ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di  legittimita'  costituzionale  degli  articoli  5,
comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16, comma 1,  del  decreto
legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione  dell'articolo  60  della
legge 18 giugno 2009, n. 69, in  materia  di  mediazione  finalizzata
alla  conciliazione  delle  controversie   civili   e   commerciali),
dell'articolo 2653,  primo  comma,  numero  1),  del  codice  civile,
dell'articolo 16 del decreto ministeriale 18 ottobre  2010,  n.  180,
come modificato dal  decreto  ministeriale  6  luglio  2011,  n.  145
(Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle  modalita'
di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di  mediazione  e
dell'elenco dei formatori per la mediazione,  nonche'  l'approvazione
delle indennita' spettanti agli organismi, ai sensi dell'articolo  16
del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28), promossi dal Giudice di
pace di Parma  con  ordinanza  del  1°  agosto  2011,  dal  Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio con  ordinanza  del  12  aprile
2011, dal Giudice di pace di  Catanzaro  con  due  ordinanze  del  1°
settembre e del 3 novembre 2011, dal Giudice di  pace  di  Recco  con
ordinanza del 5 dicembre 2011, dal Giudice di  pace  di  Salerno  con
ordinanza del 19 novembre 2011, dal Tribunale di Torino con ordinanza
del 24 gennaio 2012 e dal Tribunale di Genova con  ordinanza  del  18
novembre 2011, rispettivamente iscritte ai nn. 254 e 268 del registro
ordinanze 2011 ed ai nn. 2,  19,  33,  51,  99  e  108  del  registro
ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn. 51 e 54, prima serie speciale, dell'anno 2011 e nn. 5, 8, 11, 15,
22 e 23, prima serie speciale, dell'anno 2012. 
    Visti  gli   atti   di   costituzione   dell'Organismo   Unitario
dell'Avvocatura - OUA ed altri, della  «Associazione  degli  Avvocati
Romani»  ed  altra,  del  Consiglio  dell'Ordine  degli  Avvocati  di
Firenze, dell'AIAF,  Associazione  italiana  degli  avvocati  per  la
famiglia e per i minori, dell'Unione Nazionale delle  Camere  Civili,
dell'Organismo di mediazione ADR Center s.p.a., nonche' gli  atti  di
intervento della Associazione  nazionale  mediatori  e  conciliatori,
della Societa' italiana conciliazione mediazione e  arbitrato  s.r.l.
(SIC & A), del Consiglio dell'Ordine degli  Avvocati  di  Milano,  di
Assomediazione  -  Associazione   italiana   organismi   privati   di
mediazione e di formazione per la mediazione, di Unioncamere - Unione
Italiana  delle  Camere  di  commercio,  industria,   artigianato   e
agricoltura ed altri, del  Consiglio  Nazionale  Forense,  della  ADR
Accorditalia s.r.l. e del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del 23 ottobre 2012 e nella camera di
consiglio  del  24  ottobre  2012  il  Giudice  relatore   Alessandro
Criscuolo; 
    uditi gli avvocati Marilisa D'Amico e  Lotario  Dittrich  per  il
Consiglio  dell'Ordine  degli  avvocati  di  Milano,  Maria  Cristina
Stravaganti per  la  Societa'  italiana  conciliazione  mediazione  e
arbitrato s.r.l. (SIC & A), Francesco Franzese per l'Assomediazione -
Associazione  italiana.  organismi  privati  di   mediazione   e   di
formazione per la mediazione, Beniamino Caravita di  Toritto  per  la
Unioncamere - Unione Italiana delle Camere di  commercio,  industria,
artigianato e agricoltura ed altri, Massimo Luciani per il  Consiglio
Nazionale  Forense,   Giorgio   Orsoni   per   l'Organismo   Unitario
dell'Avvocatura - OUA ed altri e per il Consiglio  dell'Ordine  degli
Avvocati di Firenze, Giuliano Scarselli  per  l'AIAF  -  Associazione
italiana degli avvocati per la famiglia e  per  i  minori,  Giampiero
Amorelli per «l'Associazione degli Avvocati Romani» ed altra, Antonio
De Notaristefani Di Vastogirardi per l'Unione Nazionale delle  Camere
civili, Rodolfo Cicchetti per l'Organismo di  mediazione  ADR  Center
s.p.a. e l'avvocato dello Stato Maurizio Di Carlo per  il  Presidente
del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (d'ora  in
avanti, TAR), con ordinanza del 12  aprile  2011  (r.o.  n.  268  del
2011), ha sollevato, in riferimento  agli  articoli  24  e  77  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale  dell'articolo
5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e dell'articolo 16, comma
1,  del  decreto  legislativo  4  marzo  2010,  n.   28   (Attuazione
dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n.  69,  in  materia  di
mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e
commerciali). 
    Il TAR premette che l'ordinanza  in  questione  e'  stata  emessa
nell'ambito del procedimento  relativo  ai  ricorsi,  successivamente
riuniti, promossi entrambi contro il Ministro della  giustizia  e  il
Ministro dello sviluppo economico; che  il  primo  ricorso  e'  stato
proposto dall'Organismo unitario dell'avvocatura italiana -  OUA,  in
persona del presidente avv. Maurizio de Tilla, il quale agisce  anche
in proprio, dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati  di  Napoli,  in
persona del presidente avv. Francesco Caia, il quale agisce anche  in
proprio;  dal  Consiglio  dell'Ordine   degli   Avvocati   di   Torre
Annunziata, in persona del  presidente  avv.  Francesco  Torrese,  il
quale agisce anche in proprio;  dall'Unione  Regionale  dei  Consigli
dell'Ordine degli Avvocati della Campania, in persona del  presidente
avv.  Franco  Tortorano,  il  quale  agisce  anche  in  proprio;  dal
Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di  Lagonegro,  in  persona  del
presidente avv. Rosa Marino; dal Consiglio dell'ordine degli avvocati
di Larino, in persona del presidente avv. Marco  d'Errico,  il  quale
agisce anche in proprio; dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati  di
Campobasso, in persona del presidente  avv.  Demetrio  Rivellino,  il
quale agisce  anche  in  proprio;  da  Mario  Pietrunti,  da  AIAF  -
Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i  minori,
in persona del presidente avv. Milena Pin; da Filippo  Pucino,  Paola
Pucino, Angelo Pucino, Carmelo  Maurizio  Sergi,  Federica  Eminente,
Sabrina Sifo, Salvatore Walter Pompeo, Eugenio  Bisceglia,  Vitangelo
Mongelli,  Vincenzo  Papaleo,  Salvatore  Di   Cristofalo,   Giovanni
Zambelli, Giuseppe Di Girolamo, Agostino  Maione,  Claudio  Acampora,
Luigi Ernesto Zanoni; che nel giudizio a  quo,  ad  adiuvandum,  sono
intervenuti  l'Associazione  degli  avvocati  romani,  l'Associazione
agire e informare, i Consigli dell'Ordine degli Avvocati di Firenze e
di Salerno mentre, ad  opponendum,  sono  intervenuti  l'Associazione
avvocati per la mediazione, Lorenza Morello  e  Alberto  Mascia,  ADR
Center s.p.a., l'Associazione italiana dei dottori commercialisti  ed
esperti   contabili   e   l'Unione    nazionale    giovani    dottori
commercialisti; che il secondo ricorso e' stato proposto dalla Unione
Nazionale delle Camere civili (UNCC); che oggetto dei ricorsi  e'  la
domanda di annullamento del decreto  del  Ministro  della  giustizia,
adottato di concerto con il Ministro per lo  sviluppo  economico,  n.
180  del  2010,  avente  ad  oggetto  il  «Regolamento   recante   la
determinazione dei criteri e delle modalita' di iscrizione  e  tenuta
del  registro  degli  organismi  di  mediazione  e  dell'elenco   dei
formatori per la mediazione, nonche' l'approvazione delle  indennita'
spettanti agli organismi,  ai  sensi  dell'articolo  16  del  decreto
legislativo n. 28 del 2010», e «la dichiarazione della non  manifesta
infondatezza della questione  di  legittimita'  costituzionale  degli
articoli 5 e 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, in riferimento  agli  art.
24, 76 e 77 Cost.». 
    In particolare, il  rimettente,  dopo  essersi  soffermato  sulla
possibilita' della diretta impugnabilita' del regolamento innanzi  al
giudice amministrativo e sul quadro normativo di riferimento,  espone
i motivi dei ricorsi. 
    1.1.- Con riguardo al primo ricorso, il giudice a  quo  riferisce
che i ricorrenti lamentano l'assenza, nel d.m. n. 180  del  2010,  di
criteri volti ad  individuare  ed  a  selezionare  gli  organismi  di
mediazione in ragione dell'attivita' squisitamente giuridica che essi
andrebbero a svolgere, e che sarebbe richiesta  sia  dalla  normativa
comunitaria,  sia  dalla  legge  delega  18  giugno   2009,   n.   69
(Disposizioni per  lo  sviluppo  economico,  la  semplificazione,  la
competitivita' nonche' in materia di processo civile).  Sul  punto  i
ricorrenti pongono in rilievo che, a livello  comunitario,  l'art.  4
della  direttiva  21  maggio  2008,  n.  2008/52/CE  (Direttiva   del
Parlamento Europeo e del Consiglio  relativa  a  determinati  aspetti
della mediazione in materia civile e  commerciale),  dispone  che  la
mediazione «sia gestita in maniera efficace, imparziale e  competente
in relazione alle parti», mentre l'art. 60, lettera b),  della  legge
delega citata, tra  i  principi  e  criteri  direttivi,  richiede  di
prevedere che la mediazione sia svolta da organismi professionali  ed
indipendenti, stabilmente destinati all'erogazione  del  servizio  di
conciliazione. 
    A sostegno della censura i ricorrenti osservano che l'art. 4  del
regolamento,  nel  disciplinare  l'iscrizione,   a   domanda,   degli
organismi di mediazione che possono essere  costituiti  sia  da  enti
pubblici che da enti privati, si limita a prevedere, al comma 2,  una
serie di parametri di tipo amministrativo-economico-finanziario,  tra
cui la capacita' finanziaria ed organizzativa, il possesso di polizza
assicurativa, la trasparenza amministrativa e  contabile  e,  poi,  a
prescrivere, al comma 3, una verificazione di tipo  «aggiuntivo»  sui
requisiti di qualificazione dei mediatori,  che  viene  demandata  al
responsabile del procedimento, senza essere correlata alle competenze
giuridiche che sarebbero oggettivamente richieste  dall'attivita'  di
mediazione. 
    Sotto tale  profilo,  i  ricorrenti  escludono  che  il  criterio
selettivo, di cui lamentano la carenza, possa essere costituito dalla
previsione di cui all'art. 4, comma 3, del regolamento  impugnato  il
quale prevede, alla lettera a), che  il  mediatore  debba  essere  in
possesso di un titolo di studio non inferiore al  diploma  di  laurea
universitaria triennale, oppure debba essere iscritto ad un ordine  o
ad un collegio professionale e, alla lettera  b),  che  il  mediatore
abbia una specifica formazione ed uno specifico aggiornamento  almeno
biennale, acquisiti  presso  gli  enti  di  formazione  regolati  dal
successivo art. 18 del d.m. citato. Tali elementi, essendo sprovvisti
di una specifica professionalita',  delineerebbero  un'area  generica
attinente al solo ambito della formazione culturale, che risulterebbe
priva di quegli agganci ad  una  precipua  qualificazione  e  perizia
nell'ambito giuridico professionale,  invece  necessaria  in  ragione
della tipologia della prestazione che deve essere resa. 
    Cio', ad avviso dei ricorrenti, varrebbe ancor di piu' alla  luce
dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e delle materie  ivi  previste,
in relazione alle quali l'esperimento del procedimento di  mediazione
e' condizione di procedibilita' della domanda giudiziale,  ovvero  si
pone  come  alternativa  al  sistema  giudiziale  o  quale   funzione
stragiudiziale di soddisfazione di pretese giuridiche. L'assunto, per
cui  il  procedimento  di  mediazione  dovrebbe  essere  gestito  con
l'ausilio di persone svolgenti la professione legale,  si  fonderebbe
sui seguenti dati:  il  procedimento  di  mediazione  non  conclusosi
positivamente incide, ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. n. 28 del 2010
ed ai sensi dell'art. 60, lettera p), della legge  n.  69  del  2009,
sulle spese del successivo giudizio;  l'art.  13  del  d.lgs.  citato
intitolato  «spese  processuali»  prevede,  infatti,  che  quando  il
provvedimento che definisce il giudizio  corrisponda  interamente  al
contenuto della proposta conciliativa, alla quale la parte vincitrice
non  abbia  aderito,  il  giudice  e'  obbligato  ad   escludere   la
ripetizione delle  spese  sostenute  ed  a  condannarla,  invece,  al
rimborso  delle  spese  sopportate  dal   soccombente;   il   verbale
dell'accordo conclusivo del procedimento di mediazione, non contrario
all'ordine  pubblico  o  a  norme   imperative,   e   sottoposto   ad
omologazione, ha efficacia di titolo esecutivo  per  l'espropriazione
forzata, per l'esecuzione in forma specifica e  per  l'iscrizione  di
ipoteca  giudiziale,  ai  sensi  dell'art.  12  del  d.lgs.   citato;
l'avvocato ha l'obbligo, all'atto del conferimento dell'incarico,  di
informare il proprio assistito della possibilita' di avvalersi  della
mediazione, cio' ai sensi dell'art. 4, comma 3, del d.lgs.  citato  e
dell'art. 60, lettera p), della legge n. 69 del 2009,  nonostante  lo
svolgimento della relativa attivita' sia demandato ad altre categorie
professionali. 
    Il  TAR  riferisce  ancora  che  i  ricorrenti  pervengono   alla
conclusione secondo cui la mancata previsione di  idonei  criteri  di
valutazione della competenza degli organismi di  mediazione  porrebbe
il regolamento impugnato in palese contrasto «non tanto con l'art. 16
del d.lgs. n. 28 del 2010, ma piuttosto con  i  principi  generali  e
l'insieme  delle  disposizioni   dell'intero   impianto   legislativo
considerato». 
    Aggiunge che, ad avviso dei ricorrenti, gli  artt.  5  e  16  del
d.lgs.  citato  non   sfuggirebbero   a   censure   di   legittimita'
costituzionale, in riferimento agli artt. 77 e 24 Cost. 
    In particolare l'art. 5,  nel  prevedere  che  l'esperimento  del
procedimento  di  mediazione  sia   condizione   di   procedibilita',
rilevabile anche di ufficio, della domanda giudiziale in  riferimento
alle controversie in esso indicate, precluderebbe  l'accesso  diretto
alla giustizia, disattendendo le previsioni del principio e  criterio
direttivo  di  cui  all'art.  60,  comma   3,   lettera   a),   della
legge-delega, che lo tutela. L'art. 16 del d.lgs.  n.  28  del  2010,
ponendo quali criteri di selezione  degli  organismi  abilitati  alla
mediazione la «serieta' ed efficienza», liberalizzerebbe il  settore,
contravvenendo  sia  all'art.  4  della  direttiva  2008/52/CE,   sia
all'art. 60, comma 3, lettera  b),  della  legge  citata,  che  fanno
riferimento ai criteri della competenza e della professionalita'. 
    1.2.- Con riferimento, invece, al ricorso n. 11235 del  2010,  il
rimettente si  sofferma  sui  tre  motivi  di  impugnazione  e  sulle
eccezioni  di  illegittimita'  costituzionale,  ritenendo   rilevante
soltanto  quella  sollevata   con   riferimento   al   primo   motivo
(illegittimita' derivata dalla illegittimita' degli artt. 5  e  17  -
recte: 16 - del d.lgs. n. 28 del 2010, in relazione agli artt. 24, 76
e 77 Cost.); anche la ricorrente UNCC sostiene che il legislatore sia
incorso in eccesso di delega la' dove ha  previsto  l'obbligatorieta'
del procedimento di  mediazione  e  l'improcedibilita'  del  giudizio
introdotto senza il previo esperimento della mediazione, entrambi non
previsti dalla legge delega. 
    Cio' premesso, il TAR osserva come punto centrale della rilevanza
della questione di legittimita' costituzionale, «nonche' qualificante
espressione dell'interesse sostanziale dedotto in giudizio, alla luce
delle prime due  doglianze  di  cui  al  ricorso»,  sia  la  «dedotta
omissione, da  parte  dell'art.  4  dell'impugnato  regolamento,  dei
criteri volti  a  delineare  i  requisiti  attinenti  alla  specifica
professionalita' giuridico-processuale del mediatore». 
    L'illegittimita' di tale omissione - ad avviso del  rimettente  -
andrebbe apprezzata alla luce delle previsioni contenute nell'art.  4
della direttiva 2008/52/CE e nell'art. 60 della legge n. 69 del 2009. 
    L'art. 16 del citato decreto legislativo, di cui  il  regolamento
costituisce  attuazione,  avrebbe  trascurato  la  valenza  di  detti
requisiti,  quelli  appunto   di   competenza   e   professionalita',
sostituendoli con altri, quelli di serieta'  ed  efficienza,  che  il
regolamento impugnato ha fatto propri, ma che non soddisferebbero  le
esigenze  considerate  dal  legislatore  comunitario  e   da   quello
nazionale delegante. 
    Osserva  il  rimettente  come  i  requisiti   di   competenza   e
professionalita' sarebbero, invece, insopprimibili, soprattutto se si
considera che, per un vasto ventaglio di materie, l'art. 5 del d.lgs.
n.   28   del   2010,   anch'esso   sospettato   di    illegittimita'
costituzionale, rende l'esperimento della  mediazione  condizione  di
procedibilita' della domanda giudiziale. 
    Il giudice a quo, poi, al fine di risolvere in via ermeneutica il
problema  della  sovrapponibilita'  dei  concetti  di  competenza   e
professionalita', nonche' serieta' ed  efficienza,  non  trascura  il
tentativo di sottoporre l'art. 60 della legge n. 69 del 2009 e l'art.
16  del  d.lgs.  citato  ad  una  interpretazione  costituzionalmente
orientata, tenendo conto della necessita' di una stretta  continuita'
e coerenza delle disposizioni, anche in relazione  all'art.  4  della
direttiva 2008/52/CE. 
    Il TAR, pero', ritiene tale interpretazione non  praticabile,  in
quanto essa «non esaurirebbe che in misura  molto  limitata  l'ambito
delle   questioni   sottoposte   a   giudizio,    lasciando    aperto
l'interrogativo circa il ruolo che l'ordinamento giuridico  nazionale
intenda effettivamente affidare alla mediazione, la' dove e'  proprio
la   puntuale   individuazione    di    tale    ruolo    ad    essere
imprescindibilmente pregiudiziale all'apprezzamento dei requisiti che
e' legittimo richiedere al  mediatore  o  da  cui  e'  legittimamente
consentito prescindere». 
    Secondo il rimettente, infatti, «una cosa e' la costruzione della
mediazione come strumento cui lo Stato in un vasto ambito di  materie
obbligatoriamente  e  preventivamente  rimandi  per  l'esercizio  del
diritto di difesa in giudizio; altra cosa  e'  la  costruzione  della
mediazione come strumento generale normativamente predisposto, di cui
lo Stato incoraggi o favorisca  l'utilizzo,  lasciando  pur  tuttavia
impregiudicata  la  liberta'  nell'apprezzamento  dell'interesse  del
privato ad adirla ed a sopportare i relativi effetti e costi». 
    Ad  avviso  del  rimettente,  dunque,  l'esame  delle   doglianze
proposte in relazione al regolamento n. 180  del  2010  non  potrebbe
prescindere dall'accertamento  della  correttezza,  in  raffronto  ai
criteri della legge-delega e ai precetti costituzionali, tenuto conto
delle disposizioni comunitarie, delle scelte operate dal  legislatore
delegato, e in particolare dalla  verifica  della  correttezza  delle
seguenti disposizioni: dell'art. 16 del d.lgs. n.  28  del  2010,  il
quale ha conformato gli organismi di  conciliazione  a  qualita'  che
attengono essenzialmente all'aspetto della funzionalita'  generica  e
che sono scevri  da  qualsiasi  riferimento  a  canoni  tipologici  o
professionali  di  carattere  qualificatorio,   ovvero   strutturale;
dell'art. 5 del d.lgs. ora citato, che ha configurato, per le materie
ivi previste, l'attivita'  dei  mediatori  come  insopprimibile  fase
processuale,  cui  altre  norme  del   decreto   assicurano   effetti
rinforzati e in quanto tale suscettibile in ogni suo  sviluppo  o  di
conformare definitivamente i diritti soggettivi da essa coinvolti,  o
di incidervi anche la' dove ne residui la giustiziabilita' nelle sedi
istituzionali e si intenda adire la giustizia ordinaria;  dell'intero
d.lgs. n. 28  del  2010  nel  quale  si  rinvengono,  ad  avviso  del
rimettente, elementi che farebbero  emergere  due  scelte  di  fondo:
l'una, mirante  alla  de-istituzionalizzazione  e  de-tecnicizzazione
della giustizia civile e commerciale nelle materie stesse, e  l'altra
alla   enfatizzazione   di   un   procedimento   para-volontario   di
componimento delle controversie. 
    Tali scelte, poi, non  risulterebbero  in  armonia  con  un'altra
opzione fatta propria dal decreto delegato: e', infatti, previsto che
l'atto, il quale conclude la mediazione, sottoposto ad  omologazione,
possa acquistare efficacia di titolo esecutivo  per  l'espropriazione
forzata, per l'esecuzione in forma specifica e  per  l'iscrizione  di
ipoteca giudiziale (art. 12 del d.lgs. citato),  rientrando  a  pieno
titolo tra gli atti aventi gli stessi effetti giuridici tipici  delle
statuizioni giurisdizionali, la' dove nel corso della mediazione,  ed
ai sensi del decreto legislativo stesso, il profilo della  competenza
tecnica del mediatore sbiadisce e anche il diritto positivo viene  in
evidenza solo sullo sfondo, come cornice esterna ovvero come generale
limite alla convenienza delle posizioni giuridiche in essa  coinvolte
(divieto di omologare accordi contrari all'ordine pubblico o a  norme
imperative, art. 12 del d.lgs.). 
    Il rimettente ritiene necessario che l'interpretazione  dell'art.
16 del d.lgs. n. 28 del 2010, propedeutica  all'esame  dell'impugnata
disposizione di cui all'art. 4 del  regolamento,  sia  correlata  con
quanto previsto dall'art. 5 dello stesso decreto, «il  cui  combinato
disposto costituisce il vero perno della regolazione delegata». 
    Il Collegio  ritiene,  dunque,  che  le  prime  tre  disposizioni
dell'art. 5 del d.lgs. citato si porrebbero in contrasto  con  l'art.
77 Cost., in quanto non possono essere  ascritte  all'art.  60  della
legge delega, atteso che non e' possibile rilevare alcun elemento che
consenta  di  ritenere  che  la  regolazione  della  materia  andasse
effettuata nei sensi delle dette previsioni; e questo per i motivi di
seguito  indicati:  a)  nessuno  dei  criteri  e  principi  direttivi
previsti e nessun'altra disposizione di  detto  articolo  assumerebbe
espressamente l'intento deflattivo del  contenzioso  giurisdizionale;
b) nessuno dei criteri o  principi  configurerebbe  l'istituto  della
mediazione quale fase pre-processuale obbligatoria:  detto  tema  non
potrebbe  ritenersi  rientrare  nell'ambito   di   liberta',   ovvero
nell'area di discrezionalita' connessa alla legislazione delegata, in
quanto non costituirebbe ne' un mero sviluppo delle scelte effettuate
in sede di delega, ne' una fisiologica attivita' di riempimento o  di
coordinamento normativo, e cio' sia che  si  tratti  di  recepire  la
direttiva comunitaria n. 2008/52/CE, sia che si tratti della  riforma
del diritto civile. 
    Inoltre, il rimettente osserva come, tenuto  conto  del  silenzio
serbato dal legislatore delegante sullo specifico tema, sarebbe stato
necessario  che  l'art.  60  della  legge  citata   avesse   lasciato
trasparire elementi in tal senso univoci e concludenti. 
    Secondo il rimettente, poi, si dovrebbe escludere che  l'art.  60
della legge n. 69 del 2009 con la locuzione di cui al comma 2, ovvero
regolare la riforma «nel rispetto e  in  coerenza  con  la  normativa
comunitaria», e con il principio  e  criterio  direttivo  posto  alla
lettera c) del comma  3,  ovvero  «disciplinare  la  mediazione,  nel
rispetto della normativa  comunitaria»,  possa  essere  inteso  quale
delega al Governo  a  compiere  qualsiasi  scelta  occasionata  dalla
direttiva piu' volte citata, che il  Governo  non  e'  stato  neanche
chiamato a recepire. 
    Il TAR si sofferma, poi, sul rapporto tra la direttiva 2008/52/CE
e la norma di delega, ponendo in rilievo le seguenti disposizioni: in
primo luogo, la scelta compiuta  dall'art.  60  della  legge  citata,
ossia quella di estendere le normative comunitarie  sulla  mediazione
anche ai procedimenti ricadenti nell'ordinamento nazionale (cio' alla
luce dell'ottavo Considerando) non limitandola solo alle controversie
transfrontaliere; la disposizione di  cui  all'art.  3,  lettera  a),
della direttiva stessa, secondo cui gli Stati devono valutare  se  il
procedimento  di  mediazione  debba  essere  «avviato  dalle   parti,
suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o  prescritto  dal
diritto di uno Stato membro»; l'art. 5, paragrafo 2, secondo  cui  la
direttiva lascia «impregiudicata la legislazione nazionale che  rende
il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o
sanzioni, sia prima che dopo l'inizio del procedimento  giudiziario»,
tenendo  conto  del  limite  costituito  dalla  necessita'  che  «non
impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso  al  sistema
giudiziario» (art. 5, comma 2, della direttiva citata). 
    Pertanto,  osserva  il  rimettente,  le  ricadute  della   scelta
estensiva dell'istituto della mediazione, consistente nel  prevederne
l'applicazione  anche  alle  controversie  oggetto  dei  procedimenti
interamente ricadenti nell'ordinamento interno,  sono  molteplici  ed
attengono   alle   varie   modalita'   con   cui   tale   estensione,
salvaguardando l'accesso alla giustizia, puo' essere  effettuata  nei
singoli ordinamenti ed in primis all'opzione di  rendere  il  ricorso
alla mediazione  «prescritto  dal  diritto»,  quindi  obbligatorio  e
«soggetto a sanzioni». 
    Ad avviso del TAR, se anche l'art. 60 della legge  delega  avesse
avuto  un  intento  integralmente  recettivo   della   direttiva   n.
2008/52/CE, il silenzio del  legislatore  delegante  su  tali  ultime
opzioni non potrebbe avere, alla luce della doverosa  interpretazione
della delega ai sensi degli artt. 24 e 77 Cost., «il  significato  di
assentire la meccanica introduzione  nell'ordinamento  statale  delle
opzioni comunitarie che, rispetto al diritto di difesa,  appaiono  le
piu' estreme, ovvero la "prescrizione di diritto" per talune  materie
dell'obbligatorieta' del ricorso alla mediazione e la predisposizione
della "massima sanzione" per il suo eventuale inadempimento, qual  e'
l'improcedibilita' rilevabile anche di ufficio come, al contempo,  ha
fatto l'art. 5 del decreto delegato». 
    Il rimettente osserva,  ancora,  come  nessun  elemento  decisivo
possa trarsi  dal  principio  e  criterio  direttivo  previsto  dalla
lettera a) del comma 3, dell'art.60, della  legge  delega,  la'  dove
dispone che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia  per
oggetto  controversie  su  diritti  disponibili   «senza   precludere
l'accesso alla giustizia», in quanto il legislatore, utilizzando tale
ultima espressione, avrebbe inteso soltanto rispettare  un  principio
assoluto e primario dell'ordinamento nazionale (art. 24 Cost.)  e  di
quello comunitario. 
    Il giudice a quo ritiene, infatti, che, se da un  lato  sia  vero
che potrebbe non ritenersi precluso ex se  l'accesso  alla  giustizia
dalla previsione di una fase pre-processuale  obbligatoria,  perche',
anche se cosi' conformata, essa  lascerebbe  aperta  la  facolta'  di
adire la via giurisdizionale, sarebbe altresi' vero  che  «non  tutto
cio' che e' in via generale  permesso  all'autorita'  delegante  puo'
ritenersi anche consentito alla sede delegata». 
    Cio' premesso, ad avviso del rimettente, pur potendosi  ammettere
che le prime tre  disposizioni  dell'art.  5,  comma  1,  del  d.lgs.
citato, isolatamente considerate, non siano in contrasto  con  l'art.
24 Cost., alla stessa conclusione  potrebbe  non  pervenirsi  tenendo
conto degli  effetti  derivanti  dal  loro  coordinamento  con  altre
disposizioni dello stesso decreto legislativo ed in  particolare  con
l'art. 16 di esso. 
    Posto,  dunque,  che  i  criteri  e  principi  direttivi   finora
considerati appaiano neutrali al fine di  verificare  la  rispondenza
dell'art. 5 del d.lgs. alla legge delega, il rimettente osserva  come
ben due principi e criteri  direttivi  depongano,  invece,  a  favore
proprio della previsione della facoltativita' della procedura. 
    E', in primo luogo, posta in rilievo la lettera c) del  comma  3,
dell'art. 60, della legge delega, la quale prevede che la  mediazione
sia disciplinata anche attraverso l'estensione delle disposizioni  di
cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003,  n.  5  (Definizione  dei
procedimenti in materia di diritto societario  e  di  intermediazione
finanziaria, nonche' in materia bancaria e creditizia, in  attuazione
dell'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366). 
    Il richiamo al d.lgs. n. 5 del 2003, ad avviso del giudice a quo,
farebbe escludere che la  scelta  del  carattere  obbligatorio  della
mediazione possa essere ascritta alla legge-delega; l'art. 40,  comma
6, del d.lgs. n. 5 del 2003 (ora abrogato dall'art. 23 d.lgs.  n.  28
del 2010), infatti, solo se «il contratto  ovvero  lo  statuto  della
societa' prevedano una clausola di conciliazione e il  tentativo  non
risulti esperito» stabiliva che «il giudice su  istanza  della  parte
interessata proposta nella prima difesa dispone  la  sospensione  del
procedimento pendente davanti a lui fissando  un  termine  di  durata
compresa tra trenta e sessanta giorni per il deposito dell'istanza di
conciliazione davanti ad un organismo ovvero a  quello  indicato  dal
contratto o dallo statuto». 
    Da cio' conseguirebbe che il modello legale valorizzato dall'art.
60 della legge delega, mediante il richiamo al d.lgs. n. 5 del  2003,
sarebbe quello  delineato  da  norme  di  fonte  volontaria  privata,
contratto o statuto sociale, nel senso  che  sarebbe  rimesso  ad  un
momento volontario privato, cioe' alla facolta' della parte che vi ha
interesse e non alla forza cogente della legge,  far  constatare  nel
giudizio gia' avviato, ed entro termini stabiliti, la sussistenza  di
una  clausola  conciliativa   ed   il   mancato   esperimento   della
conciliazione. 
    Il rimettente osserva che nulla muta considerando che il  decreto
delegato n. 28 del 2010, al comma 2 dello stesso art. 5, affianca  al
meccanismo sospetto di illegittimita'  costituzionale  un  meccanismo
coincidente con quello di cui al d.lgs. n. 5 del 2003, in  forza  del
quale e' il giudice adito, anche in sede di  appello,  che,  valutati
una serie di elementi, invita le parti a procedere alla mediazione  e
differisce la decisione giurisdizionale: tale disposizione,  infatti,
tiene comunque «fermo quanto previsto dal comma 1». 
    Ad avviso del TAR, il comma 2  ora  menzionato  farebbe  rilevare
maggiormente  la  incisivita'  della  diversa  scelta  compiuta   dal
legislatore  delegato  al  comma  1   dello   stesso   articolo,   di
subordinare, nelle materie ivi previste,  il  diritto  di  difesa  in
giudizio  all'esperimento  della  mediazione,  rendendo  ancora  piu'
pressante l'esigenza che di  una  siffatta  scelta  si  individui  il
preciso fondamento nella legge delega. 
    In secondo luogo, il rimettente pone in rilievo la lettera n) del
piu' volte citato art.  60  della  legge  delega;  tale  disposizione
prevede il dovere dell'avvocato di informare il cliente, prima  della
instaurazione del giudizio, della «possibilita'» e  non  dell'obbligo
di avvalersi della conciliazione. 
    Al riguardo il giudice a  quo  rileva  che  la  possibilita'  e',
ovviamente, diversa dalla obbligatorieta' e l'accentuazione  di  tale
differenza  non  sarebbe  superflua,   vertendo   nel   campo   della
deontologia professionale, ovvero  in  un  complesso  di  obblighi  e
doveri   la   cui   inosservanza   puo'    determinare    conseguenze
pregiudizievoli in  base  all'ordinamento  civile  (risarcimento  del
danno), amministrativo (sanzioni disciplinari) e pubblicistico  (art.
4, comma 4, del d.lgs. n.  28  del  2010),  che  richiedono  l'esatta
individuazione del precetto presidiato dalle sanzioni. 
    Infatti, l'art. 4 del d.lgs.  citato  differenzia,  al  comma  3,
l'ipotesi in cui l'avvocato omette  di  informare  il  cliente  della
«possibilita'» di  avvalersi  della  mediazione,  da  quella  in  cui
l'omissione informativa concerne i casi  in  cui  l'espletamento  del
procedimento di mediazione  e'  condizione  di  procedibilita'  della
domanda giudiziale; cio' anche se, poi, il medesimo comma 3 dell'art.
4 non diversifichi la sanzione concernente le due  ipotesi,  entrambe
ricondotte all'unica categoria della «violazione  degli  obblighi  di
informazione»  e  all'annullabilita'  del  contratto  intercorso  tra
l'avvocato e l'assistito «nonostante la  maggiore  pregiudizievolezza
della seconda». 
    Il  TAR  si  sofferma,  poi,   sulle   difese   formulate   dalle
amministrazioni resistenti,  secondo  cui  lo  schema  procedimentale
seguito sarebbe quello dell'art. 46 della legge 3 maggio 1982, n. 203
(Norme sui contratti agrari), in tema di controversie agrarie. 
    Al riguardo, il Collegio ritiene che tale argomentazione non  sia
da  condividere,  in  quanto  la  risalente  legge  ora  citata,  che
configura un meccanismo in forza del quale il previo esperimento  del
tentativo  di  conciliazione  assume  la  condizione  di  presupposto
processuale, la cui carenza preclude al giudice adito di  pronunciare
nel  merito  della  domanda,  oltre  a  concernere  le  limitatissime
(rispetto alle materie di cui all'art. 5, comma 1, del d.lgs.  n.  28
del 2010) ipotesi di contratti agrari, non e'  menzionata  in  alcuna
parte della legge  delega  che  invece,  come  piu'  volte  rilevato,
richiama la diversa fattispecie del gia' citato d.lgs. n. 5 del 2003. 
    Alla luce di quanto argomentato, il TAR  rimettente  ritiene  che
l'art. 5, comma 1, e segnatamente il primo, il secondo  ed  il  terzo
periodo, nonche' l'art. 16, comma 1,  del  d.lgs.  citato,  la'  dove
dispone che abilitati a costituire  organismi  deputati,  su  istanza
della parte interessata, a  gestire  il  procedimento  di  mediazione
debbano essere gli enti pubblici e  privati  che  diano  garanzie  di
serieta' ed efficienza, siano in contrasto con  gli  artt.  24  e  77
Cost. 
    In particolare, la violazione dell'art.  24  Cost.  sussisterebbe
«nella  misura  in  cui  [dette  disposizioni]   determinano,   nelle
considerate materie, una incisiva influenza da  parte  di  situazioni
preliminari e pregiudiziali sull'azionabilita' in giudizio di diritti
soggettivi e sulla successiva funzione  giurisdizionale,  su  cui  lo
svolgimento della mediazione variamente  influisce.  Cio'  in  quanto
esse  non  garantiscono,  mediante  un'adeguata  conformazione  della
figura del mediatore,  che  i  privati  non  subiscano  irreversibili
pregiudizi  derivanti  dalla  non  coincidenza  degli  elementi  loro
offerti  in  valutazione  per   assentire   o   rifiutare   l'accordo
conciliativo, rispetto  a  quelli  suscettibili,  nel  prosieguo,  di
essere evocati in giudizio». 
    Sussisterebbe il contrasto anche con l'art. 77 Cost.,  atteso  il
silenzio serbato dal legislatore delegante in tema di obbligatorieta'
del previo esperimento della mediazione al fine dell'esercizio  della
tutela giudiziale in determinate materie, nonche'  tenuto  conto  del
grado di specificita' di alcuni principi e criteri direttivi  fissati
dall'art. 60 della legge n. 69 del 2009, che risultano  in  contrasto
con le disposizioni stesse. 
    I principi e criteri direttivi di cui alle lettere c)  e  n)  del
comma 3, dell'art. 60 della legge citata, ad avviso  del  rimettente,
porterebbero  ad   escludere   che   l'obbligatorieta'   del   previo
esperimento della mediazione, al  fine  dell'esercizio  della  tutela
giudiziale   in   determinate   materie,   possa   rientrare    nella
discrezionalita' affidata  alla  legislazione  delegata,  quale  mero
sviluppo o fisiologica attivita' di riempimento della  delega,  anche
tenendo conto della sua ratio e  della  sua  finalita',  nonche'  del
contesto normativo comunitario al quale e' ricollegabile. 
    2.- Con atto  depositato  in  data  20  dicembre  2011,  si  sono
costituiti nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  l'Organismo
Unitario dell'Avvocatura Italiana -  OUA,  il  Consiglio  dell'Ordine
degli Avvocati di Napoli, il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati  di
Torre Annunziata, l'Unione Regionale dei Consigli  dell'Ordine  degli
Avvocati della Campania, il Consiglio dell'Ordine degli  Avvocati  di
Lagonegro, il Consiglio dell'Ordine  degli  Avvocati  di  Larino,  il
Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Campobasso,  in  persona  dei
rispettivi presidenti pro tempore, i quali agiscono anche in proprio,
chiedendo che la questione sia dichiarata fondata. 
    Gli esponenti, nel ribadire le argomentazioni del TAR,  rilevano,
con riferimento alla violazione dell'art. 77  Cost.,  che  l'art.  60
della legge delega al comma 3,  lettera  a),  nel  prevedere  che  la
mediazione,  finalizzata  alla  conciliazione,  abbia   per   oggetto
controversie su diritti disponibili «senza precludere l'accesso  alla
giustizia», non  introdurrebbe  un  aspetto  neutrale  (come  sembra,
invece, affermare il TAR), ma  piuttosto  avrebbe  richiesto  che  il
procedimento di mediazione non fosse costruito  quale  condizione  di
procedibilita' della domanda giudiziale, pena una pesante limitazione
alla immediata  accessibilita'  alla  giustizia  ed  una  altrettanto
incisiva  compromissione  dell'effettivita'  e  tempestivita'   della
tutela giudiziale. 
    Al di la' della stessa previsione della legge-delega, nell'ambito
dell'ordinamento   comunitario,   la   direttiva   2008/52/CE,    nel
disciplinare alcuni aspetti della mediazione civile e commerciale, al
quattordicesimo  Considerando,  ha  stabilito  che  l'istituto  della
mediazione non debba essere configurato  in  modo  da  impedire  alle
parti  «di  esercitare  il  loro  diritto  di  accesso   al   sistema
giudiziario». La previsione dell'art. 5 del d.lgs. n.  28  del  2010,
pertanto, non troverebbe aderenza non  solo  nel  contesto  normativo
nazionale, ma anche in quello comunitario. 
    Quanto al contrasto con l'art. 24 Cost., le parti osservano  come
la Corte costituzionale, sin dagli anni '50, abbia ritenuto che detta
norma vada intesa non solo nel senso di apprestare  la  possibilita',
in capo ai  cittadini,  di  far  valere  le  proprie  ragioni  in  un
giudizio, ma ancor piu' di garantire la difesa tecnica (a tal fine e'
richiamata la sentenza n. 46 del 1957). 
    Ebbene, tale difesa non sarebbe assicurata nel caso di specie, in
cui l'accesso alla giustizia non resterebbe soltanto  subordinato  e,
dunque, ritardato dall'esperimento obbligatorio di  un  tentativo  di
conciliazione, ma  sarebbe  gestito  da  soggetti  non  adeguatamente
formati e privi della necessaria competenza tecnico-giuridica, mentre
l'intero procedimento di mediazione sarebbe,  invece,  costruito  sul
presupposto  della  piena  conoscenza,  competenza  e  perizia  nelle
discipline giuridiche. 
    In tal senso rileverebbero non solo gli artt. 12 e 13 del  d.lgs.
n. 28 del 2010, ma anche l'art. 8, comma  5,  del  medesimo  decreto,
nella  parte  in  cui  prevede  che  la  mancata  partecipazione   al
procedimento possa valere come  argomento  di  prova  nel  successivo
eventuale processo. Sarebbe evidente, dunque, che  le  parti  debbano
essere rese  edotte  da  un  soggetto  competente  ed  esperto  delle
conseguenze processuali delle  loro  scelte;  ne  consegue  che  tale
soggetto non potrebbe che essere un avvocato. 
    Secondo gli esponenti, poiche'  l'istituto  della  mediazione  si
pone l'obiettivo di addivenire ad una composizione  delle  rispettive
posizioni giuridiche, al pari del  sistema  giurisdizionale  dovrebbe
consentire ai cittadini di fruire delle medesime garanzie di tutela. 
    3.- Con  atto  depositato  in  data  12  gennaio  2012,  si  sono
costituite in  giudizio  «l'Associazione  degli  Avvocati  Romani»  e
l'Associazione «Agire e informare», parti intervenute  ad  adiuvandum
nel giudizio a quo. 
    Dette  associazioni,  nel  riservarsi   di   presentare   memorie
illustrative e nel fare integralmente proprie le motivazioni poste  a
sostegno dell'ordinanza di rimessione, rappresentano che,  dopo  tale
ordinanza,  con  risoluzione  del  Parlamento  europeo  in  data   13
settembre 2011, circa l'attuazione della direttiva  sulla  mediazione
negli Stati membri, pur apprezzando lo sforzo  intrapreso  in  ambito
nazionale per introdurre una disciplina dell'istituto,  si  e'  «cio'
nonostante sottolinea[to] che la mediazione dovrebbe essere  promossa
come una forma di giustizia alternativa praticabile, a basso costo  e
rapida, piuttosto che come un elemento obbligatorio  della  procedura
giudiziaria». 
    Ad avviso delle intervenienti, cio' confermerebbe  il  dubbio  di
legittimita' costituzionale delle disposizioni censurate, le quali in
concreto  rendono  la  mediazione   «elemento   obbligatorio»   della
procedura giudiziaria, pero' sottoposta  a  modalita'  liberalizzate,
nei sensi dell'art. 16 del d.lgs. n. 28 del  2010,  contrastanti  con
l'art. 24 Cost. e non conformi ai principi  e  ai  criteri  direttivi
fissati dalla legge delega. 
    4.- Con atto depositato in data 12 gennaio 2012, si e' costituita
nel giudizio di legittimita' costituzionale l'Organismo di mediazione
ADR Center s.p.a., parte intervenuta ad opponendum nel giudizio a quo
la quale, riservandosi di presentare memorie e produrre documenti, ha
chiesto di voler dichiarare manifestamente infondata ed inammissibile
la questione di legittimita' costituzionale sollevata  con  ordinanza
del 12 aprile 2011 dal TAR Lazio. 
    5.- Con atto depositato in data 13 gennaio 2012, si e' costituita
nel giudizio di legittimita' costituzionale  l'Associazione  italiana
degli avvocati per la famiglia e  per  i  minori,  chiedendo  che  la
questione sia dichiarata fondata. 
    Ad avviso dell'esponente la legge delega,  nell'indicare  che  la
mediazione non avrebbe dovuto precludere  l'accesso  alla  giustizia,
intendeva far riferimento non alla possibilita' di adire  il  giudice
dopo la mediazione, «cosa scontata e ovvia», bensi'  alla  necessita'
che essa non condizionasse il diritto di azione e, quindi, non  fosse
costruita come condizione di  procedibilita'.  Si  osserva  come  sia
circostanza  del  tutto  evidente  che,  dopo  il   procedimento   di
mediazione,  la  parte  possa  adire  il  giudice,  poiche'   sarebbe
impensabile   che   nell'ordinamento,   dopo   una   condizione    di
procedibilita',  non  si  dia  alla  parte  il  diritto  alla  tutela
giurisdizionale. 
    Ne', in senso contrario, potrebbe obiettarsi che il problema  non
si pone in considerazione della brevita' del termine di quattro mesi,
cosicche' la condizione  di  procedibilita'  sarebbe  compensata  dal
termine breve fissato nell'art. 6 del  d.lgs.  n.  28  del  2010;  il
termine di quattro mesi era gia' stato fissato nella lettera  q)  del
comma 3, dell'art. 60 della legge delega, la quale  al  tempo  stesso
richiedeva che la mediazione fosse tale da non  precludere  l'accesso
alla giustizia. 
    Per quanto concerne l'art. 16 del d.lgs. n. 28 del  2010,  l'AIAF
osserva come l'art. 24 Cost. non possa dirsi rispettato, in quanto la
figura del mediatore non e' stata conformata  in  modo  da  garantire
alle parti una adeguata informazione. 
    6.- Con atto depositato in data 13 gennaio 2012,  e'  intervenuto
nel presente giudizio di costituzionalita' il  Consiglio  dell'Ordine
degli Avvocati di Firenze, interveniente ad adiuvandum nel giudizio a
quo, il quale nel ribadire e far proprie le argomentazioni  formulate
dal TAR rimettente,  ha  chiesto  che  la  questione  sia  dichiarata
fondata. 
    7.- Con atto depositato in data 13 gennaio 2012, si e' costituita
nel giudizio di legittimita' costituzionale l'Unione Nazionale  delle
Camere Civili la quale, svolgendo argomentazioni  analoghe  a  quelle
del TAR, ha chiesto che la questione sia dichiarata fondata. 
    8.- Con  atto  depositato  in  data  17  gennaio  2012,  si  sono
costituiti nel presente giudizio il Ministro  della  giustizia  e  il
Ministro dello sviluppo economico,  chiedendo  che  le  questioni  di
legittimita' costituzionale siano dichiarate non fondate. 
    I detti ministri rilevano come  la  mediazione  obbligatoria  sia
prevista e  ammessa  dalla  direttiva  comunitaria,  alla  quale  da'
attuazione il d.lgs. n. 28 del 2010 in  forza  della  delega  di  cui
all'art.  60  della  legge  n.  69  del  2009,  norma  che   richiama
espressamente tale normativa comunitaria; deve, pertanto,  escludersi
che il legislatore sia incorso nel denunciato  vizio  di  eccesso  di
delega. 
    A tal fine e' evocata la sentenza n. 276 del 2000 in  materia  di
tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro. 
    In   detta   occasione   la   Corte    costituzionale    affermo'
l'insussistenza del vizio di eccesso di delega, benche' la  legge  15
marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di  funzioni
e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della  pubblica
amministrazione  e  per  la  semplificazione   amministrativa),   non
prevedesse   l'obbligatorieta'   della   conciliazione.   La    Corte
costituzionale affermo', altresi', l'assenza di contrasto con  l'art.
24 Cost. in virtu' del principio per cui «la tutela  del  diritto  di
azione non comporta l'assoluta immediatezza del suo esperimento,  ben
potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare  interessi
generali, con le dilazioni conseguenti». In quel  caso,  osservano  i
resistenti nel giudizio a quo, la Corte  individuo'  tali  «interessi
generali»  sia  nell'evitare  che  l'incremento  delle   controversie
attribuite al giudice ordinario in materia di  lavoro  provocasse  un
sovraccarico  dell'apparato  giudiziario,  sia   nel   favorire   «la
composizione preventiva  della  lite  che  assicura  alle  situazioni
sostanziali un  soddisfacimento  piu'  immediato  rispetto  a  quelle
conseguite attraverso il processo». 
    Cio' posto, la difesa dello  Stato  ritiene  che  «gli  interessi
generali» devono ritenersi perseguiti anche  dalla  norma  in  esame,
specialmente con riferimento al secondo di detti «interessi», ove  si
consideri che l'elemento che caratterizza la mediazione e' dato dalla
finalita' di assistenza delle parti nella ricerca di una composizione
non giudiziale del conflitto, basata sul  rendere  complementari  gli
interessi e non sul distribuire torti e ragioni. 
    Anche per quanto  concerne  la  violazione  dell'art.  24  Cost.,
l'Avvocatura osserva  come  detta  censura  sveli  un  approccio  non
corretto all'istituto in esame. 
    La mediazione ed il processo ordinario di cognizione,  ad  avviso
dell'esponente, si muovono su piani  completamente  diversi  che  non
interferiscono tra loro (se non sotto  il  profilo  della  disciplina
delle spese giudiziali e degli argomenti di prova che il giudice puo'
desumere dalla mancata partecipazione, senza giustificato motivo,  al
procedimento di mediazione) ed e'  errato  confondere  il  piano  del
diritto di azione  garantito  dall'art.  24  Cost.  (cosi'  come  dal
diritto sovranazionale), con il piano della  mediazione  che  non  e'
«rinuncia alla giurisdizione», ma semplicemente un modo attraverso il
quale le parti, in presenza  di  una  lite  insorta  o  che  sta  per
insorgere, risolvono la stessa cercando un punto di equilibrio tra  i
contrapposti interessi. Ne  consegue  che  imporre  il  tentativo  di
conciliazione non significa ne' rinunciare  alla  giurisdizione,  ne'
ostacolarla: le parti non sono tenute ad accordarsi, mentre  i  tempi
contenuti entro i quali il tentativo di conciliazione deve  svolgersi
non   possono   pacificamente   rappresentare   un   ostacolo    alla
giurisdizione. 
    Quanto  al  timore   che   i   diritti   «siano   definitivamente
conformati»,  l'Avvocatura  precisa  che  il  mediatore,  sentite  le
diverse prospettazioni del conflitto, ha il  compito  di  avviare  il
dialogo che la conflittualita' puo' avere impedito e cio' allo  scopo
di aiutare a trovare un  accordo  che  non  costituisce  accertamento
della  verita',  ma  individuazione  di  un   punto   di   equilibrio
soddisfacente per entrambe le parti. 
    La circostanza, poi, che l'accordo sia anche titolo  esecutivo  e
titolo per l'iscrizione di ipoteca  giudiziale  non  puo'  indurre  a
concludere che detto accordo non possa essere equiparato, come si  e'
ora fatto, a qualsiasi altro contratto o negozio. L'accordo e' titolo
esecutivo cosi' come lo sono la  cambiale,  l'assegno  bancario,  gli
altri titoli stragiudiziali che non presuppongono necessariamente  un
accertamento di verita'. 
    Quanto alla questione di legittimita' costituzionale che  attiene
all'art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, l'Avvocatura osserva,  in  via
preliminare, che la  censura  deve  ritenersi  superata  per  effetto
dell'entrata in vigore del decreto del  Ministro  della  giustizia  6
luglio 2011, n. 145 (Regolamento  recante  modifica  al  decreto  del
Ministro  della  giustizia   18   ottobre   2010,   n.   180,   sulla
determinazione dei criteri e delle modalita' di iscrizione  e  tenuta
del  registro  degli  organismi  di  mediazione  e  dell'elenco   dei
formatori  per  la  mediazione,   nonche'   sull'approvazione   delle
indennita' spettanti agli organismi, ai sensi  dell'articolo  16  del
decreto legislativo n. 28  del  2010),  il  quale  ha  modificato  il
decreto n. 180 del 2010, per cui gli atti devono  essere  rimessi  al
giudice a  quo  per  una  nuova  valutazione  della  rilevanza  della
questione di legittimita' costituzionale. 
    In ogni caso, l'Avvocatura afferma che se anche non  fosse  stato
introdotto  il  correttivo  citato  la   censura   sarebbe   comunque
infondata. Premesso che la norma denunciata [recte: art. 18 del  d.m.
n. 180 del 2010] prevede per il mediatore «un percorso formativo  non
inferiore a cinquanta  ore»  e  un  percorso  di  aggiornamento  «non
inferiore a diciotto ore», modulando  l'iter  formativo  in  modo  da
assicurare «elevati livelli di formazione», si osserva come l'accordo
al quale mira la mediazione sia una sistemazione negoziale, che  puo'
anche avere la veste di  una  transazione,  con  la  quale  le  parti
dettano una regola per disciplinare il loro rapporto e con  la  quale
superano il conflitto a prescindere dal  riconoscimento  di  torti  e
ragioni. 
    Al mediatore, quindi, non sarebbe richiesto di pronunciarsi sulla
fondatezza di una pretesa in forza di una norma da applicare;  costui
potra' formulare una proposta, ma saranno, poi, le parti a realizzare
l'atto dispositivo espressione della  loro  autonomia  negoziale.  Al
mediatore  non  sarebbe  richiesta  necessariamente   una   specifica
preparazione tecnico-giuridica, cosi' come e'  lasciata  alla  libera
determinazione delle parti la stipulazione di contratti in materia di
diritti disponibili, per la cui conclusione non e'  richiesta  alcuna
assistenza tecnica. 
    Ad    avviso    dell'Avvocatura,    infine,     «professionalita'
dell'organismo» (efficiente organizzazione e servizio) e  «competenza
del mediatore» sono aspetti del tutto diversi che non possono  essere
confusi, come invece sembra fare il rimettente. 
    9.- Il Tribunale di Genova, con ordinanza del  18  novembre  2011
(r.o. n. 108 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt.  3  e
24 Cost., questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  5  del
d.lgs. n. 28 del 2010 e dell'art. 2653, primo comma, numero  1),  del
codice  civile;  nonche'  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell'art. 16 del d.m. n.  180
del 2010. 
    Con provvedimento del 4 ottobre 2012 la discussione del  presente
giudizio, gia' prevista per la camera di  consiglio  del  24  ottobre
2012, e' stata anticipata all'udienza del 23 ottobre 2012. 
    In punto di fatto il rimettente espone di essere investito di una
controversia in tema di servitu' prediali. 
    Cio' premesso, il  rimettente,  dopo  aver  rilevato  la  mancata
instaurazione  del   procedimento   di   mediazione   e   dopo   aver
analiticamente   riportato    le    eccezioni    di    illegittimita'
costituzionale  proposte   dall'attrice,   solleva   il   dubbio   di
costituzionalita' nei termini di seguito indicati. 
    Per  quanto  attiene  alla  questione  dedotta  con   riferimento
all'art. 2653, cod.  civ.,  il  rimettente  osserva  che  le  domande
giudiziali concernenti i diritti reali possono essere trascritte,  ai
sensi dell'art. 2653, primo comma, numero 1), cod. civ.  La  sentenza
pronunciata  contro  il  convenuto  indicato  nella  trascrizione  ha
effetto anche contro coloro che hanno acquistato diritti dal medesimo
in base ad un atto trascritto dopo la trascrizione della domanda. 
    Nel caso di specie, i  ricorrenti  hanno  formulato  una  domanda
diretta all'accertamento dell'esistenza, in favore del loro fondo  ed
a carico di quello dei  convenuti,  di  una  servitu'  di  passaggio,
nonche'  all'accertamento  della  violazione  del  diritto   a   loro
spettante in base ad essa ed  alla  eliminazione  degli  effetti  del
denunciato abuso. Si tratterebbe,  dunque,  di  un'azione  rientrante
nell'art. 1079 cod. civ., in relazione alla quale, a sensi  dell'art.
2653,  primo  comma,  numero  1),  cod.   civ.,   e'   richiesta   la
trascrizione. 
    Il Tribunale osserva,  altresi',  come  la  mancata  trascrizione
della domanda giudiziale, a prescindere dalla trascrizione del titolo
costitutivo  della  servitu',  importerebbe  l'inopponibilita'  della
sentenza nei confronti di chi acquisti il fondo  servente  nel  corso
del processo e che abbia trascritto il suo titolo  «senza  che  possa
rilevare che a suo tempo sia  stato  regolarmente  trascritto  l'atto
costitutivo  della  servitu',  con  la  conseguenza  che   il   terzo
acquirente  e'  legittimato  a  proporre  contro  la  detta  sentenza
pronunciata in giudizio, a cui e' rimasto estraneo, l'opposizione  di
terzo ex art. 404 cod. proc. civ.»  (e'  evocata  la  sentenza  della
Corte di cassazione del 23 maggio 1991, n. 5852). 
    Cio'  posto,  il  rimettente,   in   punto   di   non   manifesta
infondatezza, osserva che non e' possibile trascrivere la domanda  di
mediazione in  quanto  l'art.  2653  cod.  civ.  contiene  un  elenco
tassativo ed ha riguardo, unicamente, alle  domande  giudiziali;  ne'
sarebbe possibile  trascrivere  il  verbale  di  mediazione,  essendo
prevista  unicamente  la  possibilita'   di   trascrivere   l'accordo
conclusivo, previa autenticazione delle sottoscrizioni da parte di un
pubblico ufficiale a tanto autorizzato. 
    Da cio' conseguirebbe, ad avviso del Collegio, che per i  diritti
reali la mediazione dovrebbe  essere  sempre  doppiata  dal  giudizio
ordinario, nella forma tradizionale o nelle forme  dell'art.  702-bis
cod. proc. civ., atteso che, in caso contrario,  l'attore  vittorioso
non potrebbe comunque trascrivere  direttamente  ne'  il  verbale  di
avvenuta positiva mediazione,  se  non  previa  autenticazione  delle
sottoscrizioni da parte di un pubblico ufficiale  a  cio'  abilitato,
ne' soprattutto giovarsi dell'effetto  cosiddetto  prenotativo  della
domanda di mediazione, non trascrivibile. 
    Da cio' conseguirebbe, inoltre, che l'attore dovrebbe  presentare
istanza di mediazione, a  pena  di  improcedibilita'  della  domanda,
iniziare comunque un giudizio trascrivendo la domanda giudiziale,  ed
a prescindere dall'esito della  mediazione,  chiedere  una  pronunzia
giurisdizionale di merito; cio' perche' non potrebbe ne'  trascrivere
direttamente il  verbale  di  mediazione,  ne'  soprattutto  giovarsi
dell'effetto  prenotativo  della  domanda,  in  quanto  tale  effetto
sarebbe limitato ai casi in cui la trascrizione della domanda  stessa
sia seguita dalla pronuncia di una sentenza  o  di  un  provvedimento
giurisdizionale analogo alla  stessa,  come  appunto  l'ordinanza  ai
sensi dell'art. 702-ter cod. proc. civ. 
    La conseguenza in questi casi sarebbe che il soggetto  procedente
si troverebbe costretto a sopportare sia i  costi  della  mediazione,
sia il pagamento del contributo  unificato  per  l'instaurazione  del
giudizio, senza in ogni caso potersi giovare dell'effetto  deflattivo
della procedura di mediazione. 
    Il rimettente, poi, si sofferma sulla questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e  dell'art.  16
del d.m. n. 180 del 2010, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. per
avere essi previsto una mediazione obbligatoria di tipo  oneroso.  Il
carattere oneroso, quale  risultante  dal  combinato  disposto  delle
norme  indicate,  contrasterebbe  con  l'art.  24  Cost.  in   quanto
condizionerebbe al pagamento di una  somma  di  denaro  l'accesso  al
giudice. 
    La  conclusione,  secondo  cui  la  previsione  della  mediazione
obbligatoria onerosa sia in contrasto con l'art. 24 Cost., troverebbe
conferma nel principio  espresso  nella  sentenza  n.  67  del  1960,
secondo cui la difesa e' un diritto inviolabile  in  ogni  stato  del
procedimento, indipendentemente  da  ogni  differenza  di  condizioni
personali e sociali. 
    Il giudice a quo ritiene non manifestamente  infondata  anche  la
censura rivolta  nei  confronti  dell'art.  5  del  d.lgs.  citato  e
dell'art. 16 del d.m., la' dove  prevedono  «che  il  solo  convenuto
possa  non  aderire  al  procedimento  di   mediazione»   in   quanto
introducono una disparita' di trattamento  tra  attore  e  convenuto,
atteso che per l'attore non e' prevista la possibilita' di rinunciare
ad avvalersi del servizio, incorrendo sempre nel pagamento sia  delle
spese di avvio, sia delle spese di mediazione. 
    Il rimettente, infine, ritiene la sussistenza di un altro profilo
di illegittimita' dell'art. 5 del d.lgs. nella parte in  cui  prevede
la mediazione obbligatoria solo per alcuni gruppi di  materie  e  non
per altre, sia pure caratterizzate dalla disponibilita'  dei  diritti
sottostanti. 
    Sarebbe il caso  della  mediazione  immobiliare,  sottratta  alle
materie per le quali e' prevista la mediazione  obbligatoria  o,  con
riferimento al caso di specie, alla domanda  volta  a  dichiarare  la
nullita' o pronunciare l'annullamento di un contratto costitutivo  di
servitu'. 
    Tale domanda, non  rientrando  nei  blocchi  di  materie  di  cui
all'art. 5 del d.lgs. citato, potrebbe essere  direttamente  azionata
in giudizio, attenendo ad un contratto per il quale non  e'  prevista
la mediazione obbligatoria (questa, infatti, e' prevista solo  per  i
contratti assicurativi,  bancari  e  finanziari);  al  contrario,  la
domanda  di  accertamento  o  declaratoria  di  servitu',  involgendo
diritti  reali,  rientrerebbe  appieno  nelle  materie   soggette   a
mediazione   obbligatoria.   Il   rimettente   ritiene    che    tale
differenziazione non sia giustificata da alcuna ragionevole scelta di
politica legislativa. 
    10.- Con atto del 26 giugno 2012, e'  intervenuto  il  Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale dello Stato. 
    In primo luogo, la difesa statale  eccepisce  l'inammissibilita',
per  difetto  di   rilevanza,   della   questione   di   legittimita'
costituzionale concernente l'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010,  nella
parte in cui  prevede  l'obbligatorieta'  della  mediazione  solo  in
relazione a determinate controversie, in quanto la causa oggetto  del
giudizio principale concerne una domanda di accertamento di servitu',
senza dubbio rientrante tra quelle per le quali l'art. 5  del  d.lgs.
citato prevede la mediazione come obbligatoria. 
    In ogni caso, si osserva come la  questione  sia,  altresi',  non
fondata versandosi in tema di scelte discrezionali  del  legislatore,
che  possono  essere   non   condivisibili,   ma   non   viziate   da
irragionevolezza. 
    Cio' posto, la difesa dello Stato ritiene non fondate le  censure
relative all'art. 5 del d.lgs. citato e all'art. 2653 cod.  civ.,  in
quanto le finalita' cui mirano i due istituti sono diverse;  pertanto
il soggetto che vuole conseguire gli effetti della trascrizione della
sua domanda, ovvero l'efficacia cosiddetta prenotativa della  stessa,
deve necessariamente anche iscrivere la causa a ruolo per trascrivere
detta domanda, ma non  per  questo  la  norma  deve  essere  ritenuta
affetta da illegittimita' costituzionale. 
    Per quel che concerne  la  doglianza  mossa  con  riferimento  al
carattere oneroso della mediazione, la difesa dello Stato  ne  deduce
la  non  fondatezza,  richiamando  il  principio,   affermato   nella
decisione di questa Corte n. 114  del  2004,  secondo  cui  non  puo'
ragionevolmente  ritenersi  estraneo  alla  finalita'   del   miglior
andamento della giustizia un costo avente la funzione di  fornire  al
cittadino un servizio finalizzato alla soluzione  della  lite  e  che
persegue  l'interesse   pubblico   di   restituire   alla   decisione
dell'autorita' giudiziaria il ruolo di extrema ratio. 
    La mediazione - ad avviso dell'Avvocatura - mira ad  evitare  che
ogni controversia si trasformi in contenzioso giudiziario e  cio'  in
ossequio al principio di proporzionalita' nell'utilizzo delle risorse
giudiziarie che  ha  una  ricaduta  sia  sui  costi  a  carico  della
collettivita', sia sul  principio  costituzionale  della  ragionevole
durata del processo. 
    La difesa dello Stato, poi, non condivide l'opinione secondo cui,
nel caso della mediazione, vi sarebbe un esborso non  destinato  allo
Stato, ma ad un organismo  anche  di  natura  privata;  al  riguardo,
l'Avvocatura rileva che il nostro sistema giudiziario si  basa  sulla
pressoche' totale obbligatorieta' della difesa tecnica in giudizio  e
non conosce forme di difesa «pubblica» ed, ancora, che i due  termini
«obbligatoria e onerosa» riferiti alla mediazione  possono  convivere
non solo nel  nostro  sistema  costituzionale,  ma  anche  in  quello
comunitario. 
    E', altresi', richiamata la sentenza  della  Corte  di  giustizia
dell'Unione europea nella quale, dopo  avere  qualificato  «legittimi
obiettivi di interesse generale [...] una definizione  spedita  delle
controversie nonche' un  decongestionamento  dei  tribunali»,  si  e'
affermato che rispetto a questi obiettivi «non esiste  un'alternativa
meno vincolante alla predisposizione di una  procedura  obbligatoria,
dato che la introduzione di una procedura meramente  facoltativa  non
costituisce uno strumento altrettanto efficace per  la  realizzazione
di detti obiettivi» (sentenza del 28 marzo 2010 nelle  cause  riunite
da C-317 a C-320/08). 
    Tutto cio', peraltro, non esime il legislatore dallo  strutturare
l'onere economico di cui si tratta in termini di ragionevolezza ed al
riguardo  la  difesa  dello  Stato   ritiene   che   il   canone   di
ragionevolezza sia stato rispettato. In proposito,  la  difesa  dello
Stato osserva che gli importi minimi delle  indennita'  per  ciascuno
scaglione di riferimento non solo sono derogabili (art. 16  del  d.m.
n. 180 del 2010, come modificato dal decreto ministeriale n. 145  del
2011),  ma  nei  casi  di  mediazione  prevista  come  condizione  di
procedibilita' l'importo  massimo  delle  spese  di  mediazione  deve
essere ridotto di un terzo per i primi  sei  scaglioni  e  fino  alla
meta'  per  i  restanti  quattro.  Sono  previsti,   inoltre,   degli
incentivi: tutti gli atti, documenti e provvedimenti sono  esenti  da
bollo, spese, tasse e/o diritti, mentre  il  verbale  di  accordo  e'
esente da imposta di registro sino al valore di 50.000,00 euro. 
    In caso di successo, inoltre, vi e' un  credito  di  imposta  per
entrambe le parti sino a 500,00 euro,  credito  che  si  riduce  alla
meta' in caso di insuccesso (art. 20). 
    Infine, ad avviso della  difesa  dello  Stato,  il  costo  di  un
procedimento  giudiziario  e'  molto  piu'   elevato,   anche   senza
considerare la possibilita' di tre gradi di giudizio. 
    Con  riferimento  alla  censura  sollevata  in   relazione   alla
violazione  dell'art.  3  Cost.,  in  quanto  si  introdurrebbe   una
disparita' di trattamento tra attore e  convenuto,  la  difesa  dello
Stato ritiene  che  la  circostanza  secondo  cui  l'onere  economico
dell'avvio e della mediazione rimangono a carico del solo attore,  in
caso  di  mancata  comparizione  del  chiamato,   e'   «la   naturale
conseguenza di condotte processuali diverse: ne' potrebbe  prevedersi
un obbligo per il chiamato in mediazione di  comparire  alla  stessa,
cosi' come non potrebbe prevedersi  l'obbligo  per  il  convenuto  di
costituirsi in giudizio». 
    Peraltro,  la   mancata   partecipazione   del   chiamato   senza
giustificato motivo, ad avviso dell'Avvocatura, non rimarrebbe  priva
di conseguenze, anche di rilievo economico, posto che  tale  condotta
sarebbe valutata dal giudice ai sensi dell'art. 116 cod. proc.  civ.,
cosi' come stabilito dall'art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 28 del 2010. 
    11.- Il Giudice di pace di Parma, con  ordinanza  del  1°  agosto
2011 (r.o. n. 254 del 2011), ha sollevato, in riferimento agli  artt.
24 e 77 Cost., questione di legittimita' costituzionale dell'art.  5,
comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e dell'art. 16, comma 1, del
d.lgs. n. 28 del 2010. 
    Il rimettente premette di dover giudicare  in  una  causa  civile
avente ad oggetto una «domanda di pagamento in materia  di  locazione
di beni mobili, rientrante nella previsione normativa di cui all'art.
5 del d.lgs. n. 28 del 2010, per la quale e' previsto il  preliminare
procedimento di mediazione a pena di improcedibilita'». 
    II giudice a quo da' atto che l'attrice ha omesso di svolgere  il
detto procedimento ed ha eccepito alcune  questioni  di  legittimita'
costituzionale di cui da' conto nell'ordinanza. 
    Cio' premesso, il rimettente, dopo  aver  riepilogato  il  quadro
normativo di riferimento, ritiene che le disposizioni sopra  indicate
risultino in contrasto con l'art. 24 Cost., «in quanto realizzano  un
meccanismo di determinante influenza di situazioni preliminari  sulla
tutela giudiziale dei diritti, posto che  l'art.  5  in  discorso  ha
configurato, nelle materie previste, l'attivita' degli  organismi  di
conciliazione come  imprescindibile  e  per  cio'  stesso,  idonea  a
conformare definitivamente i diritti soggettivi coinvolti». 
    In particolare, l'art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010 «ha delineato
gli organismi di conciliazione con riferimento a qualita' nell'ottica
della  mera   funzionalita'   degli   stessi,   omettendo   qualsiasi
riferimento a criteri di  qualificazione  tecnica  o  professionale»;
sicche', «in difetto di una adeguata  definizione  della  figura  del
mediatore, le norme in discorso potrebbero essere fonte di pregiudizi
a danno dei privati, i quali in sede giudiziale potrebbero  usufruire
di elementi di valutazione diversi da quelli  a  loro  offerti  nella
fase preliminare del procedimento di mediazione». 
    Il rimettente ritiene, inoltre, che dette disposizioni  siano  in
contrasto anche con  l'art.  77  Cost.,  posto  che  «il  legislatore
delegante non ha formulato alcuna indicazione circa l'obbligatorieta'
del previo esperimento del procedimento di mediazione»; ed anzi  alla
luce dei principi e criteri direttivi della legge delega, di cui alle
lettere c) e n) del comma 3 dell'art.  60,  dovrebbe  escludersi  che
l'obbligatorieta' del  procedimento  di  mediazione  possa  rientrare
nella discrezionalita'  tipica  della  legislazione  delegata  «quale
attivita'  di  attuazione  e  sviluppo  della  delega,  nella  debita
considerazione del contesto normativo comunitario di riferimento». 
    12.- Con atto depositato in data 23 dicembre 2011, e' intervenuto
in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il  quale  ha  formulato
argomentazioni identiche a quelle esposte nell'atto di intervento, da
parte del Ministro della giustizia  e  del  Ministro  dello  sviluppo
economico, in relazione alla questione sollevata con r.o. n. 268  del
2011. 
    13.- Il Giudice di pace di Recco, con ordinanza  del  5  dicembre
2011 (r.o. n. 33 del 2012), ha sollevato, in riferimento  agli  artt.
3,  24  e  111  Cost.,  questione  di   legittimita'   costituzionale
«dell'art. 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010 e art. 16 D.M. n.
180/10, da soli ed anche in combinato disposto, nelle parti e per  il
motivo che creano ostacoli all'esercizio dell'azione,  che  eliminano
la tutela giudiziaria per i meno abbienti, che ledono il principio di
ragionevole  durata  del  processo  e  che   creano   disparita'   di
trattamento per situazioni analoghe». 
    In punto di fatto, il rimettente riferisce che  deve  pronunziare
in «una controversia non priva di  interesse  e  nemmeno  di  agevole
soluzione che tuttavia in quanto  basata  su  risultanze  documentali
sarebbe stata decisa in quindici giorni». 
    Cio' premesso, il giudice  a  quo  ritiene  che  le  disposizioni
indicate siano in contrasto con l'art.  24  Cost.  «in  relazione  ai
tempi del processo», in quanto il termine  di  quattro  mesi  «appare
decisamente al di fuori della soglia di tollerabilita'»,  cio'  ancor
piu' se si prendono in considerazione altri procedimenti  concernenti
tentativi  obbligatori  di  conciliazione,  prevedenti   termini   di
espletamento piu' brevi: 30  giorni  in  materia  di  subfornitura  e
telecomunicazione, 60 giorni in materia di lavoro e contratti agrari,
90 giorni in tema di diritto  d'autore;  nonche'  in  relazione  alla
disciplina  dei  costi  della  mediazione,  sottolineando  come  «tra
l'esigenza di non rendere economicamente troppo gravoso ai  cittadini
l'accesso   alla   tutela   giurisdizionale   e    l'esigenza,    pur
particolarmente  avvertita,  di  individuare   strumenti   idonei   a
decongestionare gli uffici giudiziari attraverso lo  sfoltimento  del
carico di lavoro, prevalenza debba avere la prima». 
    Dette disposizioni sarebbero, altresi', in contrasto con l'art. 3
Cost.,  in  quanto  la  disciplina   dei   costi   della   mediazione
introdurrebbe una disparita' di  trattamento  tra  meno  abbienti  ed
abbienti; infatti,  sebbene  sia  stato  previsto  il  beneficio  del
patrocinio  a  spese  dello  Stato,  la  disparita'  di  trattamento,
comunque, rimarrebbe in  relazione  a  quei  soggetti  che,  pur  non
rientrando tra coloro che possono beneficiare del patrocinio, versano
in condizioni economiche non agiate per cui, dopo aver gia' sostenuto
un costo per  una  causa,  un  ulteriore  costo  per  una  mediazione
dall'esito  incerto  diverrebbe   insostenibile   e   finirebbe   per
costituire un deterrente dall'agire in giudizio. 
    Ad avviso del rimettente, ancora, sussisterebbe il contrasto  con
l'art. 111 Cost.  sotto  il  profilo  della  ragionevole  durata  del
processo, in quanto  l'esperimento  della  mediazione  dilaterebbe  i
tempi di esso senza che cio' sia giustificato da esigenze  specifiche
ed anche perche' l'esperimento obbligatorio della mediazione dovrebbe
effettuarsi non solo con  riferimento  alla  domanda  principale,  ma
anche in relazione ad ogni singola  azione  proposta  nel  corso  del
processo. 
    Dette disposizioni, infine,  violerebbero  l'art.  3  Cost.,  per
irragionevolezza  della  previsione   della   obbligatorieta'   della
mediazione avente  ad  oggetto  le  controversie  di  competenza  del
Giudice di pace, dal momento che, nel procedimento  avanti  al  detto
giudice, e' gia' previsto il tentativo obbligatorio di conciliazione. 
    14.- Con atto depositato in data 3 aprile 2012, e' intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   la
questione sia dichiarata manifestamente infondata. 
    La difesa dello Stato, dopo avere riassunto il  quadro  normativo
di riferimento, si sofferma sulle censure del rimettente, ponendo  in
rilievo come l'elemento che caratterizza la mediazione sia dato dalla
finalita' di assistenza delle parti nella ricerca di una composizione
non giudiziale del conflitto, basata sul  rendere  complementari  gli
interessi e non sul distribuire torti o ragioni. 
    Per quanto attiene alle doglianze concernenti l'onerosita'  della
mediazione, la difesa dello Stato invoca la sentenza di questa  Corte
n. 114 del 2004, la quale richiama  principi  gia'  illustrati  nelle
pronunce  n.  522  del  2002  e  n.  333  del  2001,   ribadendo   le
argomentazioni precedentemente svolte. 
    In ogni caso, l'Avvocatura rileva  che  la  mediazione  non  puo'
definirsi «onerosa» per le parti se raffrontata con il  costo  di  un
giudizio ordinario e con la speditezza nell'esercizio dell'azione; si
tratterebbe, peraltro, di costi estremamente contenuti soprattutto se
si considera che  il  procedimento  consente  di  realizzare  un  ben
maggiore risparmio ed, inoltre, che e' gratuito  per  i  cittadini  i
quali possono usufruire del patrocinio a spese dello Stato. 
    15.- Il Giudice di  pace  di  Catanzaro,  con  ordinanza  del  1°
settembre 2011 (r.o. n. 2 del 2012),  ha  sollevato,  in  riferimento
agli  artt.  24,  76  e   77   Cost.,   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte  in
cui prevede che  l'esperimento  del  procedimento  di  mediazione  e'
condizione di procedibilita' della domanda giudiziale, in ordine alle
controversie nelle materie ivi indicate, e dell'art. 16 del  d.m.  n.
180 del 2010, in relazione all'art. 3 Cost. 
    In punto di fatto, il rimettente premette di essere investito del
procedimento civile promosso al  fine  di  accertare  il  diritto  ad
ottenere la restituzione di due libri  concessi  in  comodato  e  nel
quale  la   convenuta   ha   eccepito,   in   via   preliminare,   la
improcedibilita' della domanda per omesso esperimento  del  tentativo
obbligatorio di conciliazione, ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. n.  28
del 2010. 
    Cio' posto, il rimettente riferisce che la controversia  riguarda
un contratto di comodato,  sicche'  rientra  nelle  ipotesi  previste
dall'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 ed in relazione alle  quali  il
previo esperimento del tentativo di conciliazione  e'  condizione  di
procedibilita'; che  la  proposizione  della  domanda  e'  successiva
all'entrata in vigore della predetta disposizione ed, inoltre, che il
convenuto  ha  tempestivamente  sollevato  l'improcedibilita'   della
domanda stessa. 
    In punto di non manifesta  infondatezza,  il  rimettente  osserva
come l'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, concependo  il  procedimento
di mediazione come  condizione  di  procedibilita',  rischierebbe  di
compromettere l'effettivita' della tutela giudiziale; ne' si potrebbe
argomentare che non vi e' preclusione ad accedere alla giustizia  dal
momento che, una volta  attivato  il  procedimento  di  mediazione  e
trascorso il  termine  di  quattro  mesi,  l'accesso  alla  giustizia
sarebbe possibile, in quanto «e' cosa ovvia» che dopo il procedimento
di mediazione la parte possa adire il  giudice  perche'  «nel  nostro
sistema e' impensabile che non si dia  alla  parte  il  diritto  alla
tutela giurisdizionale». 
    Il giudice a quo prosegue osservando come l'art. 60  della  legge
delega, con la formula «senza precludere l'accesso  alla  giustizia»,
farebbe riferimento alla necessita' che la mediazione non  condizioni
il diritto di azione e che quindi non sia costruita  come  condizione
di procedibilita'. Ne' la brevita' del  termine  potrebbe  indurre  a
conclusioni diverse, visto che detto termine era gia'  stato  fissato
nella legge delega ed in particolare alla  lettera  q)  del  comma  3
dell'art. 60. 
    Ad  avviso  del   rimettente,   dunque,   l'obbligatorieta'   del
procedimento di mediazione, nelle  ipotesi  di  cui  all'art.  5  del
d.lgs. n. 28 del 2010, violerebbe l'art. 60 della legge delega n.  69
del 2009. 
    Inoltre, il giudice a quo solleva la  questione  di  legittimita'
costituzionale in riferimento all'art. 24  Cost.,  in  quanto  se  il
tentativo obbligatorio di conciliazione ha un costo  e  questo  costo
non e' meramente simbolico, come appunto previsto dalla  disposizione
indicata,   cio'   significa   che   l'esercizio    della    funzione
giurisdizionale e' subordinato al pagamento di una somma di denaro. 
    Vi sarebbe, dunque, il contrasto con i principi  affermati  nella
sentenza n. 67 del  1960  di  questa  Corte,  nella  quale  e'  stato
stabilito che tutti possono agire  in  giudizio  per  la  tutela  dei
propri diritti ed interessi legittimi e  che  la  difesa  e'  diritto
inviolabile in ogni stato e grado del  procedimento,  il  quale  deve
trovare  attuazione  uguale  per  tutti,  indipendentemente  da  ogni
differenza di condizioni personali e sociali. 
    Il giudice rimettente richiama, poi, il noto  orientamento  della
giurisprudenza costituzionale che distingue tra oneri  «razionalmente
collegati alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di  assicurare
al processo uno svolgimento meglio conforme alla  sua  funzione»,  da
ritenere  consentiti,   e   quelli   che,   invece,   «tendono   alla
soddisfazione  di  interessi  del  tutto  estranei   alle   finalita'
predette»  i  quali,  conducendo  al  risultato  «di  precludere   od
ostacolare gravemente l'esperimento  della  tutela  giurisdizionale»,
incorrono «nella sanzione dell'incostituzionalita'» (sono  richiamate
le sentenze n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001). 
    Secondo il rimettente, dunque, l'art. 5 del d.lgs. si porrebbe in
contrasto  con  l'art.  24  Cost.  e  con  «tutti  i   parametri   di
costituzionalita'», in quanto prevede un esborso che non puo'  essere
ricondotto ne' al tributo giudiziario, ne' alla cauzione; che non  e'
di modestissima, ne' di modesta, entita';  che  non  va  allo  Stato,
bensi' ad un organismo che potrebbe avere anche  natura  privata.  Si
tratterebbe, poi, di un esborso che non potrebbe considerarsi nemmeno
«razionalmente collegato alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo
di assicurare al processo uno svolgimento meglio  conforme  alla  sua
funzione», poiche' questi esborsi sarebbero da rinvenire  solo  nelle
cauzioni e nei tributi giudiziari, non in altre cause di pagamento. 
    Il giudice a quo ritiene non manifestamente  infondata  anche  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 16, comma  4,  del
d.m. n.  180  del  2010,  concernente  i  criteri  di  determinazione
dell'indennita',  nella  parte  in  cui  consente  «solo  alla  parte
convenuta di non aderire al procedimento, ma  non  anche  alla  parte
attrice, che si vedrebbe,  comunque,  obbligata  al  procedimento  di
mediazione per poter far valere in giudizio  un  suo  diritto»;  cio'
sarebbe in  violazione  dell'art.  3  Cost.,  sotto  il  profilo  del
principio di uguaglianza, perche' «pone su piani  diversi,  e  tratta
diversamente, la parte attrice». 
    Le dette disposizioni, inoltre, si porrebbero in contrasto  anche
con gli artt. 76 e 77 Cost.  in  quanto  violerebbero  i  principi  e
criteri direttivi di cui alla lettera a) del  comma  3  dell'art.  60
della legge n. 69 del 2009, secondo  cui  il  Governo  nell'esercizio
della delega doveva prevedere «che la  mediazione,  finalizzata  alla
conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili,
senza precludere l'accesso alla giustizia». 
    16.- Con atto depositato in data 21 febbraio 2012, e' intervenuto
in giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  il  quale  ha
formulato argomentazioni identiche a quelle  esposte  nei  precedenti
atti di intervento. 
    17.- Il Giudice di pace di Salerno, con ordinanza del 19 novembre
2011 (r.o. n.  51  del  2012),  ha  sollevato,  in  riferimento  agli
articoli  24,  70,  76  e  77  Cost.,   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte  in
cui prevede che  l'esperimento  del  procedimento  di  mediazione  e'
condizione di procedibilita' della domanda giudiziale. 
    Il rimettente riferisce  che,  con  atto  del  7  novembre  2011,
l'attrice ha citato in giudizio una  societa'  di  assicurazioni,  al
fine di ottenere il risarcimento delle lesioni subite ed il  rimborso
delle spese mediche sostenute a  seguito  di  un  sinistro  stradale,
verificatosi  il  17  gennaio  2011.  In  particolare,  l'attrice  ha
affermato di aver stipulato con la convenuta  una  polizza  infortuni
avente  ad  oggetto  la  copertura  di  eventuali  danni  subiti  dal
conducente a seguito di  sinistro  stradale  e  ha  concluso  per  la
condanna della detta compagnia di assicurazioni  al  pagamento  delle
somme quantificate nell'atto introduttivo del giudizio. La  convenuta
si e' costituita in giudizio ed ha eccepito l'improponibilita'  della
domanda per violazione delle  disposizioni  di  cui  all'art.  5  del
d.lgs. n. 28 del 2010,  assumendo  che  non  era  stato  esperito  il
tentativo obbligatorio di conciliazione. 
    Cio' premesso, il  rimettente  ritiene  che  «una  condizione  di
procedibilita' di una domanda giudiziaria, ex  art.  24  Cost.,  puo'
essere introdotta in maniera esclusiva dal legislatore e  non  da  un
organo governativo che avrebbe potuto  farlo  soltanto  se  ne  fosse
stato autorizzato dalla legge di delega». 
    Secondo il giudice a quo l'eccesso si  configurerebbe  «la'  dove
non e' stata recepita la parte in cui [la legge delega] escludeva che
il procedimento potesse costituire condizione di procedibilita' della
domanda ovvero fosse in grado di precludere, per tutta la sua durata,
l'accesso alla giustizia ordinaria», cio' in quanto  «unico  intento»
della legge di delega era quello di creare un  «organismo  deflattivo
per la giustizia e non certamente di  favorire  la  creazione  di  un
elemento ostativo al suo accesso». 
    Il rimettente osserva, ancora, che  «tutto  quanto  previsto  dal
decreto in piu' rispetto  al  portato  della  legge  delega  potrebbe
aprire ad una gestione della giustizia ad  opera  dei  privati,  come
tali  non  legittimati  dalla  Costituzione  a  svolgere  detta  alta
funzione e soprattutto non dotati del rigoroso tecnicismo richiesto». 
    Al riguardo, e' richiamato  l'orientamento  della  giurisprudenza
costituzionale secondo cui il sistema di giustizia «condizionata»  e'
ammissibile  solo  nel  caso  in   cui   l'eccezione   al   principio
«dell'accesso  immediato  alla  giurisdizione»   si   presenti   come
ragionevole e risponda ad un interesse generale, purche' non  vengano
imposti oneri tali da rendere impossibile o eccessivamente  difficile
far valere le proprie ragioni; oneri che, ad avviso  del  rimettente,
sarebbero anche quelli di carattere economico. 
    L'art. 5 del d.lgs. n. 28 del  2010,  pertanto,  si  porrebbe  in
contrasto con l'art. 24 Cost. in quanto «ha reso  la  mediazione  una
condizione di procedibilita' della domanda giudiziaria,  negando  per
tutto  il  tempo  della  sua  durata  l'accesso  alla   giustizia   e
soprattutto non prevedendo  alcun  mezzo  per  i  meno  abbienti  per
attivare il procedimento della  media  conciliazione»;  inoltre,  «in
caso di fallimento del procedimento di media-conciliazione  le  spese
sostenute per adire  l'organismo  definito  deflattivo  non  potranno
essere ripetute e rimarranno esclusivamente a carico delle parti, con
evidenti conseguenze economiche afflittive per le classi sociali meno
agiate». 
    18.- Il Giudice  di  pace  di  Catanzaro,  con  ordinanza  del  3
novembre 2011 (r.o. n. 19 del 2012),  ha  sollevato,  in  riferimento
agli artt. 3, 24 e 77 Cost., questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell'art. 16 del d.m. n.  180
del 2010. 
    In punto di fatto, il rimettente riferisce che la materia oggetto
della domanda concerne  una  richiesta  di  indennizzo  derivante  da
contratto assicurativo e che, pertanto, rientra nelle ipotesi in  cui
l'esperimento della mediazione e' condizione di procedibilita'. 
    Cio' posto, il giudicante ritiene che l'art. 5 del d.lgs.  n.  28
del  2010,  nel  prevedere  che  l'esperimento  del  procedimento  di
mediazione sia condizione di procedibilita' della domanda giudiziale,
si ponga in contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost. in  quanto,  mentre
l'art. 60 della legge n.  69  del  2009,  al  comma  3,  lettera  a),
prescrive che nell'esercizio della delega il Governo si attenga,  tra
gli altri, al seguente  criterio  e  principio  direttivo  «[...]  a)
prevedere che la mediazione, finalizzata  alla  conciliazione,  abbia
per oggetto controversie su  diritti  disponibili,  senza  precludere
l'accesso alla giustizia», l'art. 5 del d.lgs. citato  concepisce  il
procedimento di mediazione quale momento  propedeutico  alla  domanda
giudiziale, «rischiando di compromettere l'effettivita' della  stessa
tutela giudiziale e condizionando in concreto il diritto di azione». 
    Il giudice a quo ritiene, altresi', che l'art. 16 del d.m. n. 180
del 2010, nel prevedere che il tentativo di  conciliazione  abbia  un
costo non meramente simbolico, sia in contrasto con l'art. 24  Cost.,
in quanto subordina l'esercizio  della  funzione  giurisdizionale  al
pagamento di una somma  di  denaro,  cosi'  contravvenendo  a  quanto
affermato dalla sentenza n. 67 del 2 novembre 1960 di  questa  Corte,
secondo cui lo Stato non puo'  pretendere  somme  di  denaro  per  la
funzione  giurisdizionale  civile,  se  non  nel  caso   di   tributi
giudiziari o cauzioni. 
    Detta disposizione, prevedendo, inoltre, che l'esborso di  denaro
non e' destinato allo Stato, ma  ad  un  organismo  anche  di  natura
privata, contrasterebbe con il principio fissato  nelle  sentenze  n.
522 del 2002 e n. 333 del 2001 della  Corte  costituzionale,  secondo
cui l'esborso  deve  essere  «razionalmente  collegato  alla  pretesa
dedotta in  giudizio,  allo  scopo  di  assicurare  al  processo  uno
svolgimento meglio conforme alla sua funzione». 
    Sussisterebbe anche il contrasto con l'art. 3  Cost.  in  quanto,
prevedendo espressamente che la parte convenuta possa non aderire  al
procedimento e non anche  la  parte  attrice,  si  introdurrebbe  una
disparita' di trattamento. 
    19.- Con atto depositato in data 13 marzo 2012, e' intervenuto il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  rappresentato   e   difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il   quale   ha   formulato
argomentazioni identiche a quelle esposte nell'atto di intervento nel
giudizio di legittimita' costituzionale originato dall'ordinanza  del
Giudice di pace di Catanzaro n. 2 del 2012,  ed  ha  chiesto  che  la
questione sia dichiarata non fondata. 
    20.- Il Tribunale di Torino, con ordinanza del  24  gennaio  2012
(r.o. n.  99  del  2012),  ha  sollevato  questione  di  legittimita'
costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 77,  101  e  102
Cost., dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del  2010,  nella  parte  in  cui
prevede che chi intende esercitare  in  giudizio  un'azione  relativa
alle materie ivi indicate «e' tenuto preliminarmente  a  esperire  il
procedimento di mediazione ai sensi del presente  decreto»,  anziche'
«puo' esperire il procedimento di mediazione ai  sensi  del  presente
decreto»; inoltre, nella parte in cui prevede che «l'esperimento  del
procedimento di mediazione  e'  condizione  di  procedibilita'  della
domanda  giudiziale»,  nonche'  nella  parte  in  cui   prevede   che
«l'improcedibilita' deve essere eccepita dal  convenuto,  a  pena  di
decadenza, o rilevata di ufficio  dal  giudice  non  oltre  la  prima
udienza». 
    In punto di fatto, il  rimettente  riferisce  che,  con  atto  di
citazione dell'11 luglio 2011, gli attori hanno  citato  in  giudizio
M.A. per ottenerne la condanna al pagamento di una  somma  di  denaro
pari ad euro 7.304,47 quale corrispettivo di spese  di  riscaldamento
per gli anni 2005-2010 e «di risarcimento dei danni conseguenti ad un
contratto di locazione» intrattenuto tra la loro dante causa  con  la
convenuta, relativo ad un immobile situato in Torino. 
    La   convenuta,   costituitasi   in   giudizio,    ha    eccepito
l'improcedibilita' della domanda giudiziale ai sensi dell'art. 5  del
d.lgs. n. 28 del 2010, perche' vertente in materia di locazione. 
    Cio' posto, il rimettente ritiene di dover sollevare, di ufficio,
la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5 del d.lgs. n.
28 del 2010. 
    In primo luogo, egli assume che detta disposizione si porrebbe in
contrasto con gli articoli 76 e 77  Cost.  Al  riguardo  osserva  che
l'art. 60 della legge  n.  69  del  2009,  in  conformita'  a  quanto
prescritto dalla  direttiva  europea,  aveva  stabilito  che  dovesse
essere introdotto un meccanismo di conciliazione,  ma  non  ne  aveva
previsto la obbligatorieta', ne' aveva consentito  che  essa  potesse
essere considerata come condizione di  procedibilita'  della  domanda
giudiziale. 
    L'art. 60 della legge delega, al comma 3, lettera  a),  prescrive
che nell'esercizio della delega il Governo debba attenersi,  tra  gli
altri, al principio consistente «nel  prevedere  che  la  mediazione,
finalizzata alla conciliazione, abbia  per  oggetto  controversie  su
diritti disponibili, senza precludere l'accesso alla giustizia». 
    Secondo  il  rimettente,  quindi,  «il  procedimento   di   media
conciliazione e' paragonabile ad un arbitrato irrituale  imposto  per
legge in una ampia serie di materie giuridiche, tra cui questa  della
locazione, che va ad influenzare sia nei tempi, sia nella sostanza il
processo che per dettato costituzionale dovrebbe  essere  tenuto  dai
giudici ordinari». 
    Si sarebbe percio' in presenza di uno  straripamento  dei  poteri
del legislatore delegato, che avrebbe imposto ai giudici,  con  grave
spesa  per  i  cittadini,   almeno   tre   intralci   alla   funzione
giurisdizionale, cioe' quello di sospendere  o  comunque  rinviare  i
processi in attesa dell'esito della media-conciliazione, che potrebbe
pure non essere piu' attivata, denegando cosi' giustizia ai cittadini
stessi; quello derivante dall'art. 8, comma 5, del d.lgs. n.  28  del
2010, che prescrive al giudice di tener conto, ai sensi dell'art. 116
cod. proc. civ., come argomento di prova negativa,  del  contegno  di
chi non  si  presenta  davanti  al  mediatore  per  partecipare  alla
conciliazione; e, ancora, quello derivante dall'art. 13  del  decreto
delegato  che  impone  al  giudice  di  tener  conto  della  proposta
formulata dal mediatore,  quando  deve  procedere  alla  liquidazione
delle spese giudiziali ai sensi degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. 
    Secondo il rimettente la disposizione censurata  si  porrebbe  in
contrasto anche con gli artt. 3,  101  e  102  Cost.,  in  quanto  il
ricorso   al   procedimento   obbligatorio   di   media-conciliazione
graverebbe, con i detti «irragionevoli intralci»,  sul  potere-dovere
del giudice, soggetto solo alla legge, di conduzione e  di  decisione
della causa, e porrebbe «gli utenti della giustizia su  un  piano  di
diversita' perche' la scelta delle materie, in cui e' obbligatoria la
media-conciliazione, appare del  tutto  irragionevole  rispetto  agli
interessi meritevoli della tutela giurisdizionale». 
    Sussisterebbe, altresi', la violazione degli artt. 3 e 24  Cost.,
in quanto la mediazione avrebbe un costo  destinato  a  ricadere  sul
cittadino il quale deve adire il giudice  statuale,  peso  che  nella
maggior parte dei casi si rivelerebbe inutile. 
    Il  giudicante  osserva,  altresi',  che  la   disciplina   della
mediazione non prevede criteri di  competenza  territoriale,  con  la
conseguenza che il chiamato potrebbe essere posto nella irragionevole
svantaggiosa posizione di andare a difendersi anche in  luoghi  molto
distanti dalla sua residenza; e l'eventuale «contumacia» del chiamato
davanti al  mediatore  potrebbe  essere  valutata  negativamente  dal
giudice. 
    21.- Con atto depositato in data 19 giugno 2012,  e'  intervenuto
in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale  dello  Stato,  il  quale  ha  svolto
argomentazioni identiche a quelle esposte in relazione all'intervento
nel giudizio originato dall'ordinanza r.o. n. 33 del 2012. 
    22.- In prossimita' dell'udienza e  della  camera  di  consiglio,
l'OUA,  il  Consiglio  dell'Ordine  degli  Avvocati  di  Napoli,   il
Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di  Torre  Annunziata,  l'Unione
regionale dei Consigli dell'Ordine degli Avvocati della Campania,  il
Consiglio dell'Ordine  degli  Avvocati  di  Lagonegro,  il  Consiglio
dell'Ordine degli Avvocati di Larino, il Consiglio dell'Ordine  degli
Avvocati di Campobasso, l'AIAF, l'Organismo di mediazione ADR  Center
s.p.a., l'Unione Nazionale  delle  Camere  Civili,  hanno  depositato
memorie con le quali ribadiscono e sviluppano le argomentazioni  gia'
svolte nell'atto di costituzione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (d'ora  in
avanti, TAR), con l'ordinanza del 12 aprile 2011  (r.o.  n.  268  del
2011),  dubita  -  in  riferimento  agli  articoli  24  e  77   della
Costituzione - della legittimita' costituzionale dell'articolo 5  del
decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell'articolo  60
della  legge  18  giugno  2009,  n.  69,  in  materia  di  mediazione
finalizzata  alla   conciliazione   delle   controversie   civili   e
commerciali). In particolare,  il  TAR  censura  il  comma  1,  primo
periodo (che  introduce,  a  carico  di  chi  intende  esercitare  in
giudizio  un'azione  relativa   alle   controversie   nelle   materie
espressamente  elencate,  l'obbligo  del   previo   esperimento   del
procedimento di mediazione), secondo periodo (il  quale  prevede  che
l'esperimento della mediazione e' condizione di procedibilita'  della
domanda  giudiziale)  e  terzo  periodo  (alla  stregua   del   quale
l'improcedibilita' deve essere  eccepita  dal  convenuto  o  rilevata
d'ufficio dal giudice); inoltre il  TAR  dubita,  in  riferimento  ai
medesimi artt. 24  e  77  Cost.,  della  legittimita'  costituzionale
dell'art. 16 del citato d.lgs. n. 28 del 2010, «laddove  dispone  che
abilitati a costituire organismi deputati,  su  istanza  della  parte
interessata, a gestire il procedimento di mediazione  sono  gli  enti
pubblici e privati, che diano garanzie di serieta' ed efficienza». 
    1.1.- Il TAR premette di essere chiamato  a  pronunziare  in  due
procedimenti, relativi a ricorsi recanti i numeri 10937 e  11235  del
2010, poi riuniti, promossi entrambi nei confronti del Ministro della
giustizia e del  Ministro  dello  sviluppo  economico,  il  primo  da
numerosi soggetti, indicati in epigrafe e in  narrativa,  il  secondo
dall'Unione Nazionale delle Camere Civili (UNCC),  con  l'intervento,
ad adiuvandum e ad opponendum, di altri soggetti, del  pari  indicati
in epigrafe e in narrativa. 
    Oggetto dei ricorsi e' la domanda  di  annullamento  del  decreto
adottato dal Ministro della giustizia, di concerto col Ministro dello
sviluppo economico, in data 18 ottobre 2010, n. 180, con richiesta di
ritenere non manifestamente infondata la  questione  di  legittimita'
costituzionale degli artt. 5 e 16 del  d.lgs.  n.  28  del  2010,  in
riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost. I ricorrenti  affermano  che
il menzionato d.m. non soltanto sarebbe lesivo degli interessi  della
categoria forense, ma sarebbe anche illegittimo perche' in  contrasto
col suddetto d.lgs. e con la  relativa  legge  delega  e  affetto  da
eccesso di potere sotto vari profili. 
    Cio' posto,  il  rimettente  si  sofferma  sul  quadro  normativo
rilevante e sui motivi dei ricorsi,  con  particolare  riguardo  alle
ragioni  attinenti   alle   sollevate   questioni   di   legittimita'
costituzionale. 
    Dopo avere argomentato sulla  rilevanza  di  tali  questioni,  il
rimettente ritiene che le prime  tre  disposizioni  dell'art.  5  del
d.lgs. n. 28 del 2010 si porrebbero in contrasto con l'art. 77 Cost.,
perche' non potrebbero essere ascritte all'art.  60  della  legge  18
giugno 2009, n.  69  (Disposizioni  per  lo  sviluppo  economico,  la
semplificazione, la competitivita' nonche'  in  materia  di  processo
civile), non essendo rilevabile alcun elemento da cui desumere che la
regolazione della materia contenuta  nella  normativa  censurata  sia
conforme ai precetti della detta legge delega. 
    Infatti: 1) nessuno dei criteri  e  principi  direttivi  previsti
rivelerebbe in modo espresso la finalita' di  perseguire  un  intento
deflattivo del contenzioso giurisdizionale; 2) nessuno dei criteri  o
principi  configurerebbe  l'istituto  della  mediazione   come   fase
pre-processuale obbligatoria; 3) avuto riguardo al  silenzio  serbato
dal legislatore delegante sullo specifico tema, sarebbe stato  almeno
necessario che il citato  art.  60  lasciasse  trasparire  sul  punto
elementi univoci e concludenti, ma cio' non sarebbe avvenuto;  4)  si
dovrebbe escludere che la norma ora menzionata, con il richiamo  alla
normativa comunitaria, possa essere intesa come delega al  Governo  a
compiere qualsiasi scelta occasionata dalla direttiva 21 maggio 2008,
n. 2008/52/CE (Direttiva  del  Parlamento  europeo  e  del  Consiglio
relativa a determinati aspetti della mediazione in materia  civile  e
commerciale); 5) inoltre, tale direttiva  lascerebbe  «impregiudicata
la legislazione  nazionale  che  rende  il  ricorso  alla  mediazione
obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni,  sia  prima  che
dopo  il  procedimento  giudiziario»;  6)  nessun  elemento  decisivo
potrebbe trarsi dal principio previsto dall'art. 60, comma 3, lettera
a), della legge-delega, nella parte in cui dispone che la mediazione,
finalizzata alla conciliazione, abbia  per  oggetto  controversie  su
diritti disponibili, «senza  precludere  l'accesso  alla  giustizia»,
perche' il legislatore, utilizzando tale espressione, avrebbe  inteso
soltanto rispettare un principio assoluto dell'ordinamento  nazionale
(art. 24 Cost.) e di quello comunitario. 
    I criteri  e  principi  direttivi  fissati  dalla  legge  delega,
dunque, sarebbero neutrali al fine di  verificare  la  rispondenza  a
tale legge dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del  2010.  Invece,  due  dei
criteri direttivi previsti dal legislatore delegante  deporrebbero  a
favore della previsione del  carattere  facoltativo  che  si  sarebbe
inteso attribuire alla procedura di mediazione. 
    Il primo sarebbe desumibile dall'art. 60, comma  3,  lettera  c),
della  legge  delega,  in  forza  del  quale  la  mediazione  sarebbe
disciplinata anche mediante estensione delle disposizioni di  cui  al
decreto  legislativo  17  gennaio  2003,  n.   5   (Definizione   dei
procedimenti in materia di diritto societario  e  di  intermediazione
finanziaria, nonche' in materia bancaria e creditizia, in  attuazione
dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366). Orbene, la clausola
di conciliazione prevista dal d.lgs. n. 5  del  2003  (normativa  ora
abrogata proprio dal d.lgs. n. 28 del 2010) nasceva da norme di fonte
volontaria e non obbligatoria. 
    Il secondo andrebbe tratto dall'art. 60,  comma  3,  lettera  n),
della legge delega, che prevede il dovere dell'avvocato di  informare
il cliente, prima dell'instaurazione del giudizio, della possibilita'
di avvalersi dell'istituto della conciliazione, nonche' di  ricorrere
agli  organismi  di  conciliazione.  Il  rimettente  rileva  che   la
possibilita' e', ovviamente, cosa diversa dalla  obbligatorieta';  e,
infatti, l'art. 4 del d.lgs. n. 28 del 2010 differenzierebbe al comma
3 l'ipotesi in cui l'avvocato omette di informare  il  cliente  della
«possibilita'»  di  avvalersi  della  mediazione  da  quella  in  cui
l'omissione informativa concerne i casi nei quali l'espletamento  del
procedimento di mediazione  e'  condizione  di  procedibilita'  della
domanda giudiziale. 
    Quanto all'art. 16 del  d.lgs.  n.  28  del  2010,  esso  avrebbe
«conformato gli organismi di conciliazione a parametri,  o  meglio  a
qualita', che attengono esclusivamente ed essenzialmente  all'aspetto
della funzionalita' generica, e  che,  per  contro,  sono  scevri  da
qualsiasi riferimento a canoni tipologici tecnici o professionali  di
carattere qualificatorio ovvero strutturale». 
    2.- Il Giudice di pace di Parma, con ordinanza depositata  il  1°
agosto 2011 (r.o. n. 254 del 2011), ha sollevato, in riferimento agli
artt. 24 e 77 Cost., questioni di legittimita'  costituzionale  degli
artt. 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16, comma 1,  del
d.lgs. n. 28 del 2010. 
    Il rimettente, premesso di essere chiamato  a  giudicare  in  una
causa civile avente ad oggetto una domanda di pagamento in materia di
locazione, rientrante nell'ambito applicativo dell'art. 5 del  d.lgs.
ora citato, ritiene che le norme censurate siano in contrasto: a) con
l'art. 24 Cost., «in quanto realizzano un meccanismo di  determinante
influenza di  situazioni  preliminari  sulla  tutela  giudiziale  dei
diritti, posto che l'art. 5 in discorso ha configurato, nelle materie
previste,  l'attivita'  degli   organismi   di   conciliazione   come
imprescindibile   e,   per   cio'   stesso,   idonea   a   conformare
definitivamente i  diritti  soggettivi  coinvolti».  In  particolare,
l'art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010 «ha delineato  gli  organismi  di
conciliazione con  riferimento  a  qualita'  nell'ottica  della  mera
funzionalita' degli stessi, omettendo qualsiasi riferimento a criteri
di qualificazione tecnica o professionale»; sicche'  «in  difetto  di
una adeguata definizione della figura  del  mediatore,  le  norme  in
discorso potrebbero essere fonte di pregiudizi a danno dei privati, i
quali  in  sede  giudiziale  potrebbero  usufruire  di  elementi   di
valutazione diversi da quelli a loro offerti nella  fase  preliminare
del procedimento di mediazione»; b) con l'art. 77  Cost.,  posto  che
«il legislatore delegante non ha formulato alcuna  indicazione  circa
l'obbligatorieta'  del  previo  esperimento   del   procedimento   di
mediazione»; ed anzi, alla luce  dei  principi  e  criteri  direttivi
della legge delega, di  cui  alle  lettere  c)  ed  n)  del  comma  3
dell'art. 60,  si  deve  escludere  che  l'obbligatorieta'  di  detto
procedimento possa  rientrare  nella  discrezionalita'  tipica  della
legislazione delegata «quale attivita' di attuazione e sviluppo della
delega,  nella   debita   considerazione   del   contesto   normativo
comunitario di riferimento». 
    3.- Il Giudice di pace di Recco, con l'ordinanza depositata il  5
dicembre 2011 (r.o. n. 33 del 2012), ha sollevato  -  in  riferimento
agli  artt.  3,  24  e  111  Cost.  -   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e  dell'art.  16
del d.m. n. 180 del 2010, «da soli o in combinato disposto». 
    Le suddette disposizioni, ad avviso del rimettente, sarebbero  in
contrasto con:  a)  l'art.  24  Cost.,  in  relazione  ai  tempi  del
processo, in quanto il termine di quattro mesi «appare decisamente al
di fuori della soglia di tollerabilita'», ancor piu' se  si  prendono
in   considerazione   altri   procedimenti   concernenti    tentativi
obbligatori di conciliazione, ma con  termini  di  espletamento  piu'
brevi; b) ancora con l'art. 24 Cost., in  relazione  alla  disciplina
dei costi della mediazione, assumendo  che  «Tra  l'esigenza  di  non
rendere economicamente troppo gravoso  ai  cittadini  l'accesso  alla
tutela giurisdizionale e l'esigenza, pur  particolarmente  avvertita,
di  individuare  strumenti  idonei  a  decongestionare   gli   uffici
giudiziari attraverso lo sfoltimento del carico di lavoro, prevalenza
debba avere la prima»; c) con l'art. 3 Cost., in quanto la disciplina
dei costi di mediazione introduce una disparita' di trattamento tra i
meno abbienti e gli abbienti. Infatti, benche' sia stato previsto  il
beneficio del patrocinio a spese dello Stato,  la  citata  disparita'
comunque resterebbe in relazione ai soggetti che, pur non  rientrando
nel novero di coloro che  possono  avvalersi  del  detto  patrocinio,
versano in condizioni economiche non agiate; d) con l'art. 111 Cost.,
sotto il profilo della ragionevole durata  del  processo,  in  quanto
l'espletamento della mediazione allunga i tempi di esso in assenza di
una idonea giustificazione; e) ancora con l'art.  111  Cost.,  sempre
sotto il profilo della ragionevole durata  del  processo,  in  quanto
l'espletamento obbligatorio  del  tentativo  di  mediazione  si  deve
effettuare non soltanto con  riguardo  alla  domanda  principale,  ma
anche in relazione ad ogni singola  azione  proposta  nel  corso  del
giudizio; f) di  nuovo  con  l'art.  3  Cost.,  per  irragionevolezza
correlata  al  carattere  obbligatorio  della  mediazione  avente  ad
oggetto le controversie di competenza del Giudice di pace, in  quanto
nel processo avanti al detto giudice  il  tentativo  obbligatorio  di
conciliazione e' gia' previsto. 
    4.- Il Giudice di pace di Catanzaro, con  l'ordinanza  depositata
il 1° settembre 2011 (r.o. n. 2 del 2012), dubita  -  in  riferimento
agli artt. 24, 76 e 77  Cost.  -  della  legittimita'  costituzionale
dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che
lo svolgimento  della  procedura  di  mediazione  sia  condizione  di
procedibilita'   della   domanda   giudiziale   in   relazione   alle
controversie nelle materie in esso indicate. 
    Il rimettente riferisce  di  dover  pronunziare  in  un  giudizio
promosso dall'attore per accertare il  suo  diritto  ad  ottenere  la
restituzione di due libri dati in comodato. La convenuta ha eccepito,
in via  preliminare,  l'improcedibilita'  della  domanda  per  omesso
espletamento del tentativo obbligatorio di  conciliazione,  ai  sensi
del censurato art. 5. 
    Ad avviso del giudicante, detta norma violerebbe: a) gli artt. 76
e 77 Cost., ponendosi in contrasto con i principi e criteri direttivi
di cui all'art. 60, comma 3, lettera a), della legge n. 69 del  2009,
secondo cui il Governo, nell'esercizio della delega, doveva prevedere
che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, avesse per oggetto
controversie su diritti disponibili, senza precludere l'accesso  alla
giustizia; b) l'art. 24 Cost. perche' il  tentativo  obbligatorio  di
conciliazione avrebbe  un  costo  non  meramente  simbolico,  sicche'
l'esercizio della funzione  giurisdizionale  sarebbe  subordinato  al
pagamento di una somma di denaro. 
    Inoltre, il giudice a quo  censura,  in  riferimento  all'art.  3
Cost., l'art. 16, comma 4, del d.m. n. 180 del 2010, nella  parte  in
cui  consente  «solo  alla  parte  convenuta  di   non   aderire   al
procedimento, ma non anche  alla  parte  attrice,  che  si  vedrebbe,
comunque, obbligata al  procedimento  di  mediazione  per  poter  far
valere in giudizio  un  suo  diritto».  Al  riguardo,  il  rimettente
ritiene che detta disposizione sia in contrasto con l'art.  3  Cost.,
sotto il profilo del principio di uguaglianza, perche' «pone su piani
diversi, e tratta diversamente, la parte attrice  rispetto  a  quella
convenuta». 
    5.- Il Tribunale  di  Genova,  con  ordinanza  depositata  il  18
novembre 2011 (r.o. n. 108 del 2012), ha sollevato -  in  riferimento
agli artt. 3 e 24 Cost. - questioni di  legittimita'  costituzionale:
1) dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui  prevede
l'esperimento del procedimento  di  mediazione  quale  condizione  di
procedibilita'  della  domanda  giudiziale  solo   per   le   materie
espressamente elencate nel comma primo; 2) dell'art. 5 del d.lgs.  n.
28 del 2010 e dell'art. 2653, primo  comma,  numero  1),  del  codice
civile, nella parte in cui non  prevedono,  per  le  domande  dirette
all'accertamento di diritti reali, la possibilita' di trascrivere  la
domanda di mediazione e direttamente il verbale  di  mediazione,  con
efficacia prenotativa della prima  anche  rispetto  al  provvedimento
giurisdizionale conclusivo del giudizio; 3) dell'art. 5 del d.lgs. n.
28 del 2010 e dell'art. 16 del d.m n. 180 del 2010,  nella  parte  in
cui prevedono l'espletamento  della  procedura  di  mediazione  quale
condizione di procedibilita' della domanda giudiziale,  stabilendone,
altresi', il carattere oneroso; 4) in  riferimento  al  solo  art.  3
Cost., del combinato disposto degli artt. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010
e 16 del d.m. n. 180 del 2010, nella parte in cui prevedono che  solo
il convenuto possa non aderire al procedimento di mediazione. 
    Il rimettente, quanto al punto sub 1), ritiene violati gli  artt.
3 e 24 Cost., in quanto la limitazione della procedura di  mediazione
solo  ad  alcune  materie  darebbe  luogo  ad  una   differenza   non
giustificata da alcuna ragionevole scelta di politica legislativa; in
ordine al punto sub 2), i citati parametri  costituzionali  sarebbero
violati perche' l'attore si vedrebbe costretto a  presentare  istanza
di mediazione (a pena d'improcedibilita'), ad  iniziare  un  giudizio
trascrivendo la relativa  domanda,  a  prescindere  dall'esito  della
mediazione  stessa,  a  chiedere   in   ogni   caso   una   pronunzia
giurisdizionale di  merito,  con  la  irragionevole  conseguenza  che
l'attore dovrebbe sopportare sia i costi  della  mediazione,  sia  il
pagamento del contributo unificato per l'instaurazione del  giudizio,
senza potersi giovare  dell'effetto  deflattivo  della  procedura  di
mediazione.  Quanto  al  punto  sub  3),  le  disposizioni  in   esso
menzionate si porrebbero in contrasto con gli  artt.  3  e  24  Cost.
perche'  l'accesso  alla  giurisdizione  resterebbe  condizionato  al
pagamento di una somma di denaro; infine, in relazione al punto 4) le
norme censurate si  porrebbero  in  contrasto  con  l'art.  3  Cost.,
perche' esse darebbero luogo ad una  disparita'  di  trattamento  tra
attore e convenuto, dal momento che per il primo non sarebbe prevista
la possibilita' di rinunziare ad avvalersi del  servizio,  incorrendo
sempre nel pagamento sia delle  spese  di  avvio  sia  di  quelle  di
mediazione. 
    6.- Il Giudice di pace di Catanzaro, con  l'ordinanza  depositata
il  3  novembre  2011  (r.o.  n.  19  del  2012),  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 24  e  77  Cost.,  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e  dell'art.  16
del d.m. n. 180 del 2010. 
    Ad avviso del rimettente, chiamato  a  decidere  su  una  domanda
diretta ad ottenere  il  pagamento  di  un  indennizzo  derivante  da
contratto assicurativo, l'art. 5 del  d.lgs.  n.  28  del  2010,  nel
prevedere  che  l'espletamento  della  procedura  di  mediazione  sia
condizione di procedibilita'  della  domanda  giudiziale,  violerebbe
l'art. 77 Cost. Infatti, sussisterebbe contrasto «tra la legge delega
ed il decreto legislativo 28/10, nella misura in cui,  mentre  l'art.
60 L. 69/09 (legge delega) al  terzo  comma  lett.  a  prescrive  che
nell'esercizio della delega il Governo si attenga, tra gli altri,  al
seguente  principio  e  criterio  direttivo  "a)  prevedere  che   la
mediazione,  finalizzata  alla  conciliazione,  abbia   per   oggetto
controversie su diritti disponibili, senza precludere l'accesso  alla
giustizia",  l'art.  5  d.lgs.  n.   28/10   concepisce   invece   il
procedimento di mediazione quale momento  propedeutico  alla  domanda
giudiziale, rischiando di compromettere l'effettivita'  della  stessa
tutela giudiziale e condizionando in concreto il diritto di azione». 
    Inoltre, l'art. 16 del d.m.  n.  180  del  2010  si  porrebbe  in
evidente contrasto con l'art. 24 Cost., perche', nel prevedere che il
tentativo di conciliazione abbia un costo, non  meramente  simbolico,
subordinerebbe  l'esercizio   della   funzione   giurisdizionale   al
pagamento di una somma di denaro,  cosi'  discostandosi  anche  dalla
sentenza di questa Corte n. 67 del 1960. 
    Infine, sarebbe ravvisabile anche violazione dell'art.  3  Cost.,
perche' l'art. 16 ora citato, concernente i criteri di determinazione
delle  indennita',  prevedendo  che  soltanto  il  convenuto,  e  non
l'attore,  possa  non   aderire   alla   procedura   di   mediazione,
introdurrebbe una disparita' di trattamento. 
    7.- Il Giudice di pace di Salerno, con l'ordinanza depositata  il
19 dicembre 2011 (r.o. n. 51 del 2012), ha sollevato - in riferimento
agli artt. 24,  70,  76  e  77  Cost.  -  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010. 
    Il rimettente, chiamato a pronunciarsi in  un  giudizio  promosso
contro  una  societa'  di  assicurazioni  al  fine  di  ottenere   un
indennizzo per lesioni subite e per spese mediche sostenute a seguito
di un incidente stradale, ritiene che la norma censurata, nella parte
in cui  prevede  che  l'esperimento  della  procedura  di  mediazione
costituisca condizione di procedibilita' della domanda giudiziale, si
riveli in contrasto con gli artt.  70,  76  e  77  Cost.,  in  quanto
«analizzando il rapporto tra legge delega e  decreto  legislativo  n.
28/2010 emerge chiaramente che l'art. 26 (recte: 76)  attribuisce  la
delega al  Governo  "esclusivamente"  per  recepire  la  disposizione
prevista dall'art. 69/09 ed in  particolare  l'eccesso  si  configura
laddove non e' stata recepita  la  parte  in  cui  escludeva  che  il
procedimento potesse costituire condizione  di  procedibilita'  della
domanda ovvero fosse in grado di precludere, per tutta la sua durata,
l'accesso alla giustizia ordinaria». Cio' perche' unico intento della
legge delega  sarebbe  stato  quello  di  creare  esclusivamente  «un
organismo deflattivo per la giustizia e non certamente di favorire la
creazione di un elemento ostativo al suo accesso». 
    Inoltre,  sarebbe  violato  l'art.  24  Cost.  perche'  la  norma
denunziata  avrebbe   reso   «la   mediazione   una   condizione   di
procedibilita' della domanda giudiziaria, negando per tutto il  tempo
della  sua  durata  l'accesso  alla  giustizia  e   soprattutto   non
prevedendo  alcun  mezzo  per  i  meno  abbienti  per   attivare   il
procedimento  della  media  conciliazione».  Inoltre,  «in  caso   di
fallimento del procedimento di media conciliazione le spese sostenute
per  adire  l'organismo  definito  deflattivo  non  potranno   essere
ripetute e  rimarranno  esclusivamente  a  carico  delle  parti,  con
evidenti conseguenze economiche afflittive per le classi sociali meno
agiate». 
    A sostegno della tesi propugnata, il giudice a  quo  richiama  il
principio affermato da questa Corte, secondo il quale «un sistema  di
giustizia  "condizionata"  e'  ammissibile  solo  nel  caso  in   cui
l'eccezione al principio dell'accesso immediato alla giurisdizione si
presenti come  ragionevole  e  risponda  ad  un  interesse  generale,
purche' non vengano imposti  oneri  tali  da  rendere  impossibile  o
eccessivamente difficile far valere le proprie ragioni». 
    8.- Il Tribunale di  Torino,  in  composizione  monocratica,  con
l'ordinanza depositata il 24 gennaio 2012 (r.o. n. 99 del  2012),  ha
sollevato - in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 77, 101 e 102  Cost.
- questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 5 del d.lgs.  n.
28 del 2010, nella parte in cui prevede che chi intende esercitare in
giudizio un'azione relativa alle  materie  ivi  indicate  «e'  tenuto
preliminarmente ad esperire il procedimento di  mediazione  ai  sensi
del presente decreto», anziche' «puo'  esperire  il  procedimento  di
mediazione ai sensi del presente decreto»; inoltre,  nella  parte  in
cui prevede che «l'esperimento  del  procedimento  di  mediazione  e'
condizione di procedibilita' della domanda giudiziale», nonche' nella
parte in cui prevede che «l'improcedibilita' deve essere eccepita dal
convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non
oltre la prima udienza». 
    Il rimettente riferisce di essere investito  di  un  giudizio  di
pagamento di somme relative ad un contratto di  locazione.  In  prima
udienza la convenuta ha eccepito  l'improcedibilita'  della  domanda,
non essendo stata attivata la procedura di mediazione. 
    Cio' posto, il giudice a quo ritiene che la  norma  censurata  si
porrebbe in contrasto con  gli  artt.  76  e  77  Cost.,  in  quanto,
configurando  il  procedimento  di  mediazione  come  obbligatorio  e
condizione di procedibilita' della domanda, violerebbe il principio e
criterio direttivo di cui all'art. 60, comma  3,  lettera  a),  della
legge n. 69 del 2009, secondo cui il  Governo,  nell'esercizio  della
delega,  deve  prevedere  che   la   mediazione,   finalizzata   alla
conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili,
senza  precludere  l'accesso  alla  giustizia.  Il  procedimento   di
media-conciliazione sarebbe «paragonabile ad un  arbitrato  irrituale
imposto per legge in un'ampia serie di materie giuridiche»,  tra  cui
la locazione, procedimento che «va ad influenzare sia nei  tempi  sia
nella sostanza il processo che per  dettato  costituzionale  dovrebbe
essere tenuto dai giudici ordinari». 
    Ad avviso del rimettente, sarebbero poi violati gli artt.  101  e
102 Cost., perche'  «lo  straripamento  dei  poteri  del  legislatore
delegato» avrebbe imposto ai giudici, nel corso dei processi,  almeno
tre intralci  alla  funzione  giurisdizionale:  1)  quello  derivante
dall'imporre al giudice di sospendere o comunque rinviare i  processi
in attesa dell'esito della media-conciliazione, che potrebbe pure non
essere piu' attivata, cosi'  denegando  giustizia  ai  cittadini;  2)
quello derivante dall'art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 28 del 2010, che
prescrive al giudice di tener  conto,  ai  sensi  dell'art.  116  del
codice di procedura civile, come argomento  di  prova  negativa,  del
comportamento di  chi  non  si  presenta  davanti  al  mediatore  per
partecipare alla conciliazione; 3) quello derivante dall'art. 13  del
decreto delegato,  che  impone  al  giudice  di  tenere  conto  della
proposta  formulata  dal  mediatore,  quando  deve   procedere   alla
liquidazione delle spese processuali, ai sensi degli artt.  91  e  92
cod. proc. civ. 
    Ancora, sarebbero violati gli artt. 3  e  24  Cost.,  perche'  la
scelta delle materie, nelle  quali  la  mediazione  e'  obbligatoria,
apparirebbe  del  tutto   irragionevole   rispetto   agli   interessi
meritevoli della tutela giurisdizionale, in quanto - introducendo  un
costo a carico dei cittadini ed a favore degli uffici  privati  della
media-conciliazione - si porrebbe in contrasto con i principi dettati
da questa Corte nella sentenza n. 67 del 1960; non prevedendo criteri
di competenza territoriale, porrebbe il privato  nella  irragionevole
posizione di doversi difendere anche in luoghi molto  distanti  dalla
sua  residenza,  scelti  dall'attore;  l'eventuale  «contumacia»  del
chiamato davanti al mediatore potrebbe essere valutata  negativamente
dal giudice. 
    9.- Le otto  ordinanze  di  rimessione,  qui  riassunte,  pongono
questioni identiche, o tra loro strettamente connesse,  in  relazione
alla normativa censurata. Pertanto, i relativi giudizi devono  essere
riuniti, per essere definiti con unica sentenza. 
    10.- In  via  preliminare  deve  essere  confermata  l'ordinanza,
adottata nel corso dell'udienza pubblica ed  allegata  alla  presente
sentenza, con  la  quale  sono  stati  dichiarati  inammissibili  gli
interventi spiegati nel giudizio di cui all'ordinanza n. 268 del 2011
dai seguenti soggetti: il Consiglio  dell'Ordine  degli  Avvocati  di
Milano; la Societa' Italiana Conciliazione  Mediazione  ed  Arbitrato
(SIC & A) s.r.l.; l'Associazione Nazionale Mediatori e  Conciliatori;
l'Unioncamere - Unione Italiana delle Camere di commercio, industria,
artigianato e agricoltura; la Camera di  commercio  di  Cagliari;  la
Camera di commercio di Firenze; la Camera di commercio di Milano;  la
Camera di commercio di Palermo; la Camera di commercio di Potenza; la
Camera di commercio di Roma; la Camera di  commercio  di  Torino;  la
Camera  di  commercio  di  Venezia;  Assomediazione  -   Associazione
italiana organismi privati di  mediazione  e  di  formazione  per  la
mediazione; nonche' l'intervento  spiegato  dal  Consiglio  Nazionale
Forense nel giudizio di legittimita'  costituzionale  introdotto  con
ordinanza del Tribunale di Genova r.o. n. 108 del 2012. 
    Invero, i soggetti e gli enti sopra indicati non sono stati parti
nei giudizi a quibus. 
    Per giurisprudenza di questa Corte, ormai costante, sono  ammessi
a intervenire nel giudizio incidentale di legittimita' costituzionale
(oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di  legge
regionale, al Presidente della Giunta regionale) le  sole  parti  del
giudizio principale,  mentre  l'intervento  di  soggetti  estranei  a
questo e' ammissibile soltanto per i terzi titolari di  un  interesse
qualificato, inerente  in  modo  diretto  ed  immediato  al  rapporto
sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari
di ogni altro, dalla norma o  dalle  norme  oggetto  di  censura  (ex
plurimis: ordinanza letta all'udienza del 23 marzo  2010,  confermata
con sentenza n. 138 del 2010;  ordinanza  letta  all'udienza  del  31
marzo 2009, confermata con sentenza n. 151 del 2009; sentenze  n.  94
del 2009, n. 96 del 2008 e n. 245 del 2007). 
    Orbene, nei giudizi da  cui  traggono  origine  le  questioni  di
legittimita' costituzionale in discussione,  i  rapporti  sostanziali
dedotti in causa concernono profili  attinenti  alla  mediazione  nel
processo civile, che possono anche riguardare interessi professionali
della classe forense o delle Camere di commercio, ma concernono  piu'
in generale le posizioni che le parti intendono azionare nel processo
e non  mettono  in  gioco  le  prerogative  del  Consiglio  Nazionale
Forense, dei Consigli dell'Ordine degli Avvocati o delle dette Camere
di commercio, nonche', a maggior ragione, degli altri soggetti  sopra
indicati. 
    Sotto altro profilo, l'ammissibilita' d'interventi  ad  opera  di
terzi, titolari di interessi soltanto analoghi a quelli  dedotti  nel
giudizio principale, contrasterebbe con il carattere incidentale  del
giudizio di legittimita' costituzionale, in  quanto  l'accesso  delle
parti al detto giudizio avverrebbe senza  la  previa  verifica  della
rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte
del giudice a quo. 
    Considerazioni identiche valgono in ordine alla posizione di  ADR
Accorditalia  s.r.l.  Tale  societa'  ha   spiegato   intervento   ad
opponendum nel giudizio incidentale di  legittimita'  costituzionale,
relativo alla questione sollevata dal  Giudice  di  pace  di  Salerno
(r.o. n. 51 del 2012), pur non rivestendo la qualita'  di  parte  nel
giudizio a quo. 
    Ne  deriva  la  declaratoria  d'inammissibilita'   dei   suddetti
interventi. 
    11.- La questione di legittimita' costituzionale,  sollevata  dal
Giudice di pace di Recco, deve essere dichiarata inammissibile. 
    Infatti,  il  rimettente  omette  qualsiasi   descrizione   della
fattispecie sottoposta al suo esame, limitandosi a  rilevare  che  si
tratta di controversia «non priva di interesse e nemmeno  di  agevole
soluzione, che tuttavia, essendo matura per la  decisione  in  quanto
basata esclusivamente su risultanze documentali, sarebbe stata decisa
in quindici giorni». In particolare, il giudice  a  quo  trascura  di
fornire elementi idonei a stabilire se la vertenza,  nella  quale  e'
chiamato a pronunciare, rientri o meno nel catalogo delle  cause  per
le quali l'art. 5, comma 1, del d.lgs.  n.  28  del  2010  impone  il
preliminare  esperimento  del  procedimento  di   mediazione,   cosi'
precludendo alla Corte il necessario controllo in punto di rilevanza. 
    Ne' la rilevata omissione potrebbe essere sanata con l'esame  del
fascicolo relativo al giudizio di merito, perche' cio' si tradurrebbe
in violazione del  principio  di  autosufficienza  dell'ordinanza  di
rimessione. 
    12.- Devono essere esaminate con priorita', per ragioni di ordine
logico, le questioni di  legittimita'  costituzionale  sollevate,  in
riferimento agli articoli 76 e 77 Cost., nei confronti  dell'art.  5,
comma 1, del d.lgs. n. 28  del  2010,  con  particolare  riguardo  al
carattere obbligatorio che detta norma, in asserita violazione  della
legge delega, attribuisce al preliminare esperimento della  procedura
di mediazione. 
    Al  riguardo,  e'  il  caso  di  osservare  che  l'ordinanza   di
rimessione  del  TAR  menziona   esplicitamente   tra   i   parametri
costituzionali, oltre all'art. 24, soltanto l'art. 77 Cost. Tuttavia,
poiche'  dalla  motivazione  della  detta  ordinanza  si  desume  con
chiarezza il richiamo anche alla violazione dell'art.  76  Cost.,  lo
scrutinio  di  legittimita'  costituzionale  va  condotto   pure   in
riferimento  all'eccesso  di  delega,  peraltro  evocato   da   altre
ordinanze di rimessione. 
    Il citato art. 5,  comma  1,  sotto  la  rubrica  «Condizione  di
procedibilita' e rapporti con il processo», cosi'  dispone:  «1.  Chi
intende esercitare in giudizio un'azione relativa ad una controversia
in materia  di  condominio,  diritti  reali,  divisione,  successioni
ereditarie,  patti  di  famiglia,  locazione,  comodato,  affitto  di
aziende, risarcimento  del  danno  derivante  dalla  circolazione  di
veicoli e natanti, da responsabilita' medica e da diffamazione con il
mezzo della stampa  o  con  altro  mezzo  di  pubblicita',  contratti
assicurativi, bancari e  finanziari,  e'  tenuto  preliminarmente  ad
esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente  decreto
ovvero  il  procedimento  di  conciliazione  previsto   dal   decreto
legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento  istituito
in attuazione dell'articolo 128-bis del testo unico  delle  leggi  in
materia bancaria e  creditizia  di  cui  al  decreto  legislativo  1°
settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni,  per  le  materie
ivi  regolate.  L'esperimento  del  procedimento  di  mediazione   e'
condizione    di    procedibilita'    della    domanda    giudiziale.
L'improcedibilita' deve essere eccepita  dal  convenuto,  a  pena  di
decadenza, o rilevata d'ufficio  dal  giudice,  non  oltre  la  prima
udienza. Il giudice, ove rilevi che la mediazione e'  gia'  iniziata,
ma non si e' conclusa, fissa la successiva udienza dopo  la  scadenza
del termine di cui all'articolo 6. Allo stesso modo  provvede  quando
la mediazione non e' stata esperita, assegnando contestualmente  alle
parti il termine  di  quindici  giorni  per  la  presentazione  della
domanda di mediazione. Il presente comma non si applica  alle  azioni
previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del  consumo  di
cui al decreto legislativo 6 settembre 2005,  n.  206,  e  successive
modificazioni». 
    In forza di tale norma, la parte che intende  agire  in  giudizio
per una delle azioni  specificamente  indicate,  e'  tenuta,  in  via
preliminare, ad esperire la procedura di conciliazione,  disciplinata
come  condizione  di  procedibilita'  della  domanda  giudiziale.  Il
carattere  obbligatorio  cosi'  attribuito  a  detta   procedura   e'
censurato, per eccesso  o  difetto  di  delega,  da  quasi  tutte  le
ordinanze di rimessione sopra riassunte; e tali censure sono fondate. 
    12.1.- Si deve premettere che, come questa Corte  ha  piu'  volte
affermato, «Il controllo della conformita' della norma delegata  alla
norma delegante richiede un confronto tra gli esiti di  due  processi
ermeneutici  paralleli,  l'uno  relativo  alla  norma  che  determina
l'oggetto, i principi e i criteri  direttivi  della  delega;  l'altro
relativo  alla  norma  delegata  da  interpretare   nel   significato
compatibile con questi ultimi. 
    Il contenuto della delega deve essere identificato tenendo  conto
del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la  legge
delega e i relativi  principi  e  criteri  direttivi,  nonche'  delle
finalita' che la ispirano, che costituiscono non solo base  e  limite
delle norme delegate, ma anche strumenti per l'interpretazione  della
loro portata. La delega legislativa non esclude ogni discrezionalita'
del legislatore delegato, che puo'  essere  piu'  o  meno  ampia,  in
relazione al grado di specificita' dei criteri  fissati  nella  legge
delega: pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto  tali
margini di  discrezionalita',  occorre  individuare  la  ratio  della
delega, per verificare se la norma delegata sia con questa  coerente»
(ex plurimis: sentenze n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, nn. 340 e 170
del 2007). 
    In particolare, circa i requisiti che devono fungere da  cerniera
tra i due atti normativi, «i principi e  i  criteri  direttivi  della
legge di delegazione devono essere  interpretati  sia  tenendo  conto
delle  finalita'  ispiratrici  della  delega,  sia  verificando,  nel
silenzio del legislatore  delegante  sullo  specifico  tema,  che  le
scelte del legislatore  delegato  non  siano  in  contrasto  con  gli
indirizzi generali della stessa legge delega» (sentenza  n.  341  del
2007, ordinanza n. 228 del 2005). 
    Cio' posto, si deve osservare che sia la legge delega  (art.  60,
comma 2 e comma 3, lettera c, della legge n. 69  del  2009),  sia  il
d.lgs. n. 28 del 2010 (preambolo) si richiamano al  rispetto  e  alla
coerenza con la normativa dell'Unione europea. E' necessaria, dunque,
una ricognizione, sia pure concisa, degli elementi desumibili da tale
normativa. 
    L'indagine deve prendere le mosse dalla direttiva 2008/52/CE  del
Parlamento europeo e del Consiglio in data 21 maggio 2008,  «relativa
a  determinati  aspetti  della  mediazione  in   materia   civile   e
commerciale». Essa risponde alla necessita' - gia' posta  in  rilievo
dal Consiglio europeo nella riunione di Tampere del 15 e  16  ottobre
1999, nelle conclusioni adottate dal detto Consiglio nel maggio 2000,
nonche' dal libro verde presentato dalla Commissione nell'aprile 2002
- di garantire un migliore  accesso  alla  giustizia,  invitando  gli
Stati membri ad istituire procedure extragiudiziali ed alternative di
risoluzione delle controversie civili e commerciali. 
    La direttiva  muove  dal  presupposto  che  la  mediazione  «puo'
fornire una risoluzione extragiudiziale conveniente  e  rapida  delle
controversie in materia civile  e  commerciale  attraverso  procedure
concepite in base alle esigenze delle parti. Gli  accordi  risultanti
dalla mediazione hanno maggiori  probabilita'  di  essere  rispettati
volontariamente e preservano piu' facilmente una relazione amichevole
e sostenibile tra  le  parti.  Tali  benefici  diventano  anche  piu'
evidenti  nelle  situazioni  che   mostrano   elementi   di   portata
transfrontaliera» (direttiva citata, sesto Considerando). 
    Il  quattordicesimo  Considerando  afferma   che   «La   presente
direttiva dovrebbe inoltre fare salva la legislazione  nazionale  che
rende il ricorso alla  mediazione  obbligatorio  oppure  soggetto  ad
incentivi o sanzioni, purche' tale legislazione  non  impedisca  alle
parti  di  esercitare  il  loro  diritto  di   accesso   al   sistema
giudiziario.  Del  pari,   la   presente   direttiva   non   dovrebbe
pregiudicare gli attuali sistemi di mediazione  autoregolatori  nella
misura in cui  essi  trattano  aspetti  non  coperti  dalla  presente
direttiva». Il principio, poi, e' ripreso e  precisato  nell'art.  3,
lettera a), della direttiva medesima  che,  dopo  avere  definito  la
mediazione come «un procedimento strutturato, indipendentemente dalla
denominazione, dove due o piu' parti di una controversia tentano esse
stesse,  su  base  volontaria,  di  raggiungere  un   accordo   sulla
risoluzione della medesima con  l'assistenza  di  un  mediatore»,  in
ordine alle modalita' stabilisce che «Tale procedimento  puo'  essere
avviato  dalle  parti,   suggerito   od   ordinato   da   un   organo
giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato membro». 
    Infine, l'art. 5, comma 2, dispone  che  «La  presente  direttiva
lascia impregiudicata la legislazione nazionale che rende il  ricorso
alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o  sanzioni,
sia prima che dopo l'inizio  del  procedimento  giudiziario,  purche'
tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare  il  diritto
di accesso al sistema giudiziario». 
    Merita, poi, di essere menzionata la Risoluzione  del  Parlamento
europeo  in  data  25  ottobre  2011   (2011/2117-INI)   sui   metodi
alternativi  di  soluzione  delle  controversie  in  materia  civile,
commerciale e familiare, ancorche' priva di efficacia vincolante. 
    Essa considera, tra l'altro, che una soluzione alternativa  delle
controversie (Alternative Dispute Resolution  -  ADR),  che  consenta
alle parti di  evitare  le  tradizionali  procedure  arbitrali,  puo'
costituire un'alternativa rapida ed economica ai contenziosi;  e,  al
paragrafo 10, afferma che «al fine di non pregiudicare l'accesso alla
giustizia, si oppone a  qualsiasi  imposizione  generalizzata  di  un
sistema obbligatorio di ADR a  livello  di  UE,  ma  ritiene  che  si
potrebbe valutare un meccanismo obbligatorio per la presentazione dei
reclami delle parti al fine di esaminare le possibilita' di ADR».  Al
paragrafo 31, sesto capoverso, aggiunge (tra l'altro) che l'ADR  deve
avere un carattere facoltativo, fondato  sul  rispetto  della  libera
scelta delle parti durante l'intero arco del processo, che lasci loro
la possibilita' di risolvere in  qualsiasi  istante  la  controversia
dinanzi ad un tribunale, e che esso non deve essere in alcun caso una
prima tappa obbligatoria preliminare all'azione in giudizio. 
    Da ultimo, va ricordata, nei limiti  in  precedenza  esposti,  la
risoluzione  del   Parlamento   europeo   del   13   settembre   2011
(2011/2026-INI),  relativa  all'attuazione  della   direttiva   sulla
mediazione negli Stati membri, impatto della stessa sulla  mediazione
e sua adozione da parte dei tribunali. Tale risoluzione, nel  passare
in rassegna le modalita' con cui  alcuni  degli  Stati  membri  hanno
attuato la direttiva  citata,  osserva  nel  paragrafo  10  che  «nel
sistema  giuridico  italiano  la   mediazione   obbligatoria   sembra
raggiungere l'obiettivo di diminuire la  congestione  nei  tribunali;
ciononostante sottolinea che la mediazione dovrebbe  essere  promossa
come una forma di giustizia alternativa praticabile, a basso costo  e
piu' rapida,  piuttosto  che  come  un  elemento  obbligatorio  della
procedura giudiziaria». 
    Per completare il  quadro,  e'  da  considerare,  nei  limiti  di
seguito precisati, la sentenza della Corte di  giustizia  dell'Unione
europea in data 18 marzo  2010,  Sezione  quarta,  pronunciata  nelle
cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08, C-320/08. 
    Con tale pronuncia la Corte ha affermato i seguenti principi:  a)
l'art. 34 della direttiva del Parlamento europeo e  del  Consiglio  7
marzo 2002, n. 2002/22/CE,  relativa  al  servizio  universale  e  ai
diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione
elettronica (direttiva servizio universale) deve essere  interpretato
nel senso che esso non osta ad una normativa di uno Stato  membro  in
forza  della  quale  le  controversie  in  materia  di   servizi   di
comunicazione elettronica tra  utenti  finali  e  fornitori  di  tali
servizi, che riguardano diritti conferiti da tale  direttiva,  devono
formare  oggetto  di  un  tentativo  obbligatorio  di   conciliazione
extragiudiziale come condizione  per  la  ricevibilita'  dei  ricorsi
giurisdizionali;  b)  neanche  i  principi  di   equivalenza   e   di
effettivita',  nonche'  il  principio  della  tutela  giurisdizionale
effettiva, ostano ad una normativa nazionale che impone per  siffatte
controversie il previo esperimento di una procedura di  conciliazione
extragiudiziale, a condizione che tale procedura non conduca  ad  una
decisione  vincolante  per  le  parti,  non   comporti   un   ritardo
sostanziale  per  la  proposizione  di  un  ricorso  giurisdizionale,
sospenda la prescrizione dei diritti in questione e non generi costi,
ovvero questi non siano ingenti  per  le  parti,  e  purche'  la  via
elettronica non costituisca l'unica  modalita'  di  accesso  a  detta
procedura di conciliazione e  sia  possibile  disporre  provvedimenti
provvisori nei casi eccezionali in cui l'urgenza della situazione  lo
imponga. 
    Nella motivazione della pronuncia si legge (punto 65) che, da  un
lato, non esiste un'alternativa meno vincolante alla  predisposizione
di  una  procedura  obbligatoria,  dato  che  l'introduzione  di  una
procedura di risoluzione extragiudiziale  meramente  facoltativa  non
costituisce uno strumento altrettanto efficace per  la  realizzazione
di  detti  obiettivi;  dall'altro,  non  sussiste  una   sproporzione
manifesta tra tali obiettivi e gli  eventuali  inconvenienti  causati
dal  carattere  obbligatorio   della   procedura   di   conciliazione
extragiudiziale. 
    12.2.- Come emerge dalla ricognizione che precede, dai richiamati
atti dell'Unione europea non si desume alcuna esplicita  o  implicita
opzione a  favore  del  carattere  obbligatorio  dell'istituto  della
mediazione. Fermo il favor dimostrato verso detto istituto, in quanto
ritenuto idoneo a fornire una risoluzione extragiudiziale conveniente
e rapida delle controversie  in  materia  civile  e  commerciale,  il
diritto  dell'Unione  disciplina  le  modalita'  con  le   quali   il
procedimento puo' essere  strutturato  («puo'  essere  avviato  dalle
parti,  suggerito  od  ordinato  da  un  organo   giurisdizionale   o
prescritto dal diritto di uno Stato membro», ai  sensi  dell'art.  3,
lettera a, della direttiva 2008/52/CE del 21  maggio  2008),  ma  non
impone e  nemmeno  consiglia  l'adozione  del  modello  obbligatorio,
limitandosi a stabilire  che  resta  impregiudicata  la  legislazione
nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio (art.  5,
comma 2, della direttiva citata). 
    Allo stesso principio, come risulta dal dispositivo, s'ispira  la
sentenza della  Corte  di  giustizia  richiamata  nel  paragrafo  che
precede. Vero e' che, in un passaggio argomentativo (punto  65  della
motivazione) la Corte  considera  inesistente  una  alternativa  meno
vincolante  alla  predisposizione  di  una  procedura   obbligatoria,
perche'   l'introduzione   di   una    procedura    di    risoluzione
extragiudiziale meramente facoltativa non costituirebbe uno strumento
altrettanto efficace per la realizzazione degli obiettivi perseguiti.
Ma tale rilievo non puo' costituire un  precedente,  sia  perche'  si
tratta di un obiter dictum, sia perche' la sentenza citata interviene
su una procedura conciliativa concernente un tipo ben circoscritto di
controversie  (quelle  in  materia  di   servizi   di   comunicazioni
elettroniche tra utenti finali e fornitori di tali servizi), la' dove
la mediazione di cui qui si discute riguarda un rilevante  numero  di
vertenze, che rende non comparabili le due  procedure  anche  per  le
differenze strutturali che le caratterizzano. 
    Pertanto, la disciplina dell'UE si rivela neutrale in ordine alla
scelta  del  modello  di  mediazione  da  adottare,  la  quale  resta
demandata ai singoli Stati membri, purche' sia garantito  il  diritto
di adire i giudici competenti per la  definizione  giudiziaria  delle
controversie. 
    Ne deriva che  l'opzione  a  favore  del  modello  di  mediazione
obbligatoria, operata dalla normativa  censurata,  non  puo'  trovare
fondamento nella citata disciplina. 
    Infatti, una  volta  raggiunta  tale  conclusione,  si  deve  per
conseguenza  escludere  che  il   contenuto   della   legge   delega,
richiamando la direttiva comunitaria, possa essere interpretato  come
scelta a favore del modello di mediazione obbligatoria. 
    13.- Si deve ora procedere all'interpretazione della legge delega
(art. 60 della legge n. 69  del  2009),  al  fine  di  verificare  il
rispetto dei principi da essa posti in sede di emanazione del  d.lgs.
n. 28 del 2010 e,  in  particolare,  delle  disposizioni  oggetto  di
censure. 
    Orbene, la detta legge delega, tra i principi e criteri direttivi
di cui  all'art.  60,  comma  3,  non  esplicita  in  alcun  modo  la
previsione del carattere obbligatorio  della  mediazione  finalizzata
alla conciliazione. Sul punto l'art. 60 della legge n. 69  del  2009,
che per altri aspetti dell'istituto si rivela abbastanza dettagliato,
risulta del tutto silente. Eppure, non si  puo'  certo  ritenere  che
l'omissione riguardi un aspetto secondario o marginale. Al contrario,
la scelta del modello di mediazione costituisce un  profilo  centrale
nella disciplina dell'istituto, come risulta sia dall'ampio dibattito
dottrinale svoltosi in proposito, sia dai lavori parlamentari durante
i quali il tema dell'obbligatorieta' o meno della mediazione fu  piu'
volte discusso. 
    Non si  potrebbe  ritenere  che  il  carattere  obbligatorio  sia
implicitamente desumibile dall'art. 60 citato, comma 3,  lettera  a).
Tale disposizione, nel prevedere che la mediazione abbia per  oggetto
controversie  su  diritti  disponibili,  aggiunge  la  frase   «senza
precludere  l'accesso  alla  giustizia».   Si   tratta,   pero',   di
un'affermazione di  carattere  generale,  non  a  caso  collocata  in
apertura  dell'elenco  dei  principi  e  criteri  direttivi   e   non
necessariamente collegabile alla scelta  di  un  determinato  modello
procedurale, tanto piu' che nella norma di delega non mancano  spunti
ben piu' espliciti che  orientano  l'interprete  in  senso  contrario
rispetto alla volonta' del legislatore delegante  di  introdurre  una
procedura a carattere obbligatorio. 
    In particolare: l'art. 60, comma 3, lettera c),  dispone  che  la
mediazione sia  disciplinata  «anche  attraverso  l'estensione  delle
disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio  2003,  n.  5»,
recante  la  definizione  dei  procedimenti  in  materia  di  diritto
societario e  di  intermediazione  finanziaria,  nonche'  in  materia
bancaria e creditizia. Gli articoli da 38 a 40 di tale  decreto  (poi
abrogati  dall'art.  23,  comma  1,  del  d.lgs.  n.  28  del   2010)
prevedevano un procedimento di conciliazione stragiudiziale nel quale
il ricorso alla mediazione trovava la propria fonte in un accordo tra
le parti (contratto o statuto). Il modulo richiamato dal  legislatore
delegante era, dunque, di fonte volontaria, il che  non  si  concilia
(pur volendo considerare  quel  richiamo  come  non  vincolante)  con
un'opzione a favore della mediazione obbligatoria. 
    Ancora, merita di essere menzionato  il  disposto  dell'art.  60,
comma 3, lettera n), della norma di delega, alla  stregua  del  quale
nell'esercizio della delega stessa il Governo doveva  attenersi  (tra
gli altri) al principio di  «prevedere  il  dovere  dell'avvocato  di
informare il cliente, prima dell'instaurazione  del  giudizio,  della
possibilita' di avvalersi dell'istituto della  conciliazione  nonche'
di ricorrere agli organismi di conciliazione». Orbene, «possibilita'»
di avvalersi significa, evidentemente, facolta', e  non  obbligo,  di
avvalersi («e' tenuto preliminarmente»), cui  invece  fa  riferimento
l'art. 5, comma 1,  del  decreto  delegato.  Il  che  si  evince  con
chiarezza dall'art. 4, comma 3, di quest'ultimo. 
    La disposizione  cosi'  stabilisce:  «All'atto  del  conferimento
dell'incarico, l'avvocato e' tenuto ad  informare  l'assistito  della
possibilita' di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato
dal presente  decreto  e  delle  agevolazioni  fiscali  di  cui  agli
articoli 17 e 20»; poi, cosi' prosegue: «L'avvocato informa  altresi'
l'assistito  dei  casi  in  cui  l'esperimento  del  procedimento  di
mediazione e' condizione di procedibilita' della domanda giudiziale».
Com'e' palese, si tratta  di  due  disposizioni  distinte,  la  prima
riferibile alla mediazione facoltativa, la  seconda  alla  mediazione
obbligatoria e percio' costituente condizione di procedibilita' della
domanda. Tuttavia, soltanto il  primo  modello  trova  la  necessaria
copertura nella norma di  delega.  Il  secondo  compare  nel  decreto
delegato, ma e' privo di ancoraggio nella norma suddetta. 
    Il denunciato eccesso di delega, dunque, sussiste,  in  relazione
al carattere  obbligatorio  dell'istituto  di  conciliazione  e  alla
conseguente strutturazione della relativa procedura  come  condizione
di procedibilita' della domanda giudiziale nelle controversie di  cui
all'art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010. 
    Tale vizio non potrebbe essere  superato  considerando  la  norma
introdotta dal legislatore  delegato  come  un  coerente  sviluppo  e
completamento delle scelte espresse dal  delegante,  perche'  -  come
sopra messo in rilievo - in realta' con il censurato art. 5, comma 1,
si e' posto in essere un  istituto  (la  mediazione  obbligatoria  in
relazione alle controversie nella  norma  stessa  elencate)  che  non
soltanto e' privo di riferimenti ai principi e criteri  della  delega
ma, almeno in due punti, contrasta con la concezione della mediazione
come imposta dalla normativa delegata. 
    Ne' giova il richiamo alla sentenza di questa Corte  n.  276  del
2000. 
    Invero, con quella pronuncia  fu  dichiarata  (tra  l'altro)  non
fondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt.  410,
410-bis e 412-bis  cod.  proc.  civ.,  come  modificati,  aggiunti  o
sostituiti dagli artt. 36, 37 e 39 del decreto legislativo  31  marzo
1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia  di  organizzazione  e  di
rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di  giurisdizione
nelle controversie  di  lavoro  e  di  giurisdizione  amministrativa,
emanate in attuazione dell'art. 11, comma 4,  della  legge  15  marzo
1997, n. 59), e dall'art. 19 del decreto legislativo 29 ottobre 1998,
n. 387 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive  del  decreto
legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del
decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80). 
    La Corte pervenne a tale decisione escludendo (tra  l'altro)  che
le norme censurate fossero viziate da eccesso di delega. A tal  fine,
essa, prendendo le mosse dalla complessa riforma che aveva realizzato
il passaggio dalla giurisdizione amministrativa  a  quella  ordinaria
delle controversie sul rapporto  di  impiego  «privatizzato»  con  le
pubbliche amministrazioni,  sottolineo'  che  la  messa  a  punto  di
strumenti idonei ad agevolare la  composizione  stragiudiziale  delle
controversie, per limitare il ricorso al giudice ordinario alle  sole
ipotesi di inutile sperimentazione del  tentativo  di  conciliazione,
appariva un momento essenziale per la riuscita  della  riforma.  Pose
l'accento sul criterio direttivo di cui all'art. 11, comma 4, lettera
g), della legge 15 marzo 1997,  n.  59  (Delega  al  Governo  per  il
conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed enti  locali,  per
la riforma della pubblica amministrazione e  per  la  semplificazione
amministrativa), rimarcando che detta norma, nel devolvere al giudice
ordinario tutte le controversie relative ai rapporti  di  lavoro  dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni, prevedeva  l'introduzione
di «misure organizzative e processuali anche di  carattere  generale,
atte  a  prevenire   disfunzioni   relative   al   sovraccarico   del
contenzioso», nonche' di «procedure stragiudiziali di conciliazione e
arbitrato». Dopo avere ricostruito l'oggetto della  delega,  osservo'
che «la lettera della delega del  1997  -  riferendosi  a  "procedure
stragiudiziali di  conciliazione  e  arbitrato"  -  non  menziona  il
predicato dell'obbligatorieta'. Ma  e'  anche  vero  che,  quando  la
delega venne  conferita,  l'articolo  410  del  codice  di  procedura
civile, nel testo  allora  vigente,  gia'  contemplava  un  tentativo
facoltativo di conciliazione per le controversie ex art. 409,  mentre
l'art. 69 del decreto legislativo n. 29 del 1993 prevedeva - come  si
e'  detto  -  un  tentativo  obbligatorio  di  conciliazione  per  le
controversie di pubblico impiego privatizzato. In  siffatto  contesto
deve  escludersi  che  la  delega  si  limitasse  ad  attribuire   al
legislatore delegato il  potere  di  regolare  diversamente  le  mere
modalita' organizzative del  tentativo  di  conciliazione  esistente,
senza consentire (per le controversie  ex  art.  409  del  codice  di
procedura civile) l'introduzione dell'obbligatorieta'». 
    Come si vede, la sentenza n. 276  del  2000,  per  giungere  alla
conclusione secondo cui «L'introduzione del tentativo obbligatorio di
conciliazione nelle controversie ex art. 409 del codice di  procedura
civile ha dunque rispettato la delega» (punto 2.5. quarto  capoverso,
del Considerato in diritto), fece leva sia sul contesto della riforma
attuata,  senza  dubbio  di  ampio  respiro  ma   circoscritta   alle
controversie nel settore del diritto del lavoro, sia  sulla  presenza
in tale settore di un tentativo facoltativo di conciliazione  per  le
controversie ai  sensi  dell'art.  409  cod.  proc.  civ.,  e  di  un
tentativo  obbligatorio  di  conciliazione  per  le  controversie  di
pubblico    impiego    privatizzato.    Pertanto    la     previsione
dell'obbligatorieta',  nel  quadro  delle  «misure  organizzative   e
processuali anche di carattere generale atte a prevenire  disfunzioni
dovute al sovraccarico del contenzioso» (art. 11, comma 4, lettera g,
della citata norma di delega) non appariva come un  novum  avulso  da
questa, ma costituiva piuttosto il coerente sviluppo di un  principio
gia' presente nello specifico settore. 
    La fattispecie qui in esame  e',  invece,  diversa:  a  parte  la
differenza  di  contesto,  essa  delinea  un  istituto  a   carattere
generale,  destinato  ad  operare  per  un  numero   consistente   di
controversie, in relazione alle  quali,  pero',  alla  stregua  delle
considerazioni sopra svolte, il carattere dell'obbligatorieta' per la
mediazione non trova alcun ancoraggio nella legge delega. 
    Ne' varrebbe addurre che l'ordinamento  conosce  varie  procedure
obbligatorie di conciliazione, trattandosi di procedimenti specifici,
per singoli  settori,  in  relazione  ai  quali  nessun  rapporto  di
derivazione e' configurabile in riferimento all'istituto in esame. 
    Infine, quanto alla finalita'  ispiratrice  del  detto  istituto,
consistente nell'esigenza di individuare misure  alternative  per  la
definizione delle controversie civili e commerciali, anche al fine di
ridurre  il  contenzioso  gravante  sui  giudici  professionali,   va
rilevato che  il  carattere  obbligatorio  della  mediazione  non  e'
intrinseco  alla  sua  ratio,  come  agevolmente  si   desume   dalla
previsione di altri moduli procedimentali (facoltativi o disposti  su
invito del giudice), del pari ritenuti idonei  a  perseguire  effetti
deflattivi e quindi volti a semplificare e migliorare l'accesso  alla
giustizia. 
    In definitiva, alla stregua delle considerazioni fin qui esposte,
deve essere dichiarata l'illegittimita' costituzionale  dell'art.  5,
comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010, per violazione degli artt.  76  e
77 Cost. La declaratoria  deve  essere  estesa  all'intero  comma  1,
perche' gli ultimi tre periodi sono strettamente collegati  a  quelli
precedenti (oggetto delle censure),  sicche'  resterebbero  privi  di
significato a seguito della caducazione di questi. 
    Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e  quindi
in via consequenziale alla decisione adottata, deve essere dichiarata
l'illegittimita' costituzionale: a) dell'art. 4, comma 3, del decreto
legislativo  n.  28  del  2010,  limitatamente  al  secondo   periodo
(«L'avvocato  informa  altresi'   l'assistito   dei   casi   in   cui
l'esperimento  del  procedimento  di  mediazione  e'  condizione   di
procedibilita'  della  domanda  giudiziale»)  e  al  sesto   periodo,
limitatamente alla frase «se non provvede ai sensi  dell'articolo  5,
comma 1»; b) dell'art. 5, comma 2, primo periodo, del  detto  decreto
legislativo, limitatamente alle parole  «Fermo  quanto  previsto  dal
comma 1 e», c) dell'art. 5, comma 4, del detto  decreto  legislativo,
limitatamente alle parole «I commi 1 e» ; d) dell'art.  5,  comma  5,
del detto  decreto  legislativo,  limitatamente  alle  parole  «Fermo
quanto previsto dal comma 1 e»; e) dell'art. 6, comma  2,  del  detto
decreto legislativo, limitatamente alla frase «e, anche nei  casi  in
cui il giudice dispone il rinvio della causa ai sensi  del  quarto  o
del quinto periodo del comma 1 dell'articolo cinque,»; f) dell'art. 7
del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e il periodo
del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell'art. 5,  comma  1»;  g)
dello stesso articolo 7 nella parte in cui usa il verbo  «computano»,
anziche' «computa»; h)  dell'art.  8,  comma  5,  del  detto  decreto
legislativo; i) dell'art. 11, comma 1, del detto decreto legislativo,
limitatamente al periodo «Prima della formulazione della proposta, il
mediatore  informa  le  parti  delle  possibili  conseguenze  di  cui
all'art. 13»; l) dell'intero art. 13 del detto  decreto  legislativo,
escluso il periodo «resta ferma l'applicabilita' degli articoli 92  e
96 del codice di procedura civile»; m) dell'art. 17, comma 4, lettera
d), del detto decreto legislativo; n)  dell'art.  17,  comma  5,  del
detto  decreto  legislativo;  o)  dell'art.  24  del  detto   decreto
legislativo. 
    14.- Ogni altro profilo resta assorbito.