LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto  da  U.
V., nato  a  S.  Maria  Capua  Vetere  il  26  gennaio  1969  avverso
l'ordinanza del 16 febbraio 2012 del Tribunale di Napoli; 
    Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; 
    udita la relazione svolta dal consigliere Vincenzo Romis; 
    udito il Pubblico ministero, in  persona  dell'Avvocato  Generale
Massimo Fedeli, che ha chiesto il rigetto del ricorso; 
    udito  il  difensore,  avv.  Marco  Muscariello  in  sostituzione
dell'avv. Antonio Abet, che ha concluso per l'accoglimento dei motivi
di ricorso. 
 
                          Ritenuto di fatto 
 
    1. Il Tribunale di Napoli, con ordinanza del 16 febbraio  2012  -
depositata il  successivo  23  febbraio  -  in  funzione  di  giudice
dell'appello  cautelare,  ha  accolto  l'impugnazione  del   Pubblico
ministero nei confronti del provvedimento del 6 maggio  2010  con  il
quale il  giudice  del  medesimo  Tribunale,  all'esito  di  giudizio
celebrato con il rito abbreviato,  aveva  sostituito  con  la  misura
degli arresti domiciliari quella della custodia cautelare in carcere,
disposta  nei  confronti  di  V.  U.,  per  vari  reati  di  illecita
detenzione e  porto  in  luogo  pubblico  di  arma  comune  da  sparo
clandestina, di ricettazione e di estorsione, aggravati dall'uso  del
metodo  mafioso  e  dalla  finalita'  di  agevolazione  mafiosa.   Il
Tribunale del riesame ha rilevato  l'impossibilita'  di  sostituzione
della misura cautelare carceraria con altra meno gravosa, ritenendo a
cio' ostativo il combinato disposto degli artt. 275, comma 3, e  299,
comma 2, cod. proc. pen. , e cio' in conseguenza della  contestazione
all'Ucciero della circostanza aggravante  di  cui  all'art.  7  della
legge n. 203 del 1991. 
    Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso  per  cassazione,  per
mezzo del difensore avv.to Antonio Abet, V. U., deducendo  violazione
di legge processuale e difetto di motivazione, con argomentazioni che
possono cosi' riassumersi: la disposizione di cui all'art. 275, comma
3, cod. proc. pen., conterrebbe una presunzione soltanto relativa  di
adeguatezza della custodia cautelare in carcere, tale da poter essere
superata dall'apprezzamento discrezionale del giudice,  e  cio'  alla
luce dell'evoluzione giurisprudenziale in materia  influenzata  dalle
plurime decisioni della Corte costituzionale  che  hanno  di  recente
dichiarato la parziale illegittimita', per categorie di reato,  della
disposizione sopra indicata. 
    2. Con ordinanza del 10 maggio 2012, dep. il 4 giugno successivo,
la Sesta Sezione Penale di questa Corte, alla quale  il  ricorso  era
stato assegnato in base ai criteri tabellari, ha rimesso  il  ricorso
dell'Ucciero alle Sezioni Unite, per la risoluzione della  questione,
su cui  v'e'  contrasto  in  giurisprudenza,  se  la  presunzione  di
adeguatezza  della  custodia  cautelare  in   carcere   consenta   di
sostituire detta misura, successivamente alla sua adozione, con altre
meno afflittive, oppure permetta soltanto  di  revocarla  qualora  le
esigenze cautelari siano del tutte venute meno;  con  l'ordinanza  di
rimessione sono state indicate le  piu'  significative  decisioni  di
questa  Corte  a  sostegno  dell'uno  e   dell'altro   indirizzo,   e
sinteticamente ricordate le considerazioni addotte a sostegno dei due
contrapposti   orientamenti:   a)    nelle    decisioni    favorevoli
all'orientamento della presunzione assoluta di inadeguatezza di  ogni
altra misura diversa da  quella  della  custodia  in  carcere,  anche
successivamente all'adozione della  misura,  vengono  valorizzate  la
lettera della norma ed un argomento sistematico  ritenuto  desumibile
dall'art. 299, comma 2, cod. proc. pen.,  laddove  e'  consentita  la
sostituzione della misura con altra meno grave,  quando  le  esigenze
cautelari risultano attenuate ovvero quando la misura  applicata  non
appare piu' proporzionata all'entita' del fatto o alla  sanzione  che
si ritiene possa essere irrogata risulta inadeguata, ma con  espressa
eccezione proprio delle ipotesi contemplate dall'art. 275,  comma  3,
del  codice   di   rito:   con   conseguente   irrilevanza,   quindi,
dell'eventuale affievolimento delle esigenze cautelari, perche'  solo
il venir meno  delle  stesse  potrebbe  comportare  la  revoca  della
misura;   b)   per   l'orientamento   contrario,    l'obbligatorieta'
dell'applicazione della misura della custodia in  carcere  opererebbe
solo in occasione  dell'adozione  del  provvedimento  genetico  della
misura cautelare dovendo essere valutati il decorso del  tempo  e  la
concreta sussistenza della prosecuzione della  pericolosita'  sociale
del soggetto e, qualora questa risulti attenuata, la possibilita', da
ritenersi dunque legittima, di applicare la misura meno afflittiva. 
    Con decreto del 6 giugno 2012, il Primo Presidente  ha  assegnato
il ricorso in esame alla Sezioni Unite,  fissando  l'odierna  udienza
per la trattazione in camera di consiglio partecipata. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. Il tema di indagine e di decisione sul quale le Sezioni  Unite
sono state chiamate a pronunciarsi consiste nello stabilire:  "se  la
presunzione di adeguatezza della custodia in  carcere  ex  art.  275,
comma 3, cod. proc. pen. operi solo in  occasione  dell'adozione  del
provvedimento genetico della misura coercitiva o  riguardi  anche  le
vicende  successive  che  attengono  alla  permanenza  o  meno  delle
esigenze cautelari" (nella concreta fattispecie  nel  caso  di  reato
aggravato ai sensi dell'art. 7 della legge 12 dicembre 1991, n. 203).
Di talche', i riferimenti  normativi  di  carattere  procedurale  sui
quali bisogna focalizzare l'attenzione in questa sede sono gli  artt.
275, comma  3,  e  299,  comma  2,  cod.  proc.  pen.,  disposizione,
quest'ultima, in cui risulta espressamente richiamato lo stesso  art.
275, comma 3. 
    2. L'art. 275 cod. proc. pen. indica i  criteri  cui  il  giudice
deve attenersi per individuare  la  misura  da  ritenersi  idonea  in
relazione alla  natura  ed  al  grado  delle  esigenze  cautelari  da
soddisfare nel caso concreto; nel terzo comma dello  stesso  articolo
e' pero' stabilita una presunzione assoluta di adeguatezza della sola
misura della custodia in carcere per i delitti ivi  elencati,  "salvo
che siano acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari": dunque, per tali  delitti,  e'  obbligatoria  la
piu' afflittiva delle misure cautelari, purche'  sussistano  esigenze
cautelari, nulla rilevando la natura ed il grado delle stesse. 
    Il comma 2 dell'art. 299 cod.  proc,  pen.  e'  cosi'  formulato:
"salvo quanto previsto dall'art. 275, comma  3,  quando  le  esigenze
cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata  non  appare
piu' proporzionata all'entita' del  fatto  o  alla  sanzione  che  si
ritiene possa essere irrogata, il giudice sostituisce la  misura  con
un'altra meno grave ovvero ne dispone  l'applicazione  con  modalita'
meno gravose". 
    In relazione alle due norme citate, e' sorto nella giurisprudenza
di questa Corte un contrasto interpretativo in ordine alla  questione
se la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in  carcere,
per i reati indicati nell'art. 275, comma 3, cod. proc.  pen.,  debba
trovare   applicazione   solo   in   occasione   dell'adozione    del
provvedimento genetico della misura coercitiva o  riguardi  anche  le
vicende successive al  momento  genetico  della  misura  stessa,  con
conseguente irrilevanza dell'eventuale  attenuazione  delle  esigenze
cautelari (a meno che, ovviamente,  le  stesse  non  siano  venute  a
mancare del tutto). 
    Il quadro giurisprudenziale che si e' delineato  sulla  questione
giuridica controversa  puo'  essere  sinteticamente  illustrato  come
segue. 
    3. La tesi secondo cui la  presunzione  assoluta  di  adeguatezza
della custodia in carcere governa soltanto il momento iniziale  della
misura e' stata prospettata, nell'epoca piu' recente, da sez.  6,  n.
25167 del 18 febbraio 2010, dep. 2 luglio 2010, Gargiulo, Rv. 247595:
con detta decisione e' stato affermato  che  l'obbilgatorieta'  della
custodia in carcere non puo' aver riguardo  alle  vicende  successive
all'adozione della misura stessa, perche'  in  tali  ipotesi  occorre
valutare il  decorso  del  tempo  e  la  concreta  sussistenza  della
pericolosita' sociale, con la  conseguenza  della  doverosita'  della
verifica  circa  la  possibilita'  di   sostituzione   della   misura
originaria con altra meno afflittiva. 
    Tale sentenza ha fatto  richiamo,  per  avvalorare  la  soluzione
adottata, a due precedenti datati, e cioe'  sez.  6,  n.  54  del  13
gennaio 1995, dep. 1° marzo 1995, Corea, Rv. 200564 e sez. 1, n. 3592
del 24 maggio 1996, dep. 6 agosto  1996,  Corsanto,  Rv.  205490  che
enunciarono il seguente principio: "qualora in grado di appello venga
affermata, nei confronti di un soggetto sottoposto alla misura  degli
arresti domiciliari, la sussistenza, esclusa nel primo  giudizio,  di
uno dei reati per i quali l'art.  275,  comma  3,  c.p.p.  impone  la
custodia cautelare in carcere, ai fini della decisione  sullo  status
libertatis dell'imputato deve aversi riguardo non  gia'  al  suddetto
art. 275, poiche' non si verte in tema di prima applicazione  di  una
misura cautelare di coercizione personale, bensi' all'art. 299, comma
4, c.p.p., che prevede  la  modifica  peggiorativa  della  precedente
misura in corso quando risultino aggravate le esigenze cautelari;  ne
consegue che la pura e semplice  intervenuta  condanna  per  uno  dei
reati  predetti,  non  accompagnata  da  alcun  elemento  sintomatico
dell'emergere di  qualche  evenienza  negativamente  influente  sulle
esigenze cautelari, non puo' essere idonea  a  modificare  il  quadro
giuridico - processuale esistente al momento della concessione  degli
arresti domiciliari ed a fondare  il  ripristino  della  custodia  in
carcere". In particolare, la seconda, tra  le  due  decisioni  appena
richiamate, fondo' il proprio  convincimento  sulla  regolamentazione
specifica e autonoma del c.d.  ripristino,  contemplato  dagli  artt.
300, comma 5, e 307, comma 2, del codice di rito.  Da  tale  premessa
derivo' la conclusione che i parametri valutativi per  l'accertamento
delle esigenze cautelari di cui all'art. 274, comma 1, lett. b) e c),
cod. proc. pen., richiamate dall'art. 300, comma  5,  stesso  codice,
devono essere ricavati dalla regola generale  di  cui  all'art.  299,
comma 4, cod. proc. pen., secondo cui "il giudice, su  richiesta  del
p.m., sostituisce la misura applicata con altra piu' grave ovvero  ne
dispone l'applicazione con modalita' piu' gravose", ove "le  esigenze
cautelari risultano aggravate". 
    Da ultimo, detto  indirizzo  interpretativo  e'  stato  ribadito,
senza pero' il ricorso ad ulteriori  argomentazioni  a  sostegno,  da
sez. 6, n. 4424 del 20 ottobre 2010, dep. 4 febbraio 2011,  D'Angelo,
Rv. 249188. 
    4. In senso  contrario  si  e'  invece  orientata  la  prevalente
giurisprudenza. 
    Gia' sez. 1, n. 3274 del 7  luglio  1992,  dep.  3  agosto  1992,
Bigoni, Rv. 191558 preciso', quanto alla disposizione dell'art.  275,
comma 3, cod. proc. pen. , nella formulazione allora in  vigore,  che
"la custodia in carcere, una volta  accertata  l'esistenza  di  gravi
indizi di colpevolezza dell'indagato, non puo' essere sostituita  con
gli  arresti   domiciliari":   con   tale   decisione   fu   ritenuto
inapplicabile, in relazione ai reati indicati in detta  disposizione,
il criterio di scelta sull'idoneita' e sull'adeguatezza della misura. 
    Nello stesso senso, a poca distanza di tempo, si espresse Sez. 1,
n. 931 del 4 marzo 1993, dep. 19 maggio 1993,  Granato,  Rv.  193997,
secondo cui "allorche' si procede per  uno  dei  reati  indicati  nei
comma 3 dell'art. 275  c.p.p.,  e'  preclusa  la  sostituzione  della
custodia cautelare  in  carcere  con  altra  misura  meno  grave:  la
permanenza delle esigenze  cautelari,  ancorche'  attenuate,  purche'
continuino a sussistere i gravi indizi di colpevolezza,  comporta  il
mantenimento dell'originaria piu' grave misura coercitiva. Per  poter
far  cessare  la  custodia  cautelare   devono   venire   a   mancare
completamente le suddette esigenze, ma a  tale  ipotesi  consegue  la
revoca della misura imposta, a norma del comma 1 dell'art. 299 c.p.p.
Il quale, non prevedendo - per ovvi motivi - la riserva contenuta nel
comma 2 in ordine ai reati contemplati nel comma 3  del  citato  art.
275, stabilisce  che  le  misure  coercitive  (e  interdittive)  sono
immediatamente revocate quando risultano «mancanti», anche per  fatti
sopravvenuti, le condizioni di applicabilita' previste dall'art.  273
c.p.p. o dalle disposizioni relative alle singole misure,  ovvero  le
esigenze cautelari previste dall'art. 274 stesso codice". 
    Ancora, il principio di diritto, cosi' enunciato, fu ribadito  da
sez. 5, n. 1753 del 12 maggio 1993, dep. 2  luglio  1993,  Giugliano,
Rv. 195408, con specifico riferimento al reato di  cui  all'art.  416
bis cod. pen. , trattandosi  di  "uno  dei  reati  per  i  quali,  in
presenza di gravi indizi di colpevolezza, l'unica misura  applicabile
e' la custodia in carcere, salvo che  siano  acquisiti  elementi  dai
quali risulti che non sussistono esigenze  cautelari".  Nel  medesimo
senso, a distanza di anni, sez. 3, n. 2711 del 3 agosto 1999, dep. 21
aprile 2000, Valenza, Rv. 216566-7 ribadi'  che  "la  presunzione  di
adeguatezza  esclusiva  della  custodia  cautelare  in  carcere   nei
confronti di  soggetti  gravemente  indiziati  di  taluno  dei  reati
previsti dall'art. 275, comma 3, c.p.p, opera in tutte  le  fasi  del
procedimento penale, e non solo in occasione dell'applicazione  della
misura cautelare". E cosi' ancora: sez. 5,  n.  24924  del  7  maggio
2004, dep. 1° giugno 2004, Santaniello, Rv. 229877; sez. 6,  n.  9249
del 26 gennaio 2005, dep.  9  marzo  2005,  Miceti  Corchettino,  Rv.
230938. 
    Questo indirizzo interpretativo si  e'  ulteriormente  rafforzato
con Sez, 6, n. 20447 del  26  gennaio  2005,  dep.  31  maggio  2005,
Marino, Rv. 231451, che ha dichiarato la manifesta infondatezza della
questione di costituzionalita' dell'art. 299,  comma  2,  cod.  proc.
pen., nella parte in cui prevede che, nell'ipotesi  di  cui  all'art.
275, comma 3, cod. proc. pen., il giudice  non  possa  sostituire  la
misura cautelare adottata con altra meno grave,  quando  le  esigenze
risultino attenuate: e' stato affermato, sul punto, che  dette  norme
non costituiscono ne' irragionevole esercizio della  discrezionalita'
legislativa, ne' violazione del principio di uguaglianza, e  cio'  in
ragione dell'elevato e specifico coefficiente di pericolosita' per la
convivenza  e  la  sicurezza  collettiva  inerente   ai   reati   ivi
considerati. Con tale decisione e'  stato  ulteriormente  specificato
come,  risultando  rispettata  la  riserva  di   legge,   non   possa
apprezzarsi nemmeno la violazione dell'art. 13,  primo  comma,  della
Costituzione; con l'ulteriore precisazione che l'art.  27,  comma  2,
della Costituzione, non e' applicabile alle misure coercitive di tipo
personale adottate per finalita' cautelari.  Nello  stesso  senso  si
sono ancora espresse: sez. 2, n. 16615 del 13  marzo  2008,  dep.  22
aprile 2008, Vitagliano ed altro, non massimata sul punto; sez. 5, n.
27146 dell'8 giugno 2010, dep. 13 luglio  2010,  Femia,  Rv.  248034;
sez. 6, n. 32222 del 9 luglio 2010, dep. 23 agosto 2010,  Galdi,  Rv.
247596; sez. 5, n. 34003 del 18 maggio 2010, dep. 21 settembre  2010,
Di Simone, Rv. 248410; sez. 2, n. 11749 del 16 febbraio 2011, dep. 24
marzo 2011, Armens,  Rv.  249686,  secondo  cui  "non  avrebbe  senso
imporre l'adozione della custodia cautelare in carcere se  poi  fosse
possibile sostituirla con misura meno afflittiva". 
    Da ultimo sez. 5, n. 35190 del 22 giugno 2011, dep. 28  settembre
2011,  Ciminello,  Rv.  251201,  ha   ribadito   che   l'orientamento
prevalente, ritenuto nell'occasione condivisibile,  si  fonda  su  un
argomento sistematico, costituito dal rilievo che l'art.  299,  comma
2, cod. proc. pen. , consente la sostituzione della misura,  in  caso
di attenuazione delle esigenze cautelari o della sopravvenuta assenza
di proporzione  all'entita'  del  fatto  o  alla  sanzione,  "ma  con
espressa eccezione proprio delle ipotesi  contemplate  dall'art.  275
comma 3", 
    5. La questione oggetto del contrasto cosi'  delineatosi  non  e'
mai stata tematicamente affrontata dalle Sezioni Unite.  Mette  conto
pero' sottolineare che di recente le Sezioni Unite, con  la  sentenza
n. 27919 del 31 marzo  2011,  dep.  14  luglio  2011,  Ambrogio,  Rv.
250195-6,   nel   ragionare   sulla   portata    applicativa    delle
interpolazioni dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen.,  hanno  avuto
modo di precisare, come sopra ricordato nella parte narrativa, quanto
segue: "anche nel momento della sostituzione della  misura  cautelare
giocano le  presunzioni  alle  quali  si  e'  gia'  fatto  cenno  nel
considerare il momento genetico della misura cautelare:  una  diversa
soluzione,  evidentemente,  renderebbe  del  tutto   irrazionale   il
sistema. Tuttavia, in tale fase non possono operare presunzioni prima
inesistenti".   Le   Sezioni   unite   hanno,   dunque,    avvalorato
l'orientamento affermatosi come prevalente  nella  giurisprudenza  di
legittimita' che, come si e' visto, ha origini ormai datate. 
    6. Cosi' descritto il quadro giurisprudenziale, ritengono  queste
Sezioni  Unite   di   dover   confermare   l'opzione   interpretativa
privilegiata dalla  prevalente  giurisprudenza  e  gia'  recentemente
avallata dalle Sezioni Unite con la citata sentenza Ambrogio. 
    A tanto inducono  -  e fermo restando quanto gia' argomentato con
le sentenze che hanno dato vita all'orientamento maggioritario e  con
la stessa sentenza delle Sezioni Unite,  Ambrogio  -  le  ragioni  di
ordine letterale, sistematico e logico di seguito indicate. 
    Una corretta operazione ermeneutica, finalizzata  ad  individuare
la ratio sottesa alla norma da  interpretate,  deve  muovere  innanzi
tutto dal dato letterale. Orbene, la formulazione delle  disposizioni
che rilevano ai fini della soluzione della questione  "de  qua",  non
sembra possa dare adito a particolari difficolta' interpretative,  in
considerazione della sua sufficiente chiarezza; ed e'  noto  che,  in
presenza di un dato testuale  sufficientemente  chiaro,  l'interprete
deve attenersi a tale dato, il cui significato va  ricostruito  senza
sovrapposizione di  opzioni  per  le  valutazioni  politico-criminali
discendenti dalla stessa lettera normativa. 
    Cio' premesso, e' agevole argomentare, da una lettura complessiva
del  testo  normativo,  che  il  legislatore  ha  inteso  per   certo
attribuire alla presunzione assoluta di cui all'art.  275,  comma  3,
del codice di rito, il carattere di eccezionalita' com'e' reso palese
dall'elencazione specifica dei reati cui ha voluto ricollegare  detta
presunzione  e  dall'espressione  "salvo  che  non  siano   acquisiti
elementi dai quali risulti che non  sussistono  esigenze  cautelari".
Dunque, in deroga alla regola generale enunciata nel  comma  1  dello
stesso articolo - secondo cui il giudice,  nel  disporre  le  misure,
"tiene conto della specifica idoneita' di ciascuna in relazione  alla
natura e al grado delle esigenze cautelari" - ed in  deroga  altresi'
al principio della custodia in carcere quale extrema  ratio,  fissato
nell'incipit  dello  stesso  comma  3  della  norma  in   esame,   il
legislatore  ha  ritenuto,  per  determinati  reati,   specificamente
indicati, di dover stabilire una presunzione  assoluta  di  idoneita'
della  piu'  afflittiva  delle  misure.  Da   tanto,   consegue   che
l'interpretazione della disposizione non puo' che essere quella  piu'
rigorosa consentita dall'enunciato  letterale,  in  stretta  aderenza
alla ratio normativa, chiaramente ravvisabile,  nel  caso  in  esame,
nella necessita' di ricercare un giusto contemperamento delle opposte
esigenze del diritto alla liberta' dell'indagato (o imputato) e della
tutela   della   collettivita'   (come   evidenziato   dalla    Corte
costituzionale con l'ordinanza n. 450 del 1995). 
    Cosi' individuata la ratio della  norma,  deve  ritenersi,  quale
logica conseguenza, che detta presunzione debba operare non solo  nel
momento genetico della misura, ma per tutte le vicende successive, in
presenza di esigenze cautelari. Conclusione, questa, che risulta, poi
viepiu' rafforzata,  come  detto,  da  ragioni  di  ordine  logico  e
sistematico. Sotto il primo aspetto, e' sufficiente osservare che non
risponderebbe a criteri di logica - avuto riguardo alla  ratio  della
disposizione quale individuata gia' sulla scorta del dato letterale -
imporre,  per  delitti  ritenuti  dal  legislatore   di   particolare
gravita', l'adozione della custodia cautelare in carcere se poi fosse
possibile  sostituirla  con  misura  meno  afflittiva   (cosi'   come
evidenziato da sez. 2, n. 11749 del 16 febbraio 2011, dep.  24  marzo
2011, Armens, Rv.  249686,  sopra  ricordata).  Dal  punto  di  vista
sistematico, mette conto sottolineare che: a) nel primo  periodo  del
comma 3 dell'ad. 275 cod. proc. pen., con riferimento  alla  custodia
in carcere quale misura  da  adottare  solo  ove  ogni  altra  misura
risulti inadeguata, e'  stata  usata  la  formulazione  "puo'  essere
disposta",  mentre  con  riferimento  alla  presunzione  assoluta  di
adeguatezza della sola custodia in carcere il  legislatore  ha  fatto
ricorso alla diversa formulazione "e' applicata": orbene, non  sembra
che tale diversa terminologia sia senza  significato,  posto  che  il
termine "disposta" consente  di  individuare  certamente  proprio  il
momento genetico, a differenza della parola "applicata" che, infatti,
risulta poi usata anche nell'art. 299 cod, proc. pen.  dedicato  alla
"revoca e sostituzione delle misure"; b)  nell'art.  299  cod.  proc.
pen., che, come appena ricordato, pur contiene  le  disposizioni  che
disciplinano la  revoca  e  la  sostituzione  delle  misure,  vi  e',
nell'incipit del comma 2, il richiamo alla presunzione di adeguatezza
dl cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen.  quale  eccezione  alla
possibilita' di sostituzione  della  misura  in  corso  nel  caso  di
attenuazione  delle  esigenze  cautelari  ovvero  quando  la   misura
applicata non appare piu' proporzionata all'entita' del fatto o  alla
sanzione che si ritiene possa essere irrogata: risulta dunque  chiara
l'intenzione  del  legislatore,  avuto  riguardo  alla   collocazione
dell'eccezione ed alla  formulazione  della  norma,  di  aver  voluto
rendere operativa la presunzione di adeguatezza  della  misura  della
custodia in carcere, prevista dal comma 3 dell'art.  275  cod.  proc.
pen. , per i reati ivi elencati, per l'intera  durata  della  vicenda
cautelare e non per il solo momento  iniziale  in  cui  detta  misura
viene disposta. 
    Ne' tale opzione ermeneutica  risulta  efficacemente  contrastata
dall'argomento   che,   in   alcune   delle   sentenze    espressione
dell'indirizzo minoritario, si e' ritenuto di poter  individuare  nel
comma 4 dell'art. 299 cod. proc. pen., laddove e' previsto che, fermo
restando  quanto  e'  stabilito  nell'art.  276   cod.   proc.   pen.
(provvedimenti in caso di trasgressione alle  prescrizione  imposte),
"quando le esigenze cautelari risultano  aggravate,  il  giudice,  su
richiesta del pubblico ministero, sostituisce la misura applicata con
un'altra piu' grave ovvero ne dispone  l'applicazione  con  modalita'
piu' gravose". Ed invero, nell'art. 299 cod. proc. pen., accanto alla
revoca della misura (comma 1),  e'  prevista  anche  la  sostituzione
della misura: in senso meno  afflittivo,  nei  caso  di  attenuazione
delle esigenze cautelari (comma 2) o  in  senso  piu'  severo,  e  su
richiesta del pubblico ministero,  nel  caso  di  aggravamento  delle
esigenze stesse (comma 4). Le disposizioni di cui  ai  commi  2  e  4
dell'art. 299 cod. proc. pen.  sono  dunque  simmetriche,  e  non  si
rilevano nella formulazione del quarto comma  elementi  persuasivi  a
favore dell'orientamento interpretativo minoritario. 
    La sostituzione di una misura con altra meno afflittiva, nel caso
di attenuazione delle esigenze cautelari, cosi' come  prevede  l'art.
299, comma 2, cod. proc. pen., e'  chiara  espressione  della  regola
generale che comporta una continua verifica, da  parte  del  giudice,
circa  ll  permanere  delle  condizioni  che  hanno  determinato   la
limitazione della liberta' personale e la scelta di  una  determinata
misura cautelare. Orbene, a tale regola - che governa  l'aspetto  per
cosi'  dire  dinamico  della  vicenda  cautelare,  disciplinato   nel
contesto normativo dell'art. 299 cod. proc. pen. - il legislatore  ha
inteso  porre  un'eccezione,  attenuando  la   discrezionalita'   del
giudice, con l'introduzione di criteri legali di valutazione, e cosi'
ponendo una presunzione assoluta di adeguatezza  della  misura  della
custodia in carcere per  determinati  reati  in  quanto  ritenuti  di
particolare pericolosita' sociale:  presunzione  che  deve  ritenersi
operante  non  solo  in  occasione  dell'adozione  dei  provvedimento
genetico della misura coercitiva (art. 275, comma 3, cod. proc.  pen.
) ma, necessariamente, anche per il prosieguo della vicenda cautelare
proprio perche' espressamente richiamata nel comma  2  dell'art.  299
cod. proc. pen. ("salvo quanto previsto dall'art. 275 comma 3"). 
    Va pertanto enunciato il seguente principio: "La  presunzione  di
adeguatezza della custodia in carcere ex  art.  275,  comma  3,  cod,
proc.  pen.  opera  non   solo   in   occasione   dell'adozione   del
provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle vicende
successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari". 
    7. Risolto il quesito sottoposto  al  vaglio  di  queste  Sezioni
Unite,  si  ravvisa  la  necessita'  di  valutare  la  eventuale  non
manifesta infondatezza della questione di costituzionalita' dell'art.
275, comma 3, cod. proc. pen., quanto alla  presunzione  assoluta  di
adeguatezza della misura della custodia in carcere, in  relazione  ai
delitti aggravati dalla circostanza ex art. 7 del  decreto  legge  n.
152/1991 (conv. dalla legge n. 203 del 1991) contestata  all'U.  :  e
cio',   avuto   riguardo    all'evoluzione    della    giurisprudenza
costituzionale in relazione alla portata  della  presunzione  di  cui
all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. , essendo intervenute  plurime
pronunce di declaratoria  di  parziale  incostituzionalita'  di  tale
norma; questione rilevante, in relazione alla  concreta  fattispecie,
in considerazione del  fatto  che  a  carico  dell'Ucciero  e'  stata
ritenuta sussistente l'aggravante de qua - sotto entrambi  i  profili
ricollegati all'aggravante stessa (delitti commessi avvalendosi delle
condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al
fine di  agevolare  l'attivita'  delle  associazioni  previste  dallo
stesso articolo) - e tenuto conto  dell'espresso  richiamo  dell'art.
299, comma 2, cod. proc, pen. , a tale  presunzione,  di  cui  si  e'
prima detto. 
    Orbene,  ritiene  il  Collegio  che  trattasi  di  questione  non
manifestamente infondata. 
    La Corte Costituzionale, con l'ordinanza n. 450 del 1995  statui'
la compatibilita' della  presunzione  in  argomento  con  i  principi
costituzionali, rilevando che  la  scelta  del  tipo  di  misura  non
implica necessariamente l'attribuzione al giudice  di  un  potere  di
apprezzamento in concreto, perche' ben puo'  essere  oggetto  di  una
valutazione in termini generali del legislatore, "nel rispetto  della
ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento  dei  valori
costituzionali coinvolti". Osservo' il giudice delle leggi che ricade
nell'ambito della discrezionalita' legislativa  l'individuazione  del
punto di equilibrio tra diverse esigenze, e in particolare tra quella
della minore possibile restrizione della liberta' personale e  quella
della tutela degli interessi costituzionali presidiati attraverso  la
previsione degli strumenti cautelari. Muovendo da tali  premesse,  si
ritenne che la predeterminazione  in  linea  generale  dell'area  dei
delitti  di   criminalita'   organizzata   di   tipo   mafioso,   per
l'operativita'  della  presunzione  di  adeguatezza  della   custodia
cautelare carceraria,  rendesse  manifesta  la  non  irragionevolezza
dell'esercizio  della   discrezionalita'   legislativa,   atteso   il
coefficiente  di  pericolosita'  per  le  condizioni  di  base  della
convivenza e della sicurezza collettiva che  agli  illeciti  di  quel
genere e' connaturato: non puo', infatti,  dirsi  che  sia  soluzione
costituzionalmente  obbligata  l'affidamento  sempre  e  comunque  al
giudice della fissazione del punto di  equilibrio  e  contemperamento
tra il sacrificio della liberta' personale e  gli  opposti  interessi
collettivi, anch'essi di rilievo costituzionale. 
    Anni dopo, ma riprendendo giurisprudenza  consolidata,  la  Corte
Costituzionale, con la sentenza n. 139 del 2010, ha ricordato che  le
"presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale
della  persona,  violano  il  principio  di  eguaglianza,   se   sono
arbitrarie  e  irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono  a  dati   di
esperienza  generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod
plerumque accidit. E cio' ha fatto in occasione  dello  scrutinio  di
costituzionalita' dell'art. 76, comma 4-bis,  del  d.P.R.  30  maggio
2002,  n.  115  (Testo  unico  delle   disposizioni   legislative   e
regolamentari in  materia  di  spese  di  giustizia),  del  quale  ha
decretato l'illegittimita' nella parte in cui, stabilendo che  per  i
soggetti gia' condannati con sentenza definitiva per i reati indicati
nella stessa norma il reddito si ritiene superiore al limiti previsti
per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato,  non  ammette  la
prova contraria. 
    Con una pluralita' di interventi, la Corte costituzionale ha  poi
recentemente ridisegnato  i  confini  delle  presunzioni  in  materia
cautelare, il cui ambito applicativo era stato ampliato, ben oltre il
settore della criminalita' mafiosa, dall'intervento  normativo  sulla
sicurezza pubblica, vale a dire il decreto  legge  n.  11  del  2009,
convertito, con modifiche, con legge n. 38 del 2009. 
    Con  la  sentenza  n.  265  del  2010  e'  stata  dichiarata   la
illegittimita' dell'art. 275, terzo comma, cod. proc.  pen.,  per  la
parte in cui ha esteso la presunzione di adeguatezza  della  custodia
carceraria,   senza   possibilita'   di   apprezzare   in    concreto
l'adeguatezza di altra e meno afflittiva misura, nei procedimenti per
i reati di cui all'art. 609-bis, comma primo,  609-bis  e  609-quater
cod. pen. Dopo aver ricordato che nel criterio di  adeguatezza  trova
espressione  il  principio  dei   "minore   sacrificio   necessario",
architrave del sistema cautelare personale, e  che  il  ricorso  alla
custodia carceraria deve essere residuale - eccezionale,  di  extrema
ratio - la Corte ha chiarito come tratto  saliente  del  sistema  sia
l'assenza di automatismi e presunzioni. 
    La deroga, costituita  dalle  presunzioni  di  sussistenza  delle
esigenze cautelari e di adeguatezza della  misura  carceraria  per  i
delitti di mafia in senso stretto, ha superato il vaglio della  Corte
costituzionale e  della  Corte  Europea  dei  Diritti  Umani,  avendo
entrambe le Corti valorizzato le peculiarita' di tali delitti, la cui
connotazione strutturale astratta, come reati  associativi  e  dunque
permanenti, rende ragionevoli le presunzioni, e specificamente quella
di   adeguatezza   della   custodia   carceraria,   misura   ritenuta
maggiormente idonea per soddisfare l'esigenza di neutralizzazione del
periculum libertatis "connesso al verosimile protrarsi  dei  contatti
tra imputato e associazione". La Corte Europea aveva avuto gia'  modo
di pronunciarsi  esplicitamente  in  tal  senso,  osservando  che  la
disciplina derogatoria in esame  appariva  giustificabile  alla  luce
«della natura specifica del fenomeno della criminalita' organizzata e
soprattutto  di  quella  di  stampo  mafioso»,  e   segnatamente   in
considerazione  del  fatto  che  la  carcerazione  provvisoria  delle
persone accusate dei delitto in questione «tende a tagliare i  legami
esistenti tra le persone interessate e il loro  ambito  criminale  di
origine, al  fine di  minimizzare  il  rischio  che  esse  mantengano
contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali  e
possano commettere nel frattempo delitti» (sentenza 6 novembre  2003,
Pantano contro Italia).  La  Corte  Costituzionale,  appunto  con  la
decisione  n.  265  del  2010,  ha  quindi  tratto   la   conclusione
dell'impossibilita' di estendere una ratio  siffatta,  calibrata  sui
delitti di mafia in senso stretto, ad ambiti criminosi  per  i  quali
vale una  regola  di  esperienza  diversa,  ossia  che  essi  possono
proporre esigenze cautelari suscettibili di  essere  soddisfatte  con
misure alternative alla custodia in carcere.  Si  tratta  di  delitti
che, per quanto odiosi, sono spesso meramente individuali e  tali  da
non  postulare  esigenze  affrontabili  rigidamente  con  la  massima
misura. 
    Con argomentazioni del tutto simili, il Giudice delle leggi,  con
la sentenza  n.  164  del  2011,  ha  successivamente  dichiarato  la
incostituzionalita' dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen.  ,  nella
parte in cui non consente di  apprezzare,  nei  procedimenti  per  il
delitto di omicidio volontario, l'esistenza di elementi specifici dai
quali in concreto risulti che le esigenze  cautelari  possano  essere
soddisfatte con  misure  meno  gravose  della  custodia  in  carcere.
Nonostante la gravita' del reato - ha osservato la Corte - il delitto
di omicidio non implica e non presuppone necessariamente  un  vincolo
di appartenenza permanente a un sodalizio  criminoso  con  accentuate
caratteristiche di pericolosita', perche' puo' essere, e sovente  e',
un fatto meramente individuale. Anche in tale  circostanza  e'  stato
ricordato  che  entrambe  le  Corti  -  e  cioe'  la   stessa   Corte
costituzionale e la Corte Europea dei  Diritti  umani  -  avevano  in
vario modo valorizzato la specificita' dei delitti di mafia. 
    Sulla scia di questa giurisprudenza e' poi intervenuta ancora  la
Corte costituzionale con sentenza n. 231 del 2011  con  la  quale  e'
stata dichiarata la illegittimita' dell'art. 275, comma 3, del codice
di rito, nella parte concernente il riferimento ai  procedimenti  per
il delitto di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990. Anche per  tale
delitto la presunzione assoluta di adeguatezza  della  sola  custodia
carceraria  e'  stata  considerata  non  rispondente  a  un  dato  di
esperienza generalizzato, ricollegabile alla struttura stessa e  alle
connotazioni criminologiche  della  figura  criminosa,  pur  se  essa
presuppone  uno  stabile  vincolo  di  appartenenza  a  un  sodalizio
criminoso. Con tale sentenza e' stato precisato  che  il  delitto  di
associazione finalizzata  al  traffico  di  sostanze  stupefacenti  o
psicotrope si concretizza  in  una  forma  speciale  del  delitto  di
associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura  dei
reati-fine, che non  postula  necessariamente  la  creazione  di  una
struttura complessa e gerarchicamente ordinata,  essendo  sufficiente
una  qualunque  organizzazione,  anche  rudimentale,   di   attivita'
personali e di mezzi economici, benche' semplici ed elementari. Detta
figura criminosa, ha osservato ancora  la  Corte  Costituzionale,  si
presta, pertanto, a qualificare  penalmente  fatti  e  situazioni  in
concreto i piu' diversi ed  eterogenei,  si'  che  non  e'  possibile
enucleare una regola di esperienza, ricollegabile  ragionevolmente  a
tutte le connotazioni criminologiche del  fenomeno,  secondo  cui  la
custodia carceraria sarebbe l'unico strumento idoneo  a  fronteggiare
le esigenze cautelari. 
    Mette conto sottolineare  che  il  Giudice  delle  leggi  con  la
sentenza n. 331 del 2010 ha fatto venir meno la presunzione  assoluta
di adeguatezza della custodia  carceraria  anche  in  riferimento  ai
delitti di  favoreggiamento  dell'immigrazione  clandestina,  di  cui
all'art. 12, comma 3, d. lgs. n. 286 del 1998. 
    Infine, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 110 del 2012,
e'  intervenuta  ancora  una  volta  con  una  ulteriore   (parziale)
declaratoria di incostituzionalita'  dell'art.  275,  comma  3,  cod.
proc. pen. ,  con  specifico  riferimento  alla  fattispecie  di  cui
all'art. 416 cod. pen. realizzata allo scopo di commettere i  delitti
previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen., facendo cosi' venir meno la
presunzione assoluta di adeguatezza della  custodia  in  carcere  per
tale reato associativo. 
    Nel riprendere le argomentazioni delle  precedenti  pronunce,  la
Corte ha significativamente precisato che le parziali declaratorie di
illegittimita' costituzionale non si  possono  estendere  alle  altre
fattispecie criminose disciplinate dall'art. 275, comma 3, cod. proc.
pen., e non prese In  esame  specificamente  dalle  dichiarazioni  di
incostituzionalita', perche' "la lettera della norma  [...],  il  cui
significato   non   puo'   essere   valicato   neppure   per    mezzo
dell'interpretazione costituzionalmente conforme [...], non  consente
in via interpretativa di conseguire l'effetto che solo una  pronuncia
di illegittimita' costituzionale puo' produrre". Ha  quindi  aggiunto
che anche per la fattispecie presa in esame puo'  dirsi  che  mancano
quelle  connotazioni  normative  (forza  intimidatrice  del   vincolo
associativo e  condizione  di  assoggettamento  ed  omerta')  proprie
dell'associazione di tipo mafioso e in grado di fornire  una  congrua
base statistica alla presunzione assoluta di  adeguatezza.  Con  tale
decisione,   la   stessa   Corte   ha    definito    "particolarmente
significativa" la propria  sentenza  n.  231  del  2011  (gia'  prima
illustrata),  con  la  quale  e'  stata  dichiarata  illegittima   la
presunzione  in  argomento  In   riferimento   ad   una   fattispecie
associativa (art. 74 del d.P.R. n. 309/90),  ed  ha  evidenziato  che
nell'occasione e' stato in particolare sottolineato che il delitto di
associazione di  tipo  mafioso  e'  "normativamente  connotato  -  di
riflesso ad un dato empirico-sociologico -  come  quello  in  cui  il
vincolo associativo esprime una forza di intimidazione  e  condizioni
di  assoggettamento  e  di  omerta',  che  da  quella  derivano,  per
conseguire determinati fini illeciti.  Caratteristica  essenziale  e'
proprio tale specificita'  del  vincolo,  che,  sul  piano  concreto,
implica ed e' suscettibile di produrre, da  un  lato,  una  solida  e
permanente adesione tra  gli  associati,  una  rigida  organizzazione
gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e,
dall'altro, una diffusivita' dei  risultati  illeciti,  a  sua  volta
produttiva di accrescimento della forza intimidatrice  del  sodalizio
criminoso. Sono tali peculiari connotazioni  a  fornire  una  congrua
'base statistica'alla presunzione considerata,  rendendo  ragionevole
la convinzione che, nella generalita' dei casi, le esigenze cautelare
derivanti dal delitto in questione non possano  venire  adeguatamente
fronteggiate se non con la misura carceraria". 
    Ai  fini  dello  scrutinio  della   questione   di   legittimita'
costituzionale oggetto della pronuncia n.  110  del  2012,  la  Corte
costituzionale ha quindi precisato che le argomentazioni svolte nella
sentenza n. 231 del 2011 - come si e' visto, diffusamente  richiamate
- devono ritenersi riferibili anche al delitto  di  associazione  per
delinquere realizzata allo scopo di commettere i reati  di  cui  agli
artt. 473 e 474 cod. pen. Nell'occasione, la Corte costituzionale  ha
altresi' significativamente evidenziato - il che appare rilevante  al
fini della delibazione della questione di legittimita' costituzionale
in argomento -  quanto  segue:  "deve  escludersi  che  l'inserimento
dell'associazione per delinquere realizzata allo scopo di  commettere
i reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen. tra  i  reati  indicati
dall'art. 51, comma 3-bis, cod.  proc.  pen.  sia  idoneo  a  offrire
legittimazione costituzionale alla norma in esame:  questa  Corte  ha
infatti chiarito che la  disciplina  stabilita  dall'art.  51,  comma
3-bis, cod. proc. pen. risponde a "una logica distinta ed  eccentrica
rispetto a quella sottesa alla disposizione sottoposta a  scrutinio",
trattandosi  di  una  norma  "ispirata  da  ragioni  di  opportunita'
organizzativa degli uffici del pubblico ministero, anche in relazione
alla tipicita' e alla qualita' delle tecniche di  indagine  richieste
da taluni reati, ma  che  non  consentono  inferenze  in  materia  di
esigenze cautelari, tantomeno al fine di omologare quelle relative  a
tutti procedimenti per i quali quella deroga e'  stabilita  (sentenza
n. 231 del 2011)". 
    8. Le ragioni che, ad avviso di queste Sezioni Unite,  sostengono
il  giudizio  di  non  manifesta  infondatezza  della  questione   di
costituzionalita' in esame, si  sostanziano,  per  una  parte,  negli
argomenti,  quali  sopra  ricordati,  che  la  stessa  giurisprudenza
costituzionale ha nel tempo utilizzato per eliminare  la  presunzione
assoluta di adeguatezza  della  custodia  cautelare  in  carcere  per
alcuni  tipi  di  reato  (con  particolare   riferimento   a   quello
associativo di cui all'art. 74 del d.P.R. n. 309/90 ed  a  quello  di
associazione per delinquere realizzata allo  scopo  di  commettere  i
reati di cui agli artt. 473 e 474 cod.  pen.,  caratterizzati  da  un
vincolo di appartenenza alla organizzazione malavitosa,  dal  Giudice
delle leggi ritenuto di per  se'  solo  inidoneo  a  giustificare  la
presunzione assoluta di  adeguatezza  della  piu'  afflittiva  misura
cautelare, in assenza delle altre connotazioni specifiche del  legame
che  caratterizza  gli  appartenenti  ad  un'associazione   di   tipo
mafioso); per altra parte, nel rilievo che anche i delitti  aggravati
al sensi dell'art. 7 del decreto legge n. 152/1991 (conv. dalla legge
n.   203/1991)   -   avendo,   o   potendo   avere,   una   struttura
individualistica -  potrebbero,  per  le  loro  caratteristiche,  non
postulare    necessariamente    esigenze    cautelari    affrontabili
esclusivamente con la custodia in carcere. La circostanza  aggravante
in esame puo'  accompagnare,  invero,  la  commissione  di  qualsiasi
fattispecie delittuosa; di  talche',  ove  si  volesse  ricomprendere
anche i reati cosi' aggravati nella locuzione "delitti di  mafia",  a
cui  si  fa  ripetutamente  richiamo  nelle  decisioni  della   Corte
costituzionale, si finirebbe con il parificare, sotto il profilo  del
disvalore sociale e giuridico, manifestazioni  delittuose  del  tutto
differenti, sia con riferimento alla loro portata criminale  che  con
riferimento  alla  pericolosita'  dell'agente:  la   presunzione   di
adeguatezza della  misura  della  custodia  in  carcere  per  delitti
commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo  416-bis
del codice penale ovvero  al  fine  di  agevolare  l'attivita'  delle
associazioni previste dallo stesso articolo, comporterebbe,  infatti,
una parificazione tra chi a dette associazioni abbia aderito  e  chi,
invece,  senza  appartenere  ad  esse,  abbia  inteso  agevolare   le
attivita'  delle  associazioni  stesse  oppure   approfittare   della
condizione di assoggettamento, dalle  medesime  creato,  per  portare
piu' efficacemente a compimento il proprio proposito criminoso. 
    Parificazione che sembrerebbe ingiustificata sulla  scorta  delle
considerazioni svolte dalla stessa Corte  costituzionale  laddove  la
presunzione  in   argomento   e'   stata   ritenuta   ragionevole   e
giustificata,  come  ricordato,  solo  in  presenza  di   un   legame
associativo, peraltro connotato da specifiche caratteristiche,  quali
la forza intimidatrice del vincolo associativo stesso e la condizione
di' assoggettamento e di omerta' che  ne  deriva,  che  non  sembrano
riscontrabili in una  condotta  delittuosa  pur  aggravata  ai  sensi
dell'art. 7 del decreto legge  n.  152/1991  (conv.  dalla  legge  n.
203/1991); comportamento ovviamente grave e indice  di  pericolosita'
ma non  necessariamente,  ed  in  ogni  caso  maggiore,  di  chi  sia
partecipe di un'associazione  dedita  al  traffico  di  stupefacenti,
posto che, giova ripeterlo, in relazione all'aggravante ex art. 7 del
decreto legge n. 152/1991 (conv. dalla legge n. 203/1991), contestata
e ritenuta sussistente  (sotto  entrambi  i  profili)  nei  confronti
dell'Ucciero, e' escluso un vincolo o legame con l'associazione. 
    Oltre alla non manifesta infondatezza, appare ravvisabile -  come
in precedenza gia' accennato - anche la  rilevanza  della  questione,
posto che l'appello del P.M., avverso l'ordinanza con  la  quale  era
stata  concessa  all'Ucciero  la  detenzione  domiciliare,  e'  stato
accolto dal Tribunale del riesame (con il provvedimento  oggetto  del
presente ricorso) proprio muovendo dal presupposto che la presunzione
di adeguatezza della misura della custodia in carcere per  i  delitti
contestati all'Ucciero, in quanto  aggravati  ai  sensi  dell'art.  7
della  legge  n.  203  del  1991,   deve   ritenersi   operante   non
esclusivamente in occasione dell'adozione del provvedimento  genetico
della  misura  coercitiva,  e  riguarda  quindi  anche   le   vicende
successive che  attengono  alla  permanenza  o  meno  delle  esigenze
cautelari. 
    Giova  ricordare,  infine,  che  in   merito   alla   circostanza
aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del  1991  sono  intervenute
anni addietro le Sezioni Unite di questa Corte (Sent. n.  10  del  28
marzo 2001, dep. 27 aprile 2001, Cinalli, Rv. 218377)  per  risolvere
la questione se detta aggravante, contestata per i  reati  fine,  sia
applicabile ai partecipi di un'associazione di stampo  mafioso.  Dopo
aver precisato che essa si articola in due  diverse  forme,  l'una  a
carattere oggettivo, costituita dall'impiego del metodo mafioso nella
commissione dei singoli delitti, l'altra di tipo soggettivo,  che  si
sostanzia  nella  volonta'  specifica  di   favorire   o   facilitare
l'attivita' del gruppo, le Sezioni unite hanno dato risposta positiva
al quesito, escludendo che possa configurarsi un'ipotesi di  concorso
apparente di norme, e specificamente di reato complesso,  sulla  base
dell'indiscussa autonomia del reato associativo rispetto al  reato  -
fine. Hanno in particolare chiarito che  il  metodo  mafioso  di  cui
all'art. 416-bis cod. pen. e quello  di  cui  alla  disposizione  che
prevede la circostanza aggravante integrano due distinte entita':  il
primo connota il fenomeno associativo ed e', al pari del vincolo,  un
elemento che permane indipendentemente  dalla  commissione  dei  vari
reati; il secondo costituisce eventuale caratteristica di un concreto
episodio delittuoso,  ben  potendo  accadere,  di  converso,  che  un
associato ponga in essere  una  condotta  penalmente  rilevante,  pur
costituente reato fine, senza avvalersi del potere intimidatorio  dei
gruppo. Lo stesso ragionamento hanno poi  sviluppato  in  riferimento
alla  forma  soggettiva  della  circostanza  aggravante   in   esame:
l'associato risponde di un contributo permanente allo scopo  sociale,
che  prescinde  dalla  commissione  dei  singoli   delitti.   Qualora
l'associato concorra in essi e la sua condotta  sia  qualificata  dal
dolo specifico di agevolare l'attivita' dell'associazione, tale fatto
psicologico si prospetta come ulteriore,  e  pertanto  puo'  essergli
addebitato in funzione di aggravamento  della  pena.  Del  resto,  il
reato associativo richiede un effettivo apporto  alla  causa  comune,
mentre la previsione aggravatrice e' relativa alla semplice  volonta'
di favorire, indipendentemente dal risultato, l'attivita' del gruppo,
e cioe' qualsiasi manifestazione  esteriore  del  medesimo,  che  non
coincide con il perseguimento dei fini sociali in cui si sostanzia il
dolo specifico di cui all'art. 416-bis cod. pen. 
    9. Alla stregua di tutte le argomentazioni sin qui  svolte,  deve
conclusivamente dichiararsi rilevante e non manifestamente  infondata
la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275,  comma  3,
secondo periodo, del codice  di  procedura  penale,  come  modificato
dall'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti
in materia  di  sicurezza  pubblica  e  di  contrasto  alla  violenza
sessuale, nonche' in  tema  di  atti  persecutori),  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in  cui
- nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi  di  colpevolezza
in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle  condizioni  previste
dall'art. 416-bis del codice penale ovvero al fine  di  agevolare  le
attivita' delle  associazioni  previste  dallo  stesso  articolo  del
codice penale, e' applicata la custodia cautelare in  carcere,  salvo
che siano acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in  cui  siano
acquisiti elementi specifici, in  relazione  al  caso  concreto,  dai
quali risulti che le esigenze cautelari  possono  essere  soddisfatte
con altre misure; non manifesta infondatezza ravvisabile in relazione
ai seguenti articoli della Costituzione: art. 3, per l'ingiustificata
parificazione dei procedimenti relativi ai delitti aggravati ai sensi
dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 a quelli concernenti  i  delitti  di
mafia nonche' per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime
cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili  ai  paradigmi
punitivi  considerati;  art.  13,  primo   comma,   quale   referente
fondamentale del regime ordinarlo delle  misure  cautelari  privative
della liberta' personale; art. 27,  secondo  comma,  con  riferimento
all'attribuzione alla  coercizione  personale  di  tratti  funzionali
tipici della pena. 
    A norma dell'art. 23 della legge  11  marzo  1953,  n.  87,  deve
dichiararsi  la  sospensione  del  procedimento   e   deve   disporsi
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale,  ferma
restando la misura cautelare in atto. 
    La Cancelleria provvedera' alla notifica di copia della  presente
ordinanza alle parti in causa  e  al  Presidente  del  Consiglio  dei
Ministri ed alla comunicazione della stessa ai Presidenti  delle  due
Camere del Parlamento.