata di tipo mafioso, per l'operativita' della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare carceraria, rendesse manifesta la non irragionevolezza dell'esercizio della discrezionalita' legislativa, atteso il coefficiente di pericolosita' per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere e' connaturato: non puo', infatti, dirsi che sia soluzione costituzionalmente obbligata l'affidamento sempre e comunque al giudice della fissazione del punto di equilibrio e contemperamento tra il sacrificio della liberta' personale e gli opposti interessi collettivi, anch'essi di rilievo costituzionale. Anni dopo, ma riprendendo giurisprudenza consolidata, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 139 del 2010, ha ricordato che le "presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit. E cio' ha fatto in occasione dello scrutinio di costituzionalita' dell'art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), del quale ha decretato l'illegittimita' nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti gia' condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore al limiti previsti per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, non ammette la prova contraria. Con una pluralita' di interventi, la Corte costituzionale ha poi recentemente ridisegnato i confini delle presunzioni in materia cautelare, il cui ambito applicativo era stato ampliato, ben oltre il settore della criminalita' mafiosa, dall'intervento normativo sulla sicurezza pubblica, vale a dire il decreto legge n. 11 del 2009, convertito, con modifiche, con legge n. 38 del 2009. Con la sentenza n. 265 del 2010 e' stata dichiarata la illegittimita' dell'art. 275, terzo comma, cod. proc. pen., per la parte in cui ha esteso la presunzione di adeguatezza della custodia carceraria, senza possibilita' di apprezzare in concreto l'adeguatezza di altra e meno afflittiva misura, nei procedimenti per i reati di cui all'art. 609-bis, comma primo, 609-bis e 609-quater cod. pen. Dopo aver ricordato che nel criterio di adeguatezza trova espressione il principio dei "minore sacrificio necessario", architrave del sistema cautelare personale, e che il ricorso alla custodia carceraria deve essere residuale - eccezionale, di extrema ratio - la Corte ha chiarito come tratto saliente del sistema sia l'assenza di automatismi e presunzioni. La deroga, costituita dalle presunzioni di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della misura carceraria per i delitti di mafia in senso stretto, ha superato il vaglio della Corte costituzionale e della Corte Europea dei Diritti Umani, avendo entrambe le Corti valorizzato le peculiarita' di tali delitti, la cui connotazione strutturale astratta, come reati associativi e dunque permanenti, rende ragionevoli le presunzioni, e specificamente quella di adeguatezza della custodia carceraria, misura ritenuta maggiormente idonea per soddisfare l'esigenza di neutralizzazione del periculum libertatis "connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato e associazione". La Corte Europea aveva avuto gia' modo di pronunciarsi esplicitamente in tal senso, osservando che la disciplina derogatoria in esame appariva giustificabile alla luce «della natura specifica del fenomeno della criminalita' organizzata e soprattutto di quella di stampo mafioso», e segnatamente in considerazione del fatto che la carcerazione provvisoria delle persone accusate dei delitto in questione «tende a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti» (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia). La Corte Costituzionale, appunto con la decisione n. 265 del 2010, ha quindi tratto la conclusione dell'impossibilita' di estendere una ratio siffatta, calibrata sui delitti di mafia in senso stretto, ad ambiti criminosi per i quali vale una regola di esperienza diversa, ossia che essi possono proporre esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con misure alternative alla custodia in carcere. Si tratta di delitti che, per quanto odiosi, sono spesso meramente individuali e tali da non postulare esigenze affrontabili rigidamente con la massima misura. Con argomentazioni del tutto simili, il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 164 del 2011, ha successivamente dichiarato la incostituzionalita' dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. , nella parte in cui non consente di apprezzare, nei procedimenti per il delitto di omicidio volontario, l'esistenza di elementi specifici dai quali in concreto risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con misure meno gravose della custodia in carcere. Nonostante la gravita' del reato - ha osservato la Corte - il delitto di omicidio non implica e non presuppone necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosita', perche' puo' essere, e sovente e', un fatto meramente individuale. Anche in tale circostanza e' stato ricordato che entrambe le Corti - e cioe' la stessa Corte costituzionale e la Corte Europea dei Diritti umani - avevano in vario modo valorizzato la specificita' dei delitti di mafia. Sulla scia di questa giurisprudenza e' poi intervenuta ancora la Corte costituzionale con sentenza n. 231 del 2011 con la quale e' stata dichiarata la illegittimita' dell'art. 275, comma 3, del codice di rito, nella parte concernente il riferimento ai procedimenti per il delitto di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990. Anche per tale delitto la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria e' stata considerata non rispondente a un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla struttura stessa e alle connotazioni criminologiche della figura criminosa, pur se essa presuppone uno stabile vincolo di appartenenza a un sodalizio criminoso. Con tale sentenza e' stato precisato che il delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope si concretizza in una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine, che non postula necessariamente la creazione di una struttura complessa e gerarchicamente ordinata, essendo sufficiente una qualunque organizzazione, anche rudimentale, di attivita' personali e di mezzi economici, benche' semplici ed elementari. Detta figura criminosa, ha osservato ancora la Corte Costituzionale, si presta, pertanto, a qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto i piu' diversi ed eterogenei, si' che non e' possibile enucleare una regola di esperienza, ricollegabile ragionevolmente a tutte le connotazioni criminologiche del fenomeno, secondo cui la custodia carceraria sarebbe l'unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari. Mette conto sottolineare che il Giudice delle leggi con la sentenza n. 331 del 2010 ha fatto venir meno la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia carceraria anche in riferimento ai delitti di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, di cui all'art. 12, comma 3, d. lgs. n. 286 del 1998. Infine, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 110 del 2012, e' intervenuta ancora una volta con una ulteriore (parziale) declaratoria di incostituzionalita' dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. , con specifico riferimento alla fattispecie di cui all'art. 416 cod. pen. realizzata allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen., facendo cosi' venir meno la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere per tale reato associativo. Nel riprendere le argomentazioni delle precedenti pronunce, la Corte ha significativamente precisato che le parziali declaratorie di illegittimita' costituzionale non si possono estendere alle altre fattispecie criminose disciplinate dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., e non prese In esame specificamente dalle dichiarazioni di incostituzionalita', perche' "la lettera della norma [...], il cui significato non puo' essere valicato neppure per mezzo dell'interpretazione costituzionalmente conforme [...], non consente in via interpretativa di conseguire l'effetto che solo una pronuncia di illegittimita' costituzionale puo' produrre". Ha quindi aggiunto che anche per la fattispecie presa in esame puo' dirsi che mancano quelle connotazioni normative (forza intimidatrice del vincolo associativo e condizione di assoggettamento ed omerta') proprie dell'associazione di tipo mafioso e in grado di fornire una congrua base statistica alla presunzione assoluta di adeguatezza. Con tale decisione, la stessa Corte ha definito "particolarmente significativa" la propria sentenza n. 231 del 2011 (gia' prima illustrata), con la quale e' stata dichiarata illegittima la presunzione in argomento In riferimento ad una fattispecie associativa (art. 74 del d.P.R. n. 309/90), ed ha evidenziato che nell'occasione e' stato in particolare sottolineato che il delitto di associazione di tipo mafioso e' "normativamente connotato - di riflesso ad un dato empirico-sociologico - come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omerta', che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale e' proprio tale specificita' del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed e' suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall'altro, una diffusivita' dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua 'base statistica'alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalita' dei casi, le esigenze cautelare derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria". Ai fini dello scrutinio della questione di legittimita' costituzionale oggetto della pronuncia n. 110 del 2012, la Corte costituzionale ha quindi precisato che le argomentazioni svolte nella sentenza n. 231 del 2011 - come si e' visto, diffusamente richiamate - devono ritenersi riferibili anche al delitto di associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen. Nell'occasione, la Corte costituzionale ha altresi' significativamente evidenziato - il che appare rilevante al fini della delibazione della questione di legittimita' costituzionale in argomento - quanto segue: "deve escludersi che l'inserimento dell'associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen. tra i reati indicati dall'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. sia idoneo a offrire legittimazione costituzionale alla norma in esame: questa Corte ha infatti chiarito che la disciplina stabilita dall'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. risponde a "una logica distinta ed eccentrica rispetto a quella sottesa alla disposizione sottoposta a scrutinio", trattandosi di una norma "ispirata da ragioni di opportunita' organizzativa degli uffici del pubblico ministero, anche in relazione alla tipicita' e alla qualita' delle tecniche di indagine richieste da taluni reati, ma che non consentono inferenze in materia di esigenze cautelari, tantomeno al fine di omologare quelle relative a tutti procedimenti per i quali quella deroga e' stabilita (sentenza n. 231 del 2011)". 8. Le ragioni che, ad avviso di queste Sezioni Unite, sostengono il giudizio di non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita' in esame, si sostanziano, per una parte, negli argomenti, quali sopra ricordati, che la stessa giurisprudenza costituzionale ha nel tempo utilizzato per eliminare la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per alcuni tipi di reato (con particolare riferimento a quello associativo di cui all'art. 74 del d.P.R. n. 309/90 ed a quello di associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen., caratterizzati da un vincolo di appartenenza alla organizzazione malavitosa, dal Giudice delle leggi ritenuto di per se' solo inidoneo a giustificare la presunzione assoluta di adeguatezza della piu' afflittiva misura cautelare, in assenza delle altre connotazioni specifiche del legame che caratterizza gli appartenenti ad un'associazione di tipo mafioso); per altra parte, nel rilievo che anche i delitti aggravati al sensi dell'art. 7 del decreto legge n. 152/1991 (conv. dalla legge n. 203/1991) - avendo, o potendo avere, una struttura individualistica - potrebbero, per le loro caratteristiche, non postulare necessariamente esigenze cautelari affrontabili esclusivamente con la custodia in carcere. La circostanza aggravante in esame puo' accompagnare, invero, la commissione di qualsiasi fattispecie delittuosa; di talche', ove si volesse ricomprendere anche i reati cosi' aggravati nella locuzione "delitti di mafia", a cui si fa ripetutamente richiamo nelle decisioni della Corte costituzionale, si finirebbe con il parificare, sotto il profilo del disvalore sociale e giuridico, manifestazioni delittuose del tutto differenti, sia con riferimento alla loro portata criminale che con riferimento alla pericolosita' dell'agente: la presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo, comporterebbe, infatti, una parificazione tra chi a dette associazioni abbia aderito e chi, invece, senza appartenere ad esse, abbia inteso agevolare le attivita' delle associazioni stesse oppure approfittare della condizione di assoggettamento, dalle medesime creato, per portare piu' efficacemente a compimento il proprio proposito criminoso. Parificazione che sembrerebbe ingiustificata sulla scorta delle considerazioni svolte dalla stessa Corte costituzionale laddove la presunzione in argomento e' stata ritenuta ragionevole e giustificata, come ricordato, solo in presenza di un legame associativo, peraltro connotato da specifiche caratteristiche, quali la forza intimidatrice del vincolo associativo stesso e la condizione di' assoggettamento e di omerta' che ne deriva, che non sembrano riscontrabili in una condotta delittuosa pur aggravata ai sensi dell'art. 7 del decreto legge n. 152/1991 (conv. dalla legge n. 203/1991); comportamento ovviamente grave e indice di pericolosita' ma non necessariamente, ed in ogni caso maggiore, di chi sia partecipe di un'associazione dedita al traffico di stupefacenti, posto che, giova ripeterlo, in relazione all'aggravante ex art. 7 del decreto legge n. 152/1991 (conv. dalla legge n. 203/1991), contestata e ritenuta sussistente (sotto entrambi i profili) nei confronti dell'Ucciero, e' escluso un vincolo o legame con l'associazione. Oltre alla non manifesta infondatezza, appare ravvisabile - come in precedenza gia' accennato - anche la rilevanza della questione, posto che l'appello del P.M., avverso l'ordinanza con la quale era stata concessa all'Ucciero la detenzione domiciliare, e' stato accolto dal Tribunale del riesame (con il provvedimento oggetto del presente ricorso) proprio muovendo dal presupposto che la presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere per i delitti contestati all'Ucciero, in quanto aggravati ai sensi dell'art. 7 della legge n. 203 del 1991, deve ritenersi operante non esclusivamente in occasione dell'adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva, e riguarda quindi anche le vicende successive che attengono alla permanenza o meno delle esigenze cautelari. Giova ricordare, infine, che in merito alla circostanza aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 sono intervenute anni addietro le Sezioni Unite di questa Corte (Sent. n. 10 del 28 marzo 2001, dep. 27 aprile 2001, Cinalli, Rv. 218377) per risolvere la questione se detta aggravante, contestata per i reati fine, sia applicabile ai partecipi di un'associazione di stampo mafioso. Dopo aver precisato che essa si articola in due diverse forme, l'una a carattere oggettivo, costituita dall'impiego del metodo mafioso nella commissione dei singoli delitti, l'altra di tipo soggettivo, che si sostanzia nella volonta' specifica di favorire o facilitare l'attivita' del gruppo, le Sezioni unite hanno dato risposta positiva al quesito, escludendo che possa configurarsi un'ipotesi di concorso apparente di norme, e specificamente di reato complesso, sulla base dell'indiscussa autonomia del reato associativo rispetto al reato - fine. Hanno in particolare chiarito che il metodo mafioso di cui all'art. 416-bis cod. pen. e quello di cui alla disposizione che prevede la circostanza aggravante integrano due distinte entita': il primo connota il fenomeno associativo ed e', al pari del vincolo, un elemento che permane indipendentemente dalla commissione dei vari reati; il secondo costituisce eventuale caratteristica di un concreto episodio delittuoso, ben potendo accadere, di converso, che un associato ponga in essere una condotta penalmente rilevante, pur costituente reato fine, senza avvalersi del potere intimidatorio dei gruppo. Lo stesso ragionamento hanno poi sviluppato in riferimento alla forma soggettiva della circostanza aggravante in esame: l'associato risponde di un contributo permanente allo scopo sociale, che prescinde dalla commissione dei singoli delitti. Qualora l'associato concorra in essi e la sua condotta sia qualificata dal dolo specifico di agevolare l'attivita' dell'associazione, tale fatto psicologico si prospetta come ulteriore, e pertanto puo' essergli addebitato in funzione di aggravamento della pena. Del resto, il reato associativo richiede un effettivo apporto alla causa comune, mentre la previsione aggravatrice e' relativa alla semplice volonta' di favorire, indipendentemente dal risultato, l'attivita' del gruppo, e cioe' qualsiasi manifestazione esteriore del medesimo, che non coincide con il perseguimento dei fini sociali in cui si sostanzia il dolo specifico di cui all'art. 416-bis cod. pen. 9. Alla stregua di tutte le argomentazioni sin qui svolte, deve conclusivamente dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare le attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo del codice penale, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure; non manifesta infondatezza ravvisabile in relazione ai seguenti articoli della Costituzione: art. 3, per l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti aggravati ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 a quelli concernenti i delitti di mafia nonche' per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; art. 13, primo comma, quale referente fondamentale del regime ordinarlo delle misure cautelari privative della liberta' personale; art. 27, secondo comma, con riferimento all'attribuzione alla coercizione personale di tratti funzionali tipici della pena. A norma dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, deve dichiararsi la sospensione del procedimento e deve disporsi l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, ferma restando la misura cautelare in atto. La Cancelleria provvedera' alla notifica di copia della presente ordinanza alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alla comunicazione della stessa ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.