ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'articolo  31,
commi 1 e 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201  (Disposizioni
urgenti per la crescita, l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti
pubblici), convertito, con modificazioni,  dalla  legge  22  dicembre
2011, n. 214, promossi dalle Regioni Piemonte e Veneto, dalla Regione
siciliana, dalle Regioni Lazio e Lombardia,  dalla  Regione  autonoma
Sardegna,  dalla   Regione   Toscana   e   dalla   Regione   autonoma
Friuli-Venezia Giulia con ricorsi notificati il 1°, il 21, il 25,  il
24, il 25, il 24,  il  23  e  il  25  febbraio  2012,  depositati  in
cancelleria, rispettivamente, il 2 ed il  23  febbraio  2012,  il  1°
marzo, il 1° marzo, il 2 marzo, il 2 marzo, il 5 marzo e il  5  marzo
2012 ed iscritti ai nn. 19, 29, 39, 44, 45, 47, 49 e 50 del  registro
ricorsi 2012. 
    Visti gli atti  di  costituzione  (di  cui,  quelli  relativi  ai
ricorsi iscritti ai nn. 39, 45, 49 e 50 del  registro  ricorsi  2012,
fuori termine) del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    uditi nell'udienza  pubblica  del  7  novembre  2012  il  Giudice
relatore Paolo Maria Napolitano; 
    uditi gli avvocati Luca Antonini, Bruno  Barel,  Andrea  Manzi  e
Daniela Palumbo per la Regione Veneto, Giovanna Scollo per la Regione
Piemonte, Marina Valli per la Regione siciliana, Piero  D'Amelio  per
la Regione Lazio, Fabio Cintioli per la  Regione  Lombardia,  Massimo
Luciani per la Regione autonoma Sardegna, Marcello Cecchetti  per  la
Regione  Toscana,  Giandomenico  Falcon  per  la   Regione   autonoma
Friuli-Venezia Giulia e l'avvocato dello Stato Alessandro De  Stefano
per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ricorso notificato il 1° febbraio 2012  e  depositato  il
giorno successivo, la Regione Piemonte ha impugnato - in  riferimento
all'articolo 117, primo, secondo, lettera e), e quarto  comma,  della
Costituzione e per violazione del principio di leale collaborazione -
l'articolo 31, comma 1, del decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.  201
(Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e il  consolidamento
dei conti pubblici), convertito, con modificazioni,  dalla  legge  22
dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui modifica la lettera  d-bis)
dell'art. 3 del d.l. l4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per
il  rilancio  economico  e  sociale,  per  il   contenimento   e   la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonche' interventi in materia
di entrate e di  contrasto  all'evasione  fiscale),  convertito,  con
modificazioni, dall'art.  1  della  legge  4  agosto  2006,  n.  248,
introdotta dall'art. 35, comma 6, del  d.l.  6  luglio  2011,  n.  98
(Disposizioni   urgenti   per   la   stabilizzazione    finanziaria),
convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio  2011,  n.  111,
eliminando le parole «in via sperimentale» e «dell'esercizio  ubicato
nei comuni inclusi negli elenchi regionali delle localita' turistiche
o citta' d'arte». 
    La  ricorrente,  preliminarmente,  compie   un   excursus   della
legislazione in materia di orari degli esercizi commerciali a partire
dal  decreto  legislativo  31  marzo  1998,  n.  114  (Riforma  della
disciplina relativa al settore del commercio), avente ad  oggetto  la
riforma della disciplina relativa al settore del  commercio  a  norma
dell'art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997,  n.  59  (Delega  al
Governo per il conferimento di funzioni e  compiti  alle  regioni  ed
enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e  per  la
semplificazione amministrativa). 
    In particolare, nel ricorso si fa riferimento agli artt. 11 e  12
del d.lgs. n. 114 del 1998 che, nel  disciplinare  la  materia  degli
orari degli esercizi di vendita al dettaglio e delle possibilita'  di
deroga all'obbligo di  chiusura  domenicale  e  festiva,  stabilivano
gia', a parere della ricorrente, una ampia possibilita'  di  apertura
quanto alle fasce orarie ed alle festivita'. 
    Successivamente, prosegue la Regione ricorrente,  e'  intervenuto
il d.l. n. 223 del 2006 (oggetto della  modifica  impugnata)  il  cui
art. 3, comma 1, elimina una serie  di  limiti  e  prescrizioni  alle
attivita'   commerciali   in    applicazione    delle    disposizioni
dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e
di libera  circolazione  delle  merci  e  dei  servizi,  al  fine  di
garantire la liberta'  di  concorrenza  secondo  condizioni  di  pari
opportunita' ed il corretto ed uniforme  funzionamento  del  mercato,
nonche' di assicurare ai consumatori  finali  un  livello  minimo  ed
uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di  prodotti  e
servizi sul territorio  nazionale,  ai  sensi  dell'art.  117,  comma
secondo, lettere e) ed m), Cost. 
    All'art. 3, comma 1, del d.l. n. 223 del  2006  sopra  citato  e'
stata aggiunta, dall'art. 35, comma 6, del d.l. n. 98  del  2011,  la
lettera d-bis), con la quale si e' esteso il divieto di porre  limiti
e prescrizioni anche in relazione agli orari di apertura e  chiusura,
all'obbligo della chiusura domenicale e  festiva,  nonche'  a  quello
della mezza giornata di chiusura infrasettimanale. 
    La nuova lettera d-bis) dell'art. 3, comma 1, del d.l. n. 223 del
2006, tuttavia, nella sua originaria versione, limitava  l'intervento
di liberalizzazione ai soli esercizi ubicati nei comuni inclusi negli
elenchi regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte. 
    Pochi mesi dopo il legislatore statale e' nuovamente intervenuto,
con l'art. 31, comma 1, del d.l.  n.  201  del  2011,  eliminando  la
limitazione ai  soli  esercizi  ubicati  «nei  comuni  inclusi  negli
elenchi regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte». 
    Secondo  la  Regione,  tale  ultima  norma  sarebbe  viziata   da
illegittimita' costituzionale in  quanto  invasiva  della  competenza
legislativa residuale  regionale  in  materia  di  commercio  di  cui
all'art. 117, quarto comma, Cost. 
    La  ricorrente  premette  di  essere  consapevole  della  copiosa
giurisprudenza  della  Corte   costituzionale,   secondo   la   quale
l'ascrivibilita'  della  disciplina  degli   orari   degli   esercizi
commerciali alla materia commercio non  puo'  determinare  un  vulnus
alla tutela della concorrenza di cui  all'art.  117,  secondo  comma,
lettera e), Cost. 
    La Regione Piemonte, infatti, evidenzia  che  la  Corte  ha  gia'
affermato che le materie «commercio» e «tutela della concorrenza»  si
intersecano  «perche'   altrimenti   il   carattere   trasversale   e
potenzialmente  omnicomprensivo  della   materia   -   tutela   della
concorrenza - finirebbe con lo svuotare del tutto le nuove competenze
regionali attribuite dal legislatore costituente» (sentenze  nn.  150
del 2011, 288 del 2010, 283 del 2009, 430 e 431 del 2007). 
    Secondo    la    ricorrente,    l'eliminazione    di    qualsiasi
regolamentazione dell'orario di apertura degli  esercizi  commerciali
non solo non agevolerebbe la concorrenza ma, anzi,  produrrebbe  essa
stessa delle discriminazioni. La concorrenza, infatti, presuppone una
parita' di condizioni a fronte delle quali anche il consumatore  trae
dei vantaggi. I piccoli commercianti, invece,  non  avrebbero  alcuna
possibilita' di «competere» con i grandi centri commerciali sul piano
della assoluta liberalizzazione degli orari. 
    Tale deregolamentazione  aggraverebbe  anche  le  condizioni  dei
lavoratori e, a maggior ragione, dei piccoli negozi posti all'interno
dei centri commerciali. Questi ultimi, per non rischiare la chiusura,
avevano a suo tempo accettato di  confluire  all'interno  del  centro
alla condizione (loro imposta) di rispettare lo stesso orario (allora
regolamentato). La «liberalizzazione»  si  sarebbe  trasformata,  per
questa categoria, nel suo contrario, e cioe' in un  obbligo  che  gli
stessi non sono in grado di rispettare. Non vi sarebbe, dunque, alcun
bilanciamento dei valori contrapposti e mancherebbe una previsione di
quelle procedure collaborative e condivise cui si faceva  riferimento
nel d.lgs. n. 114 del 1998. 
    Con  la  norma  censurata,  pertanto,  piu'  che   garantire   la
concorrenza,    si     introdurrebbero     illegittimamente     delle
differenziazioni  all'interno   del   medesimo   mercato   rilevante,
determinando situazioni di squilibrio economico e sociale a danno  di
esercizi commerciali dalle modeste dimensioni.  Sarebbe  evidente  lo
squilibrio competitivo  tra  grande  distribuzione  ed  "esercizi  di
vicinato" a fronte della differenza di risorse possedute.  La  totale
eliminazione  delle  regole  cui  gli  operatori   economici   devono
attenersi in materia di orari di  apertura  avvantaggerebbe  solo  la
prima a danno dei secondi. 
    La norma impugnata, dunque, non detterebbe regole di tutela della
concorrenza, intese come garanzia di situazioni di pari  opportunita'
e di  corretto  funzionamento  del  mercato  tese  ad  assicurare  ai
consumatori finali un livello minimo  e  uniforme  di  condizioni  di
accessibilita' all'acquisto di prodotti, ma  violerebbe  la  potesta'
legislativa esclusiva della  Regione  nella  materia  del  commercio,
privandola della facolta' di regolamentare gli orari  di  apertura  e
chiusura degli esercizi commerciali. 
    Inoltre, secondo la Regione Piemonte, vi sarebbe stato  un  abuso
della  decretazione  d'urgenza  e  l'interferenza  con   la   materia
regionale del commercio avrebbe, quanto meno, dovuto  determinare  la
previsione di un'intesa con la Conferenza Stato-Regioni. 
    La ricorrente presenta anche  istanza  di  sospensione  ai  sensi
dell'art.  35  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87  (Norme   sulla
costituzione e sul funzionamento della  Corte  costituzionale),  come
sostituito  dall'art.  9  della  legge  5   giugno   2003,   n.   131
(Disposizioni per  l'adeguamento  dell'ordinamento  della  Repubblica
alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), per il  pregiudizio
grave e irreparabile derivante dall'autoapplicazione della norma, che
starebbe gia' producendo effetti negativi  e,  di  fatto,  distorsivi
della concorrenza, con danno degli  interessi  coinvolti,  anche  con
specifico riferimento ai 500 negozianti dei  centri  commerciali  che
hanno scelto di rimanere aperti tutte le domeniche e non le 23 - piu'
quelle di dicembre - gia' decise. 
    1.1.- In data 12 marzo 2012  si  e'  costituito  in  giudizio  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo il rigetto del ricorso. 
    Secondo l'Avvocatura  dello  Stato,  la  disposizione  impugnata,
concernendo modalita' di esercizio  dell'attivita'  di  distribuzione
commerciale, e' sicuramente una norma che incide sul  «commercio»  di
competenza esclusiva residuale delle Regioni, in forza dell'art. 117,
quarto comma, Cost. 
    Nel contempo, pero', la  constatazione  che  la  norma  in  esame
riguardi  modalita'  di  esercizio  dell'attivita'  di  distribuzione
commerciale non  sarebbe  sufficiente,  da  sola,  ad  escluderne  la
riconducibilita'  anche  alla  «tutela  della  concorrenza»,  con  la
relativa conseguenza sotto  il  profilo  della  competenza  esclusiva
dello Stato in materia. 
    Al  riguardo,  l'Avvocatura  dello   Stato   evidenzia   che   la
disposizione  censurata,  eliminando  ogni  regola   sull'orario   di
apertura    degli    esercizi    commerciali,    consente     l'ampia
liberalizzazione del settore con rilevanti effetti sul mercato. Sotto
il profilo della ratio, inoltre, si tratterebbe di  una  disposizione
volta ad innalzare gli standards di tutela del consumatore in modo da
assicurargli  una  maggiore  liberta'  nell'acquisto  dei   prodotti.
Infine, la  norma  mirerebbe  ad  accrescere  i  consumi,  agevolando
l'accesso ai beni di consumo. 
    La «tutela della concorrenza» e' una  delle  materie  di  rilievo
strategico nel sistema di riparto di competenze tra Stato e  Regioni.
In tal senso la difesa  statale  richiama  la  sentenza  della  Corte
costituzionale con la quale si e' detto che la materia  tutela  della
concorrenza «costituisce una  delle  leve  della  politica  economica
statale e,  pertanto,  non  puo'  essere  intesa  soltanto  in  senso
statico, come garanzia di interventi di regolazione e  ripristino  di
un equilibrio perduto, ma anche in quell'accezione dinamica, ben nota
al diritto comunitario,  che  giustifica  misure  pubbliche  volte  a
ridurre  squilibri,  a  favorire  le  condizioni  di  un  sufficiente
sviluppo  del  mercato  o  ad  instaurare   assetti   concorrenziali»
(sentenza n. 14 del 2004). 
    La difesa statale ritiene,  inoltre,  che  l'inclusione  di  tale
materia tra quelle riservate alla  competenza  legislativa  esclusiva
dello Stato evidenzi l'intenzione del legislatore costituzionale  del
2001 di unificare, in capo allo Stato centrale, strumenti di politica
economica che attengono allo sviluppo  dell'intero  Paese:  strumenti
che, in definitiva,  esprimono  un  carattere  unitario  e  risultano
finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie  inserite
nel circuito economico. 
    In quest'ottica, l'intervento statale si  giustificherebbe  anche
per la sua rilevanza macroeconomica: perche' «e' mantenuta allo Stato
la facolta' di adottare sia specifiche misure di  rilevante  entita',
sia  regimi  di  aiuto  ammessi  dall'ordinamento  comunitario  [...]
purche' siano in ogni caso idonei, quanto ad accessibilita'  a  tutti
gli operatori ed impatto  complessivo,  ad  incidere  sull'equilibrio
economico generale» (sentenza n. 14 del 2004, nonche' sentenza n. 430
del 2007). 
    Nell'atto di costituzione  statale  si  evidenzia,  inoltre,  che
secondo quanto  piu'  volte  affermato  dalla  Corte  Costituzionale,
quando viene in considerazione il titolo di competenza funzionale  di
cui all'art.  117,  secondo  comma,  lettera  e),  Cost.  -  che  non
definisce ambiti oggettivamente  delimitabili,  ma  interferisce  con
molteplici   attribuzioni   delle   Regioni   -,    la    conformita'
dell'intervento statale al riparto  costituzionale  delle  competenze
dipende   strettamente   dalla   ragionevolezza   delle    previsioni
legislative,  sicche',  ove  sia  dimostrabile  la  congruita'  dello
strumento utilizzato rispetto al fine di  rendere  attivi  i  fattori
determinanti dell'equilibrio economico  in  generale,  la  competenza
legislativa dello Stato di cui all'art. 117, secondo  comma,  lettera
e), Cost. non puo' essere negata (sentenza n. l4 del 2004). 
    L'Avvocatura  dello  Stato  richiama  anche   il   principio   di
sussidiarieta', che regola i rapporti tra l'autonomia regionale e  il
potere centrale, in  virtu'  del  quale  l'intervento  dell'Autorita'
statale e' sempre ammesso nei casi in cui gli  obiettivi  dell'azione
prevista  non  possono  essere  sufficientemente   realizzati   dalle
Regioni. 
    Secondo la difesa statale, dunque,  la  norma  impugnata  sarebbe
riconducibile alla materia «tutela della concorrenza», di  competenza
esclusiva dello Stato, come del  resto  gia'  affermato  dalla  Corte
nella sentenza n. 150 del 2011 laddove si e' detto  che  «La  materia
della "tutela della concorrenza", di cui all'art. 117, secondo comma,
lettera e), Cost., non ha solo un ambito oggettivamente individuabile
che attiene alle misure legislative di tutela in senso proprio, quali
ad esempio quelle che hanno ad oggetto gli  atti  e  i  comportamenti
delle imprese che incidono negativamente sull'assetto  concorrenziale
dei mercati e ne disciplinano le modalita' di controllo, ma, dato  il
suo  carattere  "finalistico"  anche  una  portata  piu'  generale  e
trasversale,  non  preventivamente  delimitabile,  che  deve   essere
valutata  in  concreto  al  momento  dell'esercizio  della   potesta'
legislativa sia dello Stato che delle Regioni nelle materie  di  loro
rispettiva competenza». 
    Costituirebbe,  quindi,  un  dato   acquisito   il   titolo   del
legislatore statale ad intervenire sulla materia quante volte ravvisi
la necessita' di rimuovere pregiudizi all'assetto concorrenziale  del
mercato. Poiche', in materia di apertura degli esercizi  pubblici  di
vendita al dettaglio, la molteplicita' di discipline a livello locale
in materia non puo' che produrre  distorsione  del  mercato  sia  per
quanto attiene all'erogazione dei  servizi  in  questione  sia  nella
localizzazione delle nuove imprese di vendita, con evidente danno per
l'utenza,  la  norma  in  questione  sarebbe  esente  da  censure  di
legittimita'  costituzionale  sotto  il  profilo   del   riparto   di
competenze legislative tra Stato e Regioni 
    2.- Con ricorso notificato il 21 febbraio 2012  e  depositato  il
successivo 23 febbraio la Regione Veneto ha impugnato, tra gli altri,
l'art. 31, comma 1, del d.l. n. 201 del  2011,  nella  parte  in  cui
modifica la lettera d-bis) dell'art. 3  del  d.l.  n.  223  del  2006
introdotta dall'art. 35, comma 6,  del  d.l.  n.  98,  eliminando  le
parole «in via sperimentale» e  «dell'esercizio  ubicato  nei  comuni
inclusi negli elenchi regionali delle localita' turistiche  o  citta'
d'arte». 
    La Regione Veneto ritiene che la norma impugnata,  eliminando  in
via generale ed assoluta i limiti e  le  prescrizioni  relativi  agli
orari di apertura e chiusura, alla  chiusura  domenicale,  festiva  e
infrasettimanale  degli  esercizi  commerciali,  inclusi  quelli   di
somministrazione di alimenti e bevande, violi sia l'art. 117, primo e
quarto  comma,  Cost.  che  riserva  alla   Regione   la   competenza
legislativa nella materia del commercio, sia  la  potesta'  regionale
connessa all'esercizio delle funzioni amministrative di cui  all'art.
118, primo e secondo comma, Cost. 
    La  Regione  afferma  che  l'eliminazione,  in  via  generale  ed
assoluta, di ogni possibile limite relativo agli orari ed  ai  giorni
di apertura e chiusura, sia per le  attivita'  commerciali  in  senso
stretto che per  le  attivita'  di  somministrazione  di  alimenti  e
bevande, determina l'abrogazione della previgente disciplina  statale
degli orari di vendita, posta dagli artt. 11 e 12 del d.lgs.  n.  114
del 1998, applicata nella Regione Veneto. 
    La   nuova   disposizione   statale,   secondo   la   ricorrente,
travolgerebbe anche la legge regionale del Veneto 21 settembre  2007,
n. 29 (Disciplina dell'esercizio dell'attivita'  di  somministrazione
di alimenti e bevande), nella parte in cui disciplina  gli  orari  di
vendita. 
    L'introduzione di un divieto siffatto viene giustificata, come si
evince dal comma l dell'art. 3 del decreto legislativo in esame,  nel
quale si incardina la novella, facendo riferimento alle «disposizioni
dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e
libera circolazione  delle  merci  e  dei  servizi»  e  al  «fine  di
garantire la liberta'  di  concorrenza  secondo  condizioni  di  pari
opportunita' ed il corretto ed uniforme  funzionamento  del  mercato,
nonche' di assicurare ai consumatori  finali  un  livello  minimo  ed
uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di  prodotti  e
servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'articolo  117,  comma
secondo, lettere e) ed m), della Costituzione». 
    Ritiene la Regione Veneto che la modifica apportata  all'art.  3,
comma  l,  del  citato  decreto  non  costituisca   ne'   adeguamento
dell'ordinamento interno al diritto dell'Unione europea ne' esercizio
di competenza legislativa esclusiva dello  Stato  in  relazione  alla
tutela della concorrenza e alla determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali  che  devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi  dell'art.
117, lettere e) ed m), Cost. 
    Quanto  all'ordinamento  dell'Unione,  non  vi   sarebbe   alcuna
disposizione europea incompatibile  con  una  normativa  interna  che
disciplini giorni ed orari di  apertura  e  chiusura  degli  esercizi
commerciali, anche alla luce  della  giurisprudenza  della  Corte  di
giustizia. 
    Con specifico riferimento al  principio  di  libera  circolazione
delle  merci  e  al  correlato  divieto  (art.  34  TFUE)  di  misure
equivalenti a restrizioni quantitative, la giurisprudenza comunitaria
- prosegue la ricorrente - ha  ben  chiarito  che  non  sono  vietate
quelle normative nazionali applicabili  a  tutti  gli  operatori  che
svolgono attivita' commerciale nello Stato membro considerato  e  che
investono  nella  stessa  maniera,  in  diritto  e   in   fatto,   la
commercializzazione  di  prodotti  nazionali  e  quella  di  prodotti
importati (si citano le sentenze Keck e Mithouard, 24 novembre  1993,
causa C-267-268/91, punti 16-17, e Hunermund, 15 dicembre 1993, causa
C-292/92, punto 21). 
    Il criterio del mutuo riconoscimento delle  differenti  normative
nazionali  investirebbe,  secondo  la   giurisprudenza   citata,   le
normative sul  prodotto  e  non  l'attivita'  di  vendita,  cosicche'
resterebbero estranee al campo  di  applicazione  dell'art.  34  TFUE
quelle normative nazionali che non investono  affatto  gli  scambi  o
l'integrazione dei mercati. 
    In particolare, la Corte di giustizia - si sostiene  -  ha  fatto
applicazione  di  questi  principi  proprio  in  tema  di  disciplina
nazionale dei giorni ed orari di apertura degli esercizi commerciali.
In tali occasioni si  e'  riconosciuto  che  la  normativa  nazionale
«persegue un obiettivo legittimo alla luce del  diritto  comunitario»
in quanto «le discipline nazionali che limitano l'apertura domenicale
di esercizi commerciali costituiscono  l'espressione  di  determinate
scelte, rispondenti alle  peculiarita'  socio-culturali  nazionali  o
regionali» e «spetta  agli  Stati  membri  effettuare  queste  scelte
attenendosi alle prescrizioni del diritto comunitario»  (sentenze  23
novembre 1989, causa  C-145/88,  B  &  Q;  28  febbraio  1991,  causa
C-312/89; Conforama, e causa C-332/89, Marchandise; 16 dicembre 1992,
causa C-169/91, B & Q; 2 giugno 1994, cause riunite  C-69  e  258/93,
Punto Casa e PPV, punto 12;  22  giugno  1994,  causa  C  401-402/92,
Tankstation, punti 12-14; 20 giugno  1996,  cause  riunite  C-418/93,
C-419/93, C-420/93, C-421/93, C-460/93, C-461/93, C-462/93, C-464/93,
C-9/94, C- 10/94,  C-11/94,  C-14/94,  C-15/94,  C-23/94,  C-24/94  e
C-332/94, Semeraro, punto 28). 
    Anche  con  riferimento  al  principio  comunitario   di   libera
prestazione di servizi, quand'anche inteso nel senso  piu'  ampio  in
modo da includere il diritto di stabilimento, e' da ritenere  che  le
disposizioni del TFUE che lo sanciscono (artt. 56 e  seguenti,  49  e
seguenti  TFUE)  e  cosi'  pure  la  recente  normativa  europea   di
attuazione (direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre  2006  relativa  ai
servizi nel mercato interno) non siano in  alcun  modo  incompatibili
con normative nazionali sui giorni ed orari di  apertura  e  chiusura
degli esercizi commerciali. 
    Il diritto di stabilimento nei Paesi membri e' riconosciuto  agli
operatori economici senza discriminazioni, ma pur sempre nel rispetto
delle specifiche  normative  nazionali.  Infatti,  fra  gli  ostacoli
vietati o da monitorare secondo la direttiva  «Bolkestein»  non  sono
menzionate le regole interne sui giorni ed orari  di  apertura  degli
esercizi commerciali. Cio'  renderebbe  superfluo  osservare  che  la
stessa direttiva «Bolkestein» ammette eccezioni ai divieti posti,  in
presenza di motivi  imperativi  di  interesse  generale,  di  talche'
perfino  nel  suo  ambito  di  applicazione  permane  uno  spazio  di
operativita'  per  il  diritto  interno  e,  dunque,  anche  per   la
legislazione regionale. 
    Neppure  la  disciplina  della  concorrenza  posta  dal   diritto
dell'Unione  (artt.   101-109   TFUE)   sarebbe   incompatibile   con
disposizioni nazionali su giorni ed orari di apertura degli  esercizi
commerciali  che   siano   prive   di   effetti   discriminatori   ed
anticoncorrenziali e prive di collegamenti con  comportamenti  propri
delle imprese. 
    Secondo la  Regione  ricorrente  si  potrebbe  ritenere  vero  il
contrario: misure nazionali di totale liberalizzazione dei giorni  ed
orari  di  apertura   degli   esercizi   commerciali   agevolerebbero
comportamenti  anticoncorrenziali,  favorirebbero  concentrazioni  di
imprese restrittive della concorrenza e lo  sfruttamento  abusivo  di
posizioni dominanti a danno del consumatore  e  del  suo  diritto  di
fruire di una struttura distributiva articolata, diffusa e  anche  di
prossimita' al tessuto urbano consolidato delle citta'  e  dei  paesi
ove si concentra la residenza. 
    La Regione Veneto richiama anche la  risoluzione  del  Parlamento
europeo del 5 luglio 2011  (2010/2109  -  INI)  su  un  commercio  al
dettaglio piu' efficace e piu' equo, nella quale si  e'  sottolineato
che:  «le  PMI  costituiscono  l'ossatura  dell'economia  europea   e
rivestono un ruolo unico nella  creazione  di  posti  di  lavoro,  in
particolare nelle zone rurali, e  nel  favorire  l'innovazione  e  la
crescita nel settore  del  commercio  al  dettaglio  nelle  comunita'
locali  in  tutta  l'UE»  (punto  17);  che  «la  pianificazione  del
commercio  al  dettaglio  deve  fornire  un  quadro  strutturale  che
permetta alle imprese di competere, rafforzare la liberta' di  scelta
dei  consumatori  e  consentire  l'accesso  a  beni  e  servizi,   in
particolare nelle regioni meno  accessibili  o  scarsamente  popolate
oppure in caso di mobilita'  ridotta  dei  consumatori»  (punto  16);
oltre al «ruolo sociale, culturale e ambientale svolto dai  negozi  e
mercati locali per il rilancio delle zone rurali e dei centri urbani»
(punto 16). 
    Sul piano della prassi europea, sarebbe  significativo  il  fatto
che, secondo una recente analisi, in tutti i Paesi membri dell'Unione
giorni ed orari di apertura e  chiusura  degli  esercizi  commerciali
sono regolamentati, con fissazione di orari massimi di  apertura  nei
giorni feriali, variabili secondo le condizioni climatiche e gli  usi
locali, e non e' mai concessa assoluta liberta' di apertura, in tutti
i giorni dell'anno. 
    Parimenti significativa sarebbe  la  mancanza  di  iniziative  da
parte della Commissione UE volte a contestare le normative  nazionali
per infrazione al diritto dell'UE. 
    Passando all'ordinamento interno, la disciplina degli orari e dei
giorni di apertura e chiusura degli esercizi commerciali non  sarebbe
riconducibile all'area della competenza legislativa  esclusiva  dello
Stato ai sensi dell'art. 117 Cost.: non a quella della  tutela  della
concorrenza,  per  considerazioni  analoghe  a  quelle   svolte   con
riferimento al diritto dell'Unione, data la consonanza di principi  e
di regole, e  neppure  a  quella  della  determinazione  dei  livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili  e  sociali
che devono essere garantiti su  tutto  il  territorio  nazionale,  ai
sensi dell'art. 117, comma 2, lettera m), Cost. 
    La possibilita' per il consumatore di acquistare merci e  servizi
in tutti i giorni  festivi  o  in  orari  notturni  non  sembrerebbe,
infatti, configurare un livello  essenziale  di  prestazioni  di  cui
questi debba assolutamente fruire, tanto piu' che, ove  cosi'  fosse,
si renderebbe necessario  introdurre  semmai  prescrizioni  volte  ad
imporre agli operatori economici, quantomeno a rotazione,  l'apertura
festiva e notturna  appunto  a  tutela  dei  consumatori;  mentre  la
disposizione censurata e' chiaramente  orientata  ad  attribuire  una
mera facolta' agli operatori economici. 
    L'acquisto di beni o servizi in ogni giorno ed ogni  ora  non  e'
d'altra parte riconducibile fra i diritti civili o i diritti sociali,
nel  significato  attribuito  dalla  Carta  costituzionale  a  questi
termini, ne' dei consumatori, ne' degli esercenti. 
    La disciplina dei giorni ed orari di apertura  e  chiusura  degli
esercizi commerciali  non  ricadrebbe  nell'ambito  della  competenza
legislativa esclusiva dello Stato, bensi' nella competenza  esclusiva
regionale in materia di commercio, come affermato  dalla  consolidata
giurisprudenza della Corte Costituzionale (sono citate le sentenze n.
1 del 2004; n. 64, n. 165 e n. 430 del 2007; n. 350 del 2008; n.  247
e n. 288 del 2010; n. 150 del 2011; nonche' l'ordinanza  n.  199  del
2006). 
    La tutela della  concorrenza  non  rappresenterebbe,  dunque,  un
limite «esterno», atto a comprimere, fino a svuotare,  la  competenza
regionale nella materia  del  commercio.  Costituirebbe,  semmai,  un
limite «interno» alla normativa regionale, nel senso che quest'ultima
dovrebbe conformarsi ai generali obiettivi di non discriminazione fra
operatori economici, di apertura al  mercato  e  di  eliminazione  di
barriere e vincoli  al  libero  esplicarsi  dell'attivita'  economica
(vengono citate le sentenze n. 18 del 2012 e n. 150 del 2011). 
    Secondo la ricorrente,  l'applicazione  delle  regole  di  tutela
della  concorrenza  non  puo'  spingersi  fino  a  misconoscere  o  a
pregiudicare  altri  valori  che  configurino  motivi  imperativi  di
interesse generale ritenuti meritevoli di tutela dallo stesso diritto
dell'Unione, dalla  Costituzione  e  dal  diritto  primario  statale.
L'esigenza di un ragionevole contemperamento tra valori e'  al  fondo
di  quella  giurisprudenza  costituzionale  che,   di   recente,   ha
riconosciuto  la  legittimita'  di  leggi  regionali  in  materia  di
commercio  che   introducevano   differenziazioni   di   regime   con
riferimento  alle  dimensioni  dell'impresa,   in   quanto   ispirate
all'esigenza di interesse generale di riconoscimento e valorizzazione
del ruolo delle piccole e medie imprese gia' operanti sul  territorio
regionale (sono citate le sentenze n. 64 del 2007 e n. 288 del 2010). 
    Sulla base  di  tali  considerazioni  la  disposizione  di  legge
censurata, nella sua assolutezza e  inderogabilita',  non  troverebbe
base giuridica legittimante ne' nel diritto dell'Unione ne' nell'art.
117, secondo  comma,  Cost.  e  violerebbe  la  competenza  esclusiva
regionale in materia di commercio di cui all'art. 117, quarto  comma,
Cost. 
    La norma censurata, conseguentemente, precluderebbe alla  Regione
anche  l'esercizio  della  propria  autonomia  amministrativa   nella
materia  considerata  e  la  possibilita'  di   attribuire   funzioni
amministrative ai Comuni. 
    La novella  legislativa  avrebbe  un  effetto  opposto  a  quello
perseguito.  Essa,  dunque,  non  sarebbe  adeguata  e  proporzionata
rispetto all'obiettivo, privando di qualsiasi tutela altri  interessi
pubblici specifici pur meritevoli anch'essi di cura. In  particolare,
verrebbe a precludere la stessa possibilita' di graduare il  processo
di liberalizzazione, in modo che non travolga gli operatori economici
piu' deboli, cioe' il mondo delle piccole e medie imprese commerciali
che per dimensioni e struttura non sono immediatamente  in  grado  di
competere 24 ore su 24, in tutti i giorni  festivi  dell'anno,  cosi'
come  invece  le  grandi  imprese  distributive.   Col   rischio   di
disarticolare un mercato distributivo caratterizzato fin qui  da  una
pluralita' di formule e di offerte, capace di garantire anche servizi
di prossimita', essenziali nei piccoli paesi e nei centri storici sia
per i consumatori che per l'ambiente urbano e sociale. 
    La Regione Veneto cita anche l'orientamento della  giurisprudenza
amministrativa secondo il quale nella disciplina  degli  orari  degli
esercizi commerciali vengono in gioco una pluralita' di valori, oltre
a quello della concorrenza, quali la salvaguardia delle aree  urbane,
dei  centri  storici,  della  pluralita'  tra  diverse  tipologie  di
strutture commerciali e della funzione  sociale  svolta  dai  servizi
commerciali di prossimita'. 
    Gli effetti negativi della liberalizzazione assoluta, immediata e
indifferenziata, dei giorni e degli orari di apertura degli  esercizi
commerciali  introdotta  dalla  disposizione  statale  censurata   si
coglierebbero - per la ricorrente - con riferimento in particolare  a
quegli esercizi che somministrano alimenti e  bevande  fino  a  tarda
ora, cosi' da acuire la tensione  sociale  e  sollevare  problemi  di
ordine e sicurezza pubblici. 
    Il risultato realmente conseguito dalla misura  statale,  osserva
la Regione, si rivelerebbe  controproducente  ed  incoerente  con  lo
stesso obiettivo dichiaratamente perseguito,  di  meglio  tutelare  i
consumatori e di rafforzare la concorrenza leale e trasparente. 
    La ricorrente presenta anche istanza di sospensione ai  sensi  35
della legge 11 marzo 1953, n. 87  (Norme  sulla  costituzione  e  sul
funzionamento della Corte costituzionale), come sostituito  dall'art.
9 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni  per  l'adeguamento
dell'ordinamento  della  Repubblica  alla  legge  costituzionale   18
ottobre 2001, n. 3), per il grave pregiudizio che la norma recherebbe
alla concorrenza e  trasparenza  del  mercato  e  alla  certezza  del
diritto  per  tutte  le  parti  coinvolte,  operatori   economici   e
consumatori. 
    La istantanea soppressione di ogni limite agli orari e giorni  di
apertura e chiusura degli esercizi commerciali, specie  con  riguardo
alle  attivita'  di   somministrazione   di   alimenti   e   bevande,
determinerebbe nel Veneto un forte  allarme  sociale,  anzitutto  con
riguardo alla sicurezza pubblica  nelle  ore  notturne,  e  un  grave
disorientamento sia della  clientela  che  degli  operatori  e  delle
stesse  amministrazioni  comunali,  incalzate  dalla  popolazione   a
intervenire d'urgenza per dare  indicazioni  univoche  e  criteri  di
comportamento uniformi. 
    Risponderebbe   dunque    all'interesse    generale    sospendere
l'esecuzione dell'art. 31,  comma  1,  nelle  more  del  giudizio  di
legittimita' costituzionale, per evitare pericoli  per  la  sicurezza
pubblica e il rischio concreto di  un'irreversibile  alterazione  del
mercato, a danno soprattutto delle piccole e medie imprese. 
    2.1.- In data 8 maggio 2012 si e' costituito  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  dello
Stato, chiedendo il rigetto del ricorso. 
    3.- Con ricorso notificato il 25 febbraio 2012  e  depositato  il
successivo 1° marzo, la  Regione  siciliana  ha  impugnato,  tra  gli
altri, l'art. 31, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011,  per  violazione
dell'art. 14, lettere d) ed e),  del  regio  decreto  legislativo  15
maggio  1946,  n.  455  (Approvazione  dello  statuto  della  Regione
siciliana). 
    La Regione afferma che la norma impugnata -  nell'eliminare,  per
tutte le attivita' commerciali, ogni limite agli orari «di apertura e
di chiusura», abolendo specificamente anche «l'obbligo della chiusura
domenicale e festiva, nonche' quello della mezza giornata di chiusura
infrasettimanale», in precedenza oggetto solo  di  talune  deroghe  -
dispone in un ambito rientrante nella  competenza  esclusiva  di  cui
all'art.14, lettere d) ed e), dello statuto d'autonomia. 
    A  conferma  di  cio'  la  ricorrente  evidenzia  di  aver   gia'
disciplinato la materia degli  orari  degli  esercizi  commerciali  e
dell'ubicazione degli stessi nell'esercizio  della  propria  potesta'
esclusiva. 
    La  nuova  disciplina,  inoltre,  investendo  una  pluralita'  di
piccoli negozi, ambulanti, supermercati  e  ipermercati,  produrrebbe
pesanti conseguenze per i piccoli esercizi e per i  consumatori.  Una
di esse sarebbe la chiusura dei negozi dei centri storici che fungono
da presidio sociale, fenomeno questo che creerebbe  sia  problemi  di
ordine pubblico sia  difficolta'  per  le  fasce  piu'  deboli  della
popolazione come gli anziani. 
    In conclusione, ad avviso della Regione, la previsione  impugnata
porterebbe un indubbio vantaggio esclusivamente agli  ipermercati  ed
alla grande distribuzione commerciale. 
    Il titolo di legittimazione che lo Stato pretende di invocare per
imporre anche nella Regione siciliana l'assenza di  qualunque  regola
e' la «tutela della concorrenza»  ma,  in  tal  caso,  e'  necessario
verificare che le norme statali «siano essenzialmente  finalizzate  a
garantire la concorrenza fra i diversi  soggetti  del  mercato,  allo
scopo di accertarne la coerenza rispetto all'obiettivo di  assicurare
un mercato aperto e in libera concorrenza» (sono citate  le  sentenze
n. 150 del 2011, n. 63 del 2008 e n. 430 del 2007). 
    Secondo la ricorrente, non vi sarebbe alcun dubbio che  la  norma
in esame non favorisce in  alcun  modo  la  liberta'  di  concorrenza
perche'  assoggetta   alla   medesima   deregolamentazione   soggetti
economici che versano in  condizioni  differenti  finendo,  in  buona
sostanza, per favorirne alcuni a scapito di altri. 
    3.1.- In data 8 maggio 2012 si e' costituito  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  dello
Stato, chiedendo il rigetto del ricorso. 
    4.- Con ricorso notificato il 24 febbraio 2012  e  depositato  il
successivo 1° marzo, la Regione Lazio ha impugnato,  tra  gli  altri,
l'art. 31, comma  1,  del  d.l.  n.  201  del  2011,  per  violazione
dell'art.117, quarto comma, Cost. 
    La ricorrente premette che l'art. 31, comma 1, del  d.l.  n.  201
del 2011 modifica la lettera d-bis) dell'articolo  3,  comma  1,  del
decreto-legge n. 223 del 2006, che -  in  espressa  attuazione  della
normativa comunitaria in materia di tutela della concorrenza e libera
circolazione delle merci e dei servizi ed al  fine  di  garantire  la
liberta' di concorrenza «ai sensi dell'articolo 117,  comma  secondo,
lettere e) ed m), della Costituzione» - ha eliminato tutti i limiti e
le  condizioni  all'esercizio  delle  attivita'  commerciali   e   di
somministrazione di  cibi  e  bevande  con  eccezione  delle  vendite
sottocosto e dei saldi di fine stagione. 
    La lettera d-bis), in origine, era stata introdotta dal  comma  6
dell'art. 35 del d.l. n. 98 del 2011 che aveva tolto  il  limite  del
rispetto degli orari di apertura e  di  chiusura  e  l'obbligo  della
chiusura domenicale, festiva  e  della  mezza  giornata  di  chiusura
infrasettimanale  solo  «in  via  sperimentale»  e  limitatamente  ai
«comuni inclusi negli elenchi regionali delle localita' turistiche  o
citta' d'arte». 
    Le  modifiche  introdotte  hanno  eliminato  entrambi  i   limiti
suddetti, rendendo cosi' la liberalizzazione degli orari di  apertura
degli esercizi commerciali permanente e non piu' solo sperimentale ed
applicabile in tutto  il  territorio  nazionale,  e  non  solo  nelle
localita' turistiche e d'arte. 
    La norma sarebbe gravemente lesiva della  competenza  legislativa
esclusiva regionale, in particolare,  dell'art.  117,  quarto  comma,
Cost. 
    Infatti, a seguito della modifica  del  Titolo  V  della  seconda
parte della Costituzione la materia del «commercio» e  la  disciplina
degli  orari  degli   esercizi   commerciali   rientrerebbero   nella
competenza esclusiva residuale delle Regioni (si citano  le  sentenze
n. 150 del 2011 e n. 350 del 2008; nonche'  l'ordinanza  n.  199  del
2006). 
    La  ricorrente  precisa  di  essere  consapevole  che  la   Corte
costituzionale ha rilevato che  sono  riconducibili  alla  competenza
legislativa esclusiva dello Stato le regole in materia  di  commercio
direttamente afferenti alla  tutela  della  concorrenza  nel  settore
della distribuzione commerciale e volte  a  garantire  condizioni  di
pari opportunita'  ed  il  corretto  ed  uniforme  funzionamento  del
mercato, nonche' ad  assicurare  ai  consumatori  finali  un  livello
minimo ed uniforme di condizioni di  accessibilita'  all'acquisto  di
prodotti e servizi sul territorio nazionale (e' citata la sentenza n.
288 del 2010). La medesima Corte, tuttavia - prosegue la  Regione  -,
ha riconosciuto che «la tutela della concorrenza non  e'  materia  di
estensione certa, ma presenta i tratti di una  funzione  esercitabile
sui piu' diversi oggetti ed e' configurabile come trasversale», e  ha
anche precisato che, avendo la  tutela  della  concorrenza  influenza
sulle materie attribuite alla competenza  legislativa  concorrente  o
residuale delle Regioni (come il commercio),  «l'esercizio  da  parte
dello Stato della suddetta competenza trasversale ad  esso  riservata
deve essere in sintonia con le  accresciute  competenze  regionali  a
seguito  della  modifica  del  Titolo  V   della   Parte   II   della
Costituzione» (sentenza n. 430 del 2007). 
    Nella specie, la  norma  sarebbe  illegittima,  ad  avviso  della
ricorrente,  perche'  non  lascia  spazio  ad   un   intervento   del
legislatore regionale che rimetta alla programmazione territoriale la
tutela di una piu' estesa fruizione  degli  esercizi  commerciali  da
parte dei consumatori. 
    Inoltre  non  sarebbe  sufficiente  la  mera   autoqualificazione
formale operata dal legislatore statale per ricondurre una disciplina
nell'ambito  della  competenza   esclusiva   dello   Stato,   essendo
necessario esaminarne il contenuto sostanziale  e  verificare  se  lo
scopo cui la norma tende permette di ricondurre  la  stessa  in  tale
ambito. 
    Nel caso in esame, la piena  ed  indiscriminata  liberalizzazione
degli orari di apertura degli esercizi commerciali  non  sarebbe  uno
strumento per tutelare la concorrenza. La «tutela della  concorrenza»
di cui alla lettera e) dell'art. 117 Cost.  comprenderebbe,  infatti,
le misure legislative di tutela in senso proprio che hanno ad oggetto
gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono  negativamente
sull'assetto concorrenziale dei mercati e quelle  di  promozione  che
mirano ad aprire un mercato o a  consolidarne  l'apertura  eliminando
barriere all'entrata (si menzionano le sentenze n. 63 del 2008  e  n.
430 del 2007). 
    Con la liberalizzazione indiscriminata degli orari,  verrebbe  in
questione piuttosto il rapporto tra l'Amministrazione ed il privato e
non, invece, la concorrenza tra gli imprenditori  che  hanno  diritto
alla parita' di trattamento e ad agire in  un  mercato  libero  senza
barriere. L'assenza totale di programmazione degli orari di  apertura
e di chiusura comporterebbe che le grandi  distribuzioni  commerciali
possano facilmente fronteggiare l'estensione degli orari di  apertura
mentre  i  piccoli  commercianti,  avendo  maggiori  difficolta'   ad
incrementare il numero di personale dipendente, verrebbero ad  essere
discriminati. 
    Secondo la ricorrente, un fenomeno del genere sarebbe espressione
non di tutela concorrenziale, ma piuttosto  di  un  rafforzamento  di
posizioni dominanti, con la conseguenza che, in luoghi  dove  non  e'
presente il punto vendita  di  una  grande  distribuzione,  l'assenza
assoluta di un minimo  di  programmazione  degli  orari  di  apertura
potrebbe  determinare  anche  carenza   assoluta   di   servizio   in
determinate fasce orarie. 
    Ne  conseguirebbe  che,  poiche'  «non  possono  ricondursi  alla
"tutela della concorrenza" quelle misure statali  che  non  intendono
incidere sull'assetto concorrenziale dei mercati o che addirittura lo
riducono o lo  eliminano»  (sentenza  n.  430  del  2007),  la  norma
dovrebbe essere dichiarata illegittima per violazione dell'art.  117,
quarto comma, Cost. 
    La Regione lamenta anche la violazione dell'art. 3 Cost.  per  la
disparita' di posizione e di condizione che la norma determina tra le
grandi distribuzioni ed i piccoli commercianti. 
    La ricorrente premette di essere  consapevole  che,  nei  giudizi
costituzionali in via principale, le Regioni possono dolersi soltanto
per «lesioni» del proprio ambito di  competenza,  e  precisa  che  la
compromissione del  principio  di  uguaglianza  sostanziale,  facendo
venir meno il fine della tutela della concorrenza, e' suscettibile di
incidere sul radicamento stesso della competenza legislativa in  capo
allo Stato. 
    Infine, la disposizione in esame  costituirebbe  sicuramente  una
norma di dettaglio che esula dalla competenza statale:  sono  infatti
le regioni a dover  esercitare  la  loro  competenza  legislativa  in
materia di commercio,  mentre,  nella  specie,  non  sarebbero  state
minimamente coinvolte in alcun livello del procedimento  di  adozione
della normativa statale in palese violazione del principio di  «leale
collaborazione». 
    4.1.- In data 4 aprile 2012  si  e'  costituito  in  giudizio  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo il rigetto del ricorso con  le
medesime argomentazioni svolte nell'atto di costituzione relativo  al
ricorso della Regione Piemonte. 
    5.- Con ricorso notificato il 25 febbraio 2012, e  depositato  il
successivo 2 marzo, la Regione  Lombardia  ha  impugnato  l'art.  31,
comma 1, del d.l. n.  201  del  2011,  per  violazione  dell'art.117,
primo, secondo, terzo, quarto e sesto comma, Cost. 
    La  ricorrente,  dopo  aver  esposto  i  contenuti  della   norma
impugnata, afferma che la modifica  del  quadro  normativo  apportata
dall'art. 31, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011,  che  ha  modificato
l'art. 3 del d.l. n. 223  del  2006,  e'  invasiva  delle  competenze
regionali e, quindi, costituzionalmente illegittima. 
    In primo luogo risulterebbe violato l'art. 117,  primo  e  quarto
comma, Cost. in quanto  la  disciplina  degli  orari  degli  esercizi
commerciali, secondo la giurisprudenza della Corte, si  ascrive  alla
materia «commercio» rientrante nella competenza  esclusiva  residuale
delle Regioni, ai sensi del quarto  comma  dell'art.  117  Cost.  (si
riportano le sentenze n. 288 del 2010, n. 350 del  2008,  n.  64  del
2007 e n. 1 del 2004; e l'ordinanza n. 199 del 2006). 
    In tali occasioni, la Corte ha rilevato, in particolare,  che  il
d.lgs. n. 114 del 1998 trova applicazione nei confronti delle Regioni
solo qualora le stesse non abbiano emanato una  propria  legislazione
nella suddetta materia (e' richiamata l'ordinanza n.  199  del  2006,
con riferimento all'allora vigente legge della Regione  Lombardia  n.
22 del 2000, in materia di orari di esercizi commerciali). 
    La Regione  Lombardia  prosegue  affermando  che  il  legislatore
statale,  con  la  norma  censurata,  impedirebbe   l'emanazione   di
qualsiasi normativa sugli orari di tutti gli esercizi commerciali (in
precedenza tale liberalizzazione era prevista solo per  gli  esercizi
ubicati nei comuni inclusi negli elenchi  regionali  delle  localita'
turistiche o citta'  d'arte),  senza  prevedere  alcuna  eccezione  o
limite a tutela di interessi pubblici preminenti. 
    In tal modo, la norma si porrebbe in  contrasto  con  i  principi
generali  dell'ordinamento   comunitario   in   materia   di   libera
circolazione dei servizi, nonche'  con  la  disciplina  di  cui  alla
Direttiva 2006/123/CE (cosiddetta  direttiva  Bolkenstein)  che,  pur
dettando  norme  in  favore  della  massima  liberalizzazione   delle
attivita' economiche, contempla invece tali eccezioni. 
    Ne deriverebbe, dunque, un  contrasto  della  norma  statale  con
l'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in  quanto   la   giurisprudenza
costituzionale  considera  le  direttive   comunitarie   come   norme
interposte atte ad integrare  il  parametro  per  la  valutazione  di
conformita' della normativa statale o regionale all'art.  117,  primo
comma, Cost. (e' citata la sentenza n. 129 del 2006). 
    In ordine alla violazione dell'art. 117, primo  comma,  Cost.  la
ricorrente  osserva  che   la   citata   Direttiva,   nel   prevedere
disposizioni intese alla massima  liberalizzazione  dei  servizi,  fa
comunque   salva   la   possibilita'   di   introdurre    limitazioni
all'esercizio dell'attivita' economica a tutela di motivi  imperativi
di interesse generale (considerando n. 40 della Direttiva). 
    I motivi imperativi di interesse generale, definiti  dal  decreto
legislativo  26  marzo  2010,  n.  59  (Attuazione  della   direttiva
2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno),  come  «ragioni
di pubblico interesse», attengono, tra l'altro, all'ordine  pubblico,
alla pubblica sicurezza, all'incolumita'  pubblica,  alla  protezione
dell'ambiente  urbano,  alla  quiete  pubblica,  compreso   l'assetto
territoriale nell'ambito urbano. Tali motivi imperativi,  secondo  la
disciplina della Direttiva, giustificano restrizioni  alle  attivita'
economiche liberalizzate. 
    In particolare, ai sensi  della  Direttiva,  l'esercizio  di  una
attivita'  di  servizi  puo'  essere   subordinato   a   criteri   di
programmazione economica e/o  alla  verifica  dell'esistenza  di  una
domanda di mercato, ove si tratti di tutelare  motivi  imperativi  di
interesse generale, cosi' come la previsione di una autorizzazione si
puo' giustificare con tali motivi (artt. 11, comma 1, lettera e;  12,
comma 1; 13, comma 1; 20, comma 1). 
    Il legislatore comunitario, dunque, pur manifestando  una  decisa
contrarieta' verso fenomeni di programmazione  o  pianificazione  dei
servizi, li ritiene comunque ammissibili  in  presenza  dei  predetti
motivi  imperativi  di  interesse  generale.  Dunque   la   normativa
comunitaria - rileva la ricorrente -, pur  ponendosi  l'obiettivo  di
eliminare gli ostacoli e  i  vincoli  all'esercizio  di  un'attivita'
economica,  ammette  deroghe,   a   garanzia   di   interessi   della
collettivita' di rango primario. 
    Cio' sarebbe confermato dal fatto che la Corte  di  giustizia  ha
ritenuto  che  «le  discipline  nazionali  che  limitano   l'apertura
domenicale di esercizi  commerciali  costituiscono  l'espressione  di
determinate scelte  rispondenti  alle  peculiarita'  socio  culturali
nazionali e regionali» e che «spetta  agli  stati  membri  effettuare
queste scelte, attenendosi alle prescrizioni del diritto comunitario»
(Corte di giustizia CE 20 giugno 1996 C-418/93). 
    Secondo la ricorrente, le prescrizioni  del  diritto  comunitario
prevedono sempre un bilanciamento tra liberalizzazione ed i  predetti
motivi imperativi di interesse generale (e'  richiamata  la  sentenza
della Corte di giustizia CE 20 giugno 1996 C-418/93), mentre la norma
in esame non  prevedrebbe  alcun  bilanciamento  ponendosi  cosi'  in
contrasto con l'art. 117, primo comma,  Cost.,  nella  parte  in  cui
impedisce qualsiasi norma  regionale  che  possa  imporre  un  limite
all'apertura  festiva  e/o  notturna,   ancorche'   limitatissimo   o
circoscritto ad una parte molto ristretta del territorio di  un  dato
comune, ad esempio per motivi di igiene,  pubblica  sicurezza,  o  di
quiete pubblica. 
    Il predetto contrasto, secondo  la  ricorrente,  si  risolverebbe
altresi' in una  immediata  e  diretta  compressione  delle  potesta'
legislative regionali residuali in materia di commercio che di  fatto
sarebbero «azzerate». 
    La norma statale violerebbe, pertanto, anche l'art.  117,  quarto
comma, Cost. in quanto al legislatore regionale  e'  stata  sottratta
ogni possibilita' di intervento nella disciplina  degli  orari  degli
esercizi commerciali (gia' esercitata dalla Regione con legge reg.  2
febbraio 2010, n. 6, recante «Testo Unico sul commercio»),  a  tutela
di interessi  pubblici  che,  invece,  l'ordinamento  comunitario  in
primis, ma anche l'ordinamento nazionale, hanno sempre tutelato. 
    Tale affermazione sarebbe coerente anche con l'orientamento della
Corte costituzionale, formatosi sulle normative regionali in  materia
di commercio, che ha comunque riconosciuto  la  possibilita'  per  il
legislatore regionale di tener conto, nel disciplinare gli  orari  di
chiusura  e  apertura  degli  esercizi  commerciali,  di  particolari
esigenze legate alla tutela di interessi pubblici. Al riguardo, viene
citata la  sentenza  n.  288  del  2010,  nella  quale  si  evidenzia
l'assenza di contrasto tra la legge regionale  in  materia  di  orari
degli esercizi commerciali e «gli obiettivi delle norme  statali  che
disciplinano il mercato, tutelano e promuovono la concorrenza», e  si
aggiunge    che    la    normativa    produce    altresi'    «effetti
pro-concorrenziali, sia pure in via marginale e indiretta, in  quanto
evita che vi possano  essere  distorsioni  determinate  da  orari  di
apertura significativamente diversificati, in ambito  regionale,  nei
confronti di esercizi commerciali omogenei». 
    Nella stessa sentenza  si  riconosce  la  legittimita'  di  leggi
regionali  che  operano  differenziazioni,   «anche   con   specifico
riferimento    alla    dimensione    dell'attivita'    dell'esercente
commerciale, al fine di tutelare la piccola e media impresa». 
    In conclusione, a parere della ricorrente, la liberalizzazione in
materia  di  esercizi  commerciali  dovrebbe  trovare  un  limite  in
interessi generali, cui si riferisce la Direttiva comunitaria. Invece
la norma censurata liberalizza, senza ammettere eccezioni o  deroghe,
neanche con riferimento a specifiche esigenze di  tutela  dell'ordine
pubblico, della quiete pubblica, della sicurezza, o di vita e  lavoro
della  collettivita'   locale.   Verrebbe   meno   cosi'   anche   la
possibilita',  per  il  legislatore  regionale,  di  realizzare   una
ordinata distribuzione sul territorio  e  nel  tessuto  urbano  delle
attivita' imprenditoriali, nel rispetto, tra  l'altro,  del  contesto
sociale e della tutela dei soggetti economicamente piu' deboli. 
    In subordine, considerato l'eccepito  contrasto  della  normativa
statale  con  i  principi  dell'ordinamento  comunitario  e  con   la
Direttiva citata, la Regione  chiede  alla  Corte,  come  giudice  di
ultima istanza, di sollevare una questione pregiudiziale dinanzi alla
Corte di giustizia ai sensi dell'art.  267  del  TFUE,  «al  fine  di
chiarire se la citata Direttiva in materia di  servizi  debba  essere
interpretata nel senso che, con riferimento alle attivita' economiche
liberalizzate, osti ad una normativa nazionale che escluda totalmente
un  intervento  diretto  ad  introdurre  limiti  all'esercizio  delle
predette attivita', anche  laddove  vi  siano  motivi  imperativi  di
interesse generale». 
    Il legislatore statale, con la  norma  censurata,  avrebbe  anche
ecceduto i limiti della propria competenza esclusiva  in  materia  di
tutela della concorrenza, di cui all'art. 117, comma 2,  lettera  e),
Cost.,  ingerendosi  nella  competenza  residuale  della  Regione  in
materia di commercio. 
    Al riguardo, la Regione ricorda che la Corte, con  giurisprudenza
costante (sono citate le sentenze n. 401 del 2007, n. 175  del  2005,
n. 14 e n. 272 del 2004) ha riconosciuto alla  materia  della  tutela
della concorrenza il carattere della «trasversalita'», da  intendersi
come attitudine ad intervenire in piu' settori  anche  molto  diversi
dell'ordinamento,  influendo  cosi'  sulle   competenze   legislative
esclusive o concorrenti regionali. 
    La trasversalita', pertanto, ben  puo'  toccare  la  materia  del
commercio ed e'  certamente  possibile  che  il  legislatore  statale
intervenga «in nome» della concorrenza in tale  ambito.  Tuttavia  la
Corte - osserva la ricorrente - ha piu' volte affermato che,  proprio
in considerazione della  sua  natura  trasversale  e  funzionale,  la
tutela della concorrenza non e' «illimitata». In particolare,  si  e'
riconosciuto (sentenza  n.  430  del  2007)  che  «la  "tutela  della
concorrenza", proprio in quanto  ha  ad  oggetto  la  disciplina  dei
mercati di riferimento di attivita' economiche molteplici e  diverse,
non e' una "materia di estensione certa", ma presenta  i  tratti  "di
una  funzione  esercitabile  sui  piu'   diversi   oggetti"   ed   e'
configurabile come "trasversale" (da ultimo, e per tutte, sentenza n.
401 del 2007), caratterizzata da una portata ampia  (sentenza  n.  80
del 2006)». Dunque, per la capacita' di questa  materia  di  influire
anche  su  quelle  di  competenza  regionale,  si  e'  ravvisata   la
necessita' «di garantire che la riserva  allo  Stato  della  predetta
competenza trasversale non vada oltre la "tutela della concorrenza" e
sia  in  sintonia  con  l'ampliamento  delle  attribuzioni  regionali
disposto dalla revisione del  Titolo  V  della  parte  seconda  della
Costituzione» (sentenze n. 175 del 2005, n. 272 del 2004 e n. 14  del
2004). 
    Ne conseguirebbe che la competenza legislativa statale  esclusiva
in materia di tutela della concorrenza non possa  mai  escludere  del
tutto la potesta' legislativa  regionale  in  materie  di  competenza
concorrente   o   esclusiva   della   Regione,   ma   debba    essere
intrinsecamente contenuta e limitata. 
    L'intervento del legislatore statale che voglia assicurare  nella
materia  del  commercio  la  tutela  della  concorrenza,   non   puo'
legittimamente determinare  un  sostanziale  e  completo  svuotamento
delle competenze regionali in uno dei segmenti principali di siffatta
materia: quello che riguarda orari e giorni di  apertura.  La  natura
trasversale della materia «tutela della  concorrenza»  deve,  quindi,
esplicarsi secondo rigorosi limiti, al  fine  di  non  vanificare  le
competenze regionali. 
    Il legislatore statale,  nel  caso  di  specie,  eliminando  ogni
vincolo di orario  per  gli  esercizi  commerciali  (e  senza  alcuna
deroga, come  visto)  avrebbe  «soppresso»  la  potesta'  legislativa
regionale residuale in materia, travalicando i limiti della  potesta'
legislativa  esclusiva  in  materia  di  concorrenza,  in  violazione
dell'art. 117, comma 2, lettera e), Cost. 
    Il legislatore statale, inoltre, eccedendo i limiti della propria
potesta' legislativa in materia  di  concorrenza,  con  la  norma  in
esame, si sarebbe ingerito non solo nella competenza residuale  della
Regione in materia di commercio, ma anche nella competenza  regionale
concorrente in materia di «governo  del  territorio»,  in  quanto  la
definizione degli orari e delle aperture degli  esercizi  commerciali
sarebbe legata allo specifico assetto territoriale e, in particolare,
a quello urbano. 
    La legge reg. 2 febbraio 2010, n. 6, recante «Testo  unico  delle
leggi regionali in materia  di  commercio  e  fiere»,  all'art.  103,
infatti, nel prevedere disposizioni di  regolazione  degli  orari  di
apertura  e  chiusura  degli  esercizi  commerciali,  differenzia  la
predetta regolazione degli orari proprio in  rapporto  al  territorio
(centri storici, ecc.). 
    L'art. 31, comma 1, violerebbe, pertanto, anche  il  terzo  comma
dell'art. 117 Cost., con riferimento alla  materia  del  governo  del
territorio. 
    Infine, a parere della Regione,  risulterebbe  violato  anche  il
sesto comma dell'art. 117 Cost. in quanto, una volta stabilito che la
disciplina  degli  orari  di  apertura  e  chiusura  degli   esercizi
commerciali  rientra  nella  materia  del  commercio  di   competenza
legislativa residuale delle Regioni, alle stesse spetterebbe anche la
potesta' regolamentare, ai sensi dell'art. 117, sesto comma, Cost. 
    La  norma  statale  censurata,   ingerendosi   nella   competenza
legislativa regionale in materia di commercio, avrebbe  eliminato  la
possibilita' di esercizio, da parte  della  Regione,  della  relativa
potesta' regolamentare, in violazione  del  citato  art.  117,  sesto
comma, Cost. 
    Secondo la Regione, infatti, la completa  liberalizzazione  degli
orari di apertura e chiusura degli esercizi  commerciali  priverebbe,
in sostanza, la legislazione regionale del  suo  oggetto,  risultando
automaticamente  abrogate  le  norme  regionali  che  contengono   la
disciplina dei predetti orari. La norma statale, dunque, verrebbe  ad
incidere anche sulla competenza regolamentare dei Comuni in  materia.
Infatti, nella Regione Lombardia la legge reg. n. 6 del 2010  recante
il T.U. sul commercio  ha  previsto  che  gli  orari  di  apertura  e
chiusura degli esercizi commerciali siano stabiliti sulla base  delle
indicazioni della Regione, contenute all'art. 103, e sulla  base  dei
criteri  adottati  dai  comuni,  in  attuazione   delle   indicazioni
regionali. 
    Per effetto della predetta norma statale, dunque,  essendo  state
svuotate le competenze legislative regionali in materia di orari,  di
riflesso, verrebbero meno  anche  le  competenze  regolamentari,  sia
della Regione che  degli  enti  locali.  Questo  in  un  settore  che
tradizionalmente ha sempre visto la  presenza,  oltre  che  di  leggi
regionali,  anche  di  regolamenti  i  quali,  tenendo  conto   delle
specificita'  locali,  hanno  potuto  apprezzare,  e  dovranno  poter
apprezzare anche in futuro, se in  determinati  contesti,  e  per  la
tutela di primari interessi pubblici,  si  debbano  porre  regole  ed
almeno alcuni ragionevoli limiti al principio di una liberalizzazione
«selvaggia» in tema di orari e  giorni  di  chiusura  degli  esercizi
commerciali. 
    5.1.- In data 8 maggio 2012 si e' costituito  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  dello
Stato, chiedendo il rigetto del ricorso. 
    6.- Con ricorso notificato il 24 febbraio 2012  e  depositato  il
successivo 2 marzo la Regione autonoma Sardegna ha impugnato, tra gli
altri, l'art. 31, commi 1  e  2,  del  d.l.  n.  201  del  2011,  per
violazione degli artt. 3  e  117  Cost.  e  3,  4  e  5  della  legge
costituzionale 26 febbraio  1948,  n.  3  (Statuto  speciale  per  la
Sardegna). 
    La ricorrente ritiene che le norme impugnate siano  lesive  della
competenza normativa residuale della Regione in materia di  commercio
ai sensi dell'art. 117,  quarto  comma,  Cost.,  nel  cui  ambito  la
medesima Regione ha, peraltro, gia' approvato la legge  regionale  18
maggio 2006, n.  5,  recante  «Disciplina  generale  delle  attivita'
commerciali». In tal senso sono richiamate le  sentenze  della  Corte
costituzionale che hanno detto che «la disciplina degli  orari  degli
esercizi commerciali rientra nella materia «commercio» di  competenza
esclusiva residuale delle Regioni (sentenze n. 288 del 2010 e n.  350
del 2008). 
    Sulla base di  tali  sentenze  sarebbe  chiara,  a  parere  della
ricorrente,  la  lesivita'  del  primo   comma   dell'art.   31   del
decreto-legge impugnato,  per  violazione  degli  artt.  117,  quarto
comma, Cost. Il legislatore statale non potrebbe neanche invocare,  a
fondamento della legittimita' dell'articolo censurato, l'attribuzione
della competenza legislativa esclusiva nella  materia  «tutela  della
concorrenza», di cui all'art. 117, secondo comma, lettera  e),  Cost.
perche' la norma impugnata non regola l'accesso al commercio  e,  con
esso,  la  competizione  degli  operatori  commerciali,  non  elimina
barriere all'ingresso nel mercato, ne' di tipo soggettivo,  correlate
ai requisiti personali e professionali del commerciante, ne' di  tipo
oggettivo, correlate (ad esempio) al  contingentamento  dell'offerta,
ne' elimina alcun  onere  relativo  allo  svolgimento  dell'attivita'
commerciale, ne',  infine,  incide  sulle  intese  restrittive  della
concorrenza tra imprese, sull'abuso di posizione dominante o, ancora,
sulla  fissazione  anticoncorrenziale  del  livello  dei  prezzi.  In
definitiva, l'art. 117, secondo  comma,  lettera  e),  Cost.  sarebbe
stato erroneamente invocato a fondamento normativo della disposizione
in esame. 
    La ricorrente ritiene che anche il comma 2 dell'art. 31 del  d.l.
n. 201 del 2011, nella parte in cui limita i motivi che  giustificano
la possibilita' di introdurre vincoli all'apertura di nuovi  esercizi
commerciali solamente  alla  tutela  della  salute,  dei  lavoratori,
dell'ambiente, e dei beni  culturali,  violi  le  attribuzioni  della
Regione autonoma Sardegna, in particolare gli artt. 3  e  117  Cost.,
nonche' gli artt. 3, 4 e 5 dello statuto di autonomia  della  Regione
Sardegna. 
    La Regione, in assenza del vincolo posto dalla  norma  impugnata,
potrebbe  infatti  individuare,   nell'esercizio   delle   competenze
legislative attribuite  dagli  artt.  3,  4  e  5  dello  statuto  di
autonomia e nel rispetto della disciplina comunitaria,  altri  motivi
imperativi d'interesse generale conformi al diritto  comunitario  cui
subordinare l'apertura degli  esercizi  commerciali.  Sarebbe  dunque
irragionevole  e  in  violazione  dell'art.  3  Cost.,  in  combinato
disposto con gli altri  parametri  sopra  indicati,  precludere  alla
Regione di far valere questi motivi ulteriori. 
    A questo proposito, la ricorrente ricorda che la disposizione  in
esame non tiene conto, al fine di determinare lo spazio  residuo  per
l'intervento regionale, di  finalita'  gia'  ritenute  meritevoli  di
tutela dallo Stato con l'art. 6, comma 1, lettere da  a)  a  e),  del
d.lgs. n. 114 del 1998, quali, in particolare: la  «realizzazione  di
una rete distributiva che, in collegamento con le altre  funzioni  di
servizio,  assicuri  la  migliore  produttivita'  del  sistema  e  la
qualita' dei  servizi  da  rendere  al  consumatore»;  «l'equilibrato
sviluppo delle diverse  tipologie  distributive»;  la  compatibilita'
dell'impatto   «territoriale   e   ambientale   degli    insediamenti
commerciali con particolare riguardo a fattori quali  la  mobilita'»;
il traffico e  l'inquinamento  e  la  valorizzazione  della  funzione
commerciale al fine della «riqualificazione del  tessuto  urbano,  in
particolare per quanto riguarda i quartieri urbani degradati al  fine
di ricostituire un ambiente idoneo allo sviluppo del  commercio»;  la
salvaguardia  e  la  riqualificazione  dei  «centri   storici   anche
attraverso il mantenimento delle caratteristiche  morfologiche  degli
insediamenti e il rispetto  dei  vincoli  relativi  alla  tutela  del
patrimonio  artistico  ed   ambientale»;   la   salvaguardia   e   la
riqualificazione della «rete distributiva  nelle  zone  di  montagna,
rurali  ed  insulari  anche  attraverso  la  creazione   di   servizi
commerciali polifunzionali e al fine di favorire il mantenimento e la
ricostituzione del tessuto commerciale». 
    Infine, in base  all'art.  117,  quinto  comma,  Cost.  lo  Stato
avrebbe dovuto tenere in debito conto  le  competenze  della  Regione
autonoma Sardegna, al fine di attuare la normativa comunitaria. 
    6.1.- In data 4 aprile 2012  si  e'  costituito  in  giudizio  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo il rigetto del ricorso con  le
medesime argomentazioni svolte negli atti di costituzione relativi ai
ricorsi della Regione Piemonte e della Regione Lazio. 
    7.- Con ricorso notificato il 23 febbraio 2012  e  depositato  il
successivo 5 marzo la Regione Toscana ha impugnato l'art.  31,  comma
1, del d.l. n. 201 del 2011, per violazione degli artt.  117,  quarto
comma, e 118 Cost. 
    La Regione premette  che  la  norma  impugnata  introduce  alcune
modificazioni alla lettera d-bis) dell'art. 3 del  d.l.  n.  223  del
2006, avente ad oggetto la disciplina degli orari  e  dei  giorni  di
apertura degli esercizi commerciali. 
    Tale ultima disposizione era gia' stata modificata dall'art.  35,
comma 6, del d.l. n.  98  del  2011,  norma  che  era  stata  oggetto
anch'essa di impugnazione da parte della Regione Toscana. 
    La precedente versione della lettera d-bis) dell'art. 3 del  d.l.
n. 223 del 2006 sopra citato prevedeva che le attivita'  commerciali,
come individuate dal d.lgs. n. 114 del 1998, nonche' le attivita'  di
somministrazione di alimenti e bevande, dovessero essere svolte senza
il limite, tra gli altri, del «rispetto degli orari di apertura e  di
chiusura, l'obbligo della  chiusura  domenicale  e  festiva,  nonche'
quello   della   mezza   giornata   di   chiusura    infrasettimanale
dell'esercizio ubicato nei comuni  inclusi  negli  elenchi  regionali
delle localita' turistiche o citta' d'arte» (comma 6). Era  previsto,
inoltre, (al successivo comma 7) che le Regioni  e  gli  enti  locali
dovessero   adeguare   le   proprie   disposizioni   legislative    e
regolamentari entro il 31 dicembre 2011. 
    A parere della ricorrente, la modifica introdotta dalla norma  in
questa sede impugnata non avrebbe inciso sul termine entro  il  quale
le Regioni dovevano adeguare le proprie disposizioni legislative alla
novella introdotta dal legislatore statale. 
    L'art.  31  avrebbe,  invece,  disciplinato  il  diverso  profilo
relativo all'avvio di nuove attivita' commerciali, che non puo'  piu'
essere sottoposto a contingenti limiti territoriali e/o altri vincoli
di qualsiasi natura, eccetto i vincoli  connessi  alla  tutela  della
salute, dei lavoratori e dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano
e dei beni culturali, ed avrebbe previsto, con  riferimento  a  detta
disciplina, il termine dei novanta giorni dalla data  di  entrata  in
vigore della legge di conversione n. 214 del 2011, per  l'adeguamento
delle Regioni. 
    La Regione Toscana, successivamente all'entrata in  vigore  della
legge di conversione del decreto legge contenente  la  norma  oggetto
del presente giudizio, ma entro il termine prescritto dal  precedente
art. 35, comma 7, d.l. n. 98  del  2011,  e'  nuovamente  intervenuta
sulla disciplina degli orari di apertura degli  esercizi  commerciali
con gli artt. 88 e 89 della legge regionale 27 dicembre 2011,  n.  66
(Legge finanziaria per l'anno 2012), che hanno sostituto gli artt. 80
e 81 della legge  regionale  7  febbraio  2005,  n.  28  (Codice  del
commercio. Testo Unico in materia di commercio in sede fissa, su aree
pubbliche, somministrazioni di  alimenti  e  bevande,  vendita  della
stampa quotidiana e periodica e  distribuzione  di  carburanti),  nel
rispetto dei principi nazionali. 
    In particolare,  il  nuovo  art.  80  non  distingue  tra  comuni
turistici e non, e neppure  contiene  alcun  riferimento  alle  fasce
orarie entro cui tenere aperti i negozi (con possibilita', quindi, di
programmare  aperture  notturne);  inoltre,   i   limiti   alle   ore
giornaliere e alle aperture domenicali e festive sono derogabili  dal
Comune, senza specifica  motivazione,  previa  concertazione  con  le
parti sociali interessate (commi 1 e 2, per gli orari di apertura,  e
commi 5 e 6, nonche' commi  7  e  8  per  le  chiusure  domenicali  e
festive). 
    La Regione Toscana ritiene, pertanto, di aver  disciplinato,  con
la legge reg. n. 66 del 2011, la materia degli orari  e  giornate  di
apertura  degli  esercizi  commerciali  non  ponendo  sostanzialmente
ulteriori  limiti  per  l'accesso  al  mercato,  ma   limitandosi   a
regolamentare aspetti propri inerenti la  materia  del  commercio  e,
comunque, rispettando i nuovi orientamenti espressi  dal  legislatore
statale in materia. 
    Secondo  la  ricorrente,  pertanto,   non   sussisterebbe   alcun
contrasto tra le due richiamate normative (art. 31, comma 1, del d.l.
n. 201 del 2011 e artt. 80 e 81 della legge reg. n. 66 del 2011). 
    Il ricorso, e', quindi proposto, solo  in  via  cautelativa,  nel
caso in cui l'art. 31, comma 1, sopra citato fosse  interpretato  nel
senso di precludere qualsiasi  intervento  legislativo  regionale  in
materia di orario degli esercizi commerciali. 
    Secondo la Regione Toscana, nell'ipotesi  in  cui  la  disciplina
statale in esame dovesse essere intesa nel  senso  di  impedire  ogni
intervento regolativo  della  materia  da  parte  delle  Regioni,  si
evidenzierebbe il contrasto con l'art. 117, quarto comma,  Cost.  per
violazione  delle  competenze  regionali  in  materia  di  commercio,
nonche' delle relative attribuzioni amministrative ai sensi dell'art.
118 Cost. 
    La Corte costituzionale ha, infatti, piu' volte affermato che  la
regolamentazione degli orari e/o delle  giornate  di  apertura  degli
esercizi  commerciali  rientra  nella  materia  del   commercio,   di
competenza residuale delle Regioni (si richiamano le sentenze n.  150
del 2011, n. 288 del 2010 e n. 350 del 2008). 
    La Regione afferma che non puo' essere a tal proposito  condivisa
la tesi della Presidenza del Consiglio secondo cui la  disciplina  in
esame  troverebbe  fondamento  nei  titoli  di   competenza   statale
relativamente  alla  materie  di  tutela  della  concorrenza   e   di
determinazione dei livelli minimi  nel  settore  della  distribuzione
commerciale, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lettere e) ed m), Cost. 
    Le  misure  legislative  di  tutela  della  concorrenza,  per  la
ricorrente, hanno, infatti, ad oggetto gli atti  ed  i  comportamenti
delle imprese che incidono negativamente sull'assetto  concorrenziale
dei mercati e quelle di promozione che mirano ad aprire un mercato  o
a consolidarne l'apertura eliminando barriere all'entrata (si  citano
le sentenze n. 63 del 2008 e n. 430 del 2007). 
    Nel caso di specie, non  si  ravviserebbero  esigenze  di  tutela
della  concorrenza,  posto  che  non  si  interviene  per   eliminare
situazioni di squilibrio esistenti tra  gli  operatori  del  settore,
come  affermato  anche  dalla  Corte  costituzionale  (e'  citata  la
sentenza n. 288 del 2010). 
    Si precisa, nel ricorso, che la Corte  ha  gia'  riconosciuto  la
legittimita' di leggi regionali che operano  delle  differenziazioni,
anche  con  specifico  riferimento  alla  dimensione   dell'attivita'
dell'esercente commerciale, al fine di tutelare la  piccola  e  media
impresa. In particolare, si e' ritenuto legittimo tutelare (sia  pure
con  riferimento  a  censure  relative  agli  artt.  3  e  41  Cost.)
«l'esigenza di interesse generale - peraltro espressamente richiamata
dal citato art. 6, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 114 del 1998  -
di riconoscimento e valorizzazione del ruolo delle  piccole  e  medie
imprese gia' operanti sul territorio regionale» (sentenza n.  64  del
2007). 
    Si assume, infine, che una  volta  stabilito  che  la  disciplina
degli orari degli esercizi commerciali e'  ascrivibile  alla  materia
«commercio», di cui all'art. 117, quarto comma, Cost., non risulta di
per se' lesiva di parametri costituzionali la scelta del  legislatore
regionale di regolamentare il settore operando delle differenziazioni
non solo in relazione alla dimensione dell'esercizio commerciale,  ma
anche, come si e' detto, tenendo conto di altri fattori, tra i  quali
il   settore   merceologico   di   appartenenza   e    gli    effetti
sull'occupazione. 
    D'altra parte, sostenere che i presunti obiettivi  concorrenziali
perseguiti dalle  norme  statali  citate  prevalgano  sulla  potesta'
regionale in materia di commercio, significherebbe, ad  avviso  della
Regione, esautorare totalmente  la  competenza  regionale  in  questo
ambito. 
    Se  e'  vero,  infatti,  che,  e'  precluso  alle  Regioni,   pur
nell'esercizio di una propria competenza legislativa esclusiva, porre
ostacoli alla  concorrenza,  e'  altrettanto  vero  che  «poiche'  la
materia  commercio  puo'  intersecarsi  con  quella   "tutela   della
concorrenza", riservata alla competenza legislativa dello  Stato,  le
Regioni, nell'esercizio di tale loro competenza, possono dettare  una
disciplina che determini  anche  effetti  pro-concorrenziali  perche'
altrimenti il carattere trasversale e potenzialmente  omnicomprensivo
della materia "tutela della concorrenza" finirebbe  con  lo  svuotare
del tutto le nuove competenze regionali  attribuite  dal  legislatore
costituente (sentenze n. 288 del 2010, n. 283 del 2009, n. 431  e  n.
430 del 2007)»: in tal senso, la sentenza n. 150 del 2011. 
    Inoltre, la norma impugnata non sarebbe  volta  a  promuovere  la
concorrenza  tra  i  diversi  soggetti  del  mercato  in  quanto  non
interverrebbe a rimuovere disparita' di trattamento preesistenti  tra
gli operatori, effettivi o potenziali,  di  un  determinato  mercato,
anzi, a ben vedere accentuerebbe le discriminazioni tra i  piccoli  e
medi esercenti e la grande distribuzione. 
    In altri termini, le nuove regole  statali  altererebbero  quella
parita' di condizione e di pari opportunita' (che e' alla base  della
concorrenza), tra esercenti della grande distribuzione e piccoli  e/o
medi esercenti, i quali ultimi non possono  competere,  con  i  nuovi
orari e aperture nei giorni festivi, con i grandi centri  commerciali
non avendo i mezzi per usufruire delle  nuove  regole,  con  aperture
incondizionate che determinano costi aggiuntivi,  per  il  personale,
per la vigilanza e per la gestione degli immobili. 
    In ogni caso, per la  ricorrente,  anche  a  voler  ammettere  il
carattere  pro-concorrenziale  dell'art.  31  in  esame,  questo  non
potrebbe determinare un totale svuotamento delle competenze regionali
in materia di commercio, come invece avverrebbe nel caso  in  cui  lo
stesso  art.  31  in  oggetto  venisse  interpretato  nel  senso   di
precludere qualsiasi intervento legislativo regionale in  materia  di
orari di negozi. 
    E' noto infatti che - in  base  al  pacifico  orientamento  della
Corte costituzionale  al  riguardo  -  l'intervento  del  legislatore
statale in materia di tutela della  concorrenza,  proprio  in  quanto
materia trasversale che incide su diversi ambiti (anche estranei alla
competenza dello Stato), e'  legittimo  solo  se  contenuto  entro  i
limiti dei canoni di adeguatezza e proporzionalita'. 
    In particolare, la Regione richiama la sentenza n. 272  del  2004
(confermata dalla sentenza n. 345 del 2004), secondo  cui  una  norma
statale che imponesse una disciplina tanto dettagliata  e  vincolante
da risultare non proporzionata rispetto  all'obiettivo  della  tutela
della  concorrenza   costituirebbe   una   illegittima   compressione
dell'autonomia regionale. 
    Il fatto che la materia  della  regolamentazione  degli  orari  e
giornate di apertura degli esercizi commerciali non  rilevi  ai  fini
della tutela della concorrenza sarebbe confermato anche  dal  diritto
comunitario. 
    Secondo la ricorrente «Il Trattato CE, infatti, agli artt.  49  e
56 del Trattato (rispettivamente ex artt. 43 e  49),  in  materia  di
attivita' di imprese si preoccupa di  sancire  le  seguenti  liberta'
fondamentali:  libera  circolazione  di  merci,  persone,  servizi  e
capitali e liberta' di stabilimento. In particolare, per  quanto  qui
interessa, quest'ultima e' tesa a garantire l'accesso  e  l'esercizio
di un'attivita' economica in un Paese dell'UE diverso  da  quello  di
origine. E' dunque evidente che tale liberta' garantita dal  Trattato
non riguarda in  alcun  modo  l'aspetto  dell'orario  degli  esercizi
commerciali. In  particolare,  non  vengono  neppure  in  rilievo  le
finalita' di tutela della concorrenza cosi' come definite  a  livello
comunitario, agli artt. da 101 a 106 del Trattato (ex artt. da  81  a
86): a riguardo la Corte di  giustizia,  proprio  con  riferimento  a
normative degli stati membri  che  regolavano  l'apertura  domenicale
degli esercizi commerciali  ha  riconosciuto  "che  le  normative  in
questione perseguivano un obiettivo legittimo alla luce  del  diritto
comunitario. Invero, le discipline nazionali che limitano  l'apertura
domenicale di esercizi  commerciali  costituiscono  l'espressione  di
determinate  scelte,  rispondenti  alle  peculiarita'  socioculturali
nazionali o regionali. Spetta agli  Stati  membri  effettuare  queste
scelte attenendosi alle  prescrizioni  del  diritto  comunitario,  in
particolare al principio di proporzionalita'" (confronta sentenza del
16 dicembre 1992 - Causa C-169/91)». 
    Inoltre la Corte di giustizia UE in merito ad una legge regionale
del Lazio recante disciplina dell'orario, dei  turni  e  delle  ferie
delle farmacie aperte al pubblico, avrebbe ribadito l'estraneita'  di
detta normativa all'ambito di applicazione dei principi in materia di
liberta' di stabilimento e di libera  circolazione  dei  servizi  (ex
artt. 43  e  49  del  Trattato  CE),  affermando  esplicitamente  che
«l'interpretazione dell'art. 49 CE [...] non e'  pertinente  ai  fini
della soluzione  della  causa  principale»  e  che  «l'esercizio  del
diritto di stabilimento sancito dall'art. 43 CE non e'  in  questione
nella causa principale» (sentenza del 1° luglio 2010 causa C-393/08). 
    Inoltre, con  la  stessa  sentenza,  la  Corte  di  giustizia  ha
affermato che «le  altre  disposizioni  del  diritto  comunitario  in
materia  di  concorrenza  di  cui  il  giudice  del   rinvio   chiede
l'interpretazione, in particolare gli artt. 81 CE e 86 CE, risultano,
del pari, manifestamente inapplicabili in un  contesto  quale  quello
del procedimento principale». 
    Secondo la ricorrente non puo' ritenersi  utilmente  invocata,  a
fondamento della legittimita' costituzionale dell'art. 31,  comma  1,
in parola, neanche la materia di cui  all'art.  117,  secondo  comma,
lettera m), Cost. 
    Anche in questo caso la Regione richiama la giurisprudenza  della
Corte costituzionale con la quale si e' avuto modo di  chiarire  che:
«nell'attivita'  posta  in  essere  dai  centri  di  telefonia   sono
rinvenibili alcuni degli elementi tipici degli esercizi  commerciali,
tant'e' vero, ad esempio, che  l'art.  6  della  legge  regionale  in
questione  si  occupa  proprio  degli  orari  e  delle  modalita'  di
esercizio di tale attivita' (profili  ascrivibili  alla  materia  del
"commercio": si vedano le sentenze n. 243 del 2005 e n. 76 del 1972).
[...]  Non  e'  invece  pertinente,  in  questa  sede,   l'evocazione
dell'art. 117, secondo comma,  lettera  m),  della  Costituzione,  in
quanto la disciplina regionale dei centri  di  telefonia  non  incide
sulla determinazione degli  standard  strutturali  e  qualitativi  di
prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti  civili  e
sociali, devono essere garantiti, con  carattere  di  generalita',  a
tutti gli aventi diritto» (sentenza n. 168 del 2008). 
    Infine, a  ulteriore  conferma  della  sua  tesi,  la  ricorrente
richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 150 del 2011,  con
la quale e' stato ribadito espressamente  che  «la  disciplina  degli
orari degli esercizi commerciali rientra  nella  materia  "commercio"
(sentenze n. 288 del 2010 e n. 350 del 2008), di competenza esclusiva
residuale delle Regioni, ai sensi  del  quarto  comma  dell'art.  117
Cost., e che "il decreto legislativo 31 marzo 1998, n.  114  (Riforma
della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'art.
4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), [...] si  applica,  ai
sensi dell'art. 1, comma  2,  della  legge  5  giugno  2003,  n.  131
(Disposizioni per  l'adeguamento  dell'ordinamento  della  Repubblica
alla legge costituzionale 18  ottobre  2001,  n.  3),  soltanto  alle
Regioni che  non  abbiano  emanato  una  propria  legislazione  nella
suddetta materia" (sentenze n. 288 e n. 247 del  2010,  ordinanza  n.
199 del 2006)». 
    Da quanto sopra esposto sarebbe, pertanto,  evidente  che  l'art.
31, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, ove  fosse  interpretato  come
preclusivo  di  ogni  intervento  regionale  di  regolamentazione  in
materia di orari e/o giornate di apertura degli esercizi commerciali,
risulterebbe lesivo  della  competenza  regionale  costituzionalmente
garantita in materia  di  commercio,  in  violazione  dell'art.  117,
quarto comma, e dell'art. 118 Cost. 
    7.1.- In data 15 maggio 2012 si e' costituito il  Presidente  del
Consiglio dei ministri rappresentato e difeso  dall'Avvocatura  dello
Stato chiedendo il rigetto del ricorso. 
    8.- Con ricorso notificato il 25 febbraio 2012  e  depositato  il
successivo 5 marzo, la  Regione  autonoma  Friuli-Venezia  Giulia  ha
impugnato l'art.  31,  comma  1,  del  d.l.  n.  201  del  2011,  per
violazione degli artt. 3, 117, secondo, terzo e  quarto  comma,  118,
primo comma, Cost. o, qualora ritenuto piu' favorevole,  dell'art.  4
della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n.  1  (Statuto  speciale
della Regione Friuli-Venezia Giulia) 
    La  Regione,  dopo  aver  riportato  il  contenuto  della   norma
impugnata, precisa che l'art. 1, comma 1-bis), del d.l.  n.  223  del
2006 dispone che «le disposizioni  di  cui  al  presente  decreto  si
applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di
Trento e di Bolzano in  conformita'  agli  statuti  speciali  e  alle
relative norme di attuazione». Tuttavia osserva che dalla prima parte
del comma l si potrebbe ricavare la pretesa della norma di  vincolare
anche le Regioni a statuto speciale. 
    La ricorrente fa notare che ne' il d.l. n. 223 del  2006  ne'  il
d.l. n. 201 del 2011 - pur prevalendo sulle  precedenti  disposizioni
incompatibili   -    abrogano    specificamente    le    disposizioni
precedentemente dettate dal d.lgs. n. 114  del  1998,  che  aveva  ad
oggetto  la  riforma  della  disciplina  relativa  al   settore   del
commercio. 
    Le regole generali, valide per tutti  gli  esercizi  commerciali,
erano dettate dall'art. 11 del citato d.lgs. n.  114  del  1998,  che
prevedeva un forte coinvolgimento dei Comuni e delle associazioni  di
categoria nella regolamentazione degli orari di apertura  e  chiusura
al pubblico degli esercizi commerciali. 
    Una disciplina specifica era  invece  dettata  per  le  localita'
turistiche e le  citta'  d'arte  dall'art.  12,  comma  1,  il  quale
disponeva (o, secondo la Regione, ancora dispone, non  essendo  stato
espressamente abrogato) che «nei comuni ad  economia  prevalentemente
turistica, nelle citta'  d'arte  o  nelle  zone  del  territorio  dei
medesimi, gli esercenti determinano liberamente gli orari di apertura
e di chiusura e possono derogare dall'obbligo di cui all'articolo 11,
comma 4». 
    Dopo la riforma del Titolo V della Parte II  della  Costituzione,
prosegue la ricorrente, la  materia  del  commercio  e'  divenuta  di
competenza residuale delle Regioni, la cui legislazione ha  apportato
rilevanti modifiche al sistema del d.lgs. n. 114 del 1998, nel  senso
di una piu' ampia liberta' degli esercenti nella determinazione degli
orari. 
    In particolare, viene fatto osservare  che  la  Regione  autonoma
Friuli-Venezia  Giulia  ha  dettato  una  disciplina  completa  della
materia con la legge reg. 5 dicembre 2005, n. 29 (Normativa  organica
in materia di attivita' commerciali e di somministrazione di alimenti
e bevande. Modifica alla legge  regionale  16  gennaio  2002,  n.  2,
Disciplina organica del turismo), che,  al  capo  IV  del  Titolo  II
dedicato al Commercio in  sede  fissa,  disciplina  gli  orari  degli
esercizi commerciali. 
    La disciplina regionale ha sempre mantenuto un  quadro  normativo
di favore per la libera  determinazione  dell'esercente,  bilanciato,
pero',  con  altri  valori  in  gioco,   anch'essi   tutelati   dalla
Costituzione, quali: tutela dei lavoratori (artt. 4, 35 e 117,  comma
terzo), tutela della salute (artt. 32 e 117, terzo comma), tutela  di
una ordinata convivenza (art. 2)  e,  anche,  tutela  della  liberta'
religiosa (art. 19) e dell'interesse  delle  popolazioni  -  e  degli
stessi lavoratori del settore commerciale - a vivere certe giornate e
certi momenti della giornata  in  quel  particolare  clima  civile  e
spirituale che deriva dalla sospensione delle attivita'  commerciali,
e che costituisce esso stesso un valore protetto. 
    Tali valori rientrano nelle competenze regionali, o espressamente
(la sanita' e la tutela del lavoro: art. 117, terzo comma,  Cost.)  o
in via residuale, o come generali valori costituzionali da rispettare
in tutte  le  materie  di  competenza,  a  partire  ovviamente  dalla
disciplina del commercio. 
    La Regione ricorda che in altri paesi europei tali  valori  hanno
trovato riconoscimento in esplicite  regole,  talora  addirittura  di
livello  costituzionale:  ad  esempio,  l'art.  140   Grundgesetz   -
attraverso il  richiamo  dell'art.  139  Cost.  dell'11  agosto  1919
(Costituzione di Weimar) - sancisce  che  «la  domenica  e  i  giorni
festivi riconosciuti dallo Stato rimangono protetti  come  giorni  di
riposo lavorativo e di elevazione spirituale»,  e  su  tale  base  la
Corte costituzionale tedesca nel 2004 ha fondato la legittimita' e la
necessita' di una regolazione restrittiva dell'apertura dei negozi. 
    La Regione autonoma  Friuli-Venezia  Giulia  rammenta  di  essere
dotata di competenza regionale piena  in  materia  di  commercio,  ai
sensi dell'art. 4,  numero  6,  dello  statuto  speciale  o,  qualora
ritenuto piu' favorevole, dell'art.  117,  quarto  comma,  Cost.  (in
forza dell'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.  3,
recante  «Modifiche  al  titolo   V   della   parte   seconda   della
Costituzione»). 
    La ricorrente ritiene che la totale liberalizzazione degli orari,
senza alcuna considerazione dei  valori  costituzionali  concorrenti,
ecceda i limiti della potesta'  legislativa  statale  in  materia  di
tutela della concorrenza, violi i principi di  proporzionalita'  e  i
valori costituzionali cosi' trascurati  ed  invada  l'ambito  in  cui
spetta alla Regione dettare una disciplina  degli  orari  commerciali
che tenga conto anche dei predetti valori concorrenti. 
    Viene ribadito che la materia  degli  orari  dei  negozi  rientra
nella potesta' legislativa delle Regioni, come e'  stato  piu'  volte
espressamente confermato dalla Corte costituzionale (sono  menzionate
le sentenze n. 150 del 2011, n. 288 e n. 247 del 2010). 
    La Regione ricorrente afferma di essere consapevole che  il  solo
richiamo alla giurisprudenza costituzionale sul commercio non basta a
fondare l'illegittimita' costituzionale della normativa impugnata, in
quanto occorre  anche  dimostrare  che  lo  Stato  non  possiede,  in
relazione ad essa, un legittimo titolo costituzionale di intervento. 
    I  titoli  da  prendere  in  considerazione  sono   espressamente
enunciati nel testo in  cui  l'impugnata  disposizione  e'  inserita,
cioe' nell'art. 3, comma  1,  del  decreto-legge  n.  223  del  2006,
secondo il quale gli oggetti ai quali tale comma  si  riferisce  sono
disciplinati   «ai   sensi   delle   disposizioni    dell'ordinamento
comunitario  in  materia  di  tutela  della  concorrenza   e   libera
circolazione delle merci e dei servizi ed al  fine  di  garantire  la
liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari opportunita' ed il
corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonche' di assicurare
ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni  di
accessibilita' all'acquisto di  prodotti  e  servizi  sul  territorio
nazionale, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettere  e)  ed
m)». 
    La Regione fa ulteriormente notare che l'inserimento degli  orari
in questo contesto normativo e' frutto di un ripensamento:  tanto  e'
vero che proprio dalla assenza di  esso  aveva  tratto  argomento  la
Corte, nella sentenza n. 150 del 2011,  per  confermare  a  contrario
l'appartenenza della materia alla disciplina del commercio. 
    In ogni modo, cosi' come la constatazione che la disciplina degli
orari appartiene alla materia del commercio non  chiude  il  problema
del rapporto con la tutela della concorrenza  (avendo  tale  materia,
«dato il suo carattere "finalistico", anche una portata piu' generale
e trasversale, non  preventivamente  delimitabile,  che  deve  essere
valutata  in  concreto  al  momento  dell'esercizio  della   potesta'
legislativa sia dello Stato che delle Regioni nelle materie  di  loro
rispettiva competenza» (sentenza 150 del  2011);  cosi'  l'attrazione
degli orari  tra  le  materie  "influenzate"  dalla  concorrenza  non
legittima automaticamente ogni intervento statale nella  materia  del
commercio. 
    La Regione sottolinea, ai fini del giudizio sull'art.  31,  comma
1,  che  la  Corte  costituzionale,  nel  valutare  l'effetto   della
sostituzione di una disciplina che consentiva una piu' ampia apertura
domenicale rispetto ad una disciplina piu' restrittiva, ne ha  bensi'
riconosciuto un  effetto  proconcorrenziale,  ma  lo  ha  qualificato
marginale e indiretto. 
    Secondo la ricorrente, e' evidente che la totale liberalizzazione
degli orari dei negozi, e la sostanziale interdizione per le  Regioni
di dettare in relazione ad essi qualunque regola limitativa,  non  ha
nulla a che fare con la tutela della concorrenza intesa come  parita'
di condizione tra  imprese  nell'accesso  al  mercato:  dato  che  la
disciplina degli orari vale allo stesso modo per tutte le imprese che
si trovino nelle situazioni indicate dalle norme. 
    Del resto, e' pacifico che il  diritto  dell'Unione  europea  non
esclude affatto una ragionevole disciplina  degli  orari,  che  viene
rimessa alla sensibilita' ed alle esigenze degli Stati membri. 
    Al contrario, la supposta misura di tutela della concorrenza, per
il suo effetto di totale deregolazione, si tradurrebbe in un  fattore
distorsivo, in quanto scorrettamente  avvantaggerebbe  gli  operatori
maggiori,  che  per   la   ampiezza   e   complessita'   della   loro
organizzazione sono in grado di mantenere l'apertura per sette giorni
su sette e per un orario non limitato  (se  non  dalla  convenienza),
rispetto agli operatori familiari o comunque minori, che, per  limiti
di personale, non potrebbero competere neppure sottoponendosi  ad  un
regime di autosfruttamento, che del resto contraddirebbe  il  diritto
costituzionale al riposo. 
    In questa situazione, la forzosa deregolamentazione operata dallo
Stato e la connessa interdizione di dettare qualunque disciplina  che
in termini di ragionevolezza bilanci il valore della promozione delle
attivita'  commerciali   con   gli   altri   valori   concorrenti   e
costituzionalmente tutelati, come sopra enunciati e come riconosciuti
anche in sede europea  (e  rientranti  nelle  competenze  regionali),
violerebbe al tempo stesso i principi e le regole costituzionali  che
custodiscono tali valori, i principi di  autonomia  delle  Regioni  e
delle comunita', come espressi dall'art. 117, terzo e  quarto  comma,
Cost. e dal principio di sussidiarieta' (dato  che  si  impedisce  al
livello istituzionale piu' adeguato, che e' senz'altro quello locale,
di valutare caso per caso e periodo per periodo quale sia la migliore
regolazione degli orari). 
    In altri termini, la competenza legislativa delle  Regioni  nella
disciplina del commercio sarebbe  espropriata  ed  annullata  in  una
parte rilevante, senza una ragione di cogente e proporzionata  tutela
del bene affidato alla competenza statale. 
    La  norma  in  questione   violerebbe   persino   la   competenza
finalistica statale in materia di tutela  della  concorrenza,  se  e'
vero che compito di tale tutela e' di produrre  una  regolazione  che
consenta una competizione corretta  tra  le  diverse  imprese,  e  di
impedire che la mancanza di qualunque regola produca la sopravvivenza
dei soli operatori maggiori, a prescindere dalla qualita' della  loro
offerta commerciale. 
    Sarebbero, dunque, violati il principio di ragionevolezza di  cui
all'art. 3 Cost., l'art. 117, secondo, terzo e quarto comma,  nonche'
l'art. 118, primo comma, Cost. 
    Infine, la ricorrente osserva che  la  normativa  contestata  non
potrebbe essere giustificata neppure ai sensi dell'art. 117,  secondo
comma, lettera m), Cost., come presunto  «livello  essenziale»  delle
«prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il  territorio  nazionale».  Non  si  tratterebbe,
infatti, di una "prestazione", piu' di quanto non  lo  sia  qualunque
altra regolazione; e sarebbe inoltre evidente che i diritti civili  e
sociali dei  cittadini  e  degli  interessati  non  subiscono  alcuna
lesione da una ragionevole disciplina dell'orario dei negozi,  mentre
al contrario puo' determinare una lesione una  situazione  di  totale
deregolamentazione, che semmai impedisce una razionale organizzazione
dei tempi dei propri acquisti. 
    8.1.- In data 11 maggio 2012 si e' costituito il  Presidente  del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  dello
Stato, chiedendo il rigetto del ricorso. 
    9.- In prossimita' dell'udienza  le  Regioni  Toscana,  Sardegna,
Veneto e Friuli-Venezia Giulia, hanno presentato memorie con le quali
hanno   ribadito   le   ragioni   a   sostegno    dell'illegittimita'
costituzionale della norma impugnata, insistendo  per  l'accoglimento
del ricorso. 
    10.-   L'Avvocatura   dello   Stato,   sempre   in    prossimita'
dell'udienza, ha presentato memorie  con  le  quali  ha  ribadito  le
proprie argomentazioni a sostegno dell'infondatezza dei ricorsi delle
Regioni Lazio e Sardegna. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Le  Regioni  Piemonte,  Veneto,  Sicilia,  Lazio,  Lombardia,
Sardegna, Toscana  e  Friuli-Venezia  Giulia  con  distinti  ricorsi,
rispettivamente contrassegnati con i numeri 19, 29, 39, 44,  45,  47,
49 e 50 del registro ricorsi dell'anno 2012, hanno promosso,  in  via
principale, varie questioni di legittimita' costituzionale,  tra  cui
alcune  relative  all'articolo  31,  comma  1,  del  decreto-legge  6
dicembre  2011,  n.  201  (Disposizioni  urgenti  per  la   crescita,
l'equita' e il consolidamento dei conti  pubblici),  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214,  denunciato  per
contrasto con gli articoli 3, 117, primo, secondo,  terzo,  quarto  e
sesto comma, e  118  della  Costituzione,  nonche'  in  relazione  al
principio di leale collaborazione. 
    La Regione siciliana lamenta anche  la  lesione  ad  opera  della
norma sopra indicata dell'art.  14,  lettere  d)  ed  e),  del  regio
decreto legislativo  15  maggio  1946,  n.  455  (Approvazione  dello
statuto della Regione siciliana); la Regione autonoma  Friuli-Venezia
Giulia dell'art. 4 della legge costituzionale 31 gennaio 1963,  n.  1
(Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia). 
    L'art. 31, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011 modifica la  lettera
d-bis) dell'art. 3, comma 1, del decreto-legge l4 luglio 2006, n. 223
(Disposizioni urgenti per il rilancio economico  e  sociale,  per  il
contenimento e la razionalizzazione  della  spesa  pubblica,  nonche'
interventi  in  materia  di  entrate  e  di  contrasto   all'evasione
fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4  agosto  2006,
n. 248 - lettera introdotta dall'art. 35, comma 6, del  decreto-legge
6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni  urgenti  per  la  stabilizzazione
finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla  legge  15  luglio
2011, n. 111 - eliminando dal precedente  testo  le  parole  «in  via
sperimentale» e «dell'esercizio  ubicato  nei  comuni  inclusi  negli
elenchi regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte». 
    L'art. 3, comma 1, del d.l. n.  223  del  2006,  nel  dettare  le
regole di tutela della concorrenza nel  settore  della  distribuzione
commerciale - al dichiarato fine  di  garantire  condizioni  di  pari
opportunita' ed il corretto ed uniforme  funzionamento  del  mercato,
nonche' di assicurare ai consumatori  finali  un  livello  minimo  ed
uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di  prodotti  e
servizi sul territorio nazionale - individua gli ambiti normativi per
i  quali  espressamente  esclude  che  lo  svolgimento  di  attivita'
commerciali possa incontrare limiti e prescrizioni. 
    L'art. 35, comma 6, del d.l.  n.  98  del  2011  ha  aggiunto  la
lettera d-bis) al comma 1 del citato art. 3 del d.l. n. 223 del  2006
estendendo in tal modo l'elenco degli ambiti normativi per i quali e'
espressamente escluso che lo  svolgimento  di  attivita'  commerciali
possa incontrare limiti e prescrizioni anche  alla  disciplina  degli
orari  e  della  chiusura  domenicale  o   festiva   degli   esercizi
commerciali, sia pure solo in via sperimentale e  limitatamente  agli
esercizi ubicati nei comuni inclusi  negli  elenchi  regionali  delle
localita' turistiche o citta' d'arte. 
    Come si e'  detto,  l'art.  31  del  d.l.  n.  201  del  2011  ha
modificato  la  citata  lettera  d-bis)  del  comma  1  dell'art.  3,
eliminando dal testo della norma le parole  «in  via  sperimentale  e
dell'esercizio ubicato nei comuni  inclusi  negli  elenchi  regionali
delle localita' turistiche o citta' d'arte», con il risultato che  le
attivita'  commerciali  non  possono   piu'   incontrare   limiti   o
prescrizioni relativi a orari o a giornate di apertura e chiusura  da
rispettare,   essendo   tutto   rimesso   al   libero   apprezzamento
dell'esercente. 
    Secondo le Regioni  ricorrenti,  la  norma  impugnata  violerebbe
l'art.  117,  quarto  comma,  Cost.  che  riserva  alla  regione   la
competenza legislativa nella materia del commercio,  non  costituendo
detta norma  ne'  adeguamento  dell'ordinamento  interno  al  diritto
dell'Unione europea ne' esercizio di competenza legislativa esclusiva
dello Stato ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettere e) ed  m),
Cost. 
    Le Regioni autonome Sicilia,  Sardegna  e  Friuli-Venezia  Giulia
evocano  come  parametri  anche  quelli  dei  rispettivi  statuti  di
autonomia  che  attribuiscono  loro  la  competenza  esclusiva  nella
materia del commercio, se ritenuti piu' favorevoli rispetto  all'art.
117, quarto comma, Cost. 
    La Regione Piemonte lamenta anche la violazione del principio  di
leale  collaborazione  in  quanto  l'interferenza  con   la   materia
regionale del commercio avrebbe richiesto la previsione di  un'intesa
con la Conferenza Stato-Regioni. 
    La Regione Piemonte censura la norma anche in relazione  all'art.
77 Cost. perche' mancherebbero  i  presupposti  per  la  decretazione
d'urgenza. 
    Anche la Regione Lazio lamenta la lesione del principio di  leale
collaborazione perche', pur spettando alle regioni l'esercizio  della
competenza legislativa in materia di commercio,  nel  caso  in  esame
esse non sono  state  minimamente  coinvolte  in  alcun  livello  del
procedimento di adozione della normativa statale. 
    Inoltre, sempre secondo la  Regione  Lazio,  la  norma  impugnata
violerebbe anche l'art. 3 Cost. per la disparita' di posizione  e  di
condizione che determina tra le grandi  distribuzioni  ed  i  piccoli
commercianti. 
    Le Regioni Veneto, Lombardia e Toscana  ritengono  che  la  norma
violi anche l'art.  118  Cost.  perche'  precluderebbe  alle  regioni
l'esercizio della propria autonomia amministrativa nella  materia  in
oggetto e la possibilita' di attribuire  funzioni  amministrative  ai
comuni. 
    Secondo la Regione Lombardia, la  norma  violerebbe  l'art.  117,
primo comma Cost., ponendosi in contrasto  con  i  principi  generali
dell'ordinamento comunitario in materia di  libera  circolazione  dei
servizi, nonche' con la disciplina di cui alla Direttiva  2006/123/CE
che, nel dettare norme in favore della massima liberalizzazione delle
attivita' economiche, contempla  delle  eccezioni  non  previste  dal
legislatore statale. 
    In  subordine,  la  Regione  Lombardia,  considerato   l'eccepito
contrasto della normativa statale con la «direttiva servizi»,  chiede
alla  Corte,  come  giudice  di  ultima  istanza,  di  sollevare  una
questione pregiudiziale dinanzi alla  Corte  di  giustizia  ai  sensi
dell'art. 267 del TFUE al fine di chiarire «se la citata Direttiva in
materia di servizi debba  essere  interpretata  nel  senso  che,  con
riferimento alle attivita'  economiche  liberalizzate,  osti  ad  una
normativa nazionale che escluda totalmente un intervento  diretto  ad
introdurre  limiti  all'esercizio  delle  predette  attivita',  anche
laddove vi siano motivi imperativi di interesse generale». 
    A parere della Regione  Lombardia  risulterebbero  violati  anche
l'art. 117, terzo comma, Cost. in relazione alla materia del «governo
del territorio» anch'essa coinvolta, sotto  il  profilo  dell'assetto
territoriale e urbano, dalla disciplina degli  orari  degli  esercizi
commerciali, e il sesto comma dell'art.  117  Cost.  in  quanto,  una
volta stabilito che la disciplina degli orari di apertura e  chiusura
degli esercizi commerciali rientra nella  materia  del  commercio  di
competenza legislativa residuale delle regioni,  alle  stesse  spetta
anche la potesta' regolamentare. 
    La  sola  Regione  autonoma   Sardegna   solleva   questione   di
legittimita' costituzionale anche del comma 2 dell'art. 31  del  d.l.
n. 201 del 2011,  nella  parte  in  cui  prevede  che  i  motivi  che
giustificano la possibilita' di introdurre limiti  alla  liberta'  di
apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio siano solamente
la tutela della salute, dei lavoratori,  dell'ambiente,  e  dei  beni
culturali, in relazione  agli  artt.  3  e  117  Cost.,  nonche',  se
ritenuti piu' favorevoli, agli artt. 3, 4 e 5 del proprio statuto  di
autonomia. 
    Secondo la ricorrente, tale norma, precludendo ogni  possibilita'
di intervento regionale  volto  all'individuazione  di  altri  motivi
imperativi d'interesse generale conformi al diritto  comunitario  cui
subordinare l'apertura  degli  esercizi  commerciali,  violerebbe  le
attribuzioni della Regione autonoma Sardegna. 
    2.- Si e' costituito in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri, rappresentato e  difeso  dalla  Avvocatura  generale  dello
Stato, concludendo per l'infondatezza delle censure. 
    Tale costituzione, in relazione ai ricorsi delle Regioni  Veneto,
Sicilia,   Lombardia,   Toscana   e   Friuli-Venezia    Giulia,    e'
inammissibile. 
    In tutti questi casi, infatti, il Presidente  del  consiglio  dei
ministri si e'  costituito  oltre  il  termine  perentorio  stabilito
dall'art. 19, comma 3, delle norme integrative per i giudizi  davanti
alla Corte costituzionale. 
    3.- Stante la connessione esistente tra  i  predetti  ricorsi,  i
relativi  giudizi  possono  essere  riuniti  per  essere  decisi  con
un'unica pronuncia, la  quale  avra'  ad  oggetto  esclusivamente  le
questioni   di   legittimita'   costituzionale   delle   disposizioni
legislative sopra indicate, essendo riservata ad altre  decisioni  la
valutazione delle restanti questioni sollevate coi  medesimi  ricorsi
dalle sopraindicate Regioni. 
    3.1.- Va precisato  che  la  Regione  Piemonte  ha  impugnato  il
decreto-legge mentre le altre Regioni hanno  impugnato  la  legge  di
conversione, che lo ha convertito, per cio'  che  riguarda  la  norma
impugnata, senza modificazioni. 
    I  ricorsi  sono  tutti  ammissibili,  in  quanto,   secondo   la
giurisprudenza di questa  Corte,  la  Regione  che  ritenga  lese  le
proprie competenze  da  norme  contenute  in  un  decreto-legge  puo'
sollevare la relativa questione di legittimita' costituzionale  anche
in relazione a questo atto,  con  effetto  estensivo  alla  legge  di
conversione, ovvero puo' riservare l'impugnazione a dopo l'entrata in
vigore di quest'ultima (tra le molte, sentenze n. 383  del  2005,  n.
287 del 2004 e n. 272 del 2004). 
    4.- Preliminarmente, deve dichiararsi  inammissibile  la  censura
della Regione Lazio relativa alla violazione dell'art.  3  Cost.,  in
quanto non sufficientemente motivata. 
    La ricorrente, infatti, si limita elusivamente a  rivendicare  la
sua legittimazione a  far  valere  un  parametro  diverso  da  quelli
relativi al riparto della competenza  legislativa  senza  argomentare
circa  le  ragioni   della   lamentata   violazione   del   parametro
costituzionale evocato. 
    5.- Del pari deve  dichiararsi  inammissibile  la  censura  della
Regione Piemonte relativa alla  violazione  dell'art.  77  Cost.  per
mancanza dei presupposti per la decretazione  d'urgenza,  perche'  in
nessun modo motivata. 
    6.- Passando al merito delle censure, deve rilevarsi  che  questa
Corte e' chiamata, in primo luogo, a stabilire se l'art. 31, comma 1,
del d.l. n. 201 del 2011 sia riconducibile  alle  materie  richiamate
dal  legislatore  statale  quali   «tutela   della   concorrenza»   e
«determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni», attribuite
alla competenza legislativa esclusiva statale dall'art. 117,  secondo
comma, lettere e) ed m), o se, al contrario, la norma costituisca una
violazione della competenza legislativa residuale  delle  regioni  di
cui all'art. 117, quarto comma, Cost. 
    Infatti, il motivo principale di doglianza delle Regioni,  comune
a tutti i ricorsi, e' quello relativo alla violazione da parte  della
norma impugnata dell'art. 117, quarto comma, Cost. che  riserva  alla
regione la competenza legislativa nella materia del commercio. 
    6.1.- La censura non e' fondata. 
    La giurisprudenza costituzionale e' costante  nell'affermare  che
la nozione di concorrenza  di  cui  al  secondo  comma,  lettera  e),
dell'art. 117 Cost. riflette quella operante in ambito comunitario  e
comprende: a) sia gli interventi regolatori che a  titolo  principale
incidono sulla concorrenza, quali: le misure legislative di tutela in
senso proprio, che contrastano gli  atti  ed  i  comportamenti  delle
imprese che incidono negativamente  sull'assetto  concorrenziale  dei
mercati  e  che  ne   disciplinano   le   modalita'   di   controllo,
eventualmente anche di sanzione; b)  sia  le  misure  legislative  di
promozione,  che  mirano  ad  aprire  un  mercato  o  a  consolidarne
l'apertura, eliminando barriere all'entrata, riducendo  o  eliminando
vincoli al libero esplicarsi della capacita' imprenditoriale e  della
competizione tra imprese, rimuovendo, cioe', in generale,  i  vincoli
alle modalita' di esercizio delle attivita'  economiche  (ex  multis,
sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430  e  n.  401
del 2007). 
    In  questa  seconda  accezione,  attraverso  la   «tutela   della
concorrenza», vengono perseguite finalita' di  ampliamento  dell'area
di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste  ultime  anche
quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (sentenza n.  401
del 2007). 
    Come  questa  Corte  ha  piu'   volte   osservato,   «Si   tratta
dell'aspetto piu' precisamente di promozione della  concorrenza,  che
costituisce una  delle  leve  della  politica  economica  statale  e,
pertanto, non puo' essere intesa  soltanto  in  senso  statico,  come
garanzia di interventi di regolazione e ripristino di  un  equilibrio
perduto, ma anche in quell'accezione dinamica, ben  nota  al  diritto
comunitario,  che  giustifica  misure  pubbliche  volte   a   ridurre
squilibri, a favorire le condizioni di un  sufficiente  sviluppo  del
mercato o ad instaurare assetti concorrenziali» (sentenze n.  80  del
2006, n. 242 e n. 175 del 2005, n. 272 e n. 14 del 2004). 
    Si e' gia' precisato che la materia «tutela  della  concorrenza»,
dato  il  suo  carattere  «finalistico»,  non  e'  una  «materia   di
estensione  certa»   o   delimitata,   ma   e'   configurabile   come
«trasversale»,  corrispondente  ai  mercati  di   riferimento   delle
attivita' economiche incise dall'intervento e in  grado  di  influire
anche su materie attribuite alla competenza legislativa,  concorrente
o residuale, delle regioni (sentenze n. 80 del 2006, n. 175 del 2005,
n. 272 e n. 14 del 2004). 
    Pertanto, in questa accezione «dinamica»  della  materia  «tutela
della concorrenza», - ricomprendente le misure dirette  a  promuovere
l'apertura  di  mercati  o  ad  instaurare  assetti   concorrenziali,
mediante  la  riduzione  o  l'eliminazione  dei  vincoli  al   libero
esplicarsi  della  capacita'  imprenditoriale  e  alle  modalita'  di
esercizio delle attivita' economiche -, e' consentito al  legislatore
statale intervenire anche nella disciplina degli orari degli esercizi
commerciali che, per cio' che riguarda la  configurazione  «statica»,
rientra  nella   materia   commercio   attribuita   alla   competenza
legislativa residuale delle Regioni (sentenze n. 288  e  n.  247  del
2010, ordinanza n. 199 del 2006). 
    In particolare, con riferimento alle misure di  liberalizzazione,
questa Corte ha avuto modo di affermare che «la  liberalizzazione  da
intendersi come razionalizzazione della regolazione, costituisce  uno
degli strumenti di promozione della concorrenza  capace  di  produrre
effetti  virtuosi  per  il  circuito  economico.  Una   politica   di
"ri-regolazione" tende ad aumentare il livello  di  concorrenzialita'
dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di
competere, valorizzando le  proprie  risorse  e  competenze.  D'altra
parte,  l'efficienza  e  la  competitivita'  del  sistema   economico
risentono della  qualita'  della  regolazione,  la  quale  condiziona
l'agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle  attivita'
economiche ingiustificatamente intrusiva -  cioe'  non  necessaria  e
sproporzionata  rispetto  alla  tutela  di  beni   costituzionalmente
protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del  2010,  n.  167  del  2009)  -
genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli
interessi degli operatori economici, dei consumatori e  degli  stessi
lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla  stessa  utilita'
sociale. L'eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo
pero' quelli necessari alla tutela di superiori beni  costituzionali,
e' funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo
nelle competenze del legislatore statale» (sentenza n. 200 del 2012). 
    Compito della Corte e', quindi, quello di valutare se  le  misure
sottoposte  al  suo  vaglio,  che   disciplinano   o   ridisciplinano
importanti aspetti  di  regolazione  del  mercato,  stabilendo  nuovi
criteri per il suo funzionamento, possiedano i requisiti  per  essere
qualificate come normative che favoriscono la concorrenza. 
    Nel caso in questione, l'intervento del legislatore  statale  non
incorre nella denunciata illegittimita'. La norma in esame,  infatti,
attua un principio di liberalizzazione, rimuovendo vincoli  e  limiti
alle modalita' di esercizio delle attivita' economiche. 
    L'eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni di  apertura  al
pubblico  degli  esercizi  commerciali  favorisce,  a  beneficio  dei
consumatori, la creazione di un mercato piu' dinamico e  piu'  aperto
all'ingresso di nuovi operatori e amplia la  possibilita'  di  scelta
del consumatore. 
    Si  tratta,  dunque,  di  misure  coerenti  con  l'obiettivo   di
promuovere la concorrenza, risultando  proporzionate  allo  scopo  di
garantire  l'assetto  concorrenziale  nel  mercato   di   riferimento
relativo alla distribuzione commerciale. 
    Del resto questa Corte, di recente, e' stata chiamata a giudicare
della legittimita' costituzionale di alcune normative  regionali  che
disciplinavano la materia degli orari degli  esercizi  commerciali  e
dell'obbligo   di   chiusura   domenicale   e   festiva,   ma   prima
dell'approvazione della  norma  impugnata,  quando  cioe'  il  quadro
normativo di riferimento della legislazione statale era rappresentato
dal  decreto  legislativo  31  marzo  1998,  n.  114  (Riforma  della
disciplina relativa al settore del commercio). 
    In tali occasioni si  e'  ritenuto  legittimo  l'esercizio  della
competenza in materia di commercio da parte del legislatore regionale
solo nel caso in cui le norme introdotte non determinassero un vulnus
alla «tutela della concorrenza» (sentenze n. 150 del 2011  e  n.  288
del 2010). 
    Pertanto, nei casi  in  cui  le  stesse  avevano  introdotto  una
disciplina piu' favorevole rispetto a quella statale  del  1998,  nel
senso della liberalizzazione degli orari e delle giornate di chiusura
obbligatoria, esse sono state ritenute legittime (sentenza n. 288 del
2010); viceversa, allorche' si e' riscontrata una disciplina di segno
contrario,  ne   e'   seguita   una   pronuncia   di   illegittimita'
costituzionale (sentenza n. 150 del 2011). 
    Infine, deve anche evidenziarsi che la norma oggetto del presente
giudizio inserisce la lettera d-bis) nell'articolo 3,  comma  1,  del
d.l. n. 223 del 2006 che e' gia' stato  scrutinato  da  questa  Corte
sotto il medesimo profilo della violazione della competenza residuale
delle regioni  in  materia  di  commercio  di  cui  al  quarto  comma
dell'art. 117 Cost. (sentenza n. 430 del 2007). 
    In tale occasione si e' ritenuto che l'art. 3, comma 1, del  d.l.
n. 223  del  2006  dettasse  le  condizioni  ritenute  essenziali  ed
imprescindibili per garantire l'assetto  concorrenziale  nel  mercato
della distribuzione commerciale,  rimuovendo  i  residui  profili  di
contrasto della disciplina di settore con il principio  della  libera
concorrenza (sentenza n. 430 del 2007). 
    Tutte le prescrizioni recate dal citato comma 1 dell'art. 3  sono
state ritenute strumentali rispetto a questo scopo, in quanto dirette
a  rimuovere  limiti  all'accesso  al  mercato,   sia   se   riferite
all'iscrizione in registri abilitanti  o  a  requisiti  professionali
soggettivi (comma 1,  lettera  a),  sia  se  riferite  alla  astratta
predeterminazione del numero degli esercizi (comma 1, lettera b), sia
se concernenti le modalita' di esercizio dell'attivita', nella  parte
influente sulla competitivita' delle imprese (comma 1, lettere c,  d,
e, ed f, e comma 2), anche allo scopo di  ampliare  la  tipologia  di
esercizi in concorrenza. 
    In conclusione, per gli stessi motivi,  anche  la  nuova  lettera
d-bis) del comma 1 dell'art. 3 del d.l. n. 223 del 2006  deve  essere
inquadrata nell'ambito della materia «tutela  della  concorrenza»  di
cui all'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. 
    Le  censure  svolte  dalle  Regioni  ad  autonomia  speciale   in
relazione  alla   dedotta   violazione   della   propria   competenza
legislativa primaria nella materia  del  commercio,  come  attribuita
dagli statuti, non sono fondate. 
    Al riguardo, va rilevato che  dalla  natura  "trasversale"  della
competenza  esclusiva  dello  Stato  in  materia  di   tutela   della
concorrenza deriva  che  il  titolo  competenziale  delle  Regioni  a
statuto speciale in materia di commercio non e' idoneo ad impedire il
pieno esercizio della suddetta competenza statale e che la disciplina
statale della concorrenza costituisce un limite alla  disciplina  che
le medesime  Regioni  possono  adottare  in  altre  materie  di  loro
competenza. In senso analogo, del resto, si e' gia'  espressa  questa
Corte a proposito del  rapporto  tra  le  competenze  previste  dagli
statuti speciali e quella esclusiva dello Stato in materia di  tutela
dell'ambiente e dell'ecosistema (sentenze n. 12 del 2009; n. 104  del
2008; n. 380 del 2007). 
    7.-  La  questione  sollevata  dalla  Regione  autonoma  Sardegna
relativa al comma 2 dell'art. 31 del d.l. n.  201  del  2011  non  e'
fondata. 
    La norma prevede che «Secondo la disciplina dell'Unione Europea e
nazionale in materia  di  concorrenza,  liberta'  di  stabilimento  e
libera  prestazione  di  servizi,  costituisce   principio   generale
dell'ordinamento nazionale la liberta' di apertura di nuovi  esercizi
commerciali sul territorio senza contingenti, limiti  territoriali  o
altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla
tutela  della  salute,  dei  lavoratori,  dell'ambiente  e  dei  beni
culturali. Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti
alle prescrizioni del presente comma entro 90 giorni  dalla  data  di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». 
    Secondo la ricorrente, il comma 2 dell'art. 31 del  d.l.  n.  201
del 2011, nella parte in cui limita  i  motivi  che  giustificano  la
possibilita' di introdurre vincoli  all'apertura  di  nuovi  esercizi
commerciali solamente  alla  tutela  della  salute,  dei  lavoratori,
dell'ambiente, e dei beni culturali, viola gli artt. 3 e  117  Cost.,
nonche' gli artt. 3, 4 e 5 dello Statuto della Sardegna. 
    Sulla base delle medesime argomentazioni esposte con  riferimento
al comma 1 dell'art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, anche  il  comma  2
deve  essere  ricondotto  nell'ambito  della  competenza  legislativa
esclusiva dello Stato di cui all'art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost. «tutela della concorrenza», trattandosi di  una  disciplina  di
liberalizzazione e di eliminazione di vincoli  al  libero  esplicarsi
dell'attivita' imprenditoriale nel settore commerciale.  Va  altresi'
ribadito che la competenza  legislativa  primaria  della  Regione  in
materia  di  commercio  non  osta  all'esercizio   della   competenza
legislativa  esclusiva  dello  Stato  in  materia  di  tutela   della
concorrenza (sentenze n. 12 del 2009 e n. 380 del 2007). 
    8.- La qualificazione della norma oggetto del  presente  giudizio
quale esercizio della competenza esclusiva dello Stato nella  materia
tutela della concorrenza, ai  sensi  dell'art.  117,  secondo  comma,
lettera e), Cost., determina il rigetto di  tutte  le  altre  censure
formulate dalle Regioni ricorrenti con  riferimento  alla  violazione
del riparto della competenza legislativa. 
    8.1.- In primo luogo, viene meno la censura circa il carattere di
dettaglio dell'art. 31, comma 1, del d.l. n. 201 del  2011,  che  non
lascia alcuno spazio ad una disciplina regionale della materia. 
    Questa Corte ha gia' avuto modo  di  affermare  che,  nell'ambito
dell'esercizio della competenza statale in materia  di  tutela  della
concorrenza,  l'illegittima  invasione  della  sfera  di   competenza
legislativa costituzionalmente  garantita  alle  Regioni,  frutto  di
un'eventuale  dilatazione  oltre  misura  dell'interpretazione  delle
materie trasversali, puo' essere evitata non tramite  la  distinzione
tra norme di principio e norme di dettaglio, ma esclusivamente con la
rigorosa verifica della effettiva funzionalita' delle  norme  statali
alla tutela della concorrenza Quest'ultima infatti, per  sua  natura,
non   puo'   tollerare,   anche   per   aspetti    non    essenziali,
differenziazioni  territoriali,  che  finirebbero  per  limitare,   o
addirittura  neutralizzare,  gli  effetti  delle  norme  di  garanzia
(sentenza n. 443 del 2007). Nel caso in oggetto,  questa  valutazione
conduce a ritenere la scelta legislativa funzionale alla tutela della
concorrenza. 
    8.2.-   Quanto   alla   violazione   del   principio   di   leale
collaborazione, a prescindere dalla considerazione che non  puo'  mai
essere riferito al procedimento legislativo, esso non opera allorche'
lo Stato eserciti la  propria  competenza  legislativa  esclusiva  in
materia di «tutela della concorrenza». 
    Secondo la giurisprudenza di questa  Corte,  infatti,  una  volta
affermato che la disposizione impugnata ricade in un ambito materiale
riservato alla potesta' legislativa  esclusiva  statale,  viene  meno
l'obbligo di istituire meccanismi concertativi tra Stato  e  Regione,
giacche' essi vanno, in linea di principio, necessariamente  previsti
solo  quando  vi  sia  una  concorrenza  di  competenze  nazionali  e
regionali, ove non  possa  ravvisarsi  la  sicura  prevalenza  di  un
complesso normativo rispetto ad altri (sentenze n. 234 del  2012,  n.
88 del 2009 e n. 219 del 2005). 
    In ogni caso, la norma in esame, per la sua formulazione e per il
suo  contenuto,  non  necessita  di  alcuna  attuazione  e,   quindi,
un'intesa  tra  Stato  e  Regioni  non  avrebbe  un  oggetto  su  cui
intervenire. 
    8.3.- Non sono fondate, per  analogo  motivo,  anche  le  censure
relative alla violazione degli  artt.  117,  terzo  comma,  Cost.  in
relazione alla materia concorrente del  «governo  del  territorio»  e
dell'art.  117,  sesto  comma,  Cost.  in  relazione  alla   potesta'
regolamentare. 
    9.- La censura relativa alla violazione dell'art. 118 Cost.,  che
riserverebbe alle Regioni le funzioni amministrative  in  materia  di
disciplina del commercio o  che  determinerebbe  la  possibilita'  di
attribuire tali funzioni ai Comuni, non e' fondata. 
    Una  volta  riconosciuta  la   legittimita'   della   norma   che
liberalizza gli orari  e  le  giornate  di  apertura  degli  esercizi
commerciali non restano funzioni amministrative da svolgere in questo
specifico settore sotto il profilo della «tutela della  concorrenza»,
mentre  resta  inalterata  l'allocazione  ai  Comuni,  da  parte  del
legislatore regionale, di tutte le altre funzioni  amministrative  in
materia di commercio. 
    10.- Anche le censure proposte dalla Regione  Lombardia  relative
alla violazione dei principi generali dell'ordinamento comunitario in
materia di libera circolazione dei servizi, nonche' della  disciplina
di cui alla Direttiva 2006/123/CE, entrambe  assunte  come  parametri
interposti rispetto  all'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  non  sono
fondate. 
    La ricorrente formula tali doglianze sulla  base  di  un  erroneo
presupposto  interpretativo,  ovvero  che  la  norma  impugnata   non
consenta eccezioni per motivi imperativi di interesse  generale  come
invece prevede la citata direttiva o, piu' in generale, l'ordinamento
comunitario. 
    La liberalizzazione dell'orario degli esercizi commerciali  cosi'
come delle giornate  di  apertura,  tuttavia,  non  determina  alcuna
deroga rispetto agli obblighi e alle prescrizioni cui  tali  esercizi
sono tenuti in  base  alla  legislazione  posta  a  tutela  di  altri
interessi costituzionalmente  rilevanti  quali  l'ambiente,  l'ordine
pubblico, la pubblica sicurezza, la salute e la quiete pubblica. 
    Sara', ad  esempio,  quindi  possibile,  gia'  sulla  base  della
vigente legislazione, per l'autorita' amministrativa,  nell'esercizio
dei  propri  poteri,  ordinare  il  divieto  di  vendita  di  bevande
alcoliche in  determinati  orari,  oltre  a  quello  legislativamente
previsto dall'art.  6  del  d.l.  3  agosto  2007,  n.  117,  recante
«Disposizioni  urgenti  modificative  del  codice  della  strada  per
incrementare i livelli di sicurezza nella  circolazione»  (scrutinato
da questa Corte con la sentenza n. 152 del 2010); oppure disporre  la
chiusura degli esercizi commerciali per  motivi  di  ordine  pubblico
(sentenza n. 259 del 2010, relativa  all'applicazione  dell'art.  100
del regio decreto 16 giugno 1931,  recante  «Approvazione  del  testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza»); cosi' come dovranno essere
rispettate le norme che vietano emissioni troppo rumorose a  presidio
della quiete pubblica (avverso le quali e' anche  prevista  dall'art.
659 del codice penale una tutela di carattere penale). 
    Anche con  riferimento  alla  tutela  dei  lavoratori,  la  norma
impugnata non  consente  alcuna  deroga  rispetto  alla  legislazione
statale, oltre che alla  contrattazione  collettiva,  in  materia  di
lavoro notturno, festivo, di turni di riposo e di ogni altro  aspetto
che serve ad assicurare protezione e tutela ai lavoratori del settore
della distribuzione commerciale. 
    11.-  L'istanza  di  sospensione   dell'efficacia   delle   norme
impugnate, formulata dalle Regioni Piemonte, Veneto  e  Lazio,  cosi'
come la richiesta della  Regione  Lombardia  di  sollevare  questione
pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell'art. 267 del TFUE
rimangono assorbite dalla  decisione  circa  la  non  fondatezza  nel
merito delle censure proposte con i ricorsi (ex plurimis, sentenza n.
189 del 2011).